“L’orto fascista” Romanzo / 9
ERNESTO MASINA
L’Orto Fascista
Romanzo
PIETRO MACCHIONE EDITORE
In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.
XXXIV
Il Commissario l’aveva accompagnata sino alla porta continuando a ripetere: “Mi tenga a sua completa disposizione. Mi faccia sapere. Io qui sono ai suoi ordini. Mi faccia sapere, per favore. E ossequi al signor Podestà. I miei rispetti a lei a al suo signor marito. E buon viaggio, buon ritorno a casa. E tu, Giovanni” disse rivolgendosi all’autista, “fa’ tutto quello che ti chiede la signora, la porti dove vuole andare. E non andare veloce, sii prudente, che non possiamo far correre alcun pericolo alla signora. Hai capito? Hai capi- to? E allora rispondi, perdio! Hai salutato la signora? Sei sempre il solito villano. Insomma signora ricordi sempre: al suo servizio e rispetti al signor Podestà.”
Aprì la porta della Fiat 1500. Aiutò Lucia a sistemarsi sul sedile posteriore sostenendola per un braccio e, dopo un rapido saluto fascista, chiuse la porta e fece cenno all’autista di partire.
Finalmente Lucia poteva rilassarsi ed iniziare a pensare quale comportamento tenere con il marito e con il Parroco.
Il Commissario sicuramente avrebbe mantenuto il segreto. Ne aveva tutto l’interesse. Il Parroco ancora più del commissario.
Tuttavia, mentre con il primo non avrebbe più avuto contatti, se non cercandoli, con il secondo le occasioni di un incontro sarebbero state continue. Che dire al marito? Dargli una preoccupazione in più, ora che ne aveva già tante dopo la morte del tedesco? E poi, in fin dei conti, quello che era successo era stato sgradevole, sgradevolissimo ma privo di conseguenze. Lei era stata violentata moralmente, ma fisicamente non le era successo nulla.
E il marito cosa avrebbe potuto fare? Chiedere il trasferimento del commissario e forse anche quello del prete? Con il rischio di dover mettere tutto in piazza, perdendo prestigio lui e onore lei.
Quello che più desiderava era arrivare a casa. Si sentiva sporca dentro e fuori. Fare un bel bagno l’avrebbe aiutata a pulirsi solo esternamente, ma era già qualcosa.
Si lasciò cullare dall’andatura della comoda auto che, lentamente e con estrema prudenza, affrontava le nume- rose curve della strada che correva lungo le sponde del lago d’Iseo.
Giunta a Pisogne, ricordò l’avventura con il Manucelli, il Segretario Provinciale che sperava di farla sua ma che si era rimediato solo una notte di febbre e di brividi. Ricordò tutti i particolari, tutti i preparativi predisposti dal Manucelli e vanificati dai sintomi di quella strana malattia che lo perseguitava. E se tutto fosse andato, in- vece, come predisposto? Adesso lei come si sentirebbe? Non volle darsi una risposta anche perché non riusciva, tra quei ricordi, a togliersi dagli occhi lo strano sguardo di quello che avrebbe potuto diventare il suo amante mentre lei lo accudiva. Lo sguardo non del fiero combattente fascista, ma piuttosto quello di un cucciolo d’uomo bisognoso di affetto ed assistenza. “Da donna di pia- cere a crocerossina” pensò e le venne da sorridere. Finalmente, superata la salita che portava al paese, la Fiat 1500 giunse a Breno. La donna indicò all’autista il per- corso per raggiungere la sua abitazione e finalmente il viaggio ebbe termine.
Lucia ringraziò Giovanni, si complimentò per la guida e lo pregò di non scendere dall’auto per non dare sospetti. Aperta la portiera se ne andò.
Usò le chiavi per entrare e quasi si scontrò col marito che stava uscendo per andare ad una delle ormai giornaliere sedute comunali.
I saluti furono frettolosi. Lucia disse di essere stanchissima e con un gran mal di testa. Il Podestà non si dichiarò in pensiero per il suo ritardo, ed essendo atteso a una riunione che sarebbe stata importantissima, le diede un breve bacio sulla guancia ed un arrivederci a domani.
Dopo un lungo bagno, Lucia si scaldò una grossa tazza di latte, sperando che le propiziasse il sonno.
Si mise a letto. Domani sarebbe stato, dopo una buona notte di riposo, il giorno per prendere le giuste decisioni.
XXXV
Pompeo era stato ordinato sacerdote a 24 anni. Tutti passati nella menzogna. Aveva iniziato il “mestiere” di prete come quello di un qualsiasi impiegato, senza una vera fede e senza seguire i buoni insegnamenti che gli erano stati impartiti. Il Vangelo era solo una guida da seguire per convenienza e per non creare problemi con i suoi superiori ai quali si rivolgeva sempre con falsa e viscida deferenza, pronto, in ogni occasione, a rispettare i loro desideri.
Aveva trovato apprezzamento presso il Vescovo che gli aveva permesso dapprima un breve periodo passato come coadiutore in uno piccolo paese della bassa bresciana, ad aiutare un vecchio Parroco un po’ rimbambito, poi, dopo la trasferta in Spagna – che aveva sollecitato come una missione pericolosa contro gli atei comunisti – di diventare Parroco.
Prima in una parrocchia di Cremona, ove aveva trascorso 10 anni, e poi, con sollievo dei propri parrocchiani che certo non lo amavano, era arrivato a Breno.
Ora, a 40 anni, cercava disperatamente di non fare un esame di coscienza per non sentirsi quello che in effetti era: un povero disgraziato. Ma gli ultimi accadimenti ave- vano sgretolato questo muro che aveva da tempo costruito tra lui e la sua coscienza. E fu così che quella notte dovette prendere atto di quanto aveva peccato. Di non aver mai amato il proprio prossimo, di non essere stato un pastore per le pecorelle che gli erano state affidate, di aver pensato solamente ai suoi egoismi e ai suoi vizi.
Si girava e rigirava nel letto che era diventato troppo duro e, gli pareva, pieno di spine. La testa in fiamme; un sudo- re, a volte caldo e a volte ghiacciato, gli bagnava tutto il corpo. Dapprima pensò che tutto dipendesse da un improvviso attacco cardiaco ma poi capì che era il rimorso ad agitare la sua mente e a provocargli queste reazioni. Pensò a Cristo, là sulla croce a pagare per i peccati degli altri, soprattutto per i suoi. Troppi! Aveva bisogno di una riconciliazione, aveva bisogno, finalmente, di aprire all’amore quel suo cuore così mala- to di presunzione, egoismo, falsità. Passò in rassegna i comandamenti e ammise di averli disubbiditi tutti, dal primo all’ultimo, più volte. Ebbe, improvvisamente, un sincero desiderio di redenzione, quasi fosse stato vera- mente fulminato da Dio che gli aveva impresso nella mente, tutte insieme e contemporaneamente, le malefatte che aveva compiuto.
Senza accorgersene si trovò inginocchiato a lato del letto a pregare. Non tanto per chiedere perdono a Dio, ma per domandare la grazia che lo rinsavisse, che gli facesse inizia- re una nuova vita. In remissione dei peccati, certo, ma soprattutto per poter dare agli altri, a tutti gli altri, l’amo- re che, come fratelli, meritavano. Mettersi al loro servizio. Passò tutta la notte a pregare e meditare, bagnando le coperte del letto, ove aveva appoggiato la testa, con le lacrime della vergogna prima, e con quelle della speranza poi. Era talmente rapito dai suoi pensieri, da questo nuovo stato di grazia che non aveva mai conosciuto, che si accorse solo dopo qualche minuto del bussare insistente alla porta della camera.
“Chi è?” chiese con amarezza dovendo abbandonare quella nuova gradita situazione.
“Sono l’Elvira, signor Parroco. Devo parlarle con urgenza. E’ successa una cosa gravissima. Devo dircela, per favore”. “Preparami un caffè, per piacere, che mi vesto e vengo subito”.
– Per piacere?- pensò l’Elvira che aveva sempre solo ricevuto ordini sgarbati dal suo Parroco. – Deve stare vera- mente male o ha perso la testa – e corse in cucina a preparare il caffè.
Don Pompeo arrivò dopo qualche minuto, spettinato, mezzo vestito e senza neppure le ciabatte.
“Oh, signor Parroco” iniziò la donna. “Mi fa piacere che stia meglio perché c’è bisogno di lei in paese. E’ successa una cosa terribile! Quelli della Muti e i todeschi questa notte hanno arrestato almeno 25 tra uomini e donne. Li hanno portati tutti nella casa del Salvetti, sa quella che c’è sulla strada per Bienno. Li hanno messi giù in cantina e li mazzano tutti se non viene fuori il colpevole della morte del todesco. In paese sono tutti terrorizzati. Anche il Podestà, mi ha detto il don Arlocchi, che tra l’altro ci vorrebbe parlare, non sa come comportarsi. Tutti spetta- no lei che quelli della Muti la rispettano e, come prete, mi scusi sacerdote, la devono stare a sentire”.
“Va bene, va bene” rispose il Parroco. “Un po’ di calma, mica si prendono 25 persone e le si ammazzano subito. Daranno un po’ di tempo… Per favore, vai dal don Ar- locchi e digli se può venire. Ma adesso che ore sono? Le sei e mezza. Vai quando finisce la messa, non disturbarlo prima che se no si spaventa ancora di più”.
Andando verso il bagno, per lavarsi, un’idea lo colpì. Dio, nella sua immensa bontà, aveva creato subito una situazione nella quale lui avrebbe potuto agire iniziando una nuova esistenza.
– Grazie, Padreterno. Te ne sono grato ma per favore gui- dami tu. Come tu sai io non ho molta esperienza nel fare le cose buone! – E, forse per la prima volta, da anni, gli venne da sorridere.
XXXVI
In paese era arrivato uno Sturmbannführer delle SS con 6 militi. Avevano requisito l’albergo Fumo, buttando fuori anche due vecchietti che da tempo vivevano a pensione.
A riceverli era stata una Benedetta tremante che aspetta- va, ancora e con grande terrore, di conoscere la sua sorte. Nella grande camera da pranzo avevano spostato i tavoli, lasciando una gran parte dello spazio per una scrivania con poltrona riservata al Comandante. Questi era un trentenne magro magro, con due baffetti alla Führer sotto un grande naso. Pochi ciuffi di capelli e occhiali con spesse lenti. Non ricordava affatto la tanta decantata razza ariana se non per la durezza dei modi, evidenziata da un frustino da cavallerizzo che teneva sempre in mano e che usava, nei momenti di maggior tensione, colpendosi il palmo aperto della mano sinistra. Stivali lucidissimi, la divisa nera sempre impeccabile e il cappello con il teschio completavano la sua immagine spietata e lugubre. Appena installatosi nell’albergo aveva fatto cercare un interprete. La scelta era caduta sulla figlia del miglior avvocato di Breno, tale Annetta Duchi che, avendo studiato per anni in Svizzera, conosceva il tedesco abbastanza bene. Era una giovane bella donna: alta, bionda con due luminosi occhi azzurri. Lei sì, l’immagine della “sacra” razza ariana. La donna, di sicura fede fascista, aveva accettato con entusiasmo quello che, più che un invito, era stato un vero e proprio reclutamento.
Attraverso Annetta aveva contattato il Comandante della locale Brigata Muti, ponendo subito in chiaro che a comandare, nella ricerca del o dei colpevoli della morte del militare tedesco, sarebbe stato lui. Volle un resoconto dettagliato di quanto era stato fatto sino ad allora e, dimostrandosi assai insoddisfatto, aveva accusato l’italiano di assoluta inefficienza, inettitudine e, quasi, di connivenza con il nemico. Chiese chi potesse essere considerato avversario del Regime sia in paese che nei dintorni.
“Voglio al più presto una lista dei sospetti: nomi, cogno- mi e indirizzi” tradusse Annetta. “Al più presto” aggiunse la donna, “vuol dire entro 5 ore”, facendo quindi se- gno al Tenente della Muti che poteva andarsene.
Convocò quindi il Maresciallo dei Carabinieri al quale contestò l’inefficienza sua e dei suoi militari che non avevano impedito a dei delinquenti comuni di essere in circolazione.
“Voi siete esonerato dall’inchiesta. Non mi fido delle vostre capacità e di quelle dei vostri uomini. Tenetevi, comunque, a mia disposizione” tradusse ancora Annetta che cominciava a prendere gusto alla posizione che rico- priva, quasi che i maltrattamenti e gli ordini li impartisse veramente lei.
Anche il Maresciallo dei Carabinieri era sistemato. Avrebbe anche convocato il Podestà facendo quindi sapere a tutti che il comando affidatogli non aveva limi- ti e che poteva agire prendendo qualsiasi decisione.
Da tutti pretendeva rispetto e ubbidienza assoluta: che questo fosse chiaro sia a Breno che in tutta la valle. Dopo qualche ora, con in mano i nominativi dei sospetti e con l’aiuto della Muti, organizzò una retata che avrebbe avuto luogo nel corso della notte successiva con la cattura di 18 uomini, che facevano parte della lista dei sospetti sovversivi, e la loro carcerazione.
Ritenendo che le carceri del paese fossero insicure e trop- po vicine al centro del paese – non adatte a coprire le urla di chi aveva programmato di interrogare sotto tortura – su indicazione del Comandante della Muti provvide alla requisizione di una vecchia casa, isolata e lontana dal paese qualche centinaio di metri, sulla strada che conduce a Bienno. La costruzione, alta due piani, presentava quattro locali per piano e delle ampie cantine ove sarebbero stati ospitati i prigionieri. Il proprietario, tale Bettino Salvetti, terrorizzato, aveva, a richiesta, consegnato immediata- mente le chiavi, mostrandosi quasi felice gli fosse data occasione di collaborare con le forze di occupazione. – Se vinceranno loro – pensò – si ricorderanno della mia collaborazione. Se vinceranno gli altri, potrò sempre dire di essere stato costretto con la forza a consegnare le chia- vi e, forse, potrò anche ricevere un piccolo rimborso per il danno subito! –
Nel corso della notte sei squadre, composte da un solda- to del gruppo comandato da Franz, da una SS e da un’appartenente alle Brigate Muti, percorsero il paese nel massimo silenzio e, al termine di un’azione, assoluta- mente ben congegnata, all’alba avevano catturato i 18 abitanti del paese presumibili collaboratori nell’uccisione del soldato tedesco e li avevano portati, imbavagliati e incappucciati, nelle cantine della casa del Salvetti. A guardia dell’improvvisata prigione due militari al piano terra e due SS munite di mitragliatore alle finestre del- l’abbaino, con l’ordine di sparare su qualsiasi persona si avvicinasse con fare sospetto o minaccioso.
L’interprete fu convocata per le 16 di quella giornata per presenziare e collaborare agli interrogatori.
XXXVII
Don Arlocchi arrivò in parrocchia tutto trafelato. Non era neppure passato dalla propria abitazione per bere il suo amato caffellatte e questo lo innervosiva un po’. Ma era preoccupato per il Parroco, che sapeva essere rientrato la sera prima da Brescia in precarie con- dizioni fisiche e, soprattutto, per quanto era avvenuto nel corso della notte.
– Diciotto persone, mamma mia! – non aveva smesso di pensare neppure celebrando la messa. – Diciotto persone, molti padri di famiglia. Li conosco tutti, tutte brave persone. Quelli giovani, a pensare, o li ho battezzati io o insieme al Parroco. Tutti bravi ragazzi. Potranno mica ucciderli. Oh Signur, oh Signur! Pensaci Tu con la tua immensa bontà. Mica lascerai che si distruggano 18 famiglie. Non è possibile, non è possibile. E poi il sangue ne chiamerebbe altro. Guarda te: da quella bravata che è costata la vita del soldato tedesco adesso si parla di 18 possibili vittime. Dove andremo a finire? Se da 1 a 18, poi quanti, quanti altri: 180, 200… no, no, Signore! Prendi me piuttosto, che sono vecchio e stanco e non ho quasi più forze per adorar- ti e servirti. Ma non lasciare che si distruggano tutte queste famiglie. Ti prego, ti prego…” “Signor Parroco, signor Parroco, ha sentito cosa è successo. Oh beato il Signore! Ma potevamo aspettarci una cosa simile? Questa è una maledizione. Non doveva mica succedere. A proposito… lei come sta, che mi hanno detto che è tornato da Brescia indisposto? Non c’ha mica una bella cera se è per quello. Cosa si è preso, una infreddatura che ha gli occhi lucidi. Se posso fare qualche cosa, me lo dica. Ma torniamo a noi. Ha sentito 18, e dicono in giro che li vogliono ammazzare tutti. Dicono per rappresaglia. Cosa possiamo fare, signor Parroco? Perché fare dobbiamo fare di sicuro qualche cosa e subito. Vero signor Parroco?” “Don Arlocchi, un po’ di calma” disse don Pompeo con il tono di voce più rassicurante possibile. “Cerchiamo di ragionare sui fatti. Per quello che so io, sono andati a prelevare dei parrocchiani scelti, probabilmente su informazione della Muti, tra quelli che ritengono i loro peg- giori nemici. Sono andati a prendere quelli che avrebbe- ro potuto o hanno partecipato all’uccisione del tedesco. Vogliono trovare notizie per prendere i colpevoli. Ci saranno, prima di arrivare ad una decisione, degli inter- rogatori, forse delle torture. Ma secondo me per ora di fucilazioni non se ne è ancora parlato. Dobbiamo trova- re una soluzione per salvarli tutti, dobbiamo cercare di ingannarli e forse… forse… una certa idea io ce l’ho. Va- da, don Arlocchi, vada e cerchi di stare più sereno possi- bile. Si fidi di me, e mi tenga informato di qualsiasi novi- tà.” Poi, quasi fosse impegnato mentalmente in altri argomenti, con un tono di voce assente continuò: “Fratello, la prego, faccia come se io fossi ancora malato. Le affido la messa delle 8 e le confessioni di tutta la giorna- ta. E preghi, preghi per me, soprattutto perché Dio mi illumini e mi faccia ragionare nel migliore dei modi. Vada, vada che, io so, c’è ancora il suo caffellatte che la aspetta. Sa… le nostre perpetue sono delle pettegole e si raccontano tutte le nostre piccole stranezze. E grazie, don Arlocchi, grazie per quello che so ha sempre fatto per me, che farà per me e per questa nostra parrocchia” e lo abbracciò, lasciandolo trasecolato.
– Quasi un testamento spirituale, mi è sembrato quasi un testamento spirituale! E poi quel “fratello”: mica gli ho mai sentito usare una parola come quella e… non vorrei sbagliarmi, l’ha pronunciata con affetto, quasi commosso. Ma cosa mi sta succedendo? Da un po’ di tempo tutte cose nuove e così strane. Oh Signur, oh Signur aiutami tu! Tutti mettono un fardello sulle mie povere spalle, ma io mica so se riuscirò a reggerlo. Anche tu Madonnina dammi una mano! E così sia. –
XXXVIII
Don Pompeo rientrò nel suo studio e si inginocchiò davanti al crocefisso. Si sentiva veramente un’altra persona. Stava vivendo quelle ore, così complicate sia per la sua situazione personale che per quella della sua comunità, con una serenità che non aveva mai conosciuto
e che non si immaginava neppure potesse esistere. Pregò a lungo, quindi uscì e si recò al centralino telefonico. Fece chiamare il numero riservato dell’Ovra che non appariva, per ovvie ragioni, sull’elenco. Chiese del commissario e, senza nessun preambolo, lo avvisò che avrebbe cercato un appuntamento con le SS per impor- tanti comunicazioni e che sarebbe stato lieto se anche lui potesse presenziare all’incontro. Lo pregava di tenersi li- bero per il pomeriggio e che più tardi gli avrebbe comunicato l’orario che avrebbe convenuto con i tedeschi.
Si recò all’albergo Fumo e, non avendo trovato alcun tede- sco, si portò al comando della locale brigata Muti. Trovò il Passera, il Comandante, e lo incaricò di far sapere urgentemente allo Sturmbannführer che voleva incontrarlo, possibilmente alle ore 14, per importanti comunicazioni. Il Passera, che si rendeva conto di aver ricevuto un incarico importante ma sapeva altrettanto bene di non capi- re una sola parola di tedesco, ritenne giusto passare dalla casa di Annetta, caricarla in macchina ed andare a cerca- re il tedesco presso la nuova casa requisita. Aveva paura dello Sturmbannführer ed evitava, se possi- bile, di incontrarlo. Giunto alla casa del Salvetti, scaricò Annetta e rimase in macchina ad attendere la risposta. Aspettò quasi un’ora e quando Annetta riapparve la trovò sconvolta ma non ebbe il coraggio di chiederne la ragione. La donna, nervosamente, gli comunicò che il te- desco aveva accettato e aspettava il Parroco alle 14 all’albergo Fumo. Quando la vettura si fermò davanti alla pro- pria abitazione, Annetta fu presa da una crisi di pianto, scese precipitosamente senza neppure salutare e si infilò di corsa nel portone.
Don Pompeo, avuta dal Passera la conferma dell’ora del- l’appuntamento, richiamò l’Ovra di Brescia e decise con il commissario di incontrarsi qualche minuto prima delle quattordici davanti all’albergo. No, non gli avrebbe dato nessuna anticipazione su quanto voleva comunica- re all’ufficiale tedesco, disse al commissario prima di interrompere la comunicazione.
Ora che aveva preso la decisione e fissato l’appuntamento con il tedesco, non poteva più tornare indietro e gli era venuta una gran fame. Si ricordò che non mangiava dalla mattina precedente e decise di far ritorno in parrocchia. Era quasi mezzogiorno e sperava che l’Elvira avesse preparato qualcosa per pranzo. Rimase deluso non trovando la donna. Aprì la credenza, si versò un bicchiere di vino, tagliò un pezzo di mascherpa, una fetta di pane e si sedette a tavola. Finì il povero pranzo con una pera che proveniva dal brolo dell’avvocato Duchi. Più che il sapore, tutte le volte che ne mangiava una, lo sorprendeva il profumo. Scrisse su un biglietto, che lasciò al centro del tavolo per l’Elvira: “Vado a riposare, svegliami alla una. Grazie”.Lasciò in bella evidenza le poche stoviglie sporche perché la cameriera capisse che aveva già mangiato e se ne andò in camera. Era proprio stanco, si stese vestito sul letto e si addormentò immediatamente.
XXXIX
Alle 13,50 il Parroco era davanti all’albergo Fumo dove era parcheggiata la Fiat 1500 dell’Ovra di Brescia. Il commissario gli fece cenno di salire e don Pompeo si accomodò sul sedile anteriore. Nessuno dei due ebbe il coraggio, dopo un frettoloso saluto, di fare riferimento agli accadimenti del giorno precedente.
Don Pompeo, che guardava davanti a sé verso il muro dell’albergo temendo di incontrare lo sguardo dell’altro, disse solamente: “Vi ringrazio di essere venuto. Ho deciso di parlare con lo Sturmbannführer perché so chi ha commesso l’attentato alla loro macchina e voglio chiudere la faccenda. Vi prego, ora andiamo, prima che io perda il coraggio.” Ciò detto scese dalla vettura, e, seguito da un commissario sempre più perplesso, attraversò il breve tratto di piazza che li separava dall’ingresso dell’albergo e vi entrò. Nella vecchia sala da pranzo trovarono l’ufficiale tedesco, l’Hauptmann Reserve Franz, due SS e, con grande mera- viglia di Pompeo, Annetta.Le presentazioni furono veloci. Lo Sturmbannführer guardò male il commissario ma non avanzò alcuna obiezione per la sua presenza. Vi fu un minuto di imbarazza- to silenzio e poi il prete prese la parola.“Scusi se mi permetto, ma voi siete cristiano?”“Certo” si affrettò a tradurre la risposta Annetta. “Pro-fondamente cristiano, al contrario di tanti italiani che usano il cristianesimo solo per salvaguardare i propri interessi”.
– Cominciamo bene – pensò il prete ma fece finta di non aver capito l’offesa.“Ieri sera” riprese don Pompeo, “mentre ero in confessionale ho ricevuto la visita di due uomini, padre e figlio pro- venienti da un paese qui vicino. Si sono dichiarati colpe- voli dell’attentato e della morte del vostro soldato. Hanno affermato che questi aveva messo incinta la loro figlia e sorella ma non era disposto ad ammetterlo. La sera dell’attentato il vostro soldato aveva dato appuntamento alla ragazza sull’auto, perché voleva appagare, ancora una volta, i suoi turpi desideri sessuali. I due uomini avevano per- so il lume della ragione e, usando dei candelotti di dina- mite, avevano fatto saltare in aria l’auto ed ammazzato l’odiato seduttore della ragazza. Questo è tutto quello che posso raccontare. Mi è sembrato giusto mettervi al corrente dell’accaduto perché l’uccisione non è stata un delitto politico, ma solo l’opera di un padre e di un fratello offe- si nella loro dignità. Una cosa terribile e obbrobriosa ma, comunque, un fatto strettamente personale. Ho inviato uno scritto, riportando quanto vi ho raccontato, ai miei superiori, ritenendo doveroso sapessero di questa mia azione e decidessero se e quanto ho sbagliato. Sono pronto a subirne le conseguenze”.
Nella stanza cadde un profondo silenzio, interrotto solo dall’ansimante respiro dello Sturmbannführer che cresceva sia per rumorosità che per velocità.
Franz non credeva una parola della versione data dal prete ma si sentì improvvisamente sollevato dal fatto che non avrebbe dovuto dare spiegazioni quando, prima o poi, gli avrebbero chiesto come mai il suo compagno di stanza fosse andato, munito di coperta, a passa- re la notte nell’auto.
Anche il commissario non credeva una parola della versione data dal prete, ma si sentì improvvisamente sollevato dal fatto che l’attentato, da strettamente politico, si stesse sgonfiando finendo, all’italiana, in una questione di sesso.
La stessa Annetta non credeva una parola della versione data dal prete – chi voleva fare sesso in valle, dove di sesso se ne intendevano, essendo uno dei pochi svaghi possibili, non era sicuramente costretto a farlo in macchina potendo sempre trovare ospitalità da amici o amiche consenzienti – ma si sentì improvvisamente coinvolta in una storia così drammatica ma così romantica.
L’ufficiale delle SS, che a causa della respirazione forzata cominciava ad avere le labbra imbiancate di saliva schiumosa, riuscì a riprendere un poco di calma. Con voce anonima disse:
“I nomi dei due! Voglio i nomi dei due. Adesso, subito!” Terminò la frase urlando e alzandosi di scatto dalla poltrona sulla quale era seduto. Nell’alzarsi perse il frustino che aveva in grembo e, raccoltolo, iniziò a frustarsi violentemente il palmo della mano sinistra.
“Voi avete detto di essere cristiano, signor Sturmbann- führer, e quindi sapete che un sacerdote non può dire a nessuno il nome della persona che, in confessionale, gli ha rivelato un’azione peccaminosa compiuta” rispose il sacerdote che, dopo il suo, sperava credibile racconto, aveva riacquistato una serena calma. “Si dice il peccato ma non il peccatore. Come si suol dire” continuò con tono quasi scherzoso. Il commissario che aveva raccolto notizie dal prete sui comportamenti dei suoi concittadini con nome, cogno- me ed indirizzo di chi li aveva compiuti, quasi scoppiò a ridere, ma riuscì a trattenersi. – Se il tedesco ci crede, per me va benissimo – pensò.
“Questo lo dite ora, prete. Ma troveremo, e come lo troveremo, il sistema per farvi parlare. Per ora vi dichiaro in arresto e poi vedremo”. Si rivolse quindi, con un ringhio, alle due SS presenti che si avventarono sul povero don Pompeo e, presolo per le braccia, lo trascinarono fuori dal- l’albergo. Caricatolo in macchina lo trasportarono d’urgenza nella casa ove erano stati imprigionati i 18 cittadini. “Non voglio che si sappia nulla di quanto abbiamo sentito in questa stanza, traducete!” si rivolse ad Annetta. Quindi, sempre infierendo sul palmo della sua mano sinistra abbandonò, a lunghi passi, la stanza.
(continua…)
LIBRI / La luna e i falò è uno dei capolavori della letteratura del ‘900, uno dei libri di formazione per intere generazioni che, attraverso la narrazione dell’Italia contadina e della società tra le due guerre mondiali e la Resistenza, hanno scoperto il senso e il valore del ritorno, della memoria e della ricerca di sé stessi.
La luna e i falò, grazie al bellissimo adattamento in graphic novel a opera di Marino Magliani e Marco D’Aponte ( edizioni Tunué,2021) ci viene riproposto attraverso le immagini e i testi dei due autori ( che per Tunué avevano già pubblicato nel 2014 il romanzo a fumetti Sostiene Pereira, reinterpretando il famoso libro di Antonio Tabucchi. Molto bella e interessante anche la prefazione della giovane scrittrice torinese Marta Barone che arricchisce e completa il volume. Com’è noto il protagonista, Anguilla, all’indomani della Liberazione torna al suo paese nelle langhe dopo molti anni trascorsi in America e, in compagnia dell’amico Nuto, ripercorre i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza in un viaggio nel tempo alla ricerca di antiche e sofferte radici. Le immagini delle colline illuminate dal chiarore della luna, del casotto sulla Gaminella e della strada che va verso Canelli, di Santo Stefano Belbo e della festa della Madonna d’agosto prendono vita e colore nelle pagine di questo graphic novel dove tra i vigneti e i campi si incrociano i destini, con l’infanzia che assume il volto di Cinto- il bambino zoppo e solo – e la saggezza quello di Nuto. La luna e i falò è il viaggio di Pavese alle origini, la ricerca di se stesso. E’ l’ultimo romanzo, il suo testamento letterario. Scrisse, a proposito: “E’ il libro che mi portavo dentro da più tempo e che ho più goduto a scrivere. Tanto che credo che per un pezzo – forse sempre – non farò più altro. Non conviene tentare troppo gli dèì”. Gli autori dell’adattamento a fumetti dell’ultimo romanzo edito in vita di Pavese, come viene sottolineato dalla casa editrice, “compiono un’operazione molto interessante. Trattandosi di un romanzo in moltissime parti autobiografico integrano all’interno della storia di Anguilla la storia stessa di Pavese, alternando le due realtà con tavole a colori e in bianco e nero”. La luna e i falò, scritto tra il 18 settembre e il 9 novembre del 1949 venne pubblicato nell’aprile del 1950. Pochi mesi dopo, il 27 agosto, Cesare Pavese sceglieva di terminare la propria esistenza “nella stanza d’un albergo nei pressi della stazione; volendo morire nella città che gli apparteneva come un forestiero” , come scrisse Natalia Ginzburg. Sul comodino della stanza 346 dell’hotel Roma di piazza Carlo Felice a Torino era posata una copia dei “Dialoghi con Leucò” su cui lo scrittore aveva lasciato una raccomandazione “Non fate troppi pettegolezzi”, un epitaffio che invitava il mondo a rispettare la sua scelta di andarsene prematuramente e di farlo in silenzio, in punta dei piedi, con quel riserbo tutto piemontese che ha sempre contraddistinto la sua vita. A 71 anni dalla sua scomparsa i messaggi e i valori che le pagine dei romanzi e dei racconti di Pavese ci trasmettono continuano a essere attuali nella loro straordinaria semplicità e immediatezza, a partire da quello del profondo legame con la terra dove si nasce, quel legame che non si spezza mai e che ciascuno di noi porta dentro di sé perché “avere un paese vuol dire non essere soli sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Perché avere un paese, avere delle radici, un luogo al quale aggrappare i propri pensieri, nel quale rifugiarsi anche nei momenti più difficili come quello che abbiamo vissuto, come quello che stiamo vivendo, significa sapere di appartenere a una comunità con la quale potremo continuare a lottare. Cesare Pavese ha amato molto il Piemonte, le Langhe, le grosse colline nelle quali ambientò i suoi romanzi più belli, trasportando il lettore tra borghi e vigneti, falò e sentieri, tra la sua gente. Anche il graphic novel di Marino Magliani e Marco D’Aponte è un’opera che aiuta a riscoprire uno degli interpreti più rilevanti della letteratura del Novecento. La lapide posta sulla tomba che custodisce i resti mortali del poeta, trasferiti dal cimitero monumentale di Torino al camposanto di Santo Stefano Belbo nel settembre del 2002, riporta queste parole “Ho dato poesia agli uomini”, una frase struggente che testimonia la forza e l’immortalità dell’arte.
Marco Travaglini
LIBRI / Nel volume di Mattia Rossi
Ezra Pound, poeta e critico americano, che visse a lungo in Italia (e vi morì nel 1972 a Venezia) è conosciuto soprattutto per la sua opera letteraria e per la sua ammirazione per il fascismo e Benito Mussolini. Quasi sconosciuto ai più, invece, è il rapporto che ebbe con la musica. ‘Ezra Pound e la musica – Da Omero a Beethoven’, libro edito per i tipi di Eclettica Edizioni nella collana Secolo Breve di Mattia Rossi ha l’indubbio merito di riscoprire questo legame che per l’autore americano non fu secondario, anzi per Pound il rapporto tra la poesia e la musica era fondamentale ed irrinunciabile. La prima riga del breve saggio poundiano, ‘Il verso libero ed Arnold Dolmetsch’ del 1917, che Rossi riporta integralmente, è emblematica: “La poesia è una disposizione di parole disposte in musica’. Nell’excursus di questo rapporto tra le due arti, che durerà per tutta la vita dello scrittore, vengono approfondite le varie fasi di approccio alla Musa, dallo studio della musica sacra, alle recensioni di Pound come critico musicale prima, come saggista musicale poi, alle sue composizioni, all’organizzazione dei concerti a Rapallo, con gli ‘Amici del Tigullio’, all’importante e decisivo ruolo avuto nella riscoperta di Vivaldi. E sullo sfondo c’è la figura di Olga Rudge, violinista, molto amata dal poeta (che gli diede una figlia, Mary, tutt’oggi vivente e custode della memoria del padre). Il libro, che si concentra esclusivamente sulla figura di Pound nel suo rapporto con la musica, tralasciando ogni altro aspetto, è ricco di riferimenti alla cultura italiana ed internazionale del Novecento e costituisce un ottimo stimolo di approfondimento anche per chi non dotto o profondo conoscitore del mondo musicale. Mattia Rossi, in questo scritto, unisce la capacità comunicativa diretta propria del giornalista con la conoscenza della materia del critico musicale. Ha, infatti pubblicato studi ed articoli specialistici sul canto gregoriano, sulla musica trobadorica, sulla musica nella Commedia di Dante in diverse testate nazionali ed internazionali.
Massimo Iaretti
Torino tra architettura e pittura. Giuseppe Penone
Torino tra architettura e pittura
1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)
9) Giuseppe Penone (1947-)
La verità è che con l’inizio della bella stagione in classe non ci resisterebbe nessuno, né gli allievi, né tanto meno gli insegnanti. La primavera è tutta una poesia, il sole tiepido penetra attraverso le finestre e invade le aule, il venticello che al mattino è ancora freddo si fa piacevole brezza dalla tarda mattinata in poi, i colori della natura si accendono e tutto diventa un irresistibile richiamo per uscire all’aria aperta. Inutile dirlo, il ritorno di Persefone scuote gli animi degli studenti esattamente come il gasatore infervora le molecole dell’acqua e la rende frizzante; gli scolari diventano sensibilissime palline da ping-pong, guizzano tra i banchi appena trovano una scusa sostenibile e ormai il cambio d’ora non ha nulla da invidiare all’intervallo. È come se il mondo fuori emettesse dei richiami a ultrasuoni, che entrano nelle nostre menti impercettibilmente: uscire, uscire, uscire…
Ma è proprio nelle situazioni d’emergenza che vengono “le idee luminose”. Così ho pensato di trasformare questo irrefrenabile sentire primaverile in una riflessione costruttiva riguardo al rapporto “uomo-natura”. Certo tale titolazione è a dir poco vasta e si presta a diramarsi in diversi ambiti, dalla letteratura all’arte all’educazione civica, si può riflettere altresì sull’importanza dell’ecologia o su quanto l’ambiente che ci circonda influisca sul nostro stato mentale.
Le considerazioni sono tantissime e i ragazzi, quando si tratta di argomenti che li interessano sul serio, si dimostrano motivati oratori.
Da un punto di vista artistico-letterario si può affermare che l’argomento “uomo-natura” è antico come il mondo. Agli albori del tempo, in epoca preistorica, la condizione naturale e ambientale è aspetto costitutivo delle primissime pratiche artistiche, le pitture rupestri, ad esempio, dimostrano come l’uomo delle caverne sia riuscito a tramutare la mera materialità in manifestazione creativa, con lo scopo di sondare ciò che lo circondava.
Non solo, si pensi ai miti classici e a quanto la natura sia stata fonte d’ispirazione per aedi e filosofi; la civiltà greca “in primis”, attraverso la “cosmogonia”, tramuta gli Dei in elementi della natura, così la Terra diventa Gea, il mare Poseidone, il vento Eolo e via discorrendo.
Già solo con questa più che semplificata premessa si comprende che l’argomento è sconfinato e fitto di diramazioni e incisi.
Proviamo ora a restringere leggermente il campo e focalizziamo l’attenzione sull’ambito iconografico. Con l’epoca rinascimentale il paesaggio – e dunque la natura- acquista una sua propria importanza, lo sfondo diventa ambientazione scenografica, gli elementi raffigurati si fanno sempre più realistici e dettagliati e si caricano di significati simbolici che concorrono alla narrazione del soggetto scelto. Giusto per proporre un esempio concreto, per Leonardo da Vinci (1452-1519), uomo rinascimentale per eccellenza -su cui non provo nemmeno a dilungarmi in questo contesto perché ne verrebbe fuori un inciso chilometrico- la natura è un costante oggetto d’indagine; per l’artista lombardo l’ambiente va studiato e raffigurato con attenzione, esso ha la stessa importanza delle figure che ricoprono il ruolo di protagoniste, così come si evince dalla “Vergine delle Rocce” (1483–1485), opera nella quale la vegetazione è raffigurata con precisione scientifica, i fiori e le piante paiono illustrazioni botaniche e la resa dell’atmosfera confluisce nel risultato ultimo dell’aspetto delle figure, non più nette e contornate da una linea scura, ma sfumate, attraverso un sapiente uso della colorazione e della luce.
Con il trascorrere dei secoli la rappresentazione dell’ambiente acquista sempre più importanza, nel Seicento nasce il genere del paesaggio, nel Settecento invece si diffondono nuove correnti pittoriche quali il “vedutismo” e il “paesaggismo”. È però con il Romanticismo che il contesto naturale si afferma definitivamente come soggetto autonomo delle opere d’arte. A caratterizzare la poetica romantica vi sono due concetti principali: il “sublime” e il “pittoresco”. Entrambe le tematiche trovano la loro espressione nella natura e nel suo duplice aspetto, da un lato “locus amoenus” virgiliano, dall’altro manifestazione spettacolare ma spaventosa, “l’orrido che affascina” di Foscolo e Leopardi. I massimi esponenti del Romanticismo sono gli inglesi Turner e Constable e il tedesco Caspar David Friedrich. Questi pittori indagano in maniera simbolica il rapporto “uomo-natura”, arrivando però a conclusioni molto differenti, per Constable l’ambiente naturale è rassicurante, fonte di religiosità e tranquillità, al contrario per Friedrich e Turner la natura è qualcosa di irrefrenabile, devastante, stupefacente, che pone l’essere umano di fronte ai propri limiti. Una delle tele che meglio esprime il sentire dell’artista tedesco è “Il mare di ghiaccio” (1823–1824), in cui è raffigurata una nave che soccombe sotto la pressante e inesorabile forza delle calotte polari che dominano la scena e si ergono a protagoniste del dipinto.
Il Novecento si pone sempre come discorso a parte, le due guerre fanno sì che gli artisti sviluppino un’ottica pessimistica e disillusa, anche nei confronti della natura, non più confortevole ma maligna. Questo sentimento di totale scoramento sarà alla base dei filoni letterari della distopia e della fantascienza, particolarmente apprezzati negli anni Settanta. Nessuna corrente artistica però si è incentrata sul rapporto “uomo-natura” quanto la “Land Art”. Siamo negli anni Sessanta e in ambito artistico nasce un modo nuovo di affrontare l’argomento: gli artisti non si limitano ad illustrare o dipingere l’ambiente, essi agiscono direttamente sulla natura e sul territorio, creando opere altamente impattanti, caratterizzate dalla precarietà dell’essere e continuativamente soggette alle variazioni climatiche. Altra peculiarità di queste creazioni è quella di non poter essere viste nella loro interezza con un semplice sguardo, è necessaria infatti una prospettiva aerea o un elevato luogo d’osservazione per osservarle completamente, poiché si tratta in genere di opere enormi, che si estendono per lunghissimi tratti di territorio.
Ha eseguito anche lavori inscrivibili al settore della “Land Art” l’artista di cui vorrei parlarvi oggi nello specifico, personaggio parimenti conosciuto come “artista degli alberi”, la cui ricerca è tutta sviluppata intorno alla tematica “uomo-natura”.
Si tratta di Giuseppe Penone (1947-), originario di Garessio, un non troppo grande comune piemontese, in provincia di Cuneo. Penone si forma a Torino presso l’Accademia Albertina di Belle Arti, dove conosce Giovanni Anselmo (934)-) e Michelangelo Pistoletto (1933-), con i quali, a partire dal 1967, entra a far parte del movimento dell’ “Arte povera”.
L’anno successivo, nel 1968, espone con successo alcune sue sculture al “Deposito d’Arte Presente”; i suoi lavori sono realizzati con materiali poco convenzionali quali piombo, rame, cera, pece, legno, in essi è implicata l’azione naturale degli elementi, come esemplifica “Scala d’acqua: corda, pioggia, sole”.
L’artista è da sempre interessato a sondare le possibilità che ha l’uomo di interagire con la natura circostante, in tal senso sono celebri gli interventi che porta avanti nei boschi di Garessio, con il preciso scopo di intervenire nel processo di crescita degli alberi (“Alpi marittime”, 1968). In questa situazione l’artista decide di “lasciare un segno” del suo passaggio ed esegue dei calchi realistici delle proprie mani e braccia, dopodiché li installa su alcuni piccoli tronchi. Con il passare del tempo gli alberi crescono, ma tale crescita è sensibilmente e inevitabilmente modificata dalla presenza degli arti bronzei di Penone, che stringono e affondano nella corteccia come corpi estranei artificiali di cui la pianta non può liberarsi.
L’arte di Penone non è univoca, egli ricorre anche alla “performance”, alla “body art” e all’ “arte ambientale”, ma se possono cambiare le modalità d’azione, rimane invariata la sua prerogativa di studiare e approfondire il rapporto “uomo-natura”, sotto forma di un costante dialogo complesso tra “io e mondo”. Alla tematica ambientale fanno riferimento alcune sue opere che si avvicinano alla poetica della “Land Art”, come i lavori che egli esegue per le personali al Kunstmuseum di Lucerna (1977), al Museum of Modern Art di New York (1981) o al Musée d’art moderne de la Ville di Parigi (1984) o ancora ai grandi alberi in bronzo destinati ad alcuni spazi pubblici come il “Pozzo di Münster” del 1987, il “Faggio di Otterloo” (1988), l’“Albero delle vocali” inaugurato nel 2000 alle Tuileries di Parigi o l’“Elevazione” a Rotterdam del 2000.
Alla base delle creazioni di Penone vi è l’idea che la scultura non sia un’operazione legata alla vista, bensì al tatto; l’artista stesso, infatti, mentre scolpisce, aderisce e si immerge nel materiale dell’oggetto che sta lavorando e tale aderenza comporta dei cambiamenti nell’oggetto stesso. A sostegno di tale tesi, Penone riporta questo esempio: “Se noi prendiamo in mano una tazzina, è questa tazzina ad essere una scultura. Tuttavia nel momento stesso in cui la nostra mano afferra la tazzina, essa prende la forma di quest’ultima. Quindi possiamo affermare che solamente in quel momento la mano può essere considerata una scultura”.
Da qui nasce la riflessione che con l’impronta di una mano si possa intervenire sulla crescita di un albero: l’idea si concretizza e nascono i vari calchi in bronzo e acciaio che entrano in contatto diretto con i tronchi e diventano specchio della relazione “uomo-natura”, “io-mondo” che caratterizza tutta la ricerca artistica di Penone. Da questa particolare visione e da questa peculiare tipologia di intervento artistico si sviluppa il processo che lo porta a studiare le prerogative proprie della materia e insite all’interno di un albero.
Tra i lavori più conosciuti vi sono le numerose versioni di “Alberi”. Si tratta di travi di legno di diverse lunghezze che l’artista ha pazientemente intagliato e scavato con lo scopo di mettere in evidenza, all’interno della trave stessa, la forma naturale dell’albero. Lo scavo deve avere una precisa profondità, in relazione ad uno degli anelli che corrisponde all’età della pianta, la quale riemerge dal legno, più giovane e con i rami, individuabili grazie a nodi. L’altra parte della trave però viene lasciata intatta, sia per mostrare l’intervento dell’artista, sia lo sviluppo naturale della crescita dell’albero.
Dagli anni Ottanta in poi Penone si dedica a elaborare sculture in bronzo, che sono in realtà calchi di parti di alberi, nelle quali spesso inserisce elementi vegetali viventi. A questa categoria appartiene lo spettacolare “Giardino delle sculture fluide” (2003-2007) realizzato al parco della Venaria Reale.
Un’altra opera decisamente interessante si trova a Rivoli, presso il Museo di Arte Contemporanea. Si tratta dell’installazione “Soffi”, in cui l’artista indaga il momento dell’inspirazione. L’osservatore si trova di fronte a un ambiente completamente rivestito di foglie di alloro profumate, al centro di tale ambientazione, posizionato sulla parete centrale, è visibile un polmone in bronzo dorato. La scultura quindi entra nel corpo di noi visitatori, nel momento stesso in cui respiriamo e inaliamo gli odori: attraverso l’azione del respirare l’artista pone delle riflessioni sui confini dello spazio e della forma e si conferma interessato non solo alla rappresentazione dell’oggetto quanto più all’evocazione di una suggestiva immagine poetica.
Non posso avviarmi a concludere senza citare un’altra scultura, presente proprio a Torino, precisamente di fronte all’ingresso della GAM (Galleria d’Arte Moderna). Si tratta di “In limine”, opera ideata con lo scopo di creare un segno che indichi il passaggio dalla spazialità della Città a quella sacrale del Museo. È un blocco di marmo, materia che proviene dal sottosuolo, che sostiene un albero, cresciuto a contatto con la pietra, sradicato e fuso in bronzo, posizionato di traverso, apparentemente instabile. Le parti più volatili dell’albero, le sue foglie, si protendono a cercare la luce e attraverso il processo della fotosintesi si oppongono alla forza di gravità. Lo stesso Penone così commenta l’installazione: “La vita segreta della materia risiede nel movimento dei fluidi. Le vene sono la traccia di un’esistenza che si sviluppa nel corpo delle cose, appare nel marmo, nelle radici, nella scorza, nei rami, nelle foglie e nell’uomo”.
Cari lettori, sinceramente non so quanto mi abbiate prestato attenzione, ma non vi rimprovererò, capisco che la bella stagione porti via la concentrazione e induca a pensare alle tanto agognate vacanze. Soltanto, fingendo che il bianco del foglio che segna la fine del pezzo possa metaforicamente essere paragonato al suono della campanella, e possa dunque destarvi dai vostri pensieri leggeri, mi permetto un ultimo commento: guardatevi sempre intorno con stupore, la vera arte sta nell’imparare a meravigliarsi sempre.
Alessia Cagnotto
Rubrica a cura di Progesia Management Lab
Inserito nel 2020 tra i 10 top manager di BusinessPerson of the Year nella categoria Food stilata dal magazine Fortune, Alberto Bertone è un imprenditore lungimirante. Fondatore, Presidente e Amministratore Delegato di Acqua Sant’Anna Spa, anche su consiglio del padre, da giovane diversifica il business nel settore dell’edilizia residenziale e industriale – tradizione di famiglia – per cimentarsi in quello delle acque minerali e nel 1996 fonda l’azienda Acqua Sant’Anna.
Con 20 milioni di bottiglie prodotte ogni giorno, oggi il marchio è leader in un mercato composto da circa 300 etichette e dominato dalle multinazionali, inoltre è la terza realtà imprenditoriale del Piemonte. Oltre alla leggerezza e alle proprietà organolettiche di quest’acqua che scorre nella Valle Stura, a Sant’Anna di Vinadio (CN), una delle leve del successo dell’azienda è l’innovazione. Da subito Bertone ha investito nella tecnologia automatizzando le linee di produzione; attento all’ambiente e alle tematiche green prima che diventassero una moda ha scelto una logistica che si avvale del trasporto su nave e su rotaia, più efficiente e a minore impatto ambientale, e la movimentazione delle merci avviene con dei robot a guida laser elettrici. Anche dal punto di vista del marketing e della comunicazione Sant’Anna è stata un precursore ed ha lanciato sia una campagna pubblicitaria con l’immagine del neonato, sinonimo di qualità superiore, sia una comparativa in cui confrontava le caratteristiche della sua acqua con quelle dei competitor. In 25 anni di attività l’azienda del beverage ha investito ingenti somme nella ricerca raggiungendo ottimi risultati. Ma l’attenzione non finisce qui: lo stabilimento è stato ristrutturato con materiali ecocompatibili, il calore dei macchinari di produzione è impiegato per il riscaldamento del sito e degli uffici e i camion usati sono alimentati a LNG, i migliori in termini di autotrasporto sostenibile, abbattimento delle emissioni in atmosfera e dal punto di vista acustico.
Ripercorriamo la storia e i successi di Acqua Sant’Anna?
“Il mio è stato un inizio quasi casuale. Appartenendo ad una famiglia di costruttori lavoravo con mio padre e avevo fatto diverse operazioni immobiliari, ma del mondo dell’acqua non sapevo nulla. Poiché volevamo diversificare abbiamo deciso di entrare nel settore e abbiamo scelto l’acqua delle Fonti di Vinadio. Abbiamo chiesto la concessione, aperto lo stabilimento e siamo partiti. I primi due anni sono stati complicati: abbiamo costruito il capannone e fatto gli impianti, ma al momento di iniziare non avevamo vendite. Dopo un primo momento in cui con mio padre abbiamo pensato di cedere le quote ai soci, lui mi disse che se fosse stato giovane non avrebbe mollato. Ha saputo pungermi nel vivo e così ho proseguito. Avevo 29 anni e giravo l’Italia in macchina per far conoscere il prodotto fino a quando dopo circa 10 anni è diventato leader del mercato.
Un passo decisivo è stata la scelta di far analizzare la nostra acqua all’ospedale Sant’Anna di Torino, che ha constatato che i bimbi che la bevevano avevano dei benefici. Abbiamo così ottenuto il certificato di acqua per bambini, un attestato di qualità superiore.
Crescendo molto negli anni abbiamo deciso di diversificare e il primo lancio è stato SanTHE’ Sant’Anna, oggi tra il terzo e il quarto posto in Italia con una crescita del 30% all’anno. Nel 2019 abbiamo invece lanciato la linea Sant’Anna Fruity Touch al limone, ai frutti rossi e al lime, zenzero e guaranà: nel mondo questo tipo di prodotto ha grande successo, ma in Italia mancava e stiamo facendo promozione per farla crescere”.
Tecnologia, innovazione e sostenibilità sono le vostre keywords?
“Ogni azienda che guarda al futuro deve pensare a questi temi. La tecnologia serve per essere efficienti, l’innovazione coincide con il modificarsi per fare sempre meglio, anche perché la competizione è sempre più forte, e la sostenibilità è fondamentale per tutti noi che abitiamo su questo pianeta. La tecnologia è stata determinante perché man mano che crescevamo dovevamo reperire personale, ma nella nostra zona era difficile e così abbiamo trasformato i punti di debolezza in punti di forza robotizzando tutta l’azienda. In questo modo abbiamo raggiunto costi bassi in termini di mano d’opera ed un’efficienza superiore: un plus rispetto ai concorrenti. Ci tengo però a sottolineare che il personale che lavora con noi è del territorio e vive l’azienda come fosse propria. Siamo molto uniti e ci sentiamo una grande famiglia. L’innovazione, ma anche la capacità di avere un pensiero divergente, ci ha permesso inoltre di ovviare ad un altro problema: Vinadio è lontano dalle principali città italiane e per la logistica abbiamo puntato sui treni e sulle navi riuscendo così a distribuire i nostri prodotti ad un costo basso. Tutto questo lavoro, portato avanti con costanza, ci ha permesso di diventare leader in Italia e siamo orgogliosi del risultato raggiunto, anche se ovviamente non ci fermiamo”.
Ci presenta Bio Bottle, la bottiglia biodegradabile?
“È realizzata con un biopolimero di origine vegetale che non contiene petrolio. Siamo stati il primo marchio al mondo a lanciare nel mass market una bottiglia di acqua minerale da 1,5 litri biodegradabile e compostabile nei siti di compostaggio che in 80 giorni torna a far parte della natura. Abbiamo creduto molto in questo progetto, anche se le persone non si dimostrano così interessate. Purtroppo si parla molto di ecosostenibilità, ma al lato pratico si agisce poco”.
Anche Sant’Anna Beauty è un’idea innovativa. Di cosa si tratta?
“Si tratta di acque funzionali in pratiche dosi pronte da bere, studiate nei nostri laboratori, che oltre a dissetare fanno bene alla pelle. C’è quella che contiene acido ialuronico e zinco e quella al collagene idrolizzato e zinco. L’acido ialuronico si trova naturalmente nel nostro organismo e preserva l’idratazione dei tessuti e la lubrificazione delle articolazioni, ma negli anni diminuisce drasticamente, mentre lo zinco protegge le cellule dallo stress ossidativo e contribuisce al mantenimento dello stato fisiologico della pelle. Bere quest’acqua fa bene a tutti, ma soprattutto a chi non è più giovane. Il collagene invece è la più importante proteina strutturale della pelle perché garantisce tono ed elasticità. Da giovani la sintesi del collagene è maggiore della sua degradazione e quindi la pelle rimane liscia. L’avanzare dell’età, le cattive abitudini e gli inquinanti ambientali portano ad una maggiore distruzione del collagene con la conseguente formazione di rughe. Studi scientifici hanno dimostrato che l’assunzione del collagene idrolizzato ha un effetto benefico sull’aspetto e sull’elasticità della pelle, in particolare sulla riduzione delle rughe e sulla formazione delle linee sottili”.
Di recente ha proposto una cauzione sulle bottiglie in plastica per incentivare il riciclo. Approfondiamo il tema?
“Nella mia vita ho fatto alcune battaglie sul tema della sostenibilità e l’ultima di queste è legata al riciclo della plastica. Dobbiamo fare qualcosa di concreto per salvaguardare l’ambiente e a mio parere toccare nel portafoglio i consumatori è sicuramente una leva. Per questo vorrei convincere il Governo a far applicare una cauzione sull’acquisto di qualsiasi tipo di contenitore alimentare per evitare di trovare rifiuti per terra. Se applichiamo un piccolo costo aggiuntivo di 5-10 centesimi su tutti i contenitori, le persone saranno incentivate a restituirli per recuperare la cauzione oppure a raccogliere quelli dispersi per portarli nei centri di raccolta che possono essere posizionati nei centri commerciali, nei parcheggi o nei grossi condomini, favorendo così il corretto riciclo dei diversi imballaggi. Questo metodo è già in uso in alcuni paesi del mondo e ha raggiunto ottimi risultati”.
IL FOCUS DI PROGESIA
La storia dell’Acqua Sant’Anna inizia negli anni ’90, quando la famiglia Bertone decide di portare sulle tavole degli italiani un’acqua minerale che nasce a circa 2000 mt di altezza nelle valli sopra Vinadio, il cui nome è legato al Santuario Sant’Anna, protettrice delle mamme, luogo di culto cristiano più alto d’Europa, alla cui fonte i pellegrini sono soliti dissetarsi.
Il successo dell’azienda, oltre alle qualità intrinseche del prodotto, dovute alla sua origine – l’altitudine delle sorgenti, la purezza dell’aria, la conformazione delle rocce granitiche che filtrano naturalmente l’acqua – si è consolidato grazie ad alcune importanti iniziative di marketing, innovative per il momento storico in cui sono nate.
Quando l’Acqua Sant’Anna ottiene la certificazione di qualità da parte dell’ospedale Sant’Anna di Torino come acqua particolarmente adatta per i bambini, l’azienda decide di fare leva su questo argomento commerciale e così che per la prima volta su una bottiglia di acqua minerale compare la foto di un neonato: una semplice immagine che consente di far capire immediatamente all’acquirente il “valore” del prodotto, anche senza leggere in modo approfondito l’etichetta.
Un altro strumento di marketing che l’azienda ha iniziato fin da subito ad utilizzare con successo è la pubblicità comparativa, che consiste nel mettere a confronto in modo diretto le caratteristiche dei propri prodotti con quelli dei concorrenti.
Questo tipo di pubblicità è molto usato negli Stati Uniti, mentre è stato sempre poco utilizzato in Italia e Acqua Sant’Anna è stato uno dei primi marchi italiani a farne uso, facendo leva su alcune caratteristiche oggettive di qualità, per ottenere un vantaggio rispetto ai principali competitor.
In particolare sono state utilizzate delle tabelle per mettere a confronto alcuni dati chimico-fisici delle acque minerali dai quali emergeva che Sant’Anna aveva il residuo fisso più basso di tutte le concorrenti e anche la presenza di sodio, di nitrati e la durezza erano inferiori.
Quest’iniziativa ha dato un importante vantaggio competitivo ad Acqua Sant’Anna, ma ha anche avuto il merito di insegnare ai consumatori a leggere con attenzione le etichette sulle bottiglie, aumentando la consapevolezza dell’importanza di conoscere le caratteristiche chimiche e fisiche dell’acqua, per orientarsi nella scelta tra i diversi prodotti presenti sul mercato.
Coordinamento e Focus: Carole Allamandi
Intervista: Barbara Odetto
“L’orto fascista” Romanzo / 8
ERNESTO MASINA
L’Orto Fascista
Romanzo
PIETRO MACCHIONE EDITORE
In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.
XXIX
Il Podestà aveva convocato la Consulta Municipale per le 8 e 30. I sei membri erano stati svegliati all’alba dal vigile del comune che era andato a casa loro a consegna-
re la convocazione. Il Bertoli voleva consultarsi non sapendo bene come comportarsi in questa drammatica occasione. Aveva pen-sato di esporre la bandiera a mezz’asta al balcone del municipio, ma non sapeva se questa soluzione sarebbe apparsa troppo servile nei riguardi dei tedeschi. In fin dei conti si era in guerra e la morte di un soldato era, pur- troppo, cosa normale. Neppure il Segretario del Fascio aveva, almeno per ora, avanzato richieste in tal senso. Era deciso ad effettuare, insieme ai suoi aiutanti, una visita al Comandante della guarnigione tedesca per porgere le sue condoglianze e per mettersi a disposizione per i funerali e il trasporto della salma, o meglio di quello che rimaneva di Bernd, che era stata temporaneamente portata nella camera mortuaria dell’ospedale. Era molto timoroso per la possibile reazione che Franz avrebbe potuto avere nei suoi confronti e, per questo, il fatto di presentarsi in gruppo, poteva rendere la cosa meno imbarazzante. Non che temesse di essere insultato, ma che il Comandante potesse avere frasi di violento rimprovero verso i brenesi, questo era da aspettarselo.
Quando il gruppo di amministratori si riunì, vi furono violente discussioni. Chi voleva non solo l’esposizione della bandiera a mezz’asta ma anche che venissero pro- clamati tre giorni di lutto cittadino. Chi, invece, era con- vinto che si doveva lasciare passare il fatto sotto silenzio, con la sola “ufficiale” presenza del Sindaco e della Consulta con la bandiera del paese all’eventuale funerale. La parte strettamente politica doveva essere lasciata agli organi del Fascio che, sicuramente, sapevano, meglio di loro, come trattare con i tedeschi. Alla fine fu da tutti accettata quest’ultima soluzione, anche se qualcuno evidenziò il proprio personale dissenso. Non sapendo dove trovare Franz, si recarono all’albergo Fumo. La vettura, o meglio quello che restava della vettura, era stato rimosso e portato al garage Slanzi. Le macchie di sangue, miste all’olio del motore, erano state rico- perte da un alto strato di segatura. La buca, provocata dall’esplosione, era ancora aperta. Ad alcune finestre del- le case che davano sulla piazza si stava lavorando per sostituire i vetri rotti dallo spostamento d’aria.
L’unica cosa che impressionò Sindaco e consiglieri era che le strade e la piazza Mercato fossero assolutamente vuote. I negozi erano aperti ma nessun brenese era in circolazione, quasi che si temesse una ritorsione da parte dei tedeschi.
Trovarono il Comandante nella piccola hall dell’albergo, circondato dai suoi subalterni. Pallido, con la divisa sporca e stropicciata, le mani che si muovevano, scompostamente, dai capelli alle ginocchia, dalle ginocchia ai gomiti, e poi di nuovo ai capelli. Quasi un tic nervoso. Non si alzò dalla poltrona nella quale era seduto. Si limitò a stringere la mano al Podestà e a fare un cenno con la testa ai consiglieri. Sussurrò un “danke” e poi, a congedarli, girò la testa di lato come a guardare qualcosa che non c’era.
Imbarazzati i sette uomini salutarono i militari e, non sapendo cos’altro fare, girarono sui tacchi e se ne andarono.
XXX
Col passare delle ore in paese cresceva la preoccupa- zione. Ormai si sapeva che lunghi convogli di carri, abitualmente usati per il trasporto degli animali e con le porte piombate, partivano da varie stazioni italiane per la Germania. Non si sapeva ancora dei campi di sterminio ma il modo con il quale venivano trattati i deportati non lasciava presagire nulla di buono. Si raccontava di centinaia di persone prelevate in vari paesi della penisola dove era stato dato aiuto o ospitalità ai partigiani. A Breno era stato ucciso un tedesco e sicuramente la rappresaglia non sarebbe tardata. Il mistero su chi avesse compiuto quell’atto, e soprattutto le modalità con cui si era verificato, lasciavano tutti perplessi. La sparizione del Russì era passata inosservata anche per- ché l’uomo non era stato visto in giro neppure i giorni precedenti all’attentato. Tutti sapevano che quello strano personaggio a volte spa- riva dalla circolazione per settimane intere, da solo o con qualche donna, per passare il tempo negli alpeggi vicino a Bazena o verso il Passo del Maniva. L’Ovra non si era mossa, ufficialmente non avendo ricevuto ordine da parte dei tedeschi di farlo. La situazione era particolarmente scabrosa e quindi, se possibile, era meglio defilarsi. Del tutto discretamente don Cappelletti era stato invitato a Brescia. Avevano anche preso contatto, ancor più segretamente, con il Podestà di Breno perché convincesse sua moglie, Lucia, a recarsi a Brescia alla loro sede. A volte, si era pensato, i bambini sanno più cose di quelle che dovrebbero e qualche frase compromettente avrebbero potuto lasciarsela scappare. Coinvolgere qualche maestra e soprattutto la signora Lucia, così fedele al Regime, avrebbe potuto portare qualche frutto. Due giorni dopo l’attentato partirono per Brescia, all’in- saputa l’uno dell’altra, il Parroco e la maestra. Il prete, come quasi sempre, era riuscito ad ottenere un passaggio su un veicolo di servizio. La maestra, molto più modestamente, era partita per la città con il “Gamba de legn”. Per la maestra signora Lucia era una emozione nuova andare a Brescia. Infatti tutti gli abitanti della Val Camonica, quando dovevano andare in città per qualche acquisto importante o per qualche visita medica specialistica, si recavano a Bergamo, città più facilmente e più velocemente raggiungibile. Lucia conosceva pochissimo Brescia. Le avevano detto che la sede dell’Ovra era in una strada che partiva da Piazza Tebaldo Brusati e, giunta alla stazione di Brescia, con il solito abituale ritardo, non se l’era sentita di chiedere come raggiungere la piazza rischiando di perdere ulteriore tempo. Aveva quindi deciso di noleggiare una carrozzella trainata da uno scheletri- co cavallo senza dare, per non suscitare curiosità, l’indi- rizzo al quale era diretta, ma chiese al cocchiere di por- tarla in piazza Brusati.
Don Cappelletti, nel frattempo, era a colloquio con il solito funzionario dell’Ovra. Cercava di indorare il più possibile le poche e vaghe notizie che aveva da riferire e di mostrarsi più ossequiosamente disponibile a tutte le raccomandazioni che gli venivano propinate per cercare di non perdere l’abituale ricompensa. “Andate” disse alla fine il funzionario e, facendo il solito segnale al sottoposto che era venuto a prelevare il prete, soggiunse “e buon divertimento!” Don Cappelletti, raggiunta la solita stanza e sedutosi sul letto, cominciò a spogliarsi. Lucia, giunta alla porticina contrassegnata dal numero civico che le era stato detto, si guardò velocemente intorno, augurandosi che nessuno dei passanti la notasse, e suonò il campanello. Le venne ad aprire un giovane pallido ed allampanato che, vedendola, ebbe una strana espressione di meraviglia. “Sei nuova tu?” chiese facendola entrare. Lucia rimase meravigliata dal tono di voce e dal fatto che questi le si rivolgesse col tu. – Ma guarda te che gnocca che si becca quello stronzo di prete – pensò il giovane che la prese, con poca delicatezza, per un braccio e la guidò sino ad una porta in fondo ad un buio corridoio.“Entra” le disse ancora, lasciandole il braccio e riavviandosi verso l’ingresso. Lucia, sempre più imbarazzata, rimase un attimo ferma davanti alla porta. Poi si fece coraggio e la aprì. La stanza era semibuia. Dall’unica finestra filtrava una scarsa luce a causa delle persiane chiuse. “Entra, dai, e spogliati, che ho fretta!” disse una voce che giungeva da un posto imprecisato della stanza. Una voce scostante ma imperiosa che fece trasalire la donna. – Io questa voce la conosco! – si disse tra sé e sé, ma non riusciva a ricordare a chi appartenesse.
Quell’ordine finì di farle perdere la poca lucidità che le era rimasta. Si mise a tremare tutta impaurita e non riuscì ad evitare di iniziare a fare quanto le era stato ordinato. Non riusciva bene a vedere cosa ci fosse nella stanza. Intravide una seggiola sulla quale depositò i vestiti e la biancheria intima mano a mano che se la toglieva. Intravide anche un grande letto al centro della stanza ma non capì se fosse occupato da qualcuno. Quando ebbe finito di spogliarsi si rese conto della grottesca situazione nella quale si trovava e, per proteggere la propria nudità, non ebbe migliore idea di quella di precipitarsi nel letto e coprirsi con il lenzuolo. Sempre tremando e ad occhi chiusi, rimase ferma in posizione supina in attesa che qualcosa avvenisse. Ma fu un attimo: una mano fredda e sudaticcia si posò in mezzo alle sue cosce cercando di divaricarle. Non fu difficile perché la donna, ormai in stato di semi incoscienza, subiva tutto passivamente.
Qualcuno le stava montando sopra con l’intento di penetrarla, ma quando il suo viso e quello del suo violentatore si trovarono a poca distanza, la stessa voce di prima si mise ad urlare. “Madonna mia, ma non è possibile. Oh Signore, oh Signore, cosa sto facendo!” In quel mentre la porta si aprì e la luce venne accesa. Una donna molto prosperosa ed alquanto volgare entrò nella stanza, guardò verso il letto e scoppiò in una sonora risata. “Guarda, guarda questo sporcaccione” disse la donna con profondo accento emiliano. “Adesso non gliene basta più una, vuol fare l’ammucchiata! Purscel!” e si rimise a ridere.
Lucia, ritornando in sé, iniziò ad urlare. “Aiuto, aiuto, aiutatemi, per favore!”. Nel contempo pensava: – Perché non svengo. Madonna, per favore, fammi svenire! – A quelle urla il vano della porta si riempì per la presenza del giovane allampanato, del funzionario e di altri tre o quattro poliziotti. Tutti rimasero bloccati, allucinati dalla situazione e impreparati a gestirla. L’unica a non aver perso il controllo era la prostituta, abituata alle situazioni boccaccesche, i veri casini. Si rivolse agli uomini che erano fermi sulla porta: “Via, via, non c’è niente da vedere!” e li spinse fuori dalla stanza. Poi rivolgendosi a don Cappelletti gli disse: “Tu, fuori dalle palle. Per oggi hai scopato abbastanza. Prendi i tuoi vestiti e vattene.” Il prete, anche lui meccanicamente, si alzò dal letto e, presi biancheria e tonaca, si diresse verso la porta. Prima di usci- re si girò verso Lucia. Fu allora che questa lo riconobbe. Un lamento di bestia ferita le sgorgò dal profondo dei pol- moni e un pianto isterico cominciò a scuoterla tutta.
XXXI
Le due donne rimasero sole nella stanza. La prostituta si avvicinò a Lucia che continuava a singhiozzare mentre il corpo si rannicchiava su sé stesso in posizione fetale. La donna si sedette sulla sponda del letto e incominciò ad accarezzare il viso della maestra con affetto materno, mentre dalle sue labbra usciva un suono leggero e musicale, una cantilena rassicurante, come quando
le mamme cullano i loro piccoli. A poco a poco i singhiozzi si diradarono, il corpo sembrò distendersi e quando il respiro divenne regolare, Lucia, prostrata, si addormentò.
La donna continuò ad accarezzarla, le prese delicatamente il viso, se lo pose in grembo e cominciò a cullarla. Quando fu certa che Lucia dormisse profondamente, uscì dalla stanza e chiese di parlare con il funzionario. Questi, dopo aver somministrato una strigliata e, forse, qualche calcio nel sedere al poliziotto che aveva aperto la porta a Lucia, si era rintanato nel proprio ufficio cercando di decifrare l’accaduto: quali conseguenze avrebbe potuto avere su di lui e cosa fare della moglie del Podestà di Breno. Sapeva che questi era molto ben ammanicato con camerati in alto luogo. Per colpa di quel deficiente di un sottoposto, avrebbe potuto avere la carriera stroncata o, ancor peggio, ritrovarsi con l’ordine di un temutissimo trasferimento in Sardegna.
Quando gli comunicarono che la prostituta voleva con- ferire con lui, la fece immediatamente accomodare nel suo ufficio e la ascoltò con atteggiamento deferente. Fu assolutamente d’accordo che poteva rimanere accanto a Lucia sino al suo risveglio e ordinò a un suo collaborato- re di recarsi al vicino casino per giustificarne il ritardo.
XXXII
Nel frattempo don Cappelletti, rivestitosi frettolosa- mente, aveva raggiunto l’uscita e se ne era andato sbattendo la porta. In strada si era messo a correre in direzione della stazione ferroviaria. La sua mente sconvolta nemmeno si accorgeva della curiosità che suscitava nelle persone che incontrava e che, qualche volta, nella foga della corsa, urtava. Giunto in stazione ebbe la fortuna di trovare il treno in partenza, vi salì, cercò uno scompartimento vuoto, si se- dette nel posto vicino al finestrino e si abbassò il cappello sugli occhi fingendo di dormire. Ebbe la fortuna che sul treno ci fossero pochi passeggeri e che nessuno andasse a sedersi vicino a lui. Anche il controllore, pensando dor- misse, passò oltre. E fu davvero una fortuna perché il prete, nella fretta, non si era neppure lontanamente preoccupato di acquistare il biglietto. Cercava di ricostruire quanto era avvenuto, ma non riusciva a mettere insieme neppure due minuti delle ulti- me ore. Continuava a pensare alla maestra, non capiva cosa ci facesse a Brescia, in quel triste posto, in quel letto ove era entrata, sembrava, consenziente. Che avesse una doppia vita? Che, malata di masochismo, accettasse come sofferenza di prostituirsi più o meno a pagamento? Cosa sarebbe successo adesso, quando in qualche modo la cosa si sarebbe risaputa? O da una parte o dall’altra qualcuno avrebbe parlato. Come avrebbe potuto giustificare il suo comportamento sessuale e, soprattutto, il suo coinvolgimento con la poli- zia politica? Sentiva un gran freddo e un tremore interno come quando si è aggrediti da una febbre violenta. Rimase fermo, rannicchiato al suo posto sino a quando il treno non giunse – in un periodo brevissimo, almeno gli sembrò – a Breno.
Scese velocemente e, senza rispondere ai saluti che qual- che parrocchiano gli rivolgeva, quasi di corsa si diresse verso la casa parrocchiale. Entrato si rivolse bruscamente alla sua perpetua: “Elvira, una tazza di vino caldo! Portamela in camera. Sto male, anzi, sto malissimo. Sono ammalato, molto ammalato. Lasciami il vino sul comodino e poi non di- sturbarmi più. Starò malissimo anche domani. Quindi, dopo, vai dal don Arlocchi e digli che mi deve sostituire questa sera ai Vespri e domani mattina alla messa delle otto. E di non prendere impegni per i prossimi giorni perché io non so quando starò meglio”. “Le devo chiamare il medico, signor curato?” chiese, premurosa, l’Elvira.
“Allora non mi stai a sentire!” rispose strillando il prete. “Ho detto che non voglio vedere nessuno, non voglio parlare con nessuno. Insomma! Dillo anche al coadiutore. Che non gli venga in mente di venirmi a trovare!” Tracannò il bicchiere di vino caldo, si infilò la camicia da notte ed entrò nel letto. Mise la testa sotto il cuscino e cercò di calmarsi. Doveva ragionare, assolutamente. O forse era meglio che cercasse di dormire, di annegare i pensieri nel sonno per qualche ora e tentare di riprender- si sia mentalmente che fisicamente? Però non riusciva né ad addormentarsi né a calmarsi. Si ritrovò a pensare a quando era bambino e viveva con i genitori in una piccola casa insieme ai tre fratelli minori.
A otto anni era già stufo di quella vita. Il padre alla sera era perennemente ubriaco; la madre, stravolta dalla fatica, per cena non riusciva quasi mai a trovare il necessario per sfamare lui ed i tre fratellini. Nonostante l’età, era un bambino molto sveglio, intelligente ed acuto. Sapeva ragionare come un adulto ed era, soprattutto, furbissimo. Gli sarebbe piaciuto diventare maestro, forse perché desi- derava apprendere, forse anche perché il suo subcosciente gli suggeriva che quella del maestro non era una gran professione ma dava comunque uno stipendio sicuro e la possibilità di vivere rispettosamente. Tuttavia la sua fami- glia non avrebbe mai trovato i soldi per farlo studiare.
L’unica alternativa era quella di tentare di farsi prete. Ci pensò a lungo e poi, per studiata convenienza e senza sentire alcuna vocazione, espresse alla mamma il desiderio di entrare in seminario.
Lei, entusiasta, sia perché, almeno a quei tempi, un figlio in seminario dava sempre lustro, e soprattutto perché si eliminava una bocca da sfamare, era andata con lui a parlarne col Parroco.
Da quel giorno don Pompeo aveva iniziato a mentire con sé stesso e con tutti quelli che lo circondavano. Al Parroco fece credere di essere veramente attratto dalla vita religiosa e che sentiva che Gesù lo voleva con lui. Inventò anche uno strano sogno che raccontò al Parroco ed alla mamma. Si trovava in mezzo a una folla di gente miserabile. Nello zainetto aveva una mela e un panino con il formaggio. Aveva molta fame ma, impietosito da chi stava sicuramente peggio di lui, aveva donato la mela a una donna incinta e poi, preso il panino, ne aveva strappato dei piccoli bocconi che aveva cominciato a distribui- re. Più ne distribuiva più il panino si ingrossava ed era così riuscito a sfamare tutti. Alla fine, dalla folla gli veni- va incontro un bambino, scalzo e vestito miseramente. Gli sorrideva, lo prendeva per mano e lo conduceva in un bellissimo giardino pieno di fiori e di frutti. Fu allora che egli aveva riconosciuto in lui Gesù Bambino. Da quella notte, continuò a raccontare Pompeo, il suo più grande desiderio fu di mettersi al servizio degli altri. Il Parroco rimase impressionato da quelle parole e assicu rò la mamma che ne avrebbe parlato con i suoi superiori e con il Direttore del vicino seminario. L’ingresso al seminario avvenne un triste giorno di novembre. Cadeva una fine pioggerellina gelata che inzuppava la povera giacchetta ed il cappellino che Pompeo indossava. Il Parroco, che lo stava accompagnando a quel- la che sarebbe stata per lungo tempo la sua nuova dimo- ra, era munito di un grosso e largo ombrello di colore verde, ma non si era preoccupato di riparare il suo gio- vane parrocchiano che gli trotterellava alle spalle cercando di tenere il suo passo spedito.
In quella stagione il seminario sembrava ancora più te- tro. All’interno regnava un silenzio che rimbombava contro le alte volte dei larghi corridoi. Raramente da un’aula giungeva la voce di un docente infervoratosi su qualche argomento o intento a sgridare un allievo di- stratto o ignorante.
Pompeo ebbe la tentazione di girarsi, abbandonare Parroco e seminario e, correndo, ritornare a casa maledicendo quanto si era inventato. Ma non ne ebbe il tempo. Erano arrivati davanti alla porta dell’ufficio del Rettore e il Parroco, presolo per un braccio, lo spinse all’interno facendolo inginocchiare da- vanti al vecchio prete che dirigeva con polso, anche tro po rigido, docenti e scolari.“E dunque tu vorresti servire Dio abbandonando i piaceri del mondo?” Il Rettore si rivolse a Pompeo quasi continuando un discorso iniziato prima dell’ingresso del bambi- no. Non ricevendo alcuna risposta, anche perché il ragazzo stava pensando a quali potessero essere i piaceri del mondo che desiderava abbandonare, avendo sino ad allora conosciuto solo povertà e solitudine, il vecchio prete riprese: “Qui avrai tempo per studiare e meditare sulla tua scelta, per rafforzare la tua fede e per capire se effettivamente sei destinato ad essere un ministro di Dio, a seguire il Vangelo ed a predicare la Buona Novella. Vedremo, vedremo.” Poi, rivoltosi al Parroco: “Parroco, vi faremo sa- pere. Ci auguriamo che il ragazzo abbia le giuste qualità e una vera vocazione. Sarebbe triste dovervi richiamare per venire a riprendere la vostra pecorella.” Si alzò dall’imponente poltrona sulla quale era seduto, porse la mano al Parroco che, fatto un cenno di saluto al bambino, si girò e lasciò la stanza. Il Rettore si infilò la stola, prese per le spalle Pompeo guidandolo verso un inginocchiatoio. Si sedette sulla poltrona accanto e invitò il bambino a confessarsi. Non aveva molti peccati da ammettere un bambino di otto anni che aveva vissuto in una povera casa. Non aveva commesso peccati di gola, non potendo trovare in casa dolci o preli- batezze sconosciute; era troppo giovane per praticare quel- li della carne; nessun motivo di invidia verso gli altri ragazzi poveri come lui; bestemmie nemmeno a pensarlo, tanto erano orribili quelle che il padre lanciava dal baratro delle sue sbronze. Eppure la confessione durò oltre un’ora. Il vecchio prete, appigliandosi ad ogni occasione che il bambino gli dava, fosse una insicurezza o un dubbio, scavava nell’animo del nuovo seminarista per conoscerne la vera natura. Alla fine non era riuscito a capire molto della sua indole ed era, comunque, alquanto perplesso. Tutte le risposte del bambino sembravano studiate non per apparire migliore ma per ingraziarsi l’affetto e la considerazione di chi lo stava esaminando.
Infatti il piccolo Pompeo aveva capito subito che quella non era una vera confessione, ma un esame che doveva assolutamente superare se voleva rimanere in seminario. E sapeva che la prima impressione sarebbe rimasta a lungo nella mente del Rettore e avrebbe potuto condizionare la sua vita nei prossimi anni.
Vi erano solo due altri bambini in seminario: uno suo coetaneo ed uno di un anno più grande. Studiava con loro anche se Pompeo era molto meno preparato. Il maestro però lo aveva preso in simpatia e cercava di aiutarlo in tutti i modi con estrema pazienza. La vita del seminario gli apparve subito gradevole. La sveglia alle sei non lo disturbava, essendo la stessa ora alla quale si svegliava a casa; al freddo della camerata e dei bagni era abituato. Lo disturbava un poco la comodità del letto: il materasso di lana era troppo morbido per lui, che a casa dormiva su un saccone ripieno di foglie secche di granoturco. Finita la messa, tutti si recavano in refettorio dove, in vere tazzine, veniva servito del latte caldo e pane in abbondanza.
Il primo giorno Pompeo ritenne che quello fosse l’unico pasto sino alla cena. Si riempì di pane e di latte. Scolò anche le tazze di qualche vicino che, ormai sazio, non aveva finito di bere il latte freddato. Non essendo il suo stomaco abituato a tali scorpacciate dovette correre, nel corso della giornata, molte volte alla latrina in preda ad una violenta dissenteria.
A parte le lunghe ore trascorse a pregare in cappella, dove si annoiava mortalmente, e quelle passate ad ascoltare la vita dei santi, il resto della giornata era piacevole. Ap- prendere era un suo grande desiderio; il mangiare, anche se il cuoco sembrava mettercela tutta per rovinare qualsiasi pietanza, era abbondante; i momenti di svago brevi ma abbastanza divertenti.
Pompeo era sempre vigile nell’eseguire gli ordini del Prefetto e di tutti i maestri e professori: voleva suscitare la migliore impressione possibile ed evitare punizioni a volte dolorose, come quando si era costretti a rimanere inginocchiati, per lunghi periodi, sul pavimento cosparso di lenticchie secche.
Approfittando del fatto che aveva destato tra i convittori simpatia, riusciva spesso a intrufolarsi nei pensieri re- conditi anche dei ragazzi maggiori di lui e a riceverne confessioni indiscrete. Dopo averle ricevute, Pompeo, lasciato passare un certo periodo di tempo per non scoprirsi, trovava la scusa per riportarle agli insegnanti. Non sfacciatamente, da spia, ma da amico preoccupato di chi gli aveva fatto le confidenze. Questi gradivano le notizie che potevano permettere un più approfondito controllo sui ragazzi ed il più delle volte lo incitavano a continua- re ad informarli. Pompeo, in cambio di questo metodo che usava tradendo gli amici, ebbe, se non riconoscimenti, almeno la benevolenza dei superiori. Continuò per anni questo modo di fare, affinandolo. Riusciva sempre meglio ad entrare nelle confidenze degli altri seminaristi e a riportare maggiori dettagli della loro vita interiore. Tanti ragazzi furono puniti o costretti a lasciare il semi- nario in conseguenza delle confidenze fatte a Pompeo. La cosa era particolarmente importante soprattutto quando si parlava di un argomento vietatissimo: il sesso. Tale argomento era, allora molto più di oggi, l’ossessio- ne di tutti gli insegnanti di tutti i seminari. L’opera più malefica del diavolo! E per questo di grande attrattiva. Almeno a parole. E di parole sull’argomento se ne spen- devano molte anche tra i compagni di Pompeo che, ad ascoltare quei discorsi, traeva un certo piacere. Un’anticipazione di quello che avrebbe provato più avanti nella sua vita di confessore.
XXXIII
Lucia si svegliò solo alle quattro del pomeriggio. Le girava leggermente la testa e non riusciva a capacitarsi di dove fosse. Si accorse di essere nuda sotto le lenzuola e questo la sconvolse.
Accanto al letto vi era una sconosciuta che le stava accarezzando, le sembrò con affetto, i capelli e il viso. Improvvisamente ricordò. Il suo arrivo all’ufficio dell’Ovra, la strana accoglienza ricevuta, di essersi spogliata e, nuda, di essersi infilata nel letto già occupato da quel visci- do verme del Parroco, le sue mani sudaticce che la tocca- vano, il viso sopra il suo mentre cercava di violentarla. Ricominciò a tremare mentre la donna continuava ad accarezzarla, a sorriderle. Un dolce suono, forse una nenia, usciva dalle sue labbra. Dove era adesso? Era stata rapita per essere trasportata… dove? Era stata venduta come schiava? Dove era? Doveva assolutamente saperlo ma non riusciva ad articolare un suono, una parola per chiederlo. Finalmente la donna le parlò con un forte accento emiliano. “Stai tranquilla, è finito tutto. Adesso Carla, che sarei io, ti aiuta a rivestirti per tornare alla tua casa. A proposito, hai un marito, dei figli? Dove abiti?” “A Breno” rispose Lucia, grata a quella donna che si stava occupando di lei e sembrava la volesse proteggere. “Sono sposata, sì, ma non ho figli. Non te ne andare, non lasciarmi sola, ti prego!” supplicò quando la donna si alzò diretta verso la porta. Questa si voltò e le sorrise di un sorriso dolcissimo, nonostante i lineamenti tutt’altro che delicati.
“Non ti preoccupare, non ti lascio. Prendo solo i tuoi vestiti dalla seggiola dove li hai lasciati”. Aiutò Lucia a vestirsi, commentando, per metterla a suo agio, la finezza della biancheria intima e l’eleganza del tailleur grigio fumo che dava, così bene, risalto alle sue forme. Finalmente un sorriso apparve sul viso della giovane donna, grata per l’affetto dimostrato nei suoi con- fronti e anche per quel tanto di civetteria, tutta femminile, così sensibile agli apprezzamenti. Quando Lucia si fu rivestita, la prostituta, che per una volta nella sua vita si sentiva importante, padrona di prendere delle decisioni, aprì la porta della camera e, affacciatasi in corridoio, urlò in direzione del piantone: “Ehi tu, pelandrone! Chiama subito il commissario e che si spicci a venire”.
Questi arrivò veramente di corsa, si genuflesse, quasi, davanti alla maestra. Entrò nella stanza e chiuse la porta alle sue spalle.
Imbarazzatissimo, rosso in viso e leggermente tremante si rivolse a Lucia con un “Non so cosa dire, non so proprio cosa dire. Quale sia il mio imbarazzo ed il mio dolo- re, lei non può credere. Qualsiasi cosa possa fare mi dica e la farò. Qualsiasi, veramente qualsiasi”. Lucia non aveva né voglia né coraggio di guardarlo in faccia, ma doveva farlo. Doveva riuscire a capire che tipo di uomo fosse e se si poteva fidare di lui. “Commissario, io desidero solo che nulla si sappia. Qui oggi non è successo nulla. Lei capirà: io non posso perde- re la mia reputazione per una brutta avventura mal gestita. Io qui sono parte offesa e come tale devo essere trattata con il massimo rispetto. Le farò sapere le mie decisioni e lei, se è un uomo di onore, ad esse si atterrà scrupolosamente. Uno scandalo non gioverebbe neppure a lei né ai suoi diretti superiori. La prego, mi faccia chiamare un carrozza che voglio raggiungere la stazione al più presto”. “Per carità, signora!” rispose il commissario inchinando- si nuovamente. “Ho messo a sua disposizione la nostra macchina di servizio e un autista. Si faccia portare dove vuole e la tenga al suo servizio per tutto il tempo necessario.” Poi, sempre più premuroso: “Posso offrirle, che so, un caffè, un cordiale, qualsiasi cosa, signora?” La prostituta lo stava guardando con un sorrisino malizio- so sulle labbra. La divertiva vedere quell’uomo, considera- to potente, tutto servile e spaventato. Quando il commissario se ne accorse, si rivolse a lei con voce arrogante:
“E tu cosa ci fai ancora qui? Saluta, ringrazia la signora e togliti dai piedi!” Lucia rimase dapprima meravigliata dalla trasformazione del tono di voce del commissario e poi si infuriò per i modi villani e prepotenti. “Non si permetta di usare questo tono arrogante con questa signora!” urlò. “Né io, né lei, soprattutto lei, abbiamo la gentilezza e la bontà d’animo di questa don- na. La rispetti e, per favore, le chieda scusa!” Carla, a quelle parole, stava per mettersi a piangere tanto era la commozione e la gioia. Fu ancora più felice quando, dopo le scuse del commissario, Lucia le si avvicinò, la abbracciò con molto calore e le diede due affettuosi baci sulle guance. “Grazie” le sussurrò all’orecchio mentre gli occhi le tornavano lucidi. Quei momenti, per Carla, furono tra i più belli della sua vita.
(continua…)
Rotta di collisione
IL PUNTASPILLI / ECONOMIA
Il capitalismo in salsa cinese sta ormai cedendo il passo ad un apparentemente sorprendente ritorno al passato.
La coesione sociale è da sempre cruciale per potere governare un Paese immenso e popoloso come la Cina ma lo diventa ancora di più quando la crescita economica (e la diffusione del benessere) sono messi a rischio da una demografia che inizia a segnare il passo (dal 2010 la popolazione attiva ha smesso di crescere e gli ultimi dati del censimento mostrano che anche la popolazione complessiva è ormai stabile e pronta per una graduale discesa) e da profondi squilibri.
Per quanto il Celeste Impero sia enormemente cresciuto negli ultimi quarant’anni rimane, in termini di reddito pro-capite, al 59mo posto (ed anche peggio, al 73mo, sulla base del potere di acquisto), ai livelli dei Paesi più poveri del terzo mondo.
Dietro il dato medio, poi, si nascondono enormi differenze tra la zona costiera, dove prosperano le aziende private più importanti e profittevoli, ed il resto del Paese.
Il presidente Xi Jinping sta lanciando chiari messaggi che la situazione non può continuare così e che i più ricchi e le loro aziende avranno d’ora in poi una vita ben più difficile di quella goduta sinora.
Il cambiamento non arriva all’improvviso, lo si poteva prevedere osservando l’evoluzione della piramide demografica e quella della distribuzione del reddito, ma è sempre l’ultima goccia a fare traboccare il vaso.
La cosa non dovrebbe sorprendere troppo anche considerato che l’obiettivo di Pechino, orgogliosamente dichiarato nell’ultimo (il quattordicesimo) piano quinquennale (2021-2025), è quello di trasformare il Paese in “una grande e moderna nazione socialista”.
Per raggiungere questo obiettivo occorre migliorare la condizione delle famiglie cinesi (consentendo anche di aumentarne la dimensione con la possibilità di avere sino a 3 figli) e della classe media.
Poca importanza sembra avere se, per ottenere quanto desiderato, si provocano pesanti danni agli investitori finanziari (“speculatori capitalisti”) ed alle aziende che operano nei settori coinvolti.
L’ultima vittima è stato quello dell’educazione privata ed in particolare dei corsi di sostegno che, essendo secondo il governo troppo onerosi per le famiglie, vanno erogati gratuitamente.
Le società del settore hanno lasciato sul terreno in pochi giorni la metà del loro valore ed il messaggio è risuonato nuovamente forte e chiaro (con discese rovinose dei prezzi) anche su tutti i titoli coinvolti negli ultimi mesi dalla stretta del governo cinese, ormai in chiara rotta di collisione con le grandi aziende quotate (gestite con logiche “occidentali”, ben lontane dal nuovo corso riassumibile come un “ritorno al passato”).
Al prossimo congresso del partito, che si terrà nell’ottobre del 2022, cruciale per le conferme dell’attuale leadership, sarà fondamentale presentare dei risultati concreti e la volata è già iniziata.
Coerentemente con quanto avviene internamente anche la politica estera è tornata a proporre un confronto duro con gli Stati Uniti e la sensazione di un fastidioso “déjà vu” degli anni della guerra fredda è forse più che una nostalgica suggestione.
E’ presto per trarre delle conclusioni, che sarebbero oggi affrettate, ma quel che è certo è che il dragone è tornato a sputare fuoco e bisognerà prestare molta attenzione per non correre il rischio di scottarsi.
Luca Martina
L’isola del libro
Rubrica settimanale a cura di Laura Goria
Emma Stonex “I guardiani del faro” -Mondadori- euro 19,00
Che l’autrice Emma Stonex (nata nel Northamptonshire nel 1983) abbia un legame particolare con i fari e la loro magia è più che evidente; è sbocciato fin da quando era piccola e trascorreva le vacanze in Cornovaglia e sull’isola di Wight. Oggi vive con il marito e le 2 figlie a Bristol e, dopo un’importante esperienza come editor in una prestigiosa casa editrice, ha deciso di dedicarsi totalmente alla scrittura con questo romanzo che ha spopolato alla Fiera del libro di Francoforte.
Leggendolo capirete subito il perché di tanto successo. E’ una storia intrigante imbastita intorno alla solitudine, ai rimpianti, ai segreti e alle bugie che si dicono per mettere al riparo le persone che amiamo. E’ ispirato a un fatto di cronaca vero, la misteriosa e inspiegabile scomparsa dei 3 guardiani di un faro su un’isola della Scozia nel 1900.
A questo si è ispirata la scrittrice inglese che ha ambientato lo stesso fatto inquietante nel 1972 al largo della Cornovaglia, a 15 miglia di distanza da Land’s End (praticamente al confine estremo di quella parte di mondo), nel Faro di Maiden Rock, dove i 3 custodi di turno sembrano svaniti nel nulla.
Questo non è un faro qualunque o come quelli della terraferma: è soprannominato Scoglio della Fanciulla e sorge in tutta la sua altezza su uno spunzone di terra in mezzo al mare e «…non hai mai visto una tempesta finché non ci sei stato in mezzo, lì, in mare aperto: il faro pare sbriciolarsi sotto i tuoi piedi per essere spazzato via dalle onde».
A guardia di questo remoto avamposto dovrebbero esserci il primo guardiano Arthur Black –grande esperienza e bravura nel suo lavoro- ,il primo assistente William Walker detto “Bill” e il secondo Vincent Bourne. Quando arriva il collega per un cambio, dei 3 uomini non c’è alcuna traccia, la porta del faro è chiusa dall’interno, dentro tutto è in ordine, gli orologi sono fermi tutti alle 8,45 (dettaglio da non dimenticare) ma non si palesa anima viva. Che fine possono aver fatto i 3 uomini è un mistero irrisolto ancora 20 anni dopo, quando troviamo le loro donne che hanno cercato di andare avanti da sole con quel buco nell’anima e senza saper dove siano finiti.
A riagitare le acque nel 1992 arriva l’affermato scrittore di romanzi di avventura e marinareschi Dan Sharp, che vuole farne materia del suo prossimo best seller.
Contatta personaggi legati agli uomini scomparsi, a partire dalle loro compagne, Helen, Jenny e Michelle. Sono rimaste tutte nei cottage messi a loro disposizione dalla Compagnia Trident House che ha provveduto al sostentamento delle vedove dei suoi 3 dipendenti. Ma la tragedia che ha straziato le loro anime, anziché unirle, le ha viste ritirarsi ognuna nel proprio guscio di dolore. Daniel Sharp le incontra e si fa raccontare le loro diverse versioni. E qui la bravura della Stonex scende in campo a tutto tondo. E’ magistrale il modo in cui riannoda i fili delle vite delle 3 coppie e porta a galla vissuti anche travagliati. Ed ecco venire a galla segreti, dolori strazianti e insuperabili, tradimenti, incomprensioni e solitudini, sensi di colpa e rabbia, paure e tantissimo altro….
Jazmina Barrera “Quaderno dei fari” -La Nuova Frontiera- euro 15,00
Questo è un affascinante viaggio letterario nelle pagine di grandi autori classici che hanno sviluppato pensieri ed emozioni collegate ai fari e al loro intrinseco fascino misterioso. Ed è la colta testimonianza di come questa scrittrice messicana (nata a Città del Messico nel 1988) abbia da sempre sviluppato una profonda fascinazione per le ammalianti torri che indicano la rotta e la salvezza ai naviganti; lighthouses che in inglese vuol dire “le case della luce”. Con l’animo della collezionista, la Barrera ne ripercorre la storia partendo dall’antichità e dai miti.
Dai Maya ai Greci che per primi diedero il nome di fari alle torri accese citate nell’Iliade di Omero: «….Fuoco che segnala la fine del mare.»
Fari e mare indissolubilmente collegati tra loro e allo stesso tempo contrapposti: «Non si può pensare il faro senza il mare. Perchè sono un tutt’uno, ma opposti. Il mare si espande verso l’orizzonte, il faro punta verso il cielo. Il mare è movimento perpetuo; il faro è una vedetta congelata. Il mare è volubile “un campo di battaglia di emozioni” dice Virginia Woolf. «Il faro è un signore stoico, irremovibile…….». Quelli più antichi conservatisi fino ad oggi risalgono al Medioevo, quando ad averne cura erano i monaci.
Poi l’autrice rintraccia gli innumerevoli fari citati nelle pagine di autori come Walter Scott, Lawrence Durrel, Virgina Woolf con il suo romanzo “Gita al faro”. E ancora, Robert Louis Stevenson che discendeva da una stirpe di ingegneri che misero in campo le loro conoscenze e osservazioni empiriche sui moti delle maree, l’altezza delle onde, la profondità dell’acqua, l’inclinazione del suolo e la configurazione della costa. Suo nonno ebbe il merito di aver edificato il primo faro lontano dalla costa, su uno scoglio affiorante in mezzo all’oceano, Belle Rock, che si diceva abitato dallo spirito del fantasma di un pirata.
Ed è solo la punta dell’iceberg del profondo viaggio in cui l’autrice –che colleziona anche antiche mappe dei fari disseminati nel mondo- vi conduce.
Sarah Langan “I buoni vicini” -SEM- euro 18,00
Benvenuti nel tranquillo quartiere da cartolina alla periferia di Long Island, Maple Street, quieta e sonnacchiosa enclave borghese i cui abitanti sotto la superficie nascondono lo sporco di inganni, cattiverie, capricci e insensibilità verso il prossimo. E’ in questo tran tran opaco ma rassicurante che nel 2027 irrompono i nuovi arrivati. Sono la rock star Arlo Wilde, la moglie Gertie ex reginetta di bellezza e i loro figli, la preadolescente senza freni Julia e il fratellino minore Larry. Un bel cambiamento per il vicinato che si trova alle prese con un padre molto diverso dagli altri, una madre che si sente respinta dalle vicine e fa fatica a relazionarsi, e pure i loro due figli sono fuori dagli schemi del luogo. Ape regina del sobborgo è Rhea Schroeder, professoressa universitaria dal passato insondabile, di mezza età, trasformatasi nel perfetto esempio di moglie e madre dei sobborghi residenziali. Organizzatrice delle feste di vicinato, aveva assunto anche l’impegno di accogliere ogni nuova entry di Maple Steet con un cestino di cioccolatini e un profumo. E nella bellissima e impenetrabile Gertie aveva annusato un’altra outsider disadattata con la quale avrebbe potuto costruire un rapporto intimo, in cui svelare i suoi veri sentimenti. E’ lei che in un certo senso adotta senza riserve i Wilde e cerca di introdurli nella comunità. Sotto la sua ala protettrice prende soprattutto Gertie con la quale trascorre lunghi pomeriggi a chiaccherare, alla quale fa un sacco di confidenze fino a riuscire a smussare la diffidenza della nuova arrivata.
Questo almeno è quanto accade in un primo tempo, poi inspiegabilmente anche Rhea allontana la nuova vicina escludendola dai party che organizza.
Poi irrompe l’imprevisto nel bel mezzo dei festeggiamenti per il 4 luglio. Una gigantesca voragine si apre di colpo e senza preavviso, un baratro profondo una cinquantina di metri che inghiotte un pastore tedesco e scatena l’allarme tra gli abitanti di Long Island. Non è la prima e non sarà l’ultima delle doline che scuotono Maple Street, dando la stura a una serie di eventi e di nodi che vengono al pettine.
Lorenza Gentile “Le piccole libertà” -Feltrinelli- euro 17,00
Protagonista è la 30enne Olivia, ancora precaria in un’azienda che produce barrette energetiche, amata dai genitori che su di lei hanno puntato tutto. E’ fidanzata con Bernardo, bello, intraprendente e in carriera, votato al successo, e stanno per sposarsi. Sembra una vita quasi perfetta, invece nel profondo della sua anima albergano paure, insicurezze, dubbi e indecisioni. Cerca di rimediare alla sua irrequietezza ricorrendo ad una analista, la dottoressa Manubrio che le spiega l’arcano: la vita è come il mare e bisogna imparare ad andare sul surf.
Tutto cambia quando le arriva la lettera della zia Vivienne, di cui si erano perse le tracce 16 anni prima, dopo un acceso confronto col fratello, il padre di Olivia , alla morte della loro madre.
Non si è mai scoperto cosa provocò l’irrimediabile rottura tra i due, ma i ricordi che Olivia ha della zia sono felici. Vivienne, magra, energica, ciglia lunghe, occhi nocciola, un caschetto di capelli biondi poi diventati bianchi era solita arrivare con un baule stracolmo di libri e vestiti fuori dall’ordinario. Una zia decisamente eclettica che da giovane era stata una modella, sempre infelice in amore, e aveva attraversato varie fasi di interessi: dall’astrologia all’ambientalismo, dall’essere vegetariana ad andare a soccorrere una famiglia di elefanti nel Serengeti, ossessionata dalle storie e dalla vita di Karen Blixen. Agli occhi del fratello, una superficiale volubile; invece grondante fascino per la nipote. Nella lettera la zia chiede a Olivia di raggiungerla a Parigi, e le dà appuntamento davanti alla celebre e storica libreria Shakespeare&Company. Sulla Rive Gauche, fondata nel 1919 da Sylvia Beach e nella quale transitarono alcuni degli scrittori più importanti del 900, tra i quali Ezra Pound, Ernest Hemingway e James Joyce. Olivia decide di partire, ma resta alquanto spiazzata quando la zia non si presenta all’appuntamento.
Di lì in poi, a Olivia è imposta una sola regola: aiutare in libreria e leggere un libro al giorno. Così trascorre giorni e notti tra gli storici scaffali, tra appassionanti letture, turni di lavoro e avvistamenti presunti di Vivienne. Soprattutto, Olivia conosce e frequenta un gruppo di pittoreschi artisti bohémienne in cerca di fama e successo, che fanno base proprio alla Shakespeare&Company. Ed ecco svilupparsi sotto gli occhi del lettore la profonda trasformazione emotiva della protagonista, che rinasce, opera scelte importanti e si avvia sul sentiero che conduce alla formula per trovare la felicità.