Magnifica Torino / Tramonto con foschia
I teatri torinesi: Teatro Carignano
Torino e i suoi teatri
1 Storia del Teatro: il mondo antico
2 Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti
3 Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri
4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti
5 I teatri torinesi: Teatro Carignano
6 I teatri torinesi: Teatro Colosseo
7 I teatri torinesi: Teatro Alfieri
8 I teatri torinesi: Teatro Macario
9 Il fascino dell’Opera lirica
10 Il Teatro Regio.
5 I teatri torinesi: Teatro Carignano
Torino malinconica, Torino miscela di barocco e liberty, Torino che hai permesso che superassero l’altitudine della tua Mole, Torino che ti abbigli con l’eleganza del centro, ti ingioielli con la supponenza della Crocetta, Torino che porti memoria del tuo cuore proletario, pompato dagli stantuffi dell’industria FIAT, Torino che mentre ti lasci attraversare, mi fai respirare la sempiterna spocchia giovanile dei Murazzi. Nella piccola metropoli, risulta difficile non camminare con occhi attenti tra i palazzi, i quali, nei propri dettagli, nascondono sempre peculiari meraviglie, stucchi decorati, apotropaici guardiani di soglia, piercing inaspettati o grandiosi murales, che rendono memorabili anche gli angoli più anonimi.
Tra i diversi luoghi che rapiscono l’attenzione, durante gli ansiosi viavai dei turisti, ma anche nelle quiete passeggiate degli stessi torinesi, vi è certamente il Teatro Carignano, uno degli edifici simbolo della città, il cui nome completo è Teatro dei Principi Carignano.
La struttura diviene proprietà comunale già nel corso dell’Ottocento; lo stabile nasce come teatro della commedia, specificità che lo contrappone fin da subito al vicino e assai noto Teatro Regio, destinato invece a ospitare l’Opera lirica. La storia del Carignano si presenta antica, un’alternanza di ristrutturazioni e nomi altisonanti che si susseguono, un po’ sul palcoscenico, come Niccolò Paganini, Eleonora Duse, Vittorio Gassman, Dario Fo, un po’ dietro le quinte, come Pirandello, Pepe o Ronconi, un po’ al di fuori delle mura, come Guarini, Benedetto Alfieri o Giovanni Battista Borra. Vanto del Carignano è l’essere unico esempio di struttura teatrale settecentesca in Torino ancora in uso e che ancora preserva – nonostante i numerosi rifacimenti – le sue caratteristiche originarie. L’edificio viene costruito per volere dei Principi di Carignano intorno al primo decennio del Settecento; esso è inizialmente un piccolo “teatro di famiglia”, luogo esclusivo, in cui i soli spettatori delle rappresentazioni sono i membri stessi della nobile casata.
La nascita del palazzo si inscrive nel più ampio progetto di trasformazione ed espansione che investe Torino a partire dal Cinquecento, pianificazione spinta dal desiderio-necessità della casa Savoia di attribuire al capoluogo l’aspetto degno di una capitale moderna. La regalità urbanistica deve infatti rispecchiare l’importanza della casata Sabauda e soprattutto dei suoi componenti, come ad esempio il caso dell’ascesa al trono di Vittorio Amedeo II (1684) e la sua successiva designazione a re di Sicilia. Non per niente di lì a poco, protagonista indiscusso della direzione dei cantieri torinesi sarà il celebre Filippo Juvarra (1678-1736), regio architetto legato ai Savoia, il quale apre la struttura dei palazzi e della vie cittadine a un respiro urbanistico inedito.
Nel 1710 il principe Vittorio Amedeo di Savoia fa adattare a teatro il salone chiamato “Trincotto Rosso”, un edificio utilizzato per il gioco della pallacorda, e ordina la costruzione di vari palchetti: è il Carignano in nuce. La prima edificazione si basa sul progetto seicentesco di Guarino Guarini, il quale predilige l’utilizzo del legno per la struttura, così da favorirne l’acustica.
Nel 1727 la struttura passa alla Società dei Cavalieri, lo spazio si apre alla prosa, al canto e ai balletti. Non trascorrono però molti anni prima che lo stabile perda l’originaria bellezza e sfiori la fatiscenza; Luigi Vittorio di Carignano convoca allora il regio architetto Benedetto Alfieri (1699-1767), e gli ordina di ricostruire il teatro dalle fondamenta, in modo da ottenere una sorta di Teatro Regio in miniatura.
S
iamo intorno agli anni Cinquanta del Settecento quando iniziano i lavori; l’architetto, che si era già precedentemente occupato dell’edificio dedicato all’Opera, dirige così il cantiere del palazzo, che questa volta è eretto in muratura. Alfieri, zio di Vittorio e allievo prediletto di Juvarra, fa realizzare ottantaquattro logge e tre ranghi di panche in platea, lumi a candela e stucchi lameggiati in oro; la decorazione del soffitto è affidata a Gaetano Perego e Mattia Franceschini, del sipario invece si occupa Bernardino Galliari.
(Una nota prima di proseguire: non di Benedetto Alfieri, ma di Vittorio Alfieri è il busto posto nel 1903 dai Torinesi sul muro a fianco dell’ingresso del teatro. Il grande poeta astigiano proprio al Carignano ha debuttato con la sua prima tragedia, il “Filippo”, nel giugno del 1775). Il teatro viene inaugurato nel 1753, il giorno di Pasqua, per l’occasione riecheggia in scena, tra il legno del palco e il velluto dei tendaggi, la commedia goldoniana “La calamita dei cuori”, dramma giocoso, dedicato alle “nobilissime dame veneziane”, con musica di Baldassarre Gallupi.
Altri documenti attribuiscono la parte strutturale che fa da avancorpo al teatro all’architetto e disegnatore Giovanni Battista Borra (1713-1786), il quale propone per tale zona l’utilizzo di un ordine monumentale e solenne, con testate laterali che incorniciano l’ingresso centrale. Sul finire del Settecento un incendio divampa nel teatro, questa volta è l’architetto Giovanni Battista Feroggio (1723-1797) a coordinare i lavori per la ricostruzione; egli si basa sul precedente progetto alfieriano e dota l’esterno della struttura di un ampio porticato – tipico dei teatri settecenteschi – e di tredici finestre al piano nobile. Sono invece gli abili fratelli Pozzo a occuparsi dell’aspetto della nuova sala a ferro di cavallo, mentre è nuovamente Bernardino Galliari il responsabile dell’abbellimento del soffitto e del sipario. Nel 1870 lo stabile diviene proprietà del Comune di Torino e rivisto dall’architetto Carrera, il quale chiude il porticato con un ammezzato per la realizzazione di uffici e trasforma il quarto ordine di palchi in galleria; è durante questi rifacimenti che viene ricavata la celebre sala sottorranea, prima adibita a birreria e poi – a partire dal 1903 – a sala cinematografica, una delle prime della città. Tra i lavori che interessano il teatro durante gli anni dell’Ottocento, è certamente degna di nota la decorazione del soffitto della platea, raffigurante il “Trionfo di Bacco”, eseguita nel 1845, dal pittore Francesco Gonin (1808-1889). È opportuno ricordare che durante la Restaurazione (1821-1855) il Carignano è sede ufficiale della Compagnia Reale Sarda, costituita sul modello della Comédie Française e considerata la più illustre antenata degli attuali Teatri Stabili.
La stagione del Novecento vede il Carignano come sede di svariate prime rappresentazioni, tra cui “Il matrimonio di Casanova” di Renato Simoni (1910), “Il ferro” di Gabriele D’Annunzio (1914) e “Il piacere dell’onestà” (1917) di un Luigi Pirandello ancora pressochè sconosciuto. Agli inizi degli anni Venti frequentano sovente lo stabile Antonio Gramsci e Piero Gobetti, in veste di cronisti teatrali.Lo storioco edificio, tra le sue numerose vicissitudini, si trova anche ad affrontare diverse calamità, tra cui il bombardamento della notte dell’8 novembre 1942 e quello dell’anno successivo, che distrugge non solo tutti e cinque i piani del teatro, ma interessa anche via Roma, via Cesare Battisti e via Principe Amedeo.
Nel 1945 – quando il valore della cultura e dell’arte erano ben evidenti a tutti – il Comune accorda al Direttore del Teatro Vincenzo Linguiti e al custode dello stabile un riconoscimento in denaro per il servizio prestato durante i bombardamenti.
Facendo un sostanziale balzo in avanti, arriviamo agli anni Settanta del Novecento, quando il capoluogo piemontese affida definitivamente la struttura al Teatro Stabile di Torino, che ne diviene una delle sue sedi permanenti. Dal 1961 infatti, lo storico teatro ospita i maggiori spettacoli realizzati dall’ente pubblico.
Attualmente l’edificio presenta più linguaggi architettonici: all’esterno vige il rigore settecentesco, all’interno trionfa l’Ottocento, con il suo passionale romanticismo. Gli ultimi lavori di restauro risalgono agli anni Duemila, questi interventi hanno portato al recupero degli ingressi originari e dell’antica “birraria” sotterranea voluta da Carlo Alberto, ora adibita a foyer. Nel 2007 lo stabile è sede del conferimento del premio Nobel a Harold Pinter, in una delle sue ultime uscite pubbliche, quando riceve il Premio Europa.
Il teatro riapre ufficialmente al pubblico nel 2009, dopo un anno e mezzo di ulteriori interventi, con la rappresentazione di “Zio Vanja” di Anton Čechov, per la regia di Gabriele Vacis.
Tra le numerosissime personalità che hanno avuto a che fare con il teatro, mi piace ancora ricordare Eduardo De Filippo, Mariangela Melato, Paolo Poli, Filippo Timi, Gabriele Lavia o Carlo Cecchi. Attualmente, grazie alla lenta ripresa che sta investendo quasi tutti i settori, il teatro riconferma la sua posizione di primaria importanza nella cultura cittadina, presentando un cartellone ricco di spettacoli di grande rilievo.Capite, cari lettori, dopo aver letto di queste storie, di cui la vicenda del nobile teatro Carignano è solo una delle tante, che è obbligo di tutti collaborare affinché tali realtà continuino a vivere, nonostante le numerose ed estenuanti avversità che si possono verificare, così come continua ad essere evidente in questo interminabile periodo pandemico.
Ricordiamocelo bene, è solo nell’arte e nel teatro che la bellezza non invecchia, la risata non diviene malinconia e le lacrime colmano sempre il cuore.
Alessia Cagnotto
MAGNIFICA TORINO / In copertina il plastico di Torino in piazza Castello. Uno scorcio di Palazzo Reale. Le foto sono di Vincenzo Solano. Lo scatto del Monviso e della Via Lattea visti dal Lago Superiore è di Gianpaolo Gigli.


Magnifica Torino / Nella foto di copertina, di Giampaolo Gigli, panorama di Torino. Sotto lo scatto di Vincenzo Solano: piazza della Repubblica in una notte invernale.

RITRATTI TORINESI
“Il Centro Servizi Vol.To ETS– spiega Marco Bani, giornalista pubblicista, che fa parte del suo Consiglio Direttivo con le deleghe alla comunicazione, alla scuola e ai rapporti con le piccole associazioni – è un’associazione riconosciuta del Terzo Settore di secondo livello (un’associazione di associazioni) composta da circa 150 organizzazioni socie.
Appena andato in pensione sono entrato a far parte del Consiglio Direttivo di Vol.To, mi pareva il passaggio più naturale dopo gli anni lavorati in Telecom, perché sin dalla mia gioventù, ho fatto volontariato passando la domenica pomeriggio in Barriera di Milano a far compagnia ai ragazzi delle case popolari e poi con l’Associazione “Il Cammino” occupandomi a seguire ed aiutare i ragazzi delle famiglie del quartiere, nell’espletamento dei loro compiti scolastici. Ho sempre partecipato, da volontario, alla giornata della Colletta Alimentare ed alla raccolta farmaci del Banco Farmaceutico.
Il Centro Servizi Vol.To è finanziato attraverso il Fondo Unico Nazionale alimentato dai contributi delle fondazioni di origine bancaria. Il suo compito principale è quello di supportare edaiutare le associazioni, erogando servizi di supporto tecnico ed informativo e tutto ciò che può risultare utile nell’espletamento delle loro attività, al fine di promuovere e rafforzare la presenza ed il ruolo dei volontari in tutti gli Enti del Terzo Settore che sono 1350 circa, i cui i volontari mettono a disposizione tempo e competenze per promuovere la cultura, tutelare il patrimonio artistico del territorio e accrescerne la fruibilità, rispondere ai bisogni delle persone in condizioni di fragilità, tutelare i diritti, migliorare e umanizzare i servizi sanitari, occuparsi degli animali e dell’ambiente”.
Vol.To offre l’opportunità a cittadini, imprese, istituzioni e scuole di vivere pienamente l’esperienza della solidarietà, aiuta gli aspiranti volontari a trovare l’organizzazione giusta, mediante un servizio gratuito di orientamento, si occupa di Volontariato aziendale creando percorsi per i dipendenti; orienta e accompagna chi è interessato alla costituzione di una nuova associazione; supporta enti pubblici e privati per i progetti di Servizio Civile (siamo iscritti all’Albo del Servizio Civile Universale a livello nazionale) e nel coinvolgimento dei giovani che nel 2023 sono stati circa 150; lavora con le scuole e la comunità educante per la partecipazione sociale, la crescita umana e il benessere dei bambini/e e ragazzi/e.
“Il volontariato – precisa Marco Bani – è un caleidoscopio a 360 gradi, di cui il 60% circa è un volontariato di tipo sanitario, di assistenza ospedaliera, ai malati ed alla disabilità; vi sono i volontariati ecologici, dell’ambiente, della protezione civile, dedicatiai ragazzi con difficoltà nell’aiuto al post scuola, i volontari animalisti, di aiuto agli anziani, utilissimo durante il Covid, per raggiungere gli anziani soli, un’altra forma altrettanto preziosa è quella culturale e afferente i musei, volto alla diffusione della cultura..
‘Concludendo – ricorda Marco Bani – che il volontariato non è un hobby, un passatempo effimero, il volontariato richiede costanza, determinazione, sensibilità e spirito di sacrificio. Sembra strano, ma fare il volontario arricchisce per primo chi decide di farlo, perché fa incontrare realtà stupende, dove la gratuità, parola ormai desueta, la fa da padrona. Si può affermare che una vita spesa in aiuto agli altri è una vita più piena, quindi pensateci a dare anche solo una piccola parte del vostro tempo per gli altri’.
Mara Martellotta

In questa bella immagine di Mario Alesina sono predominanti i colori dell’alba. Sullo sfondo la Basilica di Superga.
Torino e la Scuola
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Le riforme e la scuola: strade parallele
Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata dalla Rai
Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino
Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour
UniTo: quando interrogavano CalvinoAnche gli artisti studiano: l’equipollenza Albertina
6 Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
“Panem et Circenses”, con queste parole Giovenale, il grande autore satirico romano (I-II sec. d.C.), denunciava una politica manipolatrice, che utilizzava lo svago e i futili passatempi per ingannare il popolo, così che l’apparente benessere della massa corrispondesse al più concreto benessere politico.
Nella nostra epoca contemporanea la celebre locuzione potrebbe variare nei termini, ma non credo poi molto nel significato. Grazie alle numerosissime app dei nostri smartphone risolviamo comodamente da casa il problema del “panem”, giocando a farci portare a domicilio qualunque tipo di cibo ci solletichi e poco ci importa di chi deve appagare celermente il nostro stomaco, né delle difficoltà in cui potrebbe incorrere il nostro corriere nel tragitto. Più o meno secondo la stessa modalità soddisfiamo i “circenses”, le piattaforme multimediali aumentano esponenzialmente a velocità impressionante, la nostra unica difficoltà è rimanere sempre aggiornati per poter scegliere l’offerta migliore e quindi trascorrere il pomeriggio comodamente sul divano, guardando quel film di cui tutti parlano, oppure la serie Tv più in voga al momento. E se non ci sentiamo così tanto “passivi”, allora possiamo ricorrere ai giochi, alla playstation, alla wii, ai giochi on line e via discorrendo. E non sto parlando di questo drammatico periodo, in cui stare a casa ovviamente non è un obbligo, ma un dovere nei confronti degli altri e di noi stessi; mi riferisco a prima, a quando le abitudini non erano poi così diverse da ora, ma nessuno si lamentava.
Non è il caso di sentirsi “complottisti”, ma di certo dà da pensare tutta questa tecnologia “monoporzione”, che impegna e che immerge totalmente, che unisce, ma sempre attraverso uno schermo, e che ci distrae dalla vita vera, quella che scorre fuori dalla finestra, mentre noi non la guardiamo.
Che si può fare per sconfiggere questa apatia dilagante, questa superficialità di massa, questa abitudine all’approssimazione? Si può reagire. Come? Attraverso la cultura e la conoscenza, andando ad investire là dove non c’è rimasto quasi niente, andando a riporre fiducia nei professionisti dell’educazione, riconoscendo nuovamente l’importanza e l’essenzialità della scuola.
Nell’opera “Se questo è un uomo”, nel capitolo “ il canto di Ulisse”, Primo Levi ricorda di aver cercato di insegnare l’italiano al compagno di lager Jean, spiegandogli il XXVI dell’”Inferno” dantesco, la cui parte essenziale è dedicata alla “orazion picciola” dell’eroe greco che dice ai compagni: “fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza”. La tragedia odissiaca mantiene una precisa funzione esemplare, vuole essere un monito per tutti gli uomini, un proposito al di sopra di ogni affetto contingente, all’infuori di ogni preoccupazione di pericolo personale. L’autore combatte così la brutalità e l’ignominia di Auschwitz, appellandosi, in questa parte del testo, alla grandezza invincibile del Sommo Poeta, padre della lingua italiana e indiscusso simbolo di cultura universale.
Non a caso ricordo Primo Levi, perché è proprio di lui che vorrei raccontare qualcosa oggi, sempre continuando nel nostro percorso sulla scuola e sugli studenti torinesi.
Egli nasce a Torino, il 31 luglio del 1919. È stato testimone diretto delle deportazioni naziste, i suoi scritti sono una testimonianza sempre attuale e passai notabile a proposito di quegli anni bui che continuano a suscitare vergogna alla coscienza degli uomini. Di salute cagionevole, Primo era un bambino sensibile e fragile, caratteristiche che lo hanno portato a trascorrere un’infanzia sostanzialmente solitaria. Nel 1921 nasce Anna Maria Levi, la sorella minore a cui lui rimane sempre affezionato.
Nel 1934 Primo viene iscritto al Ginnasio del Liceo Massimo D’Azeglio di Torino, fin da subito si palesa un eccellente studente, dimostrando bravura e preparazione sia nelle materie scientifiche che in quelle letterarie. Da non dimenticare che il primo anno avrà niente meno che Cesare Pavese come supplente di italiano, anche se solo per pochi mesi. Dopo le scuole superiori, Primo frequenta la Facoltà di Scienze, che termina con una laurea con lode nel 1941: sono anni importanti per il brillante giovane, sia per la crescita personale, sia per le amicizie che riesce a stringere tra i banchi di scuola e i laboratori, rapporti sinceri che dureranno per tutta la vita. Eppure c’è un dettaglio da sottolineare, sull’attestato di laurea vi è scritto: “di razza ebraica”. Intanto la guerra incalza, ed egli nel 1942 si trasferisce a Milano, nel 1943 si rifugia ad Aosta e si unisce ad un gruppo di partigiani. Il suo coraggio però non lo ripaga con la stessa moneta e di lì a poco Levi cade prigioniero dei nazisti; il giovane viene deportato prima al campo di Fossoli (Modena) e poi, all’inizio del ’44, nel lager di Monowitz, che faceva parte del sistema dei campi di Auschwitz. Il resto come si suol dire è storia: impossibile riprendersi da tale drammatica esperienza.
Liberato nel gennaio del ’45 dalle truppe sovietiche, per tornare in patria Levi deve attraversare la Polonia, la Russia Bianca, l’Ucraina, la Romania, l’Ungheria, l’Austria, e infine giunge a Torino nell’ottobre del ’45. Inseritosi nella vita civile, sente comunque il bisogno di raccontare ciò che ha subito.
Scrive “Se questo è un uomo”, romanzo-testimonianza edito nel 1947 e ancora oggi letto a scuola, un libro che forse è nato “per forza”, per dovere di imprimere nella memoria collettiva la violenza e la brutalità di cui l’uomo è capace. In una scrittura lucidissima e misurata, il ricordo della vita nel lager di Monowitz si svolge come in un racconto-diario. Tutto è guidato dal desiderio di capire una realtà che appare oltre ogni razionalità. In quel mondo assurdo, il prigioniero tiene costantemente vigile una ragione impotente di fronte alla terribile epopea di una umanità irrimediabilmente offesa.
Nel 1963 Levi pubblica “La tregua”, in cui racconta il ritorno a casa dopo la liberazione, un singolare momento di “tregua” nella vita. Scrive “Vizio di Forma” (1971), “Il sistema periodico” (1975), un insieme di racconti autobiografici disposti in ventuno capitoletti, “L’osteria di Brema”, “La chiave a stella” (1978), “La ricerca delle radici” e “Se non ora quando?”(1982), nitida ricostruzione delle vicende di un gruppo di partigiani ebrei in Russia. Nel 1986 viene pubblicato un saggio, ultimo lavoro dell’autore, dal titolo emblematico, “I Sommersi e i Salvati”, che ha valore di accorato testamento, un inquieto ritorno dell’autore all’esperienza del lager, e alla necessità di interrogarsi su quell’orrore inesprimibile. Una memoria per tutti, per una società che potrebbe ricadere nel male. Primo Levi muore suicida nella casa di Torino l’11 aprile 1987.Chissà se un po’ del coraggio di questo grande uomo gli venne anche dalla formazione scolastica avuta al Liceo D’azeglio, luogo per definizione dell’”intellighenzia torinese”? La storia del Liceo inizia nei primi anni dell’Ottocento, quando viene istituito il Collegio di Porta Nuova. L’istituzione è prima trasferita nel 1852 presso la Parrocchia degli Angeli, poi, nel 1857, viene nuovamente spostata presso il Collegio Municipale Monviso. Con l’aumentare della popolazione della città subalpina, si sente il bisogno di creare un nuovo liceo classico, oltre ai già presenti licei Cavour e Gioberti, risalenti il primo al 1586 (riceverà la titolazione “Cavour” nel XIX secolo) e il secondo al 1865 (l’Alfieri verrà fondato nel 1901); così nel 1882 viene fondato il Liceo D’Azeglio, intitolato al celebre politico risorgimentale. La scuola comprendeva allora i cinque anni di corso ginnasiale e i tre del corso liceale. All’epoca, gli studenti appartenevano per lo più alla borghesia della zona Crocetta, anche se non mancavano iscritti di altre zone e classi sociali.
Molte sono le figure “dazegline” che hanno rivestito un rilevante ruolo politico e culturale nella storia, non solo di Torino, ma di tutto il Paese. Tra i vari nomi è bene ricordare Umberto Cosmo, Augusto Monti, Zino Zini, Franco Antonicelli. Tra gli studenti, Cesare Pavese (che è stato per qualche tempo anche docente), Giulio Einaudi, Leo Pestelli, Massimo Mila, Luigi Firpo, Vittorio Foa, Tullio Pinelli, Giancarlo Pajetta, Renzo Giua, Emanuele Artom, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Primo Levi, Fernanda Pivano. In tempi più recenti hanno frequentato le medesime aule Mario ed Enrico Deaglio, Paolo Montalenti, Gian Savino Pene Vidari, Lucio Levi, Sergio Pistone, Roberto Alonge, Carlo Ossola. Inoltre, nel 1975, durante gli anni della partecipazione attiva al movimento studentesco, viene eletto presidente del Consiglio d’Istituto Primo Levi, il quale promosse come prima iniziativa un rinnovato impegno antifascista del Liceo.
Un importante fatto sportivo si lega poi al Liceo D’Azeglio: nel 1897, un gruppo di studenti della terza e della quarta classe del Ginnasio, che si ritrovavano assiduamente in Piazza d’Armi per giocare a calcio, fondano niente meno che la “Juventus”. Nel 1900 la squadra esibisce la camicia rosa e la cravatta nera nel primo campionato, che affronta presentandosi con il nome Sport Club Juventus. Nell’attuale sede della squadra è tuttora conservata la panchina che un tempo si trovava in C.so Re Umberto, attorno alla quale erano soliti ritrovarsi i ragazzi fondatori della squadra.
Attraverso i registri e i documenti scritti, sono molte le storie del Liceo che per fortuna possono essere ricordate. Le vicende parlano di legami forti che si crearono tra studenti e studenti, ma anche tra scolari e professori, narrano di incontri il sabato pomeriggio, in un caffè di via Rattazzi tra il “Profe” Monti e i suoi allievi ed ex allievi, o raccontano ancora di quell’episodio che vedeva come protagonista Giancarlo Pajetta, espulso per volontà del Ministero della Cultura con l’accusa di propaganda sovversiva: tale avvenimento era stato così commentato dal professor Monti: “Fu bene una fucina di antifascisti il ‘Massimo D’Azeglio’ in quegli anni, ma non per colpa o per merito di questo e quell’Insegnante, ma così, per effetto dell’aria, del suolo, dell’ ‘ambiente’ torinese e piemontese. Quel Liceo era come una di quelle case in cui ‘ci si sente’; dove i successivi inquilini sono visitati nel sonno – e anche da desti – dagli spiriti, dalle anime.”
Altro episodio testimoniato è il rinvio a settembre della prova di italiano nella sessione estiva degli esami di maturità del 1937 di Fernanda Pivano e del compagno Primo Levi, i due scrittori si erano ritrovati a dover sostenere nuovamente la prova nella sessione autunnale. Quante cose accadono a scuola, quante se ne imparano, quante ci rimangono impresse nella memoria per sempre. Non facciamoci distrarre dalle comodità dell’ultimo momento, ricordiamoci di che cosa è importante, di ciò che ci eleva, di ciò che ci fa crescere sul serio.
Alessia Cagnotto
Alessandra Macario ci invia le immagini dello splendido foliage torinese che è possibile ammirare in questi giorni al Parco del Valentino e al Parco della Pellerina.

