Rubriche- Pagina 52

Il Muro della vergogna 1961/1989

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni 

Il Muro di Berlino incominciò ad essere costruito tra il 12 e il 13 agosto 1961 ed oggi resta una pagina di storia dimenticata perché il crollo del comunismo sovietico portò nel 1989 all’abbattimento del muro della vergogna, com’era definito dai democratici.

Io ricordo quell’estate, non avevo ancora quattordici anni e non dimentico le parole severe di condanna di mio padre che per la prima volta mi parlò di comunismo, descrivendomi- avendola visitata di persona – cosa fosse l’URSS e la RDT. Avevo fatto l’ esame di terza media nel giugno 1961 e avevo per conto mio studiato anche la storia contemporanea che non c’era nel libro che finiva con il fascismo e conoscevo le conseguenze devastanti della seconda guerra mondiale che portò la Germania ad essere divisa in due, certo non senza fondate motivazioni perché il mostro del Nazismo avevano sconvolto l’Europa e minacciato da vicino il mondo libero ,per non parlare dello sterminio di 6 milioni di ebrei. Ma i cittadini tedeschi dell’Est non meritavano di passare dalla dittatura hitleriana a quella staliniana. Per impedire il libero passaggio tra le due Germanie, quella comunista e quella democratica, la prima eresse un muro di 156 chilometri alto 3,6 metri. Secondo i comunisti tedeschi che beffardamente definirono la loro repubblica “democratica“  il Muro era in funzione “antifascista “ per impedire alle spie occidentali di entrare a Berlino Est. In effetti venne costruito per inibire il libero passaggio tra le due Germanie e la fuga da una condizione di vita intollerabile ,se paragonata a quella dei tedeschi dell’Ovest malgrado le conseguenze della guerra perduta. La Germania dell’Est era uno Stato satellite dell’URSS, governata con sistemi dispotici, come tutti i Paesi oltre la Cortina di ferro. Il Muro divise per 28 anni le due Berlino e provocò disastri. Più di centomila berlinesi cercarono la fuga nella vera Germania democratica, quella che aveva per capitale Bonn. Furono molte centinaia i morti durante il tentativo di fuga, uccisi dalla polizia, affogati o caduti in incidenti mortali, come, rara avis, ci ricorda oggi il socialista Ugo Finetti.

Ci fu anche gente che si suicidò quando venne scoperta perché la Polizia della RDT era particolarmente efferata. Un vero stato di polizia nel cuore dell’Europa. La devastazione economica della Germania dell’Est creò gravi problemi anche per la riunificazione tedesca dopo il 1989.Va ricordato che il presidente americano Kennedy che non va affatto mitizzato perché commise tanti errori, andò nel 1963 in visita in Germania e disse la celebre frase : ”Io sono berlinese“, solidarizzando con i cittadini dell’Est che si vedevano violati i diritti più elementari. L’Occidente non si mosse come non si era mosso per l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956. Gli equilibri internazionali erano più importanti della libertà dei Berlinesi. Vale però la pena di sottolineare la follia di costruire un muro per impedire la fuga dall’inferno comunista. Di fronte ad essa il PCI di Togliatti tacque ,anzi fu solidale con la RDT .Basta rileggere i titoli e gli articoli dell’ “Unità“ di quei giorni di Ferragosto in cui quasi tutti pensavano a divertirsi in vacanza. Io ero a Bordighera e in Corso Italia vidi alcuni giovani che distribuivano dei volantini di condanna.

Mi venne spontaneo dar loro una mano : fu il mio battesimo alla politica. Nel 2019 andai a Berlino per ricevere un riconoscimento e ricordo la tristezza di quella città che aveva aggiunto alla tragedia nazista quella comunista e non si era ancora ripresa .La grande Berlino prussiana era stata cancellata e la Porta di Brandeburgo appariva un reperto archeologico. Inutilmente pensai alla Germania di Kant  di Ficthe, di Hegel, di Nietzsche, di Beethoven, dei grandi storici e filologi. Restava solo il fantasma di un Marx che mi appariva il primo tradito. La sua utopia libertaria ed egualitaria diventò un regime sanguinario in cui veniva calpestata la dignità stessa delle persone. Non furono giorni piacevoli di vacanza. Ma vidi in ogni dove i fantasmi delle due dittature, nazista e comunista, che dominarono il ‘900. Una tragedia agghiacciante di cui il muro resta una delle testimonianze più ignobili e intollerabili.

I teatri torinesi: Teatro Colosseo

Torino e i suoi teatri

1 Storia del Teatro: il mondo antico
2 Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti
3 Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri
4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti
5 I teatri torinesi :Teatro Carignano
6 I teatri torinesi :Teatro Colosseo
7 I teatri torinesi :Teatro Alfieri
8 I teatri torinesi :Teatro Macario
9 Il fascino dell’Opera lirica
10 Il Teatro Regio.

6 I teatri torinesi: Teatro Colosseo

Come si suol dire “c’è sempre una prima volta”, e in genere è vero, quello specifico momento non si scorda mai.
Questo articolo inizia così, con il felicissimo ricordo del primo concerto a cui sono andata.
Erano i tempi delle scuole medie, quando i papà devono accompagnarti in giro e poi venire a riprenderti, quando le amiche e compagne di banco condividono con noi emozioni, sogni ed esperienze, quando la possibilità di conquistare il ragazzo di terza – o addirittura delle superiori – è la stessa che uscire con la propria “star” del cuore: nulla.
Chissà se la mia amichetta dell’epoca lo rammenta ancora? Il fragore della folla, la felicità di cercare i posti a sedere, le luci che si spengono, gli occhi azzurri di Nek che lampeggiano nel buio come i fari dietro le quinte.
Le canzoni gridate a squarciagola sono ancora oggi fotografie stampate e gelosamente conservate nel mio album dei ricordi, testimonianze di vita, rimembranze dal sapore “vintage”, prova dell’esistenza di un’epoca priva di “social network”, quando stampare era un rito importante e costoso, non solo una moda lanciata dalle “app” più in voga del momento.
Utilizzando l’ “escamotage” stilistico della metafora, la vicenda del Teatro Colosseo è paragonabile ad una raccolta in nuce di stati d’animo, meraviglie, applausi, flash e luci dei cellulari, una specie di collezione appena iniziata che si spera possa ampliarsi ancora per moltissimo tempo.

Il Colosseo è infatti uno dei teatri più recenti del capoluogo piemontese; esso sorge nel rumoroso quartiere di San Salvario, vicino al rigoglioso Parco del Valentino. La struttura, risalente alla fine degli anni Sessanta, è compresa in un signorile palazzo decorato di via Madama Cristina 71, mentre l’accesso tondeggiante fa angolo con via Bidone.
Eppure, nonostante la giovane età, il Colosseo è annoverato tra i più importanti teatri torinesi, questo perché chi si è occcupato di gestire il teatro ha sempre dimostrato grande abilità nell’organizzare non solo spettacoli di prosa, ma anche “performance” di personaggi di fama, conferenze e concerti di artisti italiani ed internazionali.
Conosciuto soprattutto nel frangente musicale, il Colosseo è una sorta di tappa obbligata di varie “tournée” di cantanti contemporanei e tutt’oggi si conferma come uno dei palchi maggiormente frequentati da personalità assai note.
Quando viene edificata, la struttura è pensata per ospitare una palestra di pelota, dopo qualche tempo però la sua funzione muta e diviene sala cinematografica; è tuttavia necessario attendere gli anni Ottanta affinché gli spazi siano definitivamente adibiti ad ospitare rappresentazioni teatrali.
Questo ultimo cambiamento si deve al siciliano Francesco Spoto, fondatore, proprietario dello stabile, ed effettivo “papà” del teatro.
Francesco è originario di Lentini, a sedici anni giunge a Torino e da quel momento in poi dedica anima e corpo alla città sabauda. Nel 1981 compra l’edificio che avrebbe preso il nome di “Colosseo”, pian piano, grazie al suo atteggiamento sicuro e forte, l’imprenditore rende la struttura un punto nevralgico dell’intrattenimento torinese, dando vita ad un vero e proprio teatro moderno.

Egli finanzia, sul finire degli anni Ottanta, il primo spettacolo teatrale del celebre trio Lopez Solenghi Marchesini. In tale occasione, Spoto, dotato di evidente acume imprenditoriale, paga in anticipo i tre artisti con ben tre settimane di tutto esaurito, ancora prima che questi finissero di scrivere la sceneggiatura dell’esibizione. La buona fede e il fiuto di Francesco risultano ben riposti, il successo dello “show” supera di gran lunga le aspettative, tanto da vincere il Biglietto d’Oro (1987) per il maggior incasso teatrale dell’anno.
Ad oggi il teatro rimarca la sua importanza con una capienza decisamente notevole, di circa 1.503 persone; all’interno la struttura presenta un’ampia sala, adibita a contenere il pubblico, puntellata di poltroncine in velluto rosso e suddivisa in due settori, Platea e Galleria.
L’esterno è altresì al passo con i tempi: impattanti murales colpiscono lo sguardo e testimoniano la realtà della “street art” torinese.
Per sottolineare la centralità del teatro nella scena della città subalpina, non posso a questo punto esimermi dall’accennare a qualche nome di alcuni degli artisti più illustri che si sono esibiti proprio su questo palco.
Per quel che riguarda il contesto musicale, è giusto ricordare Domenico Modugno, Lucio Dalla, Angelo Branduardi e Gianna Nannini. Non meno importanti sono gli artisti internazionali passati di qui, tra cui lo statunitense Barry White, che si esibisce a Torino nel 1990, o ancora, sempre nello stesso periodo, Joen Baez e Gloria Gaynor.
In tempi decisamente più recenti il teatro ospita l’italo-albanese Ermal Meta, che nel 2018 decide di chiudere proprio qui, davanti al pubblico del Colosseo, il suo tour “Vietato Morire” basato sulla omonima canzone con cui ha vinto il “Premio della Critica Mia Martini 2017”.

Per quel che riguarda la recitazione, il 2013 è un anno particolarmente fortunato, poiché due figure emblematiche della scena italiana riempiono con i loro monologhi la sala del teatro e il cuore degli spettatori. Nell’aprile di quell’anno Gigi Proietti propone “C’è gente stasera?”, titolazione che prende ironicamente spunto dalla più tipica e temuta domanda di ogni teatrante; nel dicembre sempre 2013 il premio Nobel Dario Fo debutta con “In fuga dal Senato”, spettacolo attraverso cui porta avanti le battaglie sociali della moglie Franca Rame.
Permettetemi ora una minuscola divagazione proprio su quest’ultimo aspetto.
Ho già avuto modo di esporre il mio personale punto di vista sul mondo dell’arte e dello spettacolo, credo fermamente che queste dimensioni debbano sopravvire al tempo, alle mode e alle abitudini, a tutti i costi, poiché “L’arte è una bugia che ci fa realizzare la verità” (Picasso).
Scopo del teatro non è solamente quello di intrattenere, al contrario ciò a cui assistiamo deve portarci a pensare, ragionare, deve scuoterci dentro e renderci ancora più attenti alle complessità del mondo in cui viviamo.
Lo spettacolo è di certo anche critica, statira, denuncia.
Dario Fo, in quell’occasione in particolare, propone una “performance” complessa, una miscela di letture, idealismo e voglia di rivincita sociale, tutto basato sull’omonimo testo autobiografico della moglie, che racconta in quelle pagine la sua breve ma sentita esperienza come senatrice tra il 2006 e il 2008.
Si ride e si scherza, con le parole di Fo, ancora udibili da qualche parte su youtube, ma si riflette anche, allora forse più facilmente di oggi, poichè con la scusa del “politicamente corretto” la censura dilaga, zittendo anche chi ha fatto della parola il suo mestiere.
Per fortuna, ora non rimane in silenzio il Colosseo, che riparte dopo il traumatico periodo di chiusura pandemica, con un calendario ricco di appuntamenti, di ospiti e celebrità.
“Largo ai giovani” dunque, che questa esortazione valga in senso lato, per persone, edifici e gestioni; va da sé, il confronto con le esperienze dei colossi storici è assai difficoltoso, ma tra un Regio e un Carignano, ricordiamoci di far qualche volta visita anche al moderno e “sbarbato” Colosseo.

Alessia Cagnotto

 

Un libro di poesie-preghiere dedicate all’amata nonna

LIBRI / “Nei cinque sensi e nell’alloro”, il libro di Strinati dedicato all’amata nonna, passando per i luoghi spirituali della città di Torino, a cui è strettamente legato tanto da dedicarle numerose poesie.

Dopo un lungo viaggio intrapreso nella regione Piemonte, Fabio Strinati sceglie la spiritualità come sentiero da percorrere, e lo fa, partendo da alcuni luoghi spirituali della città di Torino, come la Chiesa di Santa Barbara, la Chiesa di Sant’Agostino e la Chiesa della Salute.

Parole essenziali ma dai tratti suggestivi. Poesie spirituali che narrano una vicenda intima e profonda. Nei cinque sensi e nell’alloro è una raccolta poetica che nasce da un bisogno irrefrenabile di raccontare un dolore forte vissuto con il cuore in mano e la penna come compagna di un viaggio, a tratti sterminato; brevi poesie-preghiere che portano in superficie il dono della parola come testimonianza rara di una storia eterna.

Strinati, disegna versi partendo da un pensiero colto e raffinato; spontaneità e naturalezza, fanno da cornice a un grido che parte da lontano, portando in dono una dedica toccante, che recita: “Dedico alla mia amata nonna questa raccolta che tanto assomiglia al suo volto luminoso; al suo cuore rosso, radioso, riposto nel fiore profumato d’una culla, lassù nel Paradiso che porta il nome di Teresa”. Parole pregne di significato. Versi che portano il peso di un dolore interminabile. Come fosse un lungo percorso illuminato dai fari d’una rinascita figlia della Vita, ogni poesia è pregna d’una Fede rara, che si manifesta con sincerità assoluta.

“Si tratta del libro più giusto che io abbia mai fatto: poter donare a mia nonna un’eternità più longeva ed ampia attraverso un percorso poetico e spirituale che tanto mi riempie il cuore”.

 

Saviano, le mafie, la distruzione della famiglia

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Mi è apparsa  fin da subito una forzatura demagogica la pubblicazione sul “Corriere della Sera” di un’intera pagina affidata alla penna di Roberto Saviano. Essendo lontano mille anni luce da Saviano e non ritenendolo un interlocutore con cui discutere, non leggo mai la sua pagina.

Ma l’ultima di domenica 8 agosto non ho potuto non leggerla dopo quanto mi è stato segnalato. Scrive il noto scrittore ipercelebrato che “se non esistesse il concetto di famiglia, non esisterebbero le organizzazioni criminali“, con un’affermazione apodittica senza la benché minima dimostrazione storica. La famiglia come male da estirpare, lanciando  i nuovi “patti d’affetto“ che sanno tanto di ddl Zan. Egli rimette in discussione il ruolo della famiglia nella nostra società, sostenendo che le mafie finiranno con la fine delle famiglie . “Quando l’umanità troverà nuove forme d’organizzazione sociale, nuovi patti di affetto, nuove dinamiche in cui crescere vite”, la mafia verrà sconfitta  il che equivale a dire che l’idea di famiglia è un’espressione di comunità contigua alla mafia. Un’affermazione paradossale, anzi aberrante e soprattutto non fondata storicamente. Le analisi sulla famiglia borghese di Marx e di Hengel erano più problematiche e meno settarie. Anche il “libero amore“ nella Russia sovietica fu per il popolo uno slogan propagandistico e un’opportunità concessa solo alla nomenclatura. Ma in effetti nell’URSS liberticida le affermazioni di Saviano sarebbero costate al suo autore il gulag o il manicomio. Forse Saviano è anche nostalgico delle fallimentari “comuni” sessantottine che coniugavano nudismo, droga e promiscuità, anche se parla di nuovi patti senza  però darne una definizione. Sarebbe interessante capire a cosa si riferisca di preciso. Il Nostro precisa che questi giudizi vanno estensivamente  applicati anche  alle famiglie non criminali borghesi perché il vero bubbone è il capitalismo. Come si faccia a dire che la famiglia sia un male da estirpare, non è chiaro. Solo un vetero  -marxista -leninista che non conosce la storia  reale dell’URSS ,può giungere a certe affermazioni. Temo che non si tratti di paradossi, ma di convinzioni reali. Io sono abituato a rispettare tutte le idee, soprattutto  quelle più intollerabili: così si comportano i liberali che non possono tuttavia essere indifferenti ad alcuni principi etici irrinunciabili. Resto infatti tenacemente fermo all’articolo 29 della Costituzione che parla della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. La cellula fondamentale di qualunque società è la famiglia e la sua disgregazione equivale al nichilismo più assoluto che genera dei veri e propri mostri.
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scrivere a quaglieni@gmail.com

La quadratura dei cerchi

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Economia / IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

In questo periodo siamo tutti piacevolmente coinvolti nel celebrare le “nostre” vittorie sportive ai giochi olimpici di Tokyo.

Ne va dell’orgoglio nazionale ed anche, più prosaicamente, dell’ indotto economico che ha preceduto ed accompagnerà in futuro gli allori olimpici.

Sorprende sempre, purtroppo, come quando si parla di cultura in Italia (le immagini sono tratte da un articolo del Sole 24 Ore e da un rapporto di Unioncamere e Fondazione Symbola) lo sport non sia minimamente menzionato.

Eppure l’attività sportiva è senza dubbio parte integrante del nostro patrimonio culturale e contribuisce in modo importante alla formazione dell’individuo ed alla sua salute fisica e psicologica.

Dal punto di vista economico le attività sportive ed il loro indotto pesano già intorno al 4% del PIL arrotondando così al 10% quello della cultura “allargata”.

 

Il rapporto “Io sono cultura” evidenzia, inoltre, come un euro investito nel settore generi un beneficio pressochè doppio, innescando e attirando altre attività economiche, al Paese.

 

Si parla quindi, complessivamente, di circa un quinto del Pil nazionale legato, direttamente o indirettamente, alla cultura ed alla creatività.

 

Torino con la sua provincia è al terzo posto (e non troppo distante dalle capolista Milano e Roma) come peso di questo comparto sul totale dell’economia locale e la sua grande tradizione sportiva ed olimpica (rinvigorita dall’ultima nata all’ombra della mole: la federazione internazionale di arrampicata) rappresenta una ulteriore ottima potenzialità da valorizzare, dando un seguito concreto ed organico (non solo episodico) ai prossimi ATP di tennis.

Sarebbe veramente la quadratura del cerchio/cerchi olimpici se cogliessimo l’occasione per fare un salto culturale (appunto…) ed includessimo lo sport tra i settori da valorizzare del nostro Paese.

Solo allora potremo aspirare a salire, come ci compete, sul gradino più alto del podio della cultura.

I falsi liberali improvvisati

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Chi si oppone alla vaccinazione di massa e al green pass invoca spesso argomentazioni apparentemente liberali. Si tratta di una mistificazione ambigua e falsa perché questi signori (sia i politici e che i manifestanti in piazza  sono persone senza la benché minima qualità intellettuale

Gente senza qualità, come diceva Musil. E’ gente che non ha mai letto seriamente un libro in vita sua. Alcuni hanno evidenti  ascendenze neo-fasciste, velocemente e solo  provvisoriamente occultate. Non sanno che la libertà per i liberali è sempre e soltanto libertà responsabile  e che la libertà si è fusa, a partire dal secolo scorso, in modo indissolubile con la democrazia. Non a caso,  nella loro confusione mentale, sostengono  la democrazia illiberale di Orban e di fronte alla pandemia invocano invece in Italia atteggiamenti che ammantano di  un liberalismo di facciata appreso in un corso accelerato al Cepu. Mettersi nelle condizioni di infettare il prossimo è un atteggiamento barbaro, anzi da cavernicoli. Il liberalismo nacque molto dopo e fu una grande conquista civile e culturale sia nella versione inglese, sia nella versione  francese. Anche la versione italiana ha  avuto esponenti del calibro di Croce e di Einaudi che furono  sempre uomini di cultura eticamente responsabili. Oltre ai neofascisti a dare lezioni di liberalismo si aggiunge l’ex comunista Cacciari, del tutto estraneo alla cultura liberale. Da liberale da oltre cinquant’anni, appartenente ad una famiglia liberale che può vantare il nome di Marcello Soleri, sento il dovere di denunciare l’appropriazione indebita di una concezione etico-politica che è del tutto estranea a chi crea confusione e proteste ingiustificate , dicendo di voler difendere la libertà. Lo scrivo a nome di tutti i liberali:  da Cavour a Giolitti, da Croce a Einaudi, da Pannunzio a Malagodi, da Badini Confalonieri a Zanone, da Altissimo a Biondi. I liberali che hanno avuto come simbolo la bandiera tricolore, hanno sempre avuto il senso dello Stato che hanno fondato nel 1861 come stato  liberale di diritto. E hanno avuto sempre la capacità di essere patrioti soprattutto nei momenti più drammatici della storia italiana ed europea. E in momenti tragici  come questi  i patrioti stanno dalla parte di chi vuole una libertà solidale senza ambiguità che si ponga l’obiettivo di salvare vite umane. Che la mia ex allieva Laura Marruccelli nipote dell’eroico generale Giuseppe Perotti capo del comitato militare del CLN piemontese fucilato al Martinetto, abbia fatta la scelta di difendere le ragioni della tutela della salute pubblica è un fatto che mi conforta e mi riempie di orgoglio.
(Immagine tratta da nicolaporro.it)

“L’orto fascista” Romanzo / 10

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XL

Quando il prete apparve in cima alla scala, tra i 18 imprigionati serpeggiò la paura. Se avevano man-
dato un prete per confortarli e, eventualmente, somministrare i sacramenti, era perché il loro destino era stato deciso e la loro esecuzione vicina.
Don Pompeo capì al volo la situazione e, con un sorriso non troppo ampio dato il momento tragico, disse ad alta voce perché tutti lo sentissero:
“Allegri, sono qui non per darvi l’estrema unzione o per ascoltare i peccatacci che avete sicuramente commesso. Sono qui perché hanno pensato che anche un prete possa essere loro nemico e che è bene quindi tenerlo al fresco.” Continuò quindi raccontando l’incontro avuto con lo Sturmbannführer, guardandosi bene dal far capire che era tutta una bufala: tra i 18 ci poteva essere anche una spia dei tedeschi. Meglio essere assolutamente cauti.
Gli imprigionati non erano sicuramente in buone condizioni dopo tante ore di detenzione, ma si sentirono un po’ più sereni quando ascoltarono il racconto del prete. Se i tedeschi avessero scartato l’ipotesi politica, la loro reazione, forse, sarebbe stata meno violenta.
Non era stato dato loro né un goccio d’acqua né, tanto meno, da mangiare. Per i loro bisogni avevano usato un tubo di cemento rotto che spuntava a livello del pavimento in terra battuta e non si sapeva dove finisse. Purtroppo non avendo una sufficiente inclinazione gli escrementi ristagnavano e nell’ambiente aleggiava un’orribile puzza di urina.
Lo scantinato era diviso in tre locali senza porte: solo due ricevevano una scarsa illuminazione da una finestrella vicina al soffitto. Poiché lo scantinato era quasi completamente interrato, le finestrelle dovevano essere all’altezza del giardino che circondava la casa. A quell’ora la luce cominciava a scarseggiare e gli ambienti erano pratica- mente al buio.
“Non voglio sfruttare la mia posizione di prete” disse don Pompeo cercando di mantenere un tono il più scherzoso possibile, “e non voglio fare neppure il rompi- balle” continuò. “Ma, data la situazione nella quale ci troviamo, pregare un po’ il nostro Dio, sperando che ci dia una mano, non farà sicuramente male a nessuno. Io inizio a recitare il rosario, chi ha piacere risponda. Gli altri sono solo pregati di non disturbare”. Ma tutti, credenti e no, questi ultimi dapprima stentatamente, rispo- sero alla preghiera.
Alle diciassette la porta fu violentemente aperta. Una SS scese rumorosamente la scala e, preso per un braccio don Pompeo, lo spinse verso il piano superiore pronunciando in tedesco parole incomprensibili, ma che suonarono a tutti minacciose. Ritornando poi nello scantinato si guardò intorno ed indicato uno dei presenti, scelto a caso, lo invitò con un gesto a dirigersi verso la porta che aveva lasciato aperta.

Fausto Domeneghini, il figlio del pasticcere del paese, un uomo di circa 40 anni timido e introverso, che sicura- mente non aveva mai fatto male a nessuno, si trovò così a essere la prima vittima del furore tedesco. Insieme al sacerdote fu portato, da due SS grandi e gros- se, in una piccola stanza del primo piano. Una stanza desolatamente vuota ad eccezione di due sedie, una sistemata in un angolo e l’altra al centro della stanza. Sulla prima fu fatto sedere don Pompeo, al quale furono legate le mani dietro la schiena e le caviglie alle gambe della sedia. Sulla seconda il Domeneghini, al quale fu riservato lo stesso trattamento. Quando i due furono sistemati, la porta si aprì ed entrò lo Sturmbannführer, seguito da una pallida e tremante Annetta.
Questa, evidentemente sollecitata dall’ufficiale tedesco, chiese ancora al Parroco se intendeva o meno rivelare i nomi dei due assassini. Don Pompeo, pur preso da un attacco di panico, negò ancora la sua disponibilità. Annetta tradusse la nuova lunga frase che il Comandante le aveva detto, con voce quasi piangente
“Voi, don Pompeo, non sarete toccato, nessuno vuol prendersi la responsabilità di farvi del male. Ma il Fausto sarà picchiato sino a quando non cambierete parere. Ci pensi, per favore” soggiunse con fervore. Uno dei militi della SS si tolse la giacca, indossò un gros- so grembiule che chissà dove aveva trovato e che lo rendeva ancora più minaccioso, strinse nella mano destra un tirapugni in metallo, che si era tolto da una tasca dei pantaloni, e cominciò a colpire il Domeneghini che, tenuto dall’altra SS per i capelli, era costretto a mantenere il capo eretto.
Pugni violenti al viso, allo stomaco, alle spalle, alle gi- nocchia. Uno dietro l’altro, senza un disegno preordinato ma che erano mirati a fare più male possibile. L’uomo iniziò a urlare, mentre il viso diveniva una maschera di sangue perché il ferro del tirapugni lacerava i tessuti. Annetta, sempre più pallida, dopo poco si precipitò fuori della stanza e vomitò rumorosamente.
Don Pompeo più che impaurito era incredulo allo spettacolo che stava avvenendo sotto i suoi occhi. Urlò anche lui, pregò che smettessero, li maledisse ma non ottenne nulla.
Allora si mise a pregare Dio, lo chiamò in causa perché intervenisse a fermare un simile obbrobrio. Quando la SS si fermò pensò di essere stato ascoltato. Ma quando questa, ripreso fiato, ricominciò nella sua azione distruttiva rimase muto, incapace di fare nulla.

Per fortuna il Domeneghini, non sopportando ulterior- mente il dolore, perse i sensi. Se non fosse stato trattenuto, sempre per i capelli, sarebbe caduto in avanti procurandosi altre lesioni. Il viso si stava gonfiando, l’occhio sinistro era scomparso sotto uno strato di sangue e neppure si vedeva se esistesse ancora. Ferite sulla fronte e sulle guance. Pure le ginocchia, colpite più volte, si vedevano sanguinare attraverso i buchi e gli strappi dei pantaloni. I due vennero liberati dalle sedie alle quali erano stati legati e trascinati nuovamente in cantina. Nessuno dei due si reggeva in piedi. Non il Domeneghini che non aveva ancora ripreso i sensi, ma che comunque non avrebbe potuto camminare soprattutto per i pugni ricevuti alle ginocchia; non il Pompeo che, come paralizzato dallo shock, non riusciva a muovere né le braccia né le gambe. Quando arrivarono in cantina e furono buttati sul pavimento, il terrore invase la mente di tutti i presenti. Erano talmente impressionati dalle condizioni del Do- meneghini che nessuno, per minuti, riuscì a muoversi per dargli aiuto. Un aiuto difficile da fornire, essendo to- talmente privi di acqua o di qualsiasi liquido per pulire e medicare le ferite.

 

XLI

Il fatto che il Parroco non avesse partecipato ai Vespri senza averlo avvertito preoccupò molto don Arlocchi. Infatti tutte le volte che don Pompeo non aveva potuto intervenire a una cerimonia per una qualsiasi ragione, si era sempre premurato di avvisare il suo coadiutore. Finita la recita del rosario aveva affidato la chiusura della chiesa al Silestrini, il sacrista, e si era diretto alla casa par- rocchiale per avere notizie del suo superiore. Probabil- mente non stava ancora bene: alla mattina quando lo aveva incontrato, anche se pieno di verve, era pallido e visibilmente stanco.
Quando arrivò in parrocchia gli aprì l’Elvira. Neppure lei aveva notizie di don Pompeo ed era preoccupata an- che perché era la prima volta che il Parroco non le aveva dato le solite precise istruzioni per la cena. “Fammi sapere, per favore, quando torna e come sta. La cosa è strana e sono veramente preoccupato. Chissà che cosa gli è successo?”
Si diresse verso la sua povera casa cercando, tra sé e sé, di trovare una spiegazione plausibile, ma non gli veniva in mente nulla di accettabile. Entrato nel portico si trovò improvvisamente davanti a una persona che, al momento, non riconobbe. Era una donna che, tenendosi stretta al corpo una pelliccia, tremava visibilmente.
Capì infine che era l’Annetta, la bella figlia dell’avvocato Duchi. “Cosa ci fai qui sulle scale? Cosa è successo?” le chiese calmo perché stava iniziando ad abituarsi alle visite strane in ore altrettanto strane. La donna si alzò in piedi e gli si buttò tra le braccia piangendo. “Ma cosa è successo, benedetta ragazza? Calma, calma vieni di sopra e raccontami tutto” e presala per un braccio la guidò verso il suo appartamento. In cucina la fece sedere, riempì un bicchiere d’acqua e glielo porse. Si tolse il tabarro, la sciarpa di lana ruvida che gli aveva fatto la sua perpetua ed una specie di papa- lina che portava sempre all’aperto, estate e inverno. “Bevi un sorso d’acqua. Se vuoi ti scaldo un caffè. Ma calmati, benedetta ragazza, che mi metti in confusione. Ci mancava anche questo, con tutti i pensieri che ho già per la mente”. “Li ammazzano tutti di botte, li ammazzano don Arlocchi. Oggi hanno picchiato a sangue il Faustino, il figlio del pasticcere, lo conosce, vero? Forse è morto” balbettò tra i singhiozzi la donna. “Ma chi, ma cosa? Io non capisco. Oh povero me, Signore Gesù, Madonna santa, aiutatemi, io non ce la faccio più. Calmati, prendi fiato e raccontami tutto se vuoi che capisca” e anche lui si lasciò cadere su una seggiola.

Annetta si asciugò gli occhi, si soffiò il naso e, dopo aver tirato un paio di lunghi sospiri, raccontò tutto quello che era successo in sua presenza. Ogni tanto veniva interrotta, per chiarire qualche particolare, da un don Arlocchi sempre più agitato e che aveva iniziato a sudare abbondantemente. Quando Annetta arrivò a raccontare che il Parroco aveva riferito ai tedeschi di aver confessato due uomini di un paese vicino che si attribuivano la responsabilità di aver ucciso il soldato tedesco, don Arlocchi fece un salto sulla seggiola rimanendo con la bocca spa- lancata. Alla fine del lungo racconto il povero prete non sapeva più a che santo votarsi. Com’era il fatto che due persone avevano confessato al Parroco di aver ucciso il soldato tedesco se a lui lo avevano raccontato due perso- ne diverse? Ma quanti erano quelli che avevano fatto l’at- tentato? E perché avevano arrestato il suo Parroco se que- sti non aveva agito diversamente da quanto avrebbe fatto un altro sacerdote?
Le idee in testa si ingarbugliavano e lui cominciò a pas- seggiare avanti e indietro per la piccola stanza, bronto- lando tra sé e sé e cercando di mettere in ordine i fatti. – Un padre, un fratello, il Russì, il farmacista Temperini. Ma non è che Annetta aveva capito male? Il Russì e il far- macista non avevano sorelle ma, se per questo, non ave- vano neppure più un padre. E se uno dei due fosse anda- to a confessarsi anche da don Pompeo? Ma con quale scopo? Lui non aveva negato l’assoluzione, l’aveva solo rimandata. E poi di quelle cose così delicate meno gente ne sapeva meglio era. Ma se anche fosse andata così, il padre da dove spuntava? Oh Signore, io ti ringrazio per avermi fatto arrivare alla mia età senza dover affrontare grossi problemi. Ma negli ultimi tempi non è che stai un po’ esagerando? A me, un povero prete di campagna, non è possibile dare tutte queste responsabilità. Io non ce l’ho l’esperienza. A ognuno la sua croce, va bene. Io se devo portarla la porto, ma per dare aiuto agli altri in certe situazioni si deve avere o la predisposizione o l’e- sperienza. E io non ho né l’una né l’altra. Oh Signore e adesso io cosa faccio? Guidami tu, ti prego. Diciotto parrocchiani in carcere che rischiano di essere uccisi e con loro il mio Parroco. No, scusami Signore, ma è troppo. Madonnina, anche tu, dai, non negarmi il tuo aiuto. – “Annetta, vai cara, adesso tu vai a casa. Io mi metto a pregare e qualche soluzione la trovo, vedrai. Se è possibile te lo faccio sapere. Non dire niente a nessuno, per ora. Un segreto tra noi due. Se lo sanno in paese chissà cosa può succedere. Prendiamo tempo sino a domani mattina. E se puoi datti malata e non frequentare più quelle belve. Va’, va’ adesso. E prega anche tu per me che ne ho bisogno”. Così dicendo l’accompagnò alla porta che poi chiuse a chiave. La prima idea sensata che venne a don Arlocchi fu quel- la di avvisare il Vescovo di Brescia. Era un atto dovuto che permetteva anche di diminuire tutte le sue responsabilità. Mettersi nelle mani di un superiore, ascoltare i consigli, eventualmente eseguire gli ordini era la cosa migliore. E poi del Vescovo si diceva un gran bene. Era ostile ai tedeschi ma era riuscito a farsi rispettare e, in alcune occasioni, anche a farsi ascoltare. Dicevano avesse salvato molte persone da morte certa. Ma queste noti- zie si bisbigliavano solo tra amici perché non si poteva dire liberamente che i tedeschi uccidessero gli italiani.
Aveva ancora davanti mezz’ora prima della chiusura del centralino. Doveva fare in fretta, perché alle 20 le linee venivano interrotte d’ufficio e le comunicazioni cessavano. Si rivestì velocemente, prese quei pochi soldi che aveva dal cassetto della scrivania e corse verso l’ufficio postale, all’interno del quale vi era un piccolo spazio con il tavolo per la centralinista e due cabine telefoniche insonorizzate alla bell’e meglio. La centralinista, che era occupata a quell’ora a soddisfare, con le poche linee esistenti, le tante richieste di utenti che volevano telefonare, per un buon cinque minuti non diede retta al prete. Poi, senza neppure salutarlo, rispose alla sua richiesta di chiamare l’Arcivescovado di Brescia dicendo che se lui non aveva il numero neppure lei lo conosceva.
“E’ una cosa estremamente urgente, cara signorina” disse con un tono di voce e un cipiglio anche a lui sconosciuto “O lo cerca lei sull’elenco o mi dà l’elenco e lo cerco io. Tutto questo con estrema sollecitudine, per favore”. La donna, che conosceva il prete come una persona timi- da e introversa, fu colpita dal suo modo di fare e capì quanto la cosa fosse grave. Dopo pochi minuti disse: “L’arcivescovado di Brescia è in linea sulla due” riferendosi alla cabina numero due. Don Arlocchi, preso sempre più dai propri pensieri, ai quali si aggiungeva il disagio di dover parlare direttamente con il suo Vescovo, non capiva. Allora la centralinista gli fece cenno con la mano e il prete entrò nella cabina.
“Scusate il disturbo. Mi spiace tanto disturbare, davvero. Ho bisogno con urgenza di conferire con sua Eccellenza il Vescovo. E’ una cosa così importante, sa? Deve proprio passarmelo”.
“Le passo il Segretario. Aspetti!” rispose una voce sgarbata ed asettica. Dopo un tempo che a don Arlocchi sembrò lunghissimo, una voce da bambino malato chiese: “Chi vuol parlare con Sua Eminenza a quest’ora? Soprattutto per quale motivo?” e ribadì “A quest’ora”. Co- me per dire: ma dovete proprio disturbare in questo momento quando stiamo andando a cena?
“Sono un prete, sa, il coadiutore del Parroco di Breno, signor Segretario mi dispiace, sa, ma devo proprio parlare con Sua Eminenza. E’ una cosa grave e riservata”.

Il Segretario, probabilmente offeso dal fatto che lo si volesse saltare per una “cosa grave e riservata” – lui che del Vescovo godeva grande fiducia – avendo anche saputo degli arresti avvenuti a Breno, perdonò il suo interlocutore. “Vedo di fare quello che posso sperando di rintracciare Sua Eminenza” come se non sapesse che il prelato si era appena accomodato a cena nella grande sala da pranzo del palazzo vescovile. “Sono il Vescovo” arrivò alle orecchie di un tremebondo don Arlocchi il suono caldo e suadente del prelato “Sia lodato Gesù Cristo. Cosa posso fare per voi, figliuolo?” A questo punto, trovandosi in comunicazione con un personaggio così importante che lui aveva solo visto, e ammirato, a distanza, e con il quale non era mai riuscito a parlare né l’unica volta che era stato in Arcivescovado, né durante le visite pastorali a Breno per la somministra- zione delle cresime – tenuto sempre a debita distanza dal Parroco che voleva, solo lui, apparire al Vescovo – il cervello del povero prete andò, letteralmente, in acqua. “Sia lodato anche Lei Santità, no, scusate, Sua Eminenza. Mi prostro e bacio l’anello a Sua Eccellenza. Mi deve tanto scusare se la disturbo. Ma sono… in ambasce, sì, credo si dica così. Insomma non so proprio come dire. Ma qui a Breno stanno succedendo cose enormi, incredibili. Sì, proprio un’Apocalisse. Il Parroco è stato arrestato dai tedeschi perché ha detto che in confessione un padre ed un figlio hanno ucciso un soldato tedesco. Non so se sa. L’attentato lo chiamano. Ma io non so, perché io so che l’attentato lo hanno fatto altri due che hanno confessato a me, e la donna… non si sapeva nulla di una donna messa incinta, con rispetto parlando, Sua Eminenza. Sa io di queste cose non so, non capisco nulla. E adesso li vogliono ammazzare, tutti e 19, perché sono 18 più il Parroco. Vogliono ammazzare a bastonate i tedeschi. Ma no, cosa dico, oh Signur aiutami tu! Sono i tedeschi che vogliono ammazzare a bastonate i 18 che sono poi 19 perché c’è anche il Parroco don Pompeo Cappelletti, che Lei Eminenza sicuramente conosce. Io non so cosa fare. Mi aiuti Sua Eccellenza, mi aiuti, la prego”.
Il Vescovo che aveva cercato più volte di fermare lo sproloquio di don Arlocchi senza riuscirvi, in un momento di pausa, che il coadiutore si era preso per tirare il fiato, riuscì a intervenire. Con un tono fermo ma dolce, come se parlasse ad un bambino, riuscì a dire:
“Si fermi, figliuolo. Glielo ordina il suo Vescovo. Non parli e mi ascolti. Io non ho capito nulla di quanto ha cercato di dirmi. Ora io le farò delle domande ben precise e lei mi risponderà con calma e con precisione. I fatti, solamente i fatti e nulla di più. Ha capito?”
“Oh Sua Eccellenza, sì, ho capito, credo di aver capito. Sa io sono un povero prete ignorante di campagna e mi confondo quando parlo con Sua Eminenza. Che poi non è che ci sono abituato, che è la prima volta. Comunque mi domandi, per favore ed io, prostrato davanti a Sua Eccellenza, cercherò di rispondere nel modo migliore”. Il Vescovo iniziò a fare semplici domande precise e a ricevere risposte semplici e coerenti. Dopo dieci minuti era riuscito a rendersi conto della situazione e, non lasciando trasparire la rabbia che lo aveva assalito per il comportamento dello Sturmbannführer, cercò, prima di sa- lutare l’Arlocchi, di rassicurarlo promettendogli che non sarebbe stato lasciato solo. Non prendesse nessuna iniziativa prima che il suo Segretario, che avrebbe raggiunto Breno con il primo treno dell’indomani mattina, non si fosse messo con lui in contatto.
Solo dopo il termine della telefonata il Vescovo si rese conto di non aver neppure chiesto il nome al suo inter- locutore.

 

XLII

“Quel don Cappelletti, devo dire, non mi è mai piaciuto. Sempre sfuggente, un po’ viscido, mai un sorriso, con quel suo tono di voce monocorde…” stava dicendo al suo Segretario, dopo una parca cena consumata velocemente. “Ma, devo ammettere, una persona decisamente furba. Ha messo in scacco i tedeschi. O quanto racconta è vero e allora non possono né costringerlo a parlare, né possono uccidere degli uomini per pura vendetta e non quale ritorsione, trattandosi di un comune delitto, o si è inventato una grossa menzogna. Ma anche qui i tedeschi non possono fare nulla contro la popolazione. Si verrebbero a conoscere le parole del Parroco, i tedeschi sarebbero anche accusati di stupro e, dal punto di vista strettamente politico subirebbero una grande debacle. Sicuramente anche i fascisti non sarebbero d’accordo e la frattura già esistente tra loro e gli alleati tedeschi si amplierebbe a dismisura”.
“Don Mandelli, desidero che lei vada domani mattina a Breno, prima possibile. Non in auto perché apparirebbe una visita ufficiale. Può prendere il primo treno. La dispenso, data la gravità del fatto, di dire messa. Arrivato lassù contatti quel buon uomo del coadiutore”. “Si chiama don Arlocchi, Eminenza” lo interruppe il Segretario.
“Ecco, bene contatti don Arlocchi e poi, con le sue riconosciute abituali cautele, si informi presso la popolazio- ne. Quali sono state le reazioni agli arresti, quali i pensieri su don Cappelletti… beh, lei sa bene come fare in questi casi. Più si sa e meglio è. Rimanga a Breno tutte le ore necessarie, ma se ritiene vi sia qualcosa che devo sapere mi telefoni immediatamente. Mi pare io non ab- bia impegni fuori dall’Arcivescovado domani. Controlli, per favore. Anzi, mi lasci la lista delle cose che devo fare e delle persone che devo incontrare. A meno che la situa- zione di Breno si aggravi e allora saltino tutti i programmi. Un’ultima cosa, amico mio. Io intendo incontrare questa sera stessa il Comandante della Gendarmeria tedesca per riuscire a capire se e quali decisioni hanno preso. Lei mi accompagnerebbe? So che è molto stanco e che domani mattina dovrà alzarsi all’alba, ma abbiamo dedicato la vita a Dio e, quando è necessario, non possiamo risparmiarci”.
“Sempre a Sua disposizione, Eminenza. E’ solo un gran- de piacere poter collaborare con Lei e soddisfare i suoi desideri”.
“Ecco, bravo, troppo buono. Chiami i tedeschi, chieda del Colonnello Von Prisch e, se glielo passano, gli dica che voglio, meglio desidero, incontrarlo. Se è così gentile, olio, mi raccomando olio, di accettare ci andiamo subito e lei viene con me. Voglio un testimone… anzi, prenda appunti di quello che dirò. Potrebbe sempre servire a rinfrescarmi la memoria in caso di necessità”.
Quando la telefonata giunse al Comando tedesco, il Colonnello Von Prisch era in una concitatissima riunione iniziata alle 18 quando era giunta da Breno, portata da un motociclista, la dettagliata relazione dello Sturmbannführer. Von Prisch si era reso subito conto della gravità della situazione e aveva convocato nel suo ufficio il capo locale delle SS, il responsabile della polizia politica e i suoi collaboratori diretti.

La situazione in Italia era sempre più complicata. Il nu- mero dei partigiani aumentava di giorno in giorno, la popolazione italiana era sempre più ostile e gli alleati an- glo-americani, anche se bloccati temporaneamente all’al- tezza di Cassino, non erano sicuramente intenzionati a diminuire i loro sforzi di raggiungere velocemente il nord. Von Prisch, come tanti degli ufficiali tedeschi, aveva capito che la guerra per loro era persa e che bisognava pensare al dopo, evitando di creare nuovi motivi di rea- zione da parte della popolazione italiana.
Mettersi apertamente contro il Vaticano, poi, pretendendo da un sacerdote di tradire il suo mandato in un momento così delicato, sarebbe stato un nuovo passo falso. Chiaramente le SS, tanto invaghite del loro Führer da non capire che ormai erano pura follia le sue azioni asse- tate di sangue, pretendevano che venisse compiuta un’a- zione punitiva nei confronti degli arrestati. Anche senza una prova della loro colpevolezza. Per fortuna il peso del pensiero delle SS nei comandi militari diminuiva conti- nuamente. Venivano considerati dei rompiballe, anche se dei temibili rompiballe. All’arrivo del Vescovo il colonnello fece uscire tutti dal suo ufficio. Spalancò le due finestre per liberare la stanza dal fumo dei sigari e delle troppe sigarette che i mili- tari avevano nervosamente fumato nel corso delle 3 ore di riunione. Fece accomodare il prelato su una delle due comode poltrone Frau che si era portato con sé nel corso dei numerosi spostamenti e alle quali non voleva rinunciare per nessuna ragione. Quando vi si sedeva a riposa- re – e la cosa avveniva sempre più raramente – si sentiva un po’ a casa sua. Gli erano state, infatti, regalate da frau Angela, la sua adorata moglie che non vedeva ormai da oltre un anno, per arredare il suo vero primo ufficio a Karlsruhe quando, promosso al grado di Haupmann, era stato mandato a comandare quel distretto.Prese posto nell’altra lasciando che il Segretario usasse una sedia alle spalle del Vescovo.

Dopo i primi convenevoli, il colonnello si alzò, prese una scatola di sigari – conosceva l’unica debolezza del Ve- scovo – la porse all’ospite che, con un ampio sorriso, di- mostrò la sua riconoscenza. Ignorando poi il Segretario, ne scelse a sua volta uno e si rimise a sedere.Sembrava un normale incontro tra amici. Mancava solo un bicchiere di un buon vino d’annata o un sorso di brandy per renderlo più piacevole. Ma il colonnello era diventato drasticamente astemio dopo che il padre, alcoolizzato, era morto di cirrosi epatica. Due uomini di azione, come erano i nostri, non potevano perdersi in lunghi convenevoli. Il primo a introdurre lo scontato argomento fu il Vescovo.Con parole durissime condannò il modo di agire di questi giovani ufficiali.“Non dico solo tedeschi sa, caro colonnello. I giovani d’oggi sono tutti cresciuti nutrendosi di materialismo e la parte spirituale dell’esistenza, che dovrebbe essere la predominante, è misconosciuta, dimenticata e calpestata”. Tornando ai fatti specifici, dichiarò inaccettabile che un sacerdote fosse stato incarcerato unicamente perché si rifiutava, secondo le regole canoniche, di infrangere il segreto della confessione.
“Non ho ancora riferito nulla alla Santa Sede ma sarò costretto a farlo se niente avverrà entro 24 ore. Non vuo- le essere un ricatto, caro colonnello, ma anch’io ho dei superiori ai quali sono tenuto a riferire”. Con grande meraviglia del Vescovo e del suo Segretario la risposta di Von Prisch fu pronta e chiara. Riteneva il giudi- zio del Vescovo sui giovani un po’ troppo severo ma condivideva la preoccupazione che le nuove generazioni non crescessero più con quei principi e quella cultura che erano sempre stati il vanto di nazioni come l’Italia e la Germania. “Mala tempora currunt” continuò il colonnello, “e quando è in pericolo la sopravvivenza, la parte spirituale della vita, inevitabilmente, passa in secondo piano”. Al colonnello, che parlava un italiano fluente, piaceva mettere in evidenza la sua cultura e, quando aveva avuto occasione di incontrare il Vescovo, gli aveva confessato, un po’ vantandosene, un po’, da uomo di preparazione militare, vergognandosene, di aver effettuato profondi studi di filosofia all’università di Bamberg.“Ma veniamo ai fatti di oggi” proseguì il Colonnello. “Io sono d’accordo con Lei che la cosa è stata mal gestita, lo stavo proprio sostenendo poco fa con i miei aiutanti. Sono lieto della sua visita perché ho l’occasione per chiederLe di collaborare perché tutto venga messo a tacere. Noi rilasceremo gli uomini arrestati e il suo sacerdote. Il suo sacerdote non comunicherà a nessuno quanto ha saputo in confessione. Lei quindi non ha saputo nulla e tanto meno il Vaticano. Affossiamo tutto”.
“Mi sembra un accordo ragionevole, signor colonnello” rispose il Vescovo che non aveva sperato tanto e cercava di nascondere la gioia che lo aveva invaso.
“E come faccio ad essere sicuro che verrà rispettato?” “Promissio boni viri est obbligatio, ammesso che Lei mi ritenga un uomo onesto”.
“Certo, lo penso. Anzi ne sono sicuro” rispose il Vescovo. “Abbia la compiacenza di attendermi un attimo. Ho un motociclista che deve rientrare a Breno e devo comunicargli le nostre decisioni. Poi finiremo, in santa pace – mi passerà questo termine signor Vescovo – i nostri sigari”. “Sa, quasi quasi gli chiedevo se il motociclista non potesse dare a lei un passaggio sino a Breno. Poi mi è sembra- to sconveniente, non per lei, ma per il colonnello” disse il Vescovo, che era preso da un’incontrollabile allegria dopo la tensione di tutte le ore precedenti, mentre lui e il suo Segretario rientravano in arcivescovado. Il Segretario non capì lo scherzo e rimase in silenzio a testa bassa. “Domani mattina però, la prego, vada ugualmente a Breno. Magari non con il primo treno, ma presto comunque, per controllare che tutto si risolva, effettiva- mente, nel migliore dei modi. Mi spiace di non poter avvisare io il povero don… come si chiama, ah sì, Arlocchi, ma se il motociclista arriva per tempo e l’ordine viene eseguito subito, in paese si farà sicuramente festa e anche lui vi parteciperà”.

(continua…)

 

 

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Edith Bruck “Il pane perduto” -La nave di Teseo- euro 16,00

Non bisogna mai smettere di ricordare l’orrore dello sterminio degli ebrei, soprattutto oggi che xenofobia e razzismo tendono ad rialzare la testa. E’ questo il valore aggiunto delle pagine autobiografiche in cui la scrittrice ungherese Edith Bruck -nata nel 1931, ultima di 6 fratelli di una modesta famiglia ebrea- nel 1944, poco più che una bambina sprofonda nell’inferno della persecuzione.
Dapprima sperimenta l’ostracismo riservato alla sua stirpe: lei bravissima a scuola è relegata al fondo della classe con altre 2 allieve ebree. Ma è solo l’anticamera dell’atrocità che irrompe con i gendarmi nella sua casa: arrivano e li portano via tutti con la forza, per caricarli sui treni della morte.
E’ l’inizio di un viaggio crudele in cui sono ammassati come bestiame e destinati ai campi di concentramento.
Lei è piccola, spaventata e non sa a cosa sta andando incontro. Dopo 4 giorni il treno frena bruscamente e ad accoglierli ci sono cani feroci e nazisti spietati che operano la prima selezione. Loro non lo sanno, ma la differenza tra essere ammassati a destra o a sinistra sancisce l’immediata morte nelle camere a gas o l’indicibile orrore delle baracche, con fame, freddo, pidocchi, malattia e morte.

Quello che segue è il racconto di una bambina che, separata dai genitori (struggente la scoperta del destino della madre nel campo in cui si cammina sulla cenere eruttata dai camini dei forni crematori), si ritrova a tentare di sopravvivere insieme alla sorella Judit.
Vengono spostate in vari inferni, tra le tappe ci sono Anschwitz, Dacauh e Bergen-Belsen, la macabra toponomastica dello sterminio. Riescono a sopravvivere ma si porteranno sempre dentro il ricordo degli stenti, delle pile di cadaveri che sono state obbligate a trascinare nella piramide umana del Todzelt, ovvero la tenda della morte e dell’infamia nazista.

Quando vengono liberate sprofondano nello spaesamento, nella disperazione e nel senso di abbandono. Ritrovano due sorelle, ma l’accoglienza non è quella sperata. Dilaniante è il senso di estraneità rispetto agli altri ebrei che non hanno conosciuto la mostruosità dei lager; è impossibile che capiscano quello che hanno vissuto Edith e Judit. Va meglio con il fratello che era stato internato col padre e che, come loro, ha attraversato la tragedia.

Judit cercherà il futuro in Israele, mentre Edith realizza di voler scrivere. E’ la genesi della sua lunga e straordinaria carriera di scrittrice di romanzi, poesie e traduzioni, grande testimone della Shoah.
Ed eleggerà l’Italia come paese di adozione, accanto all’uomo della sua vita, il regista Nelo Risi, scomparso nel 2015, col quale aveva costruito un lungo sodalizio artistico oltre che sentimentale.

 

Susan Allott “Una vita migliore” -HarperCollins- euro 18,00

E’ strepitoso l’esordio letterario della scrittrice inglese Susan Allot, che ha vissuto e lavorato negli anni 90 in Australia, salvo poi avvertire la nostalgia di casa e tornare in patria dove ha incontrato e sposato un australiano. Ora vivono a Londra con i loro figli, ma il paese dei canguri le è rimasto nel cuore.
Questo romanzo noir è in qualche modo un omaggio a quella terra e affronta temi corposi come i rapporti matrimoniali, tradimenti, derive di disperazione, alcolismo e violenza domestica, nostalgia per la patria di origine e l’argomento scottante dei bambini aborigeni sottratti arbitrariamente alle loro famiglie.
Una vergogna a lungo taciuta che riguarda la “stolen generation” (la generazione rubata), ovvero i bambini isolani dello Stretto di Torres allontanati con l’inganno e la forza dai genitori, in ottemperanza alla spietata legge dei governi federali australiani in vigore dal 1869 al 1970.
Secondo alcune stime ha coinvolto almeno 100.000 piccoli aborigeni. L’idea era quella di fornire loro un futuro migliore; venivano affidati alle missioni religiose che avrebbero dovuto educarli secondo “lo stile di vita bianco”. Ma in realtà, molti finivano in un buco nero.
Su tutto poi imperversano segreti accuratamente custoditi e la misteriosa scomparsa da 30 anni di una delle protagoniste, della quale non è stato ritrovato neanche il corpo.
Al centro ci sono due coppie che abitano vicine in un tranquillo sobborgo di Sydney, fatto di villette e giardini curati affacciati sul mare e destinati ad aumentare di valore negli anni.
Nel 1967 lì comprano casa gli immigrati inglesi Joe e Louisa con la loro bambina di 4 anni, Isla; e la coppia formata da Mandy e Steve, che di mestiere fa il poliziotto. Agli inizi sembrano giovani, belli e spensierati; ma sotto la superficie albergano inquietudini e insoddisfazione.

Louisa è attanagliata dalla nostalgia di Londra, Joe non la capisce e lei a un certo punto decide per uno strappo doloroso che getta il marito nella disperazione.
Le cose non vanno meglio per l’altra coppia con la quale fanno amicizia. Mandy che fa un po’da baby sitter a Isla, è terrorizzata dalla prospettiva di una gravidanza. Cosa che invece renderebbe felice Steve, il quale a sua volta è dilaniato dal suo lavoro “sporco”; perché è lui che ha lo sgradevole compito di strappare dalle loro famiglie i piccoli aborigeni per relegarli in case di accoglienza ed assistenza minorile.

La storia corre di pagina in pagina su due piani temporali diversi: nel 1967 quando improvvisamente si perdono le tracce di Mandy e poi nel 1997 quando Isla Green, 35enne in lotta contro l’alcolismo e residente a Londra, torna in Australia perché il padre è accusato di essere stato l’ultimo a vedere Mandy ed è il principale sospettato.
Isla deve confrontarsi con il passato, e continui colpi di scena vi indicheranno la strada verso la soluzione del mistero.

 

Linn Ullmann “Gli inquieti” -Guanda- euro 20,00

Ingmar Bergman, nato nel 1918 e morto nel 2007, è stato uno dei registi più geniali e famosi a livello mondiale del 900: autore di opere di profonda introspezione psicologica, sommo maestro nel raccontare drammi interiori, angosce e senso della morte. Sceneggiatore, drammaturgo, scrittore e produttore cinematografico svedese ha lasciato all’umanità pellicole della caratura de “Il settimo sigillo”, “Il posto delle fragole”, “Scene da un matrimonio” ed altre perle della storia del cinema.

Linn Ullman è la figlia del regista e dell’attrice Liv Ullmann, che ebbe ruoli importanti in alcuni film di Bergman e nella sua vita privata. Si innamorarono sul set nel 1964 e dalla loro relazione nacque nel 1966 la loro unica figlia.
Liv capitò tra un matrimonio e l’altro. Per stare con lei, il regista lasciò la sua quarta moglie; i due vissero insieme ma non si sposarono mai e le loro strade presero tangenziali diverse quando Linn aveva 5 anni. La bambina crebbe con la madre, attrice tra le più intense e talentuose della sua epoca, sempre in viaggio tra Europa e America, tra un set e l’altro. Una madre «capace di piegare una sbarra di ferro con uno sguardo» facendo sentire la figlia compresa e amata.
Oggi Linn è un’affermata scrittrice e questo libro è il suo portentoso tributo al padre.
Quasi 400 pagine che ci portano dentro la vita incredibile del genio, dalla vita sentimentale parecchio intensa: sposato 5 volte ebbe in tutto 9 figli da 6 donne diverse.
Un’ incredibile famiglia allargata in cui la prole legò allegramente, soprattutto durante le spensierate vacanze sulla piccola isola svedese di Fårö nel Mar Baltico. Lì, nel villaggio di Hammars, il regista costruì una casa in pietra, con vista sul mare, che negli anni ampliò sempre e solo orizzontalmente, nido del via vai dei numerosi figli.
E’ lì che Bergman scelse di ritirarsi nel tempo del declino, fino alla sua morte a 89 anni il 30 luglio del 2007.

Quando è alla soglie degli 80 anni, e avverte che la memoria sta scemando, Ingmar Bergam è alla figlia più piccola, Linn, che affida il racconto della sua vita, tutto metodicamente registrato e trascritto dalla scrittrice. Nel libro, a metà strada tra opera autobiografica e biografia romanzata, l’autrice mischia ricordi personalissimi alle parole del padre; a volte stentate o sconclusionate, soprattutto quando la memoria stava per arrendersi all’impietoso incedere degli anni.

E’ soffuso di affetto figliale il ritratto di un genio che nella vita privata ha pasticciato tra amori, tradimenti e tratti da Peter Pan; salvo poi venire schiantato dal dolore per la morte dell’ultima moglie, Ingrid, consumata dal cancro.
Emergono anche le debolezze di un padre “monumento”: forte, impeccabile, capace di pensare e creare in grande, ma anche con qualche mania, come la fissazione per la puntualità.

C’è poi l’ultimo tratto di stentata vita del regista, sempre più debole, depresso e relegato alla sedia a rotelle; accudito da uno stuolo di donne governate con piglio dittatoriale da Cecilia, che manda avanti la casa, protegge ogni istante il malato e spesso sgrida anche Linn perché disturba “Pappa” desideroso di pace e silenzio.
Ingmar Bergam fa i conti con l’avvicinarsi di quella morte di cui erano intrisi i suoi film. E fu regista fino all’ultimo, dando le disposizioni da seguire rigorosamente alla sua morte. Pianificò puntigliosamente ogni frame del suo funerale, scrisse e modificò il testamento, decise il luogo in cui voleva essere sepolto e diede anche disposizioni per esumare la salma di Ingrid e farla riposare accanto a lui.

 

Se poi volete leggere altre opere di Linn Ulmann vi consiglio il romanzo “Prima che tu dorma”
-Mondadori-

Anche qui l’autrice racconta la storia di una famiglia norvegese attraverso le vicende di tre generazioni. Voce narrante è quella di Karin che una sera racconta una storia al nipotino Sander, figlio della sorella Julie.
E’ l’avvio di ricordi e pensieri che imbastiscono i rapporti della sua famiglia.
Più che una saga familiare è la narrazione delle tante difficoltà e differenze caratteriali che possono rendere difficile la convivenza tra le pareti domestiche e non solo. Linn Ulmann scava a fondo nell’animo dei personaggi e ci regala un romanzo che, per tematica e modo di affrontare questioni e sentimenti profondissimi, ci rimanda a famosi film del padre, come “Scene da un matrimonio” o “Fanny e Alexander”
A partire dal nonno emigrato in America negli anni 30 e il suo matrimonio con la nonna June; poi la madre Anni, irresistibile ma infelice e alcolizzata, con punte di pazzia. Dotata di una bellezza mozzafiato, ma anche egocentrica e decisamente balzana.
Vivere con lei è difficile se non impossibile, tant’è che il marito abbandona la famiglia quando Karin è ancora piccola; ma continua il legame forte con le figlie -suoi “cuori gemelli”- anche se in modo sporadico.

Poi c’è la sorella maggiore Julie che ha paura dei sentimenti e si relega in un matrimonio stentato, nella falsa speranza di trovarvi la sicurezza che va cercando.
Non manca anche una zia sui generis: è l’ultraottantenne Selma (sorella minore della nonna June), perennemente arrabbiata con la vita e con tutti quelli che le capitano a tiro, a partire dai parenti. Fuma 40 sigarette al giorno, beve come una spugna e sembra che a tenerla in vita sia un’ insondabile e profondissima ira. Tanto per darvi un’idea del personaggio, quando morì la sorella June, lei festeggiò con una bottiglia di cognac. Le due si detestavano dopo un episodio sgradevole capitato quando erano giovani e vivevano ancora in America.
Karin scava nei complessi rapporti di amore ed affetto della sua famiglia, intrecciando ricordi e fantasia; ma parla anche molto di se stessa, dei suoi sogni e delle aspettative deluse, della sua irrequietezza e le difficoltà nel costruire legami solidi.

La passione per la libertà. Ricordi e riflessioni

LIBRI / Pier Franco Quaglieni, noto storico e giornalista, fondatore nel 1968 del Centro Pannunzio con Arrigo Olivetti e Mario Soldati, ha fatto propria e portato avanti per una vita la battaglia per la libertà e per la tolleranza (che altro non è se non il rispetto della libertà altrui).

Definito da Gramellini un «liberale del Risorgimento nato nel secolo sbagliato. Per nostra fortuna.», da alcuni anni presenta al pubblico una panoramica di insigni personaggi italiani del ‘900, con il duplice obiettivo di riconoscere loro meriti troppo spesso taciuti e di indicarli ad esempio per le nuove generazioni. Lascito che diventa necessità impellente con il progressivo scadere del dibattito politico, l’aumento della veemenza e dell’intolleranza nei social, la riduzione progressiva degli spazi dedicati alla libera cultura.

Nel primo capitolo di questa panoramica, Figure dell’Italia civile(2016) l’autore tratteggia i maestri e gli amici che hanno costituito i pilastri del pensiero liberale, e non solo, del ‘900, in parte per averli studiati, in parte per averli conosciuti o averne condiviso le battaglie. Einaudi, Calamandrei, Rossi, Bobbio, Montanelli, Ciampi, Spadolini, Pannella, solo per citarne alcuni, emergono non solo come pensatori, ma nella loro piena umanità, con le loro passioni, le loro incertezze, le loro battaglie che hanno fatto dell’Italia il paese che è oggi. Nel 2018, con Grand’Italia, questa Antologia di Spoon River si arricchisce di altri insigni personaggi, anche non strettamente legati all’idea liberale: Saragat, Gramsci, Eco si affiancano a Guareschi, Martini Mauri, Sartori, Zanone e tanti altri. Nella varietà delle posizioni, si ricostruiscono i contesti politici, i dibattiti, le polemiche, anche molto accese, dei decenni passati. Il dar voce a posizioni anche contrastanti è scelta imprescindibile, non solo per amore di verità storica, ma anche perché, ricordando Gobetti, solo attraverso il confronto le idee poterono e possono proseguire.

Oggi viene alla luce un terzo capitolo La passione per la libertà. Ricordi e riflessioni che, se da un lato integra i lavori precedenti, dall’altro apre a nuove tematiche. Sempre nella duplice accezione di dar loro un riconoscimento e di indicarli quale esempio alle nuove generazioni, trovano spazio personaggi più vicini ai nostri giorni quali Daverio, Biondi, Ostellino o Pansa di cui tutti ricordiamo le opere ed in alcuni casi i forti dibattiti che hanno suscitato (e suscitano). Si arricchisce così questa poliedrica storia del ‘900, rivista con le prese di posizione di molti dei suoi protagonisti, spesso in aperta antitesi tra loro. Solo la profonda conoscenza, unita all’onestà intellettuale ed al rigore storico di Quaglieni, poteva presentare i passaggi fondamentali del secolo, non in modo lineare come un qualsiasi manuale scolastico, ma attraverso le scelte dei suoi artefici. Ritroviamo i dibattiti sull’intervento in Libia nel 1911 o nella Grande Guerra, le posizioni sull’avvento del fascismo e sulla sua caduta, con la conseguente guerra civile, ma anche l’esodo giuliano-dalmata e le foibe. Più recentemente il brigatismo, i dibattiti sulla scuola, i temi sempre divisivi dell’aborto e del divorzio. Tra le tante tematiche ne cito una, illuminante per l’equilibrato modo di porla. Riprendendo la strage delle Fosse Ardeatine, l’autore ricorda una delle vittime, Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo, capo del Fronte Militare clandestino, arrestato per delazione, torturato in modo disumano, che mai parlò tradendo i suoi compagni, insignito di medaglia d’oro della Resistenza. Tacque eroicamente, nonostante fosse stato contrario ad atti terroristici, quale quello di via Rasella che causò la rappresaglia, a cui per poco scampò Pannunzio. Chi invece compì l’attentato, non si consegnò per evitare la strage e, dopo la guerra, ottenne onori e riconoscimenti, sotto la protezione di Amendola. L’aspetto più interessante di questo racconto, è il ritratto che l’autore delinea, alcune pagine dopo, dello stesso Amendola. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, nonostante le responsabilità per via Rasella, il giudizio su Amendola è distaccato e complessivamente positivo. Questo esempio è significativo della personalità e dell’opera di Quaglieni, la capacità, più unica che rara, di mantenere un giudizio equilibrato, scevro di preconcetta faziosità o di umana emotività: storico nel senso più puro del termine. Una perla rarissima, rispetto all’involgarimento cui siamo purtroppo abituati.

Ne La passione per la libertà, l’autore va oltre al ruolo di storico e docente che caratterizzava i primi libri, affiancando quello del giornalista che interviene e partecipa a dibattiti attuali: non a caso è anche una delle firme più autorevoli de il Torinese. Trovano così posto nel volume alcune prese di posizione, anche fortemente polemiche, su temi odierni come l’esclusione di Casa Pound dal Salone del Libro, la lapide sui disertori al Vittoriano, il negazionismo sulle foibe, il revisionismo sul Risorgimento. Anche quando entra nel dibattito, però, ha la capacità di ascoltare e vagliare le tesi opposte, prendendo seccamente le distanze da chi dimostra un’intolleranza o una faziosità che non gli sono mai appartenute.

In quest’ultimo lavoro poi, sono presenti (e colpiscono chi lo conosce e ne apprezza da tempo le opere) alcuni tratti spiccatamente personali, da ricordi di infanzia, ad album di famiglia ad aneddoti personali di alcuni dei personaggi ricordatiche svelano un aspetto più intimo del professor Quaglieni. Conclude il volume Riflessioni sulla laicità tra Cristianesimo edIslam e il magistero del Cardinal Ravasi, più che un capitolo, di fatto è un breve saggio che ripercorre in modo esaustivo, tra Matteucci, Bobbio, Croce, Abbagnano, Pera la difficile convivenza tra liberalismo e religione, nelle varie declinazioni tra anticlericalismo, laicismo e laicità. Argomento di grande rilevanza, sia perché il Cristianesimo è alla base della cultura occidentale ed i rapporti con esso sono stati fondamentali tanto per il Risorgimento, quanto per l’antifascismo; sia perché lascia trapelare un avvicinamento dell’autore, in età matura, ad un sentimento religioso che in passato, forse, non sentiva così vicino. Questo, al di là di titoli e riconoscimenti formali, rende l’autore ancora più umano ed il libro ancora più interessante.

Paolo Vieta