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L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

 

Peter Cunningham  “Il mare e il silenzio”    -SEM-  euro  17,00

Peter Cunningham (nato a Waterford nel 1947) è uno dei più importanti  scrittori irlandesi contemporanei: al suo attivo ha 10 romanzi di successo e con “Il mare e il silenzio” si è aggiudicato nel 2013 il Prix de l’Europe.

E’ il racconto di una storia d’amore, ma anche il ritratto di un’eroina affascinante; parla di rinuncia, guerra e destino sullo sfondo dell’abbagliante verde di Irlanda, paese che lottò con ogni mezzo per ottenere l’indipendenza dalla Gran Bretagna.

Il mare e il silenzio sono il rifugio della protagonista Iz quando la vita tenta di stritolarla e lei trova pace affacciandosi sulla sommità del faro che appartiene alla famiglia del marito.

Nel prologo -che già intriga il lettore- c’è il lascito testamentario che l’anziana Iz Shaw ha fatto avere all’avvocato Dick Coad, conoscente di vecchia data che l’aveva incontrata anni addietro alla stazione di Monument ed era rimasto abbagliato dalla sua gioventù e bellezza.

Mrs Shaw ha disposto che le sue ceneri siano affidate al mare in un punto oltre il faro, e ha inviato a Dick due pacchi sigillati, da distruggere dopo averli letti.

Contengono la storia della sua lunga vita, a partire dai suoi fulgidi 23 anni, quando arrivò nella cittadina portuale di Monument, sulla costa sudorientale dell’Irlanda, e vide per la prima volta la casa in cui avrebbe vissuto con il marito Ronnie e il figlioletto Hector.

La sua non è stata una vita semplice, ma il carattere e una titanica forza interiore le hanno fatto scavalcare ostacoli immensi.

Nel suo passato di fanciulla c’è stato il fidanzamento con un uomo che non amava, ma che avrebbe salvato la famiglia dalla rovina. Poi la rottura e la fuga, dopo l’incontro con Frank, il grande amore della sua vita….finito in tragedia per colpa delle drammatiche vicende storiche che hanno avviluppato l’Irlanda nella sanguinosa guerra sulla strada per l’indipendenza.

Infine il matrimonio di ripiego con Ronnie, uomo debole e spaesato che la tradisce e non riesce a rimettere in carreggiata la sua vita.

In mezzo a tutto questo ci sono malattie, attentati, morti e personaggi bellissimi e struggenti le cui vite sono state deviate dalla Storia, quella con la S maiuscola.

 

 

Silvia Avallone  “Un’amicizia”     -Rizzoli-  euro  19,00

E’ la storia di un’amicizia totalizzante e perduta -fatta di innumerevoli luci ed ombre- tra la timida, studiosa e di origini modeste Elisa e la bellissima reginetta della scuola Beatrice, destinata a diventare un mito attraverso il suo blog che ricorda tanto l’ascesa delle influencer griffate nostrane.

A narrare i momenti più belli, ma anche il dolore della rottura di questo legame è Elisa; donna di 34 anni votata alla cultura e all’insegnamento, con velleità letterarie da sempre, madre single di Valentino che ha cresciuto da sola tra mille sacrifici e rinunce.

E’ lei che riannoda i fili del suo rapporto quasi simbiotico, ma anche sbilanciato con l’amica del cuore incontrata a 16 anni.

Beatrice, bellissima, occhi verdi incredibili e charme costruito a puntino è ammirata da tutti; ma l’altro lato della medaglia la vede intrappolata in un destino costruito per lei dall’ambiziosa madre Ginevra, ex reginetta di bellezza poi impantanasi in un matrimonio di facciata più che di felicità.

E se la famiglia di Elisa è sfasciata da una separazione, poi un ritorno di fiamma e infine la rottura definitiva, quella di Bea che sembra perfetta, in realtà è pura finzione e apparenza. E le madri saranno qui diversamente importanti…

Due ragazze diametralmente opposte, con vite totalmente diverse, eppure hanno fatto un significativo tratto di strada insieme, entrambe in lotta con se stesse per trovare la loro identità ed uscire dagli stereotipi.

Il racconto degli alti e bassi di questa amicizia è anche lo spunto per  una riflessione sul rapporto tra immagine e reale. Sulla crescita esponenziale della fama di cristallo che corre sui social e sull’affanno quotidiano nel postare una vita brillante, fatta di viaggi, abiti, borse, gioielli griffati, frequentazioni e sfondi che fanno sognare le teenager in cerca di modelli a cui conformarsi, nell’illusione di una vita perfetta e patinata.

 

 

Herman Bang  “La casa bianca”    -Iperborea-    euro 13,00

Herman Joachin Bang è stato uno scrittore danese, (1857-1912), esponente di spicco del movimento naturalista e anti-romantico che negli ultimi 30 anni dell’800 portò alla ribalta i letterati scandinavi.

Bang, raffinato, omosessuale, dandy eccentrico, suscitò un certo scandalo per i suoi romanzi e lo stile di vita.

“La casa bianca” e “La casa Grigia”, sono due memoriali in cui l’autore ritrae sotto forma di romanzo la propria infanzia e giovinezza; lo fa attraverso l’uso di un narratore esterno, ma è più che evidente il suo coinvolgimento emotivo che attinge da tratti fortemente autobiografici.

La casa bianca in cui è cresciuto è la residenza di campagna dei Hvide (casato in decadenza) sull’isola di Als, in cui visse la famiglia del pastore Fritz Hvide.

Una magione elegante, arredata con mobili importanti, che accoglie la famiglia impegnata in una sorta di aristocratico ozio, e permeata di un alone elegiaco, tra il malinconico e il senso di un tempo d’oro ormai perduto.

Herman ricostruisce piccoli-grandi episodi della sua infanzia; balza agli occhi soprattutto il ricordo della madre, Thora Blach, perfettamente incarnata nel personaggio di Stella.

E’ la moglie del pastore, madre di 6 figli, donna sensibile e di salute cagionevole, che ama la musica e la poesia; piena di dolcezza e grazia, sa dispensare amore e indulgenza non solo nei confronti dei figli, ma anche della servitù. Ama giocare, scherzare, cantare e travestirsi in una girandola di buonumore, immancabilmente frenato però dal rigido e rigoroso marito. Ad appannare la sua dirompente euforia c’è la sua “gioia  dagli occhi tristi”.

Questo libro, annoverato tra i capolavori della letteratura danese, è una sorta di primo capitolo di una stessa saga in cui lo scrittore racconta dapprima l’infanzia nella casa natale e prosegue con gli anni successivi nella casa dei nonni paterni ad Amaliegade, ovvero…

 

 

 “La casa grigia”     -Iperborea-   euro  14,00

Fu pubblicato da Bang tre anni dopo il precedente ed è il seguito naturale delle sue memorie, concentrate questa volta sugli anni formativi, precedenti agli esordi letterari.

Alter ego dell’autore è il protagonista William, giovane che vive con la famiglia nella capitale, nel palazzo in Amaliegade 7, di proprietà del nonno paterno, il vecchio patriarca Ole Hvide, ex medico di corte e figura severa.

In tutto il romanzo si respira una pesante aria di declino, anche se si cerca di mascherarlo con mezze verità e piccoli stratagemmi.

La casa grigia si trova vicino al palazzo reale di Copenaghen ed è una specie di grigio mausoleo del mondo nobile-borghese destinato al tramonto nel volgere del XIX secolo.

Centrale nella narrazione qui è l’anziano Ole, che lotta contro l’amarezza del tempo e della gloria perduti, abbandonato dai pazienti, fatica con la vista sempre più debole per scrivere poesie che nessuno pubblicherà. Gli stessi suoi parenti sembrano averlo lasciato indietro, tanto da non dirgli nemmeno che l’amata nipotina Emmely sta per essere portata via dalla malattia.

Una fase discendente avvolta in ampi saloni blasè in cui si consumano tristezze e spese che stanno sgretolando il patrimonio familiare, in linea con la decadenza dei tempi.

“Sei nato tardi” dice con disincanto il nonno Ole al giovane nipote William… e in quelle parole c’è il senso più profondo del crepuscolo di un’epoca.

Torino tra architettura e pittura. Pietro Fenoglio

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)
4) Pietro Fenoglio (1865-1927)

 

I tempi cambiano, così come le mode, i gusti e le abitudini: non troppo tempo fa scrivevamo messaggi lunghi quanto papiri tascabili, ora non abbiamo più voglia di usare i pollici opponibili e ci scambiamo “vocali” ricolmi di silenzi e domande senza risposta; gli “immigrati digitali” continuano a pubblicare su “Facebook” i ricordi degli anni più magri della loro vita, mentre i “digital natives” parlano una lingua tutta loro tra “Instagram” e “Tick-Tock”, va da sé che il divario generazionale risulta a mio avviso incolmabile.

È incredibile quanto ci si metta poco ad abituarsi, ad accettare che ormai tutto debba essere veloce, che dobbiamo essere tutti “smart”. E se non siamo in grado di utilizzare le mille piattaforme digitali che ci vengono quotidianamente proposte per fare la spesa, cucinare, seguire le lezioni scolastiche e nel contempo fare “pilates” è colpa nostra, siamo noi che non sappiamo adattarci a questo “guazzabuglio moderno”. Mi solleva tuttavia pensare che Darwin non ha affermato che a sopravvivere sia il più intelligente. Ho anche notato che non abbiamo più pazienza, non siamo più abituati ad aspettare né a mantenere l’attenzione fissa su qualcosa per più di pochi minuti – ad essere generosi- . I film, per esempio, non ci piacciono più, preferiamo storie dilatate, che si protraggono per stagioni e stagioni così che possiamo seguire gli avvenimenti narrati mentre svolgiamo le diverse attività imposte dalla routine quotidiana. A tal proposito, con le numerosissime piattaforme di cui disponiamo abbiamo l’imbarazzo della scelta: una vastità di opzioni da risultare spiazzante. Io stessa impiego diverso tempo prima di decidere che cosa guardare, uno dei criteri che seguo è cercare di capire il periodo in cui è ambientata la vicenda, poiché, per me, i costumi, le scenografie e le ambientazioni risultano importanti quanto la trama. Attualmente mi sono fatta coinvolgere da una produzione spagnola ambientata in uno dei momenti storici che preferisco – artisticamente parlando – ossia gli anni Venti.
Sono gli anni che precedono la Grande Guerra e l’industrializzazione investe tutti i campi della produzione, i miglioramenti ottenuti in campo tecnico e scientifico diffondono grande ottimismo e in generale si evidenzia un periodo economicamente florido, soprattutto per la classe borghese. Parliamo in ogni caso di un tempo assai complesso, e non dobbiamo commettere l’errore di non ricordare le profonde contraddizioni di carattere sociale che vedono la classe operaia sopravvivere a stento, affrontando giornalmente indicibili condizioni di disagio, mentre, dall’altra parte, la ricca borghesia gode di una particolare agiatezza. È il periodo storico, culturale, artistico della “Belle Époque”.

Non voglio di certo proporvi qui e ora una riflessione sull’ingiusto divario economico-sociale che accompagna la storia, tra “chi ha troppo” e “chi non ha niente”; piuttosto il mio ruolo, quale docente di arte, è quello di parlare di quadri, sculture, decorazioni e di quanto al mondo c’è di bello e degno di nota. Non dimentichiamo che l’arte non è altro che la prova tangibile e inconfutabile di ciò che è stato, l’arte è una testimone silenziosa ma ineluttabile degli eventi trascorsi, ed è intrinsecamente veritiera e portatrice di pensieri, ragionamenti, confronti. Sarà per questo che il suo insegnamento è relegato a due sole ore settimanali? Ma torniamo al filo conduttore del nostro discorso, a quegli anni Venti in cui, poco più in là dei luoghi desolati “dove il sole del buon Dio non da’ i suoi raggi”, (De André), si stagliano netti quartieri ricchi di palazzi, teatri dell’opera, caffè “alla moda” e molti altri centri di ritrovo mondano.
In tale ricco contesto si diffonde “L’Art Nouveau”, vera e propria espressione del gusto della società moderna; si tratta di un linguaggio caratterizzato da uno spiccato amore per la decorazione raffinata ed elegante, che supera le distinzioni fra arte, artigianato e produzione industriale e che, in particolar modo, invade tutti gli ambiti della comunicazione visiva.
L’“Arte Nuova” osserva la natura, il mondo vegetale e ripropone, stilizzandole, le aggraziate forme di foglie e fiori. L’elemento dominante è la linea, morbida, libera e sinuosa, attraverso l’impiego di essa gli artisti esprimono idea di movimento, vitalità ed energia. L’aspetto più caratteristico è la linea “a colpo di frusta”, duttile ed elastica come la cordicella schioccata dal fantino.
In architettura i motivi decorativi si snodano sulle facciate degli edifici, le vetrate colorate presentano motivi stilizzati floreali e vegetali, gli interni sono decorati con arabeschi che adornano le pareti, le cornici delle porte e le ringhiere delle scale. Importante sottolineare come l’ “architetto” diventi un “progettista globale”, a cui è affidata la cura dell’intero edificio, dalla struttura progettuale ai più piccoli dettagli delle serrature.

In pittura la linea si unisce al colore piatto, spesso impreziosito dall’uso dell’oro, un esempio per tutti è dato dai dipinti di Gustav Klimt, (1862-1918), uno dei massimi esponenti dell’ “Art Nouveau”. Assai rilevante è anche il settore della grafica, non solo per quel che riguarda le raffinatissime illustrazioni dei libri, ma anche per la vasta produzione di manifesti atti a pubblicizzare prodotti commerciali, esposizioni d’arte e spettacoli di vario genere. Come non pensare, a tal proposito, all’illustre Alphonse Mucha (1860- 1939)?
Tuttavia, il vero trionfo dell’ “Art Nouveau” è nel settore delle arti applicate : manufatti di gran pregio, gioielli, mobili, oggetti d’uso comune, carte da parati, e qualsivoglia prodotto realizzato in serie. L’“Art Nouveau” influenza le arti figurative nella loro totalità, dall’architettura, alle decorazioni di interni, dalla lavorazione dei tessuti, fino all’arte funeraria; essa assume nomi diversi, ma dal significato affine, a seconda dei luoghi in cui si manifesta: “Style Guimard”, “Style 1900”, “Scuola di Nancy” in Francia; “Stile Liberty”, dal nome dei magazzini inglesi di Arthur Lasemby, “Liberty” o “Stile Floreale” in Italia; “Modern Style” in Gran Bretagna; “Jugendstil” (“Stile giovane”) in Germania; “Nieuwe Kunst” nei Paesi Bassi; “Styl Mlodej Polski” (“Stile di Giovane Polonia”) in Polonia; “Style Sapin” in Svizzera; “Sezessionist” (Stile di Secessione”) in Austria; “Modern” in Russia; “Arte Modernista o “Modernismo” in Spagna.
Non occorre però andare chissà dove per poter godere di quest’arte meravigliosamente “frivola” ed elegante, basta fare una passeggiata – appena ce ne sarà nuovamente l’occasione – dalle parti di Corso Francia, dove sorge “La Fleur” (1902), considerata dagli esperti il più significativo esempio di stile “Liberty” in Italia. La struttura è stata progettata in ogni più piccolo particolare da Pietro Fenoglio per la sua famiglia; la palazzina si erge in Corso Francia, angolo Via Principi d’Acaja, e trae ispirazione dall’Art Nouveau belga e francese.
La costruzione si articola su due corpi di fabbrica disposti ad “elle”, raccordati, nella parte angolare, da una straordinaria torre – bovindo più alta di un piano, in corrispondenza del soggiorno interno. Manifesto estetico di Fenoglio, l’edificio – tre piani fuori terra, più il piano mansardato – riflette l’estro creativo dell’architetto, che riesce a coniugare la rassicurante imponenza della parte muraria e le sue articolazioni funzionali, con la plasticità tipicamente “Art Nouveau”, che ne permea l’esito complessivo. Meravigliosa, e di fortissimo impatto scenico, è la torre angolare, che vede convergere verso di sé le due ali della costruzione e su cui spicca il bovindo con i grandi vetri colorati che si aprono a sinuosi e animosi intrecci in ferro battuto. Un’edicola di coronamento sovrasta l’elegante terrazzino che sporge sopra le spettacolari vetrate. Sulle facciate, infissi dalle linee tondeggianti, intrecci di alghe: un ricchissimo apparato ornamentale, che risponde a pieno all’autentico “Liberty”. Gli stilemi fitomorfi trovano completa realizzazione, in particolare negli elementi del rosone superiore e nel modulo angolare. Altrettanto affascinanti per la loro eleganza sono l’androne e il corpo scala a pianta esagonale. Si rimane davvero estasiati di fronte a quelle scale così belle, eleganti, raffinate, uniche. Straordinarie anche le porte in legno di noce, le vetrate, i mancorrenti, e le maniglie d’ottone che ripropongono l’intreccio di germogli di fiori.

La palazzina, mai abitata dalla famiglia Fenoglio, viene venduta, due anni dopo l’ultimazione, a Giorgio La Fleur, imprenditore del settore automobilistico, il quale ha voluto aggiungere il proprio nome all’immobile, come testimonia una targa apposta nel settore angolare della struttura, e lì è rimasto ad abitare fino alla morte. Dopo un lungo periodo di decadenza, la palazzina è stata frazionata e ceduta a privati che negli anni Novanta si sono occupati del suo restauro conservativo.
Va da sé che questa non è l’unica costruzione “Liberty” torinese, al contrario, ve ne sono molte altre soprattutto nel quartiere “Cit Turin”, ma di certo “La Fleur” è la più conosciuta e la più importante del territorio.

Mi preme ricordare inoltre che Torino, nei primissimi anni del secolo scorso, assume il ruolo di polo di riferimento per il “Liberty” italiano grazie all’ “Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna” del 1902. Tale avvenimento risulta di grandissimo successo, e numerosi sono gli architetti che offrono il proprio contributo, tuttavia – e pare quasi scontato dirlo – il protagonista indiscusso di questa stagione è Pietro Fenoglio, il geniale ingegnere-architetto torinese, che sceglie come abitazione la palazzina di Corso Galileo Ferraris, 55. Personalità artistica di estremo rilievo, da subito orienta il suo campo d’interesse nell’edilizia residenziale e nell’architettura industriale, Pietro Fenoglio contribuisce in modo particolare a rimodellare Torino secondo il gusto “Liberty”. Nasce a Torino nel 1865, da una famiglia di costruttori edili, frequenta poi la Regia Scuola di Applicazione per ingegneri, sempre nella città subalpina; appena dopo la laurea, conseguita nel 1889, inizia un’intensa attività lavorativa, raggiungendo ottimi risultati in ambito architettonico. Partecipa, nel 1902, all’ “Organizzazione internazionale di Arte Decorativa Moderna” di Torino e in quest’occasione approfondisce la conoscenza dello stile “Liberty”, riuscendo poi a concretizzare quanto appreso nei numerosi interventi edilizi di carattere residenziale, ancora oggi visibili nel nostro capoluogo. La sua attività di progettista si estende anche al campo dell’architettura industriale, come testimoniano la Conceria Fiorio (1900 – Via Durandi, 11) o la Manifattura Gilardini (1904 – Lungo Dora Firenze, 19). Nel 1912, Pietro entra a far parte del Consiglio di Amministrazione della Banca Commerciale Italiana ed è tra i promotori della Società Idroelettrica Piemonte. Colto da morte improvvisa, Pietro Fenoglio muore il 22 agosto 1927, a soli 62 anni, nella grande casa di famiglia a Corio Canavese.
Molto ci sarebbe ancora da dire ma vi ho rubato fin troppo tempo e chissà quante sono le cose che dovete ancora assolutamente fare. Anche io sono oberata da faccende da ultimare, chiederò allora -come sottofondo lieve- alle mie protagoniste televisive agghindate anni Venti, di tenermi compagnia; d’altronde, se non ci si abitua, un po’ di frivolezza non ha mai fatto male a nessuno.

Alessia Cagnotto

La Resistenza, Pansa e Colombini

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni 

In seguito al mio articolo “ Anche Colombini però’ … “ sono stato fatto oggetto di attacchi feroci che mi hanno fatto passare per un fascistoide e un ignorante.  Dopo aver letto il libro  ”Anche i partigiani però …” di Chiara Colombini avevo ritenuto di dover difendere le ragioni di Giampaolo Pansa dalla critica frontale che il libro ribadisce e dettaglia, riprendendo quelle già avanzate da D’Orsi e De Luna

Ho dovuto ricordare di essere stato amico di tanti resistenti, da Bonfantini a Fusi , da Mauri a Valiani e far presente a chi mi citava Fusi come se io non sapessi della sua esistenza , che il curatore dell’ultima edizione di “Fiori rossi al Martinetto “ sono stato io. Ho curato anche “Partigiani penne nere” di Mauri , ma quest’ultimo libro mi è sembrato del tutto sconosciuto al mio interlocutore . Hanno criticato il mio articolo lettori di chiare ed inequivocabili simpatie paleo -comuniste. Forse io stesso nell’articolo ho usato qualche aggettivo di troppo e mi sono lasciato trascinare dalla polemica . Di questo chiedo scusa, ma la necessità di difendere Pansa per me rappresenta un dovere morale perché io l’ho sempre stimato perché egli ha colmato l’omertà degli storici che mai avevano scritto del “sangue dei vinti “. Cercare di confutare Pansa perché i suoi libri sono privi di note mi è sempre sembrato un atto di disonestà intellettuale perché Il giornalista si è dovuto basare su fonti orali che ha raccolto con infinita pazienza e scrupolo, come dimostra il suo archivio.

Stasera ho ascoltato su Facebook con interesse ed attenzione la presentazione del libro della Colombini da parte dell’autrice . Devo e voglio riconoscere che mi è sembrata una studiosa equilibrata e intelligente, anche se troppo radicata su posizioni difficilmente condivisibili.Ha fatto un discorso complessivo interessante sulla violenza e sulla guerra civile che non posso non condividere . Il conduttore , dirigente dell’Anpi in Toscana , e gli interlocutori hanno tenuto il discorso su certi binari prestabiliti e gli attacchi a Pansa sono stati contenuti anche se ripetitivi.

Io che pure mi sono trovato ad essere ospite a parlare all’Istoreto in alcune circostanze , non conoscevo se non superficialmente la Colombini per alcune letture che avevo fatto . Mi è sembrata una persona con cui mi piacerebbe discutere perché ascoltandola ho capito che non appartiene a quegli ambienti intolleranti che io considero espressione di un fascismo rosso incompatibile con le regole della democrazia e del pluralismo. Detto questo, andrebbe chiarito il perché non ha parlato di fatti incontestabili di criminalità commessi da partigiani comunisti prima e dopo il 25 aprile , restando invece sulle generali. Parlare di “ ruba galline “ appare, in verità, un po’ riduttivo . Ci sono episodi che non si possono solo contestualizzare e magari finire di giustificare , ma vanno anche condannati senza incertezze .

Un personaggio come Francesco Moranino, condannato all’ergastolo con sentenza definitiva per sette omicidi di partigiani non comunisti, non può essere difeso perché è indifendibile . Anche piazzale Loreto e’ un episodio indifendibile . Non fu solo responsabilità della folla inferocita , come dice la Colombini,  ma anche di chi consenti’ quell’atto che trasgredisce ogni regola più elementare di umanità . Condannarlo a posteriori non è lecito moralmente mi disse una volta con coraggio autocritico Leo Valiani. Inoltre, se e’ vero che i comunisti hanno dato un contributo decisivo alla Resistenza,  non si può non riconoscere il loro tentativo, pienamente riuscito, di monopolizzarla. Se l’Anpi si spaccò e nacque la Fvil , non è solo a causa della guerra fredda. L’Anpi in particolare in questi ultimi anni,  da quando non è più diretta da partigiani , e’ un’organizzazione che fa politica di parte spesso in modo faziosissimo .

Sono d’accordo con Colombini che la storia e’ complessa ,ma allora il manicheismo ideologico e’ incompatibile con essa, come disse Raimondo Luraghi storico e partigiano che mi onoro ‘ della sua amicizia.  Condannare l’amnistia di Togliatti, ad esempio, dimenticando di dire che copriva anche reati commessi da partigiani e non solo da fascisti, mi sembra sbagliato . Togliatti fece una scelta che andava oltre la guerra civile che semmai può essere criticata perché diede involontariamente spazio all’interno del PCI a chi fu protagonista dei delitti del Triangolo della morte.

Non voglio tediare il lettore con altri esempi . Aggiungo un fatto che mi ha colpito : a precisa domanda di un partecipante se Gianni Oliva fosse uno storico credibile la Colombini non ha risposto.  E qui ritorna il discorso che mi ha portato ad accomunare Eric Gobetti alla Colombini . Forse non si perdona ad Oliva di aver squarciato il velo del silenzio sulle foibe . A distanza di oltre 75 anni bisogna storicizzare e storicizzare significa andare oltre le convinzioni politiche.  Dico un’eresia per cui verrò di nuovo messo sul rogo , ma la dico lo stesso : e’ possibile una storia del fascismo non pregiudizialmente antifascista ? De Felice aveva aperto degli spiragli di rigore storiografico che non hanno avuto eredi . E questo non è colpa della Colombini che legittimamente esprime le sue idee in modo garbato, come ho potuto constatare di persona ieri sera.

Liberali cercansi

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

L’esigenza di un forte centro liberal-democratico nella politica italiana è qualcosa di molto sentito o almeno sembra . Il Governo Draghi, per molti versi, può creare il clima idoneo per un progetto politico nuovo che riequilibri la politica, facendo del centro il suo baricentro .Ma parlare di centro non significa di per se’ parlare di centro liberal-democratico o centro liberale

C’ è stato alla fine di febbraio un appello con molte firme di persone non conosciute ,se si eccettua Franco Debenedetti,ex Senatore del pds , ed Oscar Giannino la cui immagine per le note vicende di lauree esibite mai conseguite, non appare riprensibile. Non vedo le firme di Stefano De Luca e di Enzo Palumbo ,esponenti autorevoli di quel partito liberale che eroicamente ha resistito in questi anni a tutte le turbolenze ,così come non vedo esponenti autorevoli della cultura liberale italiana. Questi ultimi non sono moltissimi ,ma qualche testa pensante c’è. Cercando tra i collaboratori di “Libro aperto “: rivista fondata da Malagodi e diretta da Antonio Patuelli, si possono trovare persone di sicura tradizione liberale. Un figura intellettuale come Lorenzo Infantino sarebbe di vitale importanza .

Per altri versi , pur con tutti i limiti e gli errori commessi, oggi l’unico partito di centro che esista in Parlamento è Forza Italia che non si è rivelato particolarmente liberale ,pur avendo promesso niente di meno che una rivoluzione liberale mai neppure iniziata.
La Fondazione “Luigi Einaudi “ di Roma ha dato prova di una vitalità davvero significativa che non ha il Centro “Einaudi “ di Torino.
C’è stato un periodo in cui in Italia fu di moda dirsi liberali anche se le provenienze politiche originarie erano molto lontane dal liberalismo.

Il partito liberale italiano e’ finito nel 1994 con una chiusura ingloriosa per iniziativa del suo ultimo segretario, Raffaele Costa, che ottenne la riconferma a deputato e addirittura ministro da parte di Berlusconi.  Costa tentò di salvare le apparenze ai primi del 2000, creando i circoli del liberalismo popolare ,un banale ossimoro , che finirono in una bolla di sapone .Il vero liberalismo è per sua natura elitario,non popolare.

Abbiamo vissuto per anni nella speranza di un Risorgimento liberale, per dirla con la testata del quotidiano di Pannunzio . Ma la diaspora liberale con i suoi personalismi ha impedito di dar vita ad un progetto di rinascita. La stessa presenza elettorale di Forza Italia lo ha impedito . Molti hanno creduto al “partito liberale di massa “, un progetto seducente, ma non realizzabile .

Oggi c’è un nuovo tentativo di formare un centro liberal- democratico affidato a Carlo Cottarelli che dovrebbe provvedere alla stesura di un documento programmatico . Cottarelli si limiterà a scrivere, avendo già precisato un suo disimpegno politico.Per altri versi, appare una novità un Cottarelli liberale, così come Cottarelli non è certo un potenziale leader politico neppure parzialmente attrattivo .

Fare l’esame del sangue politico è quanto di più illiberale ci possa essere, ma c’è da chiedersi se Calenda e la stessa Bonino si possano considerare dei liberal- democratici che pure è una forma di liberalismo life. Radicali italiani hanno tra i loro esponenti gente profondamente illiberale.  Il liberalismo avrebbe tanto da dire e potrebbe contribuire a dare un contributo alla ricostruzione di questo Paese,ma forse anche questa volta si è partiti non nel modo migliore . Il liberalismo sarebbe oggi il miglior antidoto al populismo e al sovranismo.

Valerio Zanone poco prima di morire scrisse che ormai il liberalismo si era esaurito con la fine del secolo scorso e il primo decennio del nuovo .Io conservo una sua lettera in proposito molto eloquente.  Ma di fronte alla crisi del Pd e dei Cinque Stelle forse il discorso può cambiare. Occorrerebbero capacità organizzative che non ci sono e andrebbero messi al bando i personalismi che hanno caratterizzato sempre i liberali nel corso di tutta la loro storia costellata da continue scissioni. In passato ci fu persino una discussione sulla differenza tra liberal-democratici con o senza trattino. Oggi con i Debenedetti e i Giannino queste raffinatezze sono superate.  Anch’io mi auguro la creazione di un grande centro laico e cattolico,liberale e democratico, aperto ad un socialismo riformatore che è parte storica del sistema politico italiano ,ma nutro forti dubbi sulla fattibilità del progetto . Soprattutto occorrerebbe un contenitore dei moderati che non c’è .

Spero di sbagliarmi nel mio pessimismo e mi auguro che Cottarelli possa essere il nuovo maitre a penser del nuovo pensiero liberal- democratico ,capace di allargare il suo perimetro ideale ad un’area di centro in senso più ampio che deve guardare anche a Renzi e persino ad una parte ,sia pur minima, del Pd post zingarettiano. Marcucci, capogruppo del Pd in Senato, pochi lo sanno o lo ricordano, fu temporibus illis, un deputato liberale .

L’8 marzo: parità, merito e demagogia

 IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni  Anche quest’anno ho scorso sui giornali  le solite banalità femministe di stampo boldriniano, opera  di quelli che non si indignano perché un professore di Siena offende una donna politica, rivelando una volgarità sessista  intollerabile

Comprendo che il femminismo abbia rappresentato una spinta propulsiva in anni di maschilismo intollerabile ,anche se non ho mai condiviso gli eccessi di Emma Bonino che vedeva nell’aborto una conquista civile, sottovalutando il dramma e il trauma che rappresenta per una donna. Non ho mai condiviso l’egualitarismo, ma da liberale ho sempre ritenuto che le differenze siano  un valore e una ricchezza. Quindi l’eguaglianza tra uomo e donna ( fatti salvi i diritti ) e’ una sciocchezza che solo una minoranza ancora sostiene: sono le vedove settantenni del ‘68.
Uomini e donne non sono eguali e guai se lo diventassero, anche se l’abbigliamento mascolino, il fumo, l’uso di certe parole hanno rappresentato per molte donne una sorta di ascensore che le portava ad essere eguali agli uomini. Io mi ostino ad avere interesse per le donne femminili, quelle che piacevano all’avvocato Agnelli, tanto per capirci. Sono invece da sempre impegnato per la parità uomo-donna nella famiglia e nel lavoro e per il riconoscimento dei meriti individuali che vanno garantiti in pari misura ai due sessi. Ho apprezzato il direttore d’orchestra che ha rifiutato l’appellativo boldrinesco di direttrice o direttora. Ho apprezzato l’ intervento del Presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati per l’8 marzo: “Per parlare oggi di parità di genere, occorre riconoscere di fatto e non solo a parole, che il potenziale femminile è espressione di un valore economico oltre che sociale: il capitale umano delle donne che sono la colonna vertebrale della famiglia e della società, vale più di un punto di pil”. Non a caso il Presidente si rivolgeva alla Fondazione dedicata ad una delle donne più esemplari del secolo scorso: Marisa Bellisario che costruì una grande carriera con le sue capacità e che si arrese solo di fronte alla crudeltà di una  morte prematura. Io conobbi Marisa e la vidi come un esempio di donna che certo non ebbe bisogno del femminismo, delle quote rose o della sua bellezza seduttiva per emergere. Chi si balocca con il termine sindaca abbiamo visto che fine sta facendo anche perché si è circondata di collaboratori maschi incredibili. Nella politica ci sono spesso donne mediocri se dobbiamo ancora citare come dei grandi esempi Jotti  e Anselmi. La mediocrità di Livia Turco ha fatto scuola e io ricordo come Fassino fosse timoroso del suo femminismo arrabbiato . Non parliamo poi di Rosy Bindi ,una donna la cui faziosità è simile a quella della Boldrini. Nelle amministrazioni comunali – escluse Roma e Torino, sia chiaro – invece si vedono sempre più frequenti donne capaci , operative , senza grilli ideologici in testa che riescono ad essere ottime amministratrici della cosa pubblica e ottime madri e mogli. L’assessore alla cultura di Moncalieri, l’archeologa Laura Pompeo, ne è un esempio significativo. Nelle recenti elezioni ha battuto tutti con un numero di preferenze che nessun uomo è stato in grado di emulare. L’ex assessore alle politiche sociali di Albenga Simona Vespo che di recente ha  inspiegabilmente lasciato l’assessorato, malgrado la messe di voti e di simpatie, ha rappresentato per molti anni un esempio di ottima  amministrazione e di dedizione assoluta al bene della sua città. Sono donne che hanno l’umiltà di saper ascoltare e la grinta di saper decidere.
Laura e Simona non hanno mai avuto bisogno di quote rosa e non ne avranno mai bisogno perché la loro capacità sa imporsi  sulla politica politicante e spesso inadeguata, per lo più saldamente rappresentata da uomini che non sanno rispettare le donne, come si è visto nella scelta della rappresentanza femminile nel Governo Draghi.

Anche Colombini, però…

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni  Dopo il maldestro tentativo di giustificare le foibe da parte di un vero e proprio carneade come tal Eric Gobetti ( con il grande Piero non c’entra nulla), adesso  ci prova un’altra carneade, anch’essa torinese, tal Chiara Colombini con l’in tento di smontare i libri di Giampaolo  Pansa dedicati ai misfatti  cruenti dei partigiani comunisti  dopo il 25 aprile 1945 . Grande regista delle due operazioni e’ Laterza, la tipografia barese che  Benedetto Croce trasformò, pubblicandovi i suoi libri, in una prestigiosa casa editrice, oggi caduta  così in basso da essere divenuta l’editrice di fiducia  dell’Anpi che sta facendo una politica che è molto simile a quella del partito comunista di Togliatti, anzi di Pietro Secchia , il più violento ed ottuso capo comunista 

L’Anpi vuole tornare a  ridurre la Resistenza alla vulgata di  Roberto Battaglia che era una agiografia e non una storia. Era un grosso volume che nominava di passaggio  una sola volta Martini Mauri , il capo della Resistenza autonoma che comandava oltre cinquemila patrioti  e ignorava totalmente  le inevitabili ombre della guerra partigiana. Essere dalla parte giusta non poteva giustificare ogni azione , anche se   ferocemente delittuosa. Battaglia, figlio dell’era in cui la mitologia e l’interesse ideologico  dovevano prevalere su tutto, poteva anche essere comprensibile, ma il suo libro appare da tempo  un pezzo di un‘archeologia resistenziale improponibile. Gli storici successivi tacquero sui misfatti commessi dai partigiani comunisti   in nome del più vieto e interessato conformismo. Solo un partigiano che era stato fascista, Davide Lajolo, dopo una cena insieme, incominciò a narrarmi certi episodi  di cui  –  mi disse – non si doveva scrivere perché altrimenti si faceva il gioco dei fascisti. Erano gli anni in cui non si doveva neppure parlare di guerra civile , espressione diventata lecita dopo che un uomo di sinistra  come  Claudio Pavone inizio‘ a parlarne, suscitando delle aspre  critiche  dalla sua parte politica. Solo Bobbio ebbe l’onestà di dire che la Resistenza fu anche guerra civile. Poi venne un giornalista coraggioso che si era laureato con Alessandro Galante Garrone con una tesi sulla Resistenza e che era un giornalista di sinistra, Giampaolo Pansa e incominciò a parlare di sangue dei vinti , documentando quelle drammatiche vicende  successive alla Liberazione del 25 aprile in modo rigoroso e inoppugnabile. L’unica replica – ridicola – venne da  Angelo  d’Orsi che non seppe  far altro che obiettare che il libro di Pansa  non era storico perché privo di note.   Non seppe smentire nulla di quanto scritto da Pansa che non ebbe neppure smentite o querele dai parenti dei personaggi sotto accusa per reati infamanti. Neppure l’altro santone Giovanni  de Luna seppe replicare ai fatti raccontati da Pansa che non voleva sostituirsi agli storici , ma voleva far conoscere fatti che gli storici avevano nascosto per decenni, come avevano fatto con le foibe. Un’omertà vergognosa. Pansa venne insultato e sbeffeggiato dai soliti faziosi che cercarono anche di impedirgli di presentare i suoi libri. Pansa era un uomo onesto e scelse di scrivere certi libri come atto di doverosa onestà intellettuale, non priva di profonda eticità  civile. Il libro della Colombini vorrebbe contestualizzare i fatti narrati da Pansa, in effetti il suo obiettivo vero e’ quello di giustificarli  o minimizzarli . Ha un titolo provocatorio “Anche i partigiani però“. L’ho letto , ma mi rifiuto di recensirlo. E’ un lavoro con un  intento  meramente propagandistico  ed è  un’aggressione  proditoria a Pansa ad un anno dalla sua morte. Se Colombini avesse scritto con Pansa in vita sarebbe stato diverso, ma forse non ne aveva il coraggio. Contestualizzare non significa giustificare , questo è un principio storico su cui non si può transigere . Persino l’infame episodio di Piazzale Loreto con la plebaglia che piscia e caga sui cadaveri di Mussolini e della Petacci viene visto in una luce diversa. Per me sono cose inconcepibili proprio perché l’antifascismo  e’ una scelta che rispetta quei valori umani che i fascisti avevano calpestato. Piazzale Loreto e’ ingiustificabile sotto ogni punto di vista. Parri parlò di “bassa macelleria sudamericana“. Ripeto un’altra volta la battuta di Flaiano: i fascisti sono di due tipi: i fascisti e gli antifascisti. Il libro, come quello di Gobetti, mi ha fatto tornare  alla mente Flaiano. Che tristezza che nel 2021 non si riesca a parlare con serenità e distacco storico del nostro passato, ma stia venendo fuori una generazione di faziosi che ci ripropone idee che ritenevamo archiviate per sempre  dopo il crollo del muro di Berlino.
scrivere a quaglieni@gmail.com

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di laura Goria

Cristina Comencini “L’altra donna”   -Einaudi-   euro  18,00

Questo è il diario di una relazione -ma non solo- ed è un altro romanzo in cui la scrittrice, sceneggiatrice, regista e drammaturga Cristina Comencini mette a fuoco le relazioni umane.

Si parla di coppie appena formate, ma anche di quelle ormai esaurite ed implose, di figli smarriti, ma soprattutto degli ingredienti misteriosi che legano due persone innamorate.

Elena è giovane, bella, ha 36 anni, è in carriera ed è la compagna di un suo professore universitario molto più grande di lei, Pietro.

Lui ha alle spalle un matrimonio dapprima felice con Maria, benedetto dall’arrivo di 3 figli, poi franato e con ferite rancorose in parte ancora slabbrate.

La vicenda è raccontata da Elena in prima persona che è incuriosita dal passato di Pietro, dalla sua ex moglie Maria, e dalle dinamiche del loro matrimonio.

Al centro c’è il concetto dell’altro da se, dell’altra donna sulla quale si fantastica col sotteso desiderio di conoscerla, stabilire un legame amichevole o anche complice, sebbene permeato da qualche sentimento negativo, senza essere necessariamente rivali.

Elena e Pietro insieme stanno bene: lei in parte ha trovato un surrogato del padre, col quale c’era stato un segreto non apertamente svelato, che però aveva inficiato il loro rapporto.

Pietro, che non vuole invecchiare, ritrova l’entusiasmo della gioventù con questa donna ancora fresca, con la quale vive in armonia tra un viaggio e l’altro per lavoro.

Le cose si complicano quando Maria, con l’inganno, riesce a contattare Elena. Le due si scrivono, si confidano e raccontano le 2 facce del rapporto con l’uomo che condividono, anche se in tempi e con modalità diverse. Poi arriva anche il  figlio più piccolo della coppia, Francesco, giovane dislessico dalla memoria prodigiosa, di una manciata di anni meno di Elena e ci saranno nuovi sviluppi piuttosto interessanti.

 

Andrea De Carlo  “Il teatro dei sogni”    -La Nave di  Teseo-    euro 20,00

La scoperta di un teatro, che sembra molto antico, nel produttivo nord Italia è l’escamotage con cui Andrea De Carlo affonda i denti nel malcostume, a più livelli, del nostro paese.

Con tono brillante, tecnica narrativa scorrevole dal sapore cinematografico, ironia e scene scoppiettanti, imbastisce un affresco corale che ricorda molto le magagne italiane… e ce n’è per tutti.

E’ una critica corrosiva che smaschera la pochezza dei politici nostrani che campano di slogan altisonanti ma privi di contenuti.

Mette in discussione l’assurdità trash di certi programmi -di basso livello, ma grande share- impostati sulla bieca rincorsa di squallidi gossip; l’immagine fasulla di certi personaggi televisivi; l’indifferenza della politica per la cultura e il bello; lo strapotere dei social e di un mondo imbastito sulla vuota immagine.

Tutto ha inizio con la rampante giornalista televisiva Veronica Del Muciaro che per caso scopre il ritrovamento di un teatro (apparentemente greco e antichissimo), portato alla luce dal marchese Guiscardo Guidarini dopo 3 anni di scavi nella sua vasta proprietà cinquecentesca.

Siamo nell’immaginario paese di Cosmarate, nel nord industriale, in provincia di Suverso e subito si scatena la contesa tra i politici, sindaci e assessori dei due paesi.

Ad attingere con arroganza e a piene mani  nella vicenda c’è la tv per cui lavora come inviata d’assalto la fanciulla (bistrattata dalla titolare del programma che più odiosa non si potrebbe) con continui collegamenti da studio che coinvolgono opinionisti boriosi e di scarsa qualità (anche qui la satira verso la pochezza di certi programmi balza agli occhi).

Poi ad aggiungere pepe alla vicenda ci si mettono le ambizioni personali dei vari personaggi, la lotta tra due partiti che tanto ricordano lo scenario della squallida politica nostrana.

Su tutto primeggia la bravura di De Carlo che sfoga con intelligenza il suo essere insofferente nei confronti del dilagante malcostume dei tempi nostri. E i vari personaggi sono lanciati all’inseguimento di un illusorio teatro dei sogni, fino alla beffa finale.

 

 

Bernardino Branca  “Villa Clara”    -Mimesis edizioni-     euro 10,00

E’ una deliziosa passeggiata nel passato questo libro scritto dallo studioso di ampi interessi Bernardino Branca che racconta la storia di una grande villa affacciata sul Lago Maggiore. Lo fa attraverso le vicende dei suoi proprietari e dei vari ospiti transitati nelle stanze e nel parco. In gran parte è il racconto di un mondo che non c’è più, ancorato alla bellezza, alle tradizioni, all’educazione e a un elegante modo di attraversare la vita.

E’ una saga familiare in cui l’autore rinverdisce i ricordi della sua infanzia e adolescenza all’ombra di personaggi affascinanti.

Rimette insieme i fili delle sue vacanze nella villa di Baveno, Villa Clara (oggi Villa Maria), costruita nel 1870 dall’ingegnere ferroviario in India, Sir Charles Henfrey, che la dedicò all’amata moglie di 28 anni più giovane di lui.

Negli anni la sontuosa dimora ha ospitato personaggi illustri, tra i quali anche la Regina Vittoria che qui trovava pace, silenzio e una vita contemplativa lontano dagli impegni della corte britannica.

La villa in mattoni rossi e stile English New Gotich viene descritta in ogni dettaglio, così come vengono tracciati i caratteri e i destini dei nonni, a partire dal bonario snobismo del nonno Dino che aveva una seconda vita e un segreto imbarazzante per l’epoca.

La stoica nonna Teresa, nata a Porto Alegre, in Brasile, figlia del console italiano, che in risposta alle stranezze del marito oppone il saggio principio del Carpe Diem.

C’è il padre Steno dalla straripante voracità intellettuale e i nervi fragilissimi che portava il figlio di soli 5 anni in giro per musei. Poi gli zii con le loro passioni e gli amori, e l’avvicendarsi delle Fraulein che tanto hanno inciso sulla crescita dello scrittore. Questo e molto altro condensato in poco meno  di 100 pagine corredate da immagini dal sapore antico.

 

 

Shawn  Levy  “Il Castello  di Sunset  Boulevard”   -EDT-  euro 24,00

Questo libro è dedicato al mito intramontabile del Chateau Marmont sul Sunset Boulevard di Hollywood, ispirato al modello dei castelli francesi nella Loira. Costruito negli anni Venti, prosperato nei Quaranta e Cinquanta, scivolato quasi in rovina nel ventennio successivo, poi diventato famoso e iconico negli anni Ottanta con la morte di John Beluschi, stroncato da un’overdose in uno dei bungalow.

Attraverso la storia di questo storico hotel leggerete anche, se non soprattutto, la storia della mecca del cinema: successi e cadute di divi e dive, i loro eccessi e stravizi, gli amori, i litigi, le feste ad alto tasso alcolico e di droghe, gli sfarzi e le miserie umane legate all’altalena della gloria e del declino.

355 pagine arricchite da  illustrazioni, scritte con maestria da Shawn Levy, importante critico  cinematografico che ha una talentuosa passione per le biografie, che spesso superano persino la fantasia dei romanzi.

Mentre nella via più cinematografica del mondo vari hotel e locali passavano dall’essere alla moda all’oblio, il Marmont ha saputo veleggiare anche tra le tempeste dei tempi in divenire continuo; annoverando aneddoti vari e succulenti relativi ad attori, registi, musicisti e artisti in genere che qui trovavano prezzi accessibili, privacy assoluta e un porto sicuro in cui vivere stravizi e glorie, debacle e cadute devastanti.

Molti i nomi dei personaggi consegnati al mito; dalla pantera di Hollywood Jean Harlow,  ad Howard Hughes, da Clark Gable a Glen Ford, David Niven ed Errol Flynn, Humprey Bogart, Billy Wilder, Katherine Hepburn e via così di star in star.

Levy ricostruisce retroscena affascinanti di glorie passate, dalla vita anche tragica, come Montgomery Clift,  James Deen e Roman Polanski; oppure leggende con Greta Garbo e Grace Kelly, Quentin Tarantino e tantissimi altri, tra i quali potrete scoprire anche gossip e dettagli di vita inediti.

Insomma un affascinantissimo viaggio nella grande Hollywood dagli albori ad oggi, e le varie gestioni dei proprietari che si sono avvicendati nella perigliosa conduzione dell’Hotel per eccellenza e dalla storia assolutamente unica.

“Basta gridare ‘al lupo, al lupo!'”

QUA LA ZAMPA  Un Tavolo di confronto con il Garante dei Diritti degli Animali della Regione Piemonte per fermare le continue richieste di abbattimenti dei lupi

Il “Tavolo Animali & Ambiente”, costituito dalle associazioni animaliste e ambientaliste ENPA, LAC, LAV, LEGAMBIENTE Piemonte, LIDA, LIPU, OIPA, PRO NATURA e SOS Gaia, ha richiesto ed ottenuto un Tavolo di Confronto Permanente con il Garante dei Diritti degli Animali della Regione Piemonte, il Dott. Enrico Moriconi.
Nei primi due incontri, tenutisi online, è stata messa a punto la campagna “BASTA GRIDARE AL LUPO AL LUPO” per salvare il lupo dal rischio di abbattimenti.

Nel secolo scorso i lupi italiani sono arrivati sull’orlo dell’estinzione ma fortunatamente, negli anni ‘70, è stato loro riconosciuto lo status di “specie particolarmente protetta”. Questo ha consentito un parziale e naturale ripopolamento delle montagne, ma la specie non è ancora del tutto fuori pericolo.
La presenza del lupo è sinonimo di un ecosistema sano ma si sono verificati, e si verificano tuttora, conflitti con l’allevamento zootecnico allo stato brado, tanto che recentemente sono purtroppo emerse di nuovo posizioni in favore dell’abbattimento di tale animale.

Ricordiamo che sono stati investiti fondi pubblici europei per il progetto “Life Wolfalps EU”, che ha come obiettivo la convivenza tra il lupo e le attività economiche dell’uomo in montagna. La Regione Piemonte dovrebbe promuovere le attività di prevenzione alla predazione, garantire in tempi brevi i rimborsi per gli animali predati e l’assistenza veterinaria.

Una società civile deve trovare una adeguata convivenza a tutela del lupo e dei pastori.

Pertanto, il “Tavolo Animali & Ambiente” chiede al Ministro della Transizione Economica, Roberto Cingolani, al Presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, ed al suo Vice, Fabio Carosso, ciascuno per la parte di propria competenza :
– il pieno supporto al progetto “Life Wolfalps EU”, in particolare alle strategie per assicurare una convivenza stabile tra il lupo e le attività economiche tradizionali;
– il sostegno ad un piano nazionale di conservazione e gestione del lupo che non preveda abbattimenti;
– l’organizzazione di incontri con le comunità locali di cittadini, in collaborazione con le Provincie piemontesi, la Città metropolitana di Torino ed i Sindaci, per promuovere una cultura scientifica e corretta della convivenza con gli animali selvatici, anche nelle scuole, con la partecipazione di rappresentanti delle associazioni per la tutela degli animali e dell’ambiente.

La campagna “BASTA GRIDARE AL LUPO AL LUPO” è già iniziata con il lancio della omonima petizione, sia cartacea che online. È prevista poi una conferenza stampa sull’argomento, con la partecipazione di vari esperti, nonché presidi davanti alla sede della Regione Piemonte, tavoli di informazione e di raccolta firme e distribuzione di volantini informativi in tutta la Regione.

Per aderire alla petizione online: www.change.org/p/basta-gridare-al-lupo-al-lupo

Per il “Tavolo Animali & Ambiente”
Marco Francone
Resp. LAV Piemonte

Torino tra architettura e pittura: Alessandro Antonelli

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

3) Alessandro Antonelli

“Il destino è quel che è, non c’è scampo ormai per me!” questo gridava nel sonno lo scapigliato protagonista del celebre “Frankenstein Junior”, film del 1974 diretto da Mel Brooks, e credo che questa battuta possa riassumere il mio attuale stato d’animo, non tanto dissimile –immagino- da quello delle altre persone. La situazione pandemica si è nuovamente aggravata, dobbiamo resistere e affrontare le difficoltà che si prospetteranno, ancora una volta, e ancora una volta ci tocca sperare “che andrà tutto bene”. Per questo articolo non mi sento di inventare panegirici di fantomatiche gite scolastiche perché anche le persone ottimiste come lo sono io, ogni tanto, hanno bisogno di “accasciarsi” e farsi trasportare dove li porta il vento. O il nuovo DCPM. E poi di vedrà.
In questo pezzo dunque vi chiedo di immaginare quello che già conoscete, ossia lo “skyline” del “nostro” capoluogo piemontese, reso assai riconoscibile da una punta che svetta “tra le montagne,” una costruzione che fino al 1953 è stata la più alta d’Europa, un edificio dalla storia leggermente travagliata e attorno al quale circolano “strane” storie e curiose verità.
Si tratta della Mole Antonelliana, uno dei simboli indiscussi di Torino,
situata nel centro storico della città, in via Montebello, ora sede del Museo Nazionale del Cinema, esposizione unica nel suo genere e conosciuta in tutta Italia. L’edificio è legato al nome del suo ideatore, Alessandro Antonelli (1798-1888), uno dei protagonisti della scena artistica italiana del XIX secolo.

Prima di addentrarmi nell’argomento del giorno gradirei accennare due parole sul Museo Nazionale del Cinema, luogo che amo particolarmente e che ho visitato più volte, soprattutto negli anni dell’Accademia, durante i quali ho approfondito le tematiche della scenografia cinematografica. Al di là degli studi, ho sempre apprezzato “andare al cinema” e vedere come la pellicola rielabori emozioni e sensazioni su cui poi è bello ritrovarsi a riflettere. La nascita del Museo si deve a Maria Adriana Prolo, che nel 1941 immagina un luogo dedicato alla raccolta dei documenti dell’industria cinematografica torinese. Attualmente l’esposizione vanta quasi 1.800.000 opere tra film, documenti d’archivio, fotografie, apparecchi e oggetti d’arte, manifesti, memorabilia del cinema, volumi e registrazioni sonore. Ma è meglio che mi fermi qui, prima di andare fuori tema.
Torniamo dunque a noi.Nella prima metà dell’Ottocento l’architettura, ancora essenzialmente legata al gusto neoclassico, inizia a risentire dell’influsso del “Gothic revival”, come testimoniano gli edifici in stile archiacuto costruiti in questi anni. La ripresa del Gotico favorisce il recupero di diversi elementi architettonici tipici di periodi passati; la riscoperta artistica rende la seconda metà del XIX secolo particolarmente eclettica dal punto di vista urbanistico, grazie proprio alla contaminazione e alla coesistenza tra i vari stili del passato. Tale particolare e polistilistica produzione architettonica non caratterizza solamente i padiglioni delle grandi esposizioni internazionali, ma anche l’edilizia civile, e nei centri urbani inizia a prevalere il criterio di applicare alle diverse tipologie funzionali altrettanti stili, per cui le banche vengono realizzate in stile classico, le abitazioni in stile rinascimentale, le stazioni termali in stile orientaleggiante e gli edifici religiosi in stile medievale.

Alessandro Antonelli è attivo soprattutto in Piemonte, le sue architetture tendono a staccarsi dal dilagante eclettismo e si distinguono per profonda originalità. Si può affermare che la sua opera rifletta quel contrasto, rimasto irrisolto per tutto l’Ottocento, tra il conservatorismo accademico e il progressismo di stampo scientifico.
I progetti maggiormente legati al nome dell’architetto innovatore sono due: la Mole di Torino e la Cupola di San Gaudenzio a Novara, in entrambi i progetti egli sperimenta la tecnica costruttiva con tiranti in ferro nella tessitura laterizia.
Il suo carattere e le sue idee innovative lo portano purtroppo a scontrarsi con clienti e committenti, le incomprensioni fanno sì che molte delle sue opere vengano realizzate parzialmente o comunque con importanti modifiche.
L’architetto nasce a Ghemme, in provincia di Novara, in una famiglia assai numerosa: egli è il quinto di undici figli; il padre notaio e la madre casalinga.
Alessandro frequenta il liceo artistico a Milano, in seguito si iscrive all’Accademia di Brera per poi spostarsi in quella di Torino; una volta conseguita la laurea in Architettura e Ingegneria, per i quattro anni successivi lavora presso gli uffici tecnici demaniali del capoluogo piemontese.
Nel 1828 vince il prestigioso “ Prix de Rome”, in seguito a un concorso indetto dall’Accademia Albertina, tale onorificenza lo porta a recarsi a Roma per una formazione di cinque anni; in questo periodo egli si dedica soprattutto allo studio della geometria descrittiva, sotto la guida del Professore Carlo Sereni, si confronta con le innumerevoli opere presenti in città e inizia a frequentare diversi scultori emergenti. Conosce Berthel Thorwaldsen, con cui stringe un rapporto di solida amicizia e a cui chiederà di collaborare in uno dei suoi primi progetti, la cattedrale di Novara, per l’altare maggiore della chiesa.

Nel 1833 Antonelli fa ritorno in Piemonte. Tra il 1836 e il 1857 egli è professore di architettura, prospettiva e ornato presso l’Accademia Albertina di Torino; nel 1843 sposa Francesca Scaccabarozzi da cui ha due figli, Costanzo che diventerà ingegnere e una giovane fanciulla che morirà prematuramente a soli 19 anni.
Antonelli elabora uno stile funzionale dell’architettura, che lo porta a prestare particolare attenzione al piano di sistemazione urbanistica del centro di Torino, in particolare del quartiere Vanchiglia, dove costruisce la “sua” opera più celebre, la “Mole Antonelliana”, la Casa Scaccabarozzi (meglio nota come “Fetta di Polenta”) e la Casa Antonelli. Contribuisce anche allo sviluppo della città di Novara, con la costruzione della cupola della basilica di San Gaudenzio, della vicina Casa Bossi e con la stesura del progetto di ricostruzione della cattedrale di Santa Maria Assunta.
Nel 1844 inizia l’edificazione della Cupola di San Gaudenzio, a Novara, destinata a completare la basilica eretta da Pellegrino Tibaldi; alla fine dei lavori l’edificio risulta un’arditissima opera, dotata di una base molto ristretta, di appena 26 metri di diametro, ma alta ben 125 metri, ai limiti della resistenza delle strutture. Particolarmente degna di attenzione è anche la parte esterna della cupola, rivestita da cinque ordini di pilastri, colonne, cornici, su cui si imposta la cupolina, a sua volta sormontata da quattro ordini di sostegni, a formare il pinnacolo.
Dopo aver completato il Duomo di Novara, (1861), Antonelli si dedica alla progettazione della Mole torinese. Il cantiere viene aperto nel 1863 e i lavori si protraggono oltre la morte dell’architetto, fino al 1888; inizialmente il progetto è rivolto a erigere una sinagoga, tempio della Comunità Israelita Torinese, ma l’idea non piace e la struttura viene adibita a museo. Il progetto approvato dalla comunità ebraica prevedeva un edificio dell’altezza di 47 metri, ma durante la costruzione Antonelli applica delle modifiche e porta l’altezza a 113 metri. La comunità ebraica non apprezza i cambiamenti progettuali e, anche per non meno importanti motivi economici, decide di chiudere il cantiere.

La Mole è una delle costruzioni più ardite dell’Ottocento, è formata da un massiccio piedistallo a base quadrata, sui cui si innalza una volta a padiglioni a sesto acuto sormontata da una sottile guglia, che raggiunge i 167 metri dal suolo.
Tale edificio evidenzia i presupposti culturali a cui l’architetto fa riferimento per le sue opere: da una parte il linguaggio neoclassico, come dimostrano il fitto reticolato di cornici, colonne e pilastri, presenti anche nella cupola novarese, dall’altra i motivi neogotici e romanici, evidenti soprattutto nel verticalismo della costruzione.
Sono molte le curiosità e le leggende legate a questa costruzione. Secondo la tradizione esoterica la Mole è in realtà un enorme “canalizzatore” di energia positiva, essa assorbe dall’alta guglia energia dal cielo e la distribuisce sul territorio attraverso la base piramidale.
Se l’aspetto esteriore della struttura-simbolo di Torino è assai nota, forse non tutti sanno che l’attuale sede del Museo del Cinema appare in diversi film, tra cui “Porco Rosso” di Hayao Miyazaki dove la Mole compare nella sigla di chiusura del lungometraggio;  “Dopo mezzanotte” di Davide Ferrario girato in gran parte all’interno dell’edificio; “Le amiche” di Michelangelo Antonioni, dove, nei titoli di testa si vede la sua guglia spezzata.
Alcuni studiosi hanno voluto sottolineare che la maestria costruttiva di Antonelli è il punto di arrivo di una tecnica antichissima, che parte addirittura dalle cupole romane, più che il punto di partenza di una tecnica e di una scienza nuove ( Gregotti-Rossi, 1957); tuttavia è opportuno sottolineare che l’architetto inserisce anche aspetti innovativi, evidenti specialmente nel costante interesse per il dato urbano.

In generale l’opera di Antonelli pare riflettere quel contrasto, che rimane irrisolto per tutto l’Ottocento, tra il conservatorismo accademico e il progressismo di stampo scientifico.
Negli anni Sessanta dell’Ottocento Antonelli, in qualità di rappresentante dell’Accademia Albertina, viene nominato membro della commissione incaricata di valutare i progetti della facciata della cattedrale di Santa Maria del Fiore, rimasta incompleta dai tempi del Rinascimento; l’architetto decide tuttavia di abbandonare la commissione e di partecipare al concorso come progettista, le sue idee però non piacciono e vengono scartate.
Egli è anche uomo politico, è consigliere regionale e provinciale, ed è, per un periodo brevissimo di appena due mesi, deputato del Regno di Sardegna.
Antonelli si spegne a Torino, nel 1888, a più di novant’anni. Dopo i funerali di rito cattolico, la sua salma è stata sepolta nella tomba di famiglia, posta all’entrata del cimitero del comune di Maggiora.
Non so chi siano i miei lettori, ma non posso terminare questo pezzo senza avvisare i potenziali studenti che si potrebbero inavvertitamente imbattere nella suddetta lettura: pare che la meraviglia architettonica torinese di Antonelli in realtà porti leggermente sfortuna agli universitari e agli scolari in genere, niente di allarmante, solo qualche possibile ritardo nel percorso di studio. Tuttavia, dato il periodo già abbastanza complicato di per sé, perché aggiungere ulteriori preoccupazioni?

Alessia Cagnotto