LIBRI / La luna e i falò è uno dei capolavori della letteratura del ‘900, uno dei libri di formazione per intere generazioni che, attraverso la narrazione dell’Italia contadina e della società tra le due guerre mondiali e la Resistenza, hanno scoperto il senso e il valore del ritorno, della memoria e della ricerca di sé stessi.
La luna e i falò, grazie al bellissimo adattamento in graphic novel a opera di Marino Magliani e Marco D’Aponte ( edizioni Tunué,2021) ci viene riproposto attraverso le immagini e i testi dei due autori ( che per Tunué avevano già pubblicato nel 2014 il romanzo a fumetti Sostiene Pereira, reinterpretando il famoso libro di Antonio Tabucchi. Molto bella e interessante anche la prefazione della giovane scrittrice torinese Marta Barone che arricchisce e completa il volume. Com’è noto il protagonista, Anguilla, all’indomani della Liberazione torna al suo paese nelle langhe dopo molti anni trascorsi in America e, in compagnia dell’amico Nuto, ripercorre i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza in un viaggio nel tempo alla ricerca di antiche e sofferte radici. Le immagini delle colline illuminate dal chiarore della luna, del casotto sulla Gaminella e della strada che va verso Canelli, di Santo Stefano Belbo e della festa della Madonna d’agosto prendono vita e colore nelle pagine di questo graphic novel dove tra i vigneti e i campi si incrociano i destini, con l’infanzia che assume il volto di Cinto- il bambino zoppo e solo – e la saggezza quello di Nuto. La luna e i falò è il viaggio di Pavese alle origini, la ricerca di se stesso. E’ l’ultimo romanzo, il suo testamento letterario. Scrisse, a proposito: “E’ il libro che mi portavo dentro da più tempo e che ho più goduto a scrivere. Tanto che credo che per un pezzo – forse sempre – non farò più altro. Non conviene tentare troppo gli dèì”. Gli autori dell’adattamento a fumetti dell’ultimo romanzo edito in vita di Pavese, come viene sottolineato dalla casa editrice, “compiono un’operazione molto interessante. Trattandosi di un romanzo in moltissime parti autobiografico integrano all’interno della storia di Anguilla la storia stessa di Pavese, alternando le due realtà con tavole a colori e in bianco e nero”. La luna e i falò, scritto tra il 18 settembre e il 9 novembre del 1949 venne pubblicato nell’aprile del 1950. Pochi mesi dopo, il 27 agosto, Cesare Pavese sceglieva di terminare la propria esistenza “nella stanza d’un albergo nei pressi della stazione; volendo morire nella città che gli apparteneva come un forestiero” , come scrisse Natalia Ginzburg. Sul comodino della stanza 346 dell’hotel Roma di piazza Carlo Felice a Torino era posata una copia dei “Dialoghi con Leucò” su cui lo scrittore aveva lasciato una raccomandazione “Non fate troppi pettegolezzi”, un epitaffio che invitava il mondo a rispettare la sua scelta di andarsene prematuramente e di farlo in silenzio, in punta dei piedi, con quel riserbo tutto piemontese che ha sempre contraddistinto la sua vita. A 71 anni dalla sua scomparsa i messaggi e i valori che le pagine dei romanzi e dei racconti di Pavese ci trasmettono continuano a essere attuali nella loro straordinaria semplicità e immediatezza, a partire da quello del profondo legame con la terra dove si nasce, quel legame che non si spezza mai e che ciascuno di noi porta dentro di sé perché “avere un paese vuol dire non essere soli sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Perché avere un paese, avere delle radici, un luogo al quale aggrappare i propri pensieri, nel quale rifugiarsi anche nei momenti più difficili come quello che abbiamo vissuto, come quello che stiamo vivendo, significa sapere di appartenere a una comunità con la quale potremo continuare a lottare. Cesare Pavese ha amato molto il Piemonte, le Langhe, le grosse colline nelle quali ambientò i suoi romanzi più belli, trasportando il lettore tra borghi e vigneti, falò e sentieri, tra la sua gente. Anche il graphic novel di Marino Magliani e Marco D’Aponte è un’opera che aiuta a riscoprire uno degli interpreti più rilevanti della letteratura del Novecento. La lapide posta sulla tomba che custodisce i resti mortali del poeta, trasferiti dal cimitero monumentale di Torino al camposanto di Santo Stefano Belbo nel settembre del 2002, riporta queste parole “Ho dato poesia agli uomini”, una frase struggente che testimonia la forza e l’immortalità dell’arte.
Marco Travaglini
Ezra Pound, poeta e critico americano, che visse a lungo in Italia (e vi morì nel 1972 a Venezia) è conosciuto soprattutto per la sua opera letteraria e per la sua ammirazione per il fascismo e Benito Mussolini. Quasi sconosciuto ai più, invece, è il rapporto che ebbe con la musica. ‘Ezra Pound e la musica – Da Omero a Beethoven’, libro edito per i tipi di Eclettica Edizioni nella collana Secolo Breve di Mattia Rossi ha l’indubbio merito di riscoprire questo legame che per l’autore americano non fu secondario, anzi per Pound il rapporto tra la poesia e la musica era fondamentale ed irrinunciabile. La prima riga del breve saggio poundiano, ‘Il verso libero ed Arnold Dolmetsch’ del 1917, che Rossi riporta integralmente, è emblematica: “La poesia è una disposizione di parole disposte in musica’. Nell’excursus di questo rapporto tra le due arti, che durerà per tutta la vita dello scrittore, vengono approfondite le varie fasi di approccio alla Musa, dallo studio della musica sacra, alle recensioni di Pound come critico musicale prima, come saggista musicale poi, alle sue composizioni, all’organizzazione dei concerti a Rapallo, con gli ‘Amici del Tigullio’, all’importante e decisivo ruolo avuto nella riscoperta di Vivaldi. E sullo sfondo c’è la figura di Olga Rudge, violinista, molto amata dal poeta (che gli diede una figlia, Mary, tutt’oggi vivente e custode della memoria del padre). Il libro, che si concentra esclusivamente sulla figura di Pound nel suo rapporto con la musica, tralasciando ogni altro aspetto, è ricco di riferimenti alla cultura italiana ed internazionale del Novecento e costituisce un ottimo stimolo di approfondimento anche per chi non dotto o profondo conoscitore del mondo musicale. Mattia Rossi, in questo scritto, unisce la capacità comunicativa diretta propria del giornalista con la conoscenza della materia del critico musicale. Ha, infatti pubblicato studi ed articoli specialistici sul canto gregoriano, sulla musica trobadorica, sulla musica nella Commedia di Dante in diverse testate nazionali ed internazionali.
Non solo, si pensi ai miti classici e a quanto la natura sia stata fonte d’ispirazione per aedi e filosofi; la civiltà greca “in primis”, attraverso la “cosmogonia”, tramuta gli Dei in elementi della natura, così la Terra diventa Gea, il mare Poseidone, il vento Eolo e via discorrendo.
Un’altra opera decisamente interessante si trova a Rivoli, presso il Museo di Arte Contemporanea. Si tratta dell’installazione “Soffi”, in cui l’artista indaga il momento dell’inspirazione. L’osservatore si trova di fronte a un ambiente completamente rivestito di foglie di alloro profumate, al centro di tale ambientazione, posizionato sulla parete centrale, è visibile un polmone in bronzo dorato. La scultura quindi entra nel corpo di noi visitatori, nel momento stesso in cui respiriamo e inaliamo gli odori: attraverso l’azione del respirare l’artista pone delle riflessioni sui confini dello spazio e della forma e si conferma interessato non solo alla rappresentazione dell’oggetto quanto più all’evocazione di una suggestiva immagine poetica.


Rubrica settimanale a cura di Laura Goria
visto una tempesta finché non ci sei stato in mezzo, lì, in mare aperto: il faro pare sbriciolarsi sotto i tuoi piedi per essere spazzato via dalle onde».
Dai Maya ai Greci che per primi diedero il nome di fari alle torri accese citate nell’Iliade di Omero: «….Fuoco che segnala la fine del mare.»
di bellezza e i loro figli, la preadolescente senza freni Julia e il fratellino minore Larry. Un bel cambiamento per il vicinato che si trova alle prese con un padre molto diverso dagli altri, una madre che si sente respinta dalle vicine e fa fatica a relazionarsi, e pure i loro due figli sono fuori dagli schemi del luogo. Ape regina del sobborgo è Rhea Schroeder, professoressa universitaria dal passato insondabile, di mezza età, trasformatasi nel perfetto esempio di moglie e madre dei sobborghi residenziali. Organizzatrice delle feste di vicinato, aveva assunto anche l’impegno di accogliere ogni nuova entry di Maple Steet con un cestino di cioccolatini e un profumo. E nella bellissima e impenetrabile Gertie aveva annusato un’altra outsider disadattata con la quale avrebbe potuto costruire un rapporto intimo, in cui svelare i suoi veri sentimenti. E’ lei che in un certo senso adotta senza riserve i Wilde e cerca di introdurli nella comunità. Sotto la sua ala protettrice prende soprattutto Gertie con la quale trascorre lunghi pomeriggi a chiaccherare, alla quale fa un sacco di confidenze fino a riuscire a smussare la diffidenza della nuova arrivata.
di rimediare alla sua irrequietezza ricorrendo ad una analista, la dottoressa Manubrio che le spiega l’arcano: la vita è come il mare e bisogna imparare ad andare sul surf.

A dirigere i lavori subentra il ticinese Giuseppe Leoni, anche lui abile architetto e membro stesso dell’Accademia. Ci vogliono due anni per ultimare il progetto; nel 1842 il teatro inaugura l’apertura ufficiale, all’evento partecipa anche il principe Vittorio Emanuele II e per l’occasione si eseguono “La Pia dei Tolomei”, tragedia di Carlo Marenco -anche lui membro dell’associazione Filodrammatica- e la commedia di Eugène Scribe, titolata “Una visita a Bedlam”. Il palazzo progettato da Leoni è di stile neoclassico; l’edificio presenta delle proporzioni peculiari, dovute alla specifica conformazione del terreno su cui sorge, originariamente destinato ad accogliere un campo da gioco per la pallacorda.
Il testo di quello che diventerà “il nostro inno” viene scritto da un giovane Goffredo, sul finire degli anni Quaranta dell’Ottoscento; egli è all’epoca uno studente appassionato ma sopratuttutto un fervente patriota. Le strofe del canto infatti sono pregne non solo dei suoi ideali, ma anche del generale patriottismo diffuso che preannuncia i moti del 1848 e lo scoppio della Prima Guerra di Indipendenza (1848-1849). Il giovine Mameli vuole inizialmente adattare il suo testo a qualche musica già esistente, tuttavia non trova soddisfazione in questi suoi tentativi, così prova a inviare il lavoro a Michele Novaro, il quale ne è subito conquistato e –come alcuni raccontano – si mette a musicarlo la sera stessa in cui gli è arrivato il celebre testo.