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“L’orto fascista” Romanzo / 5

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XIV

Aveva parlato ai bambini e loro avevano accettato con entusiasmo. Il gioco e l’avventura li intrigava. Avevano eseguito le indicazioni del farmacista e si erano incontrati con il Russì. Preso il pacchetto di concime, lo avevano appoggiato in fondo al sacco da montagna e lo avevano ricoperto con delle foglie di fico e, sopra, quattro o cinque porcini che avevano raccolto.
Presa la strada per il paese, scesa la via S. Antonio, supera- to il “crusal”, erano giunti in piazza Mercato. Poi, giù verso il fiume, erano arrivati al gabbiotto dell’Orto Fascista.
Ernesto, che era diventato un po’ il sostituto della maestra nella conduzione dei lavori e aveva la chiave del lucchetto, aprì la porticina.
Estrassero il pacchetto di concime dallo zaino e stavano per riporlo nel gabbiotto quando furono bloccati da quattro braccia robuste e ricoperte da una camicia nera. I proprietari delle braccia si impossessarono del pacchetto e tenendo ciascuno con una mano il collo di uno dei ragazzini, li costrinsero a seguirli sino alla Casa del Fa- scio, ove aveva sede il comando della Brigata Muti.
Qui i due ragazzi vennero legati strettamente ciascuno ad una sedia, in attesa che qualcuno cominciasse l’interrogatorio.
Furono preparati pinze per strappare le unghie, ferri da arroventare per marchiare chissà dove i ragazzi, spilloni per poter continuare le torture.
Di fronte a Ernesto e Mario, pure lui legato strettamente ad una sedia, vi era il Temperini, un Temperini tutto tremante ed ansimante.
Era sicuro che i suoi compagni di prigionia, sotto tortura, avrebbero spifferato tutto ai fascisti e lui sarebbe finito in un bel casino. Avrebbero sicuramente iniziato a torturarlo per conoscere il nome dei suoi complici, e lui sapeva di essere un vigliacco e di non sopportare il dolore. Li avrebbe denunciati e sarebbe passato alla storia co- me un traditore. Purtroppo, per chissà quanto tempo, qualcuno avrebbe ricordato la storia di quel fetente di farmacista che aveva, con le sue pretese da rivoluzionario, incasinato il paese e con la sua vigliaccheria mandato al patibolo almeno due dei più onesti e valorosi paesani.

Si guardò ancora in giro per illudersi di avere una possibilità di fuga. Le due finestrelle che illuminavano a sten- to la piccola stanza erano ad almeno tre metri dal pavimento. La porta era in pesante legno con una serratura a quattro mandate. Improvvisamente vi fu un forte rumore, come se qualcuno picchiasse violentemente contro la porta, e il farmacista pensò che stessero arrivando i suoi aguzzini. Il bussare continuò sempre più violento sino a quando, finalmente, il Temperini si svegliò dall’incubo, bagnato completamente di sudore.
Si alzò dal lettino, che era stato messo nel retro della farmacia per le notti di turno, si mise la vestaglia e si diresse verso il portoncino d’ingresso con le gambe che mal lo sostenevano. Aveva la bocca amara e la testa che gli doleva. Riusciva a tenere a malapena gli occhi aperti: quasi fosse reduce da una notte di grandi bevute. Aprì lo spioncino e per poco non gli venne una sincope: al di là della porta un viso arcinoto, quello dell’Hauptmann Reserve Franz. Questi guardò il viso terreo del farmacista con una strana espressione, poi tentò di sorridere e indicò al Temperini il gonfiore che aveva sotto la guancia destra. “Come dite voi? Scesso? Io molto dolore, non dormire. Possibile cachet? Scusare per disturbo. Grazie”. Aveva parlato tutto d’un fiato come se avesse preparato il discorso in anticipo scegliendo con cura tra le poche parole di italiano che conosceva.
Il farmacista non si scostava dalla porta, non riusciva proprio a comandare le gambe. Non sapeva come fare. Poi raccolse tutte le sue forze, fece un mezzo sorriso al tedesco, andò al banco, aprì un cassetto, prese una manciata di cachets e li mise in un sacchettino di carta. Ritornò alla porta e, attraverso lo spioncino, passò il sacchetto al tedesco.
“Gratis” disse con un altro mezzo sorriso, richiuse lo spioncino e andò a sedersi sulla sedia più vicina. Non aveva mai conosciuto il terrore ma adesso sapeva cosa fosse: si sentiva vuoto dentro, senza capacità di ragiona- mento né di difesa, incapace di muovere gambe e braccia mentre una paura angosciante lo avvolgeva tutto e lo faceva tremare e sudare.
Ma come avevano potuto pensare, lui ed il Russì, di coinvolgere in un fatto tanto grave dei bambini! Usarli, mettendoli in pericolo per raggiungere i loro scopi. Di una sola cosa ora era sicuro: mai e poi mai i bambini sarebbero stati coinvolti, anche a costo di abbandonare l’idea o di litigare con il suo amico.

 

XV

Un milite della Muti aveva iniziato a frequentare alla sera il bar Monte Grappa. Abitualmente si sedeva ad un tavolino, ordinava da bere e cercava di attaccare discorso con qualcuno degli avventori. Quasi sempre con scarso successo. I clienti non riuscivano a capire questa assidua presenza in un luogo a lui ostile e temevano che il milite avesse avuto ordine di tenere le orecchie bene aperte e cercare di carpire qualche
notizia compromettente. Una sera, dopo aver bevuto più del solito, e forse per cercare di attirare un po’ di attenzione, chiese al proprietario se tra i clienti fosse presente il Russì. Ricevuta risposta negativa soggiunse: “E fa bene a non farsi vedere troppo in giro. Lo teniamo sotto controllo e se lo becchiamo ad aiutare quegli stronzi di partigiani lo facciamo fuori”.
Il gelo cadde nel locale. Tutti avevano, o avevano avuto, rapporti col Russì. Tutti lo stimavano. Conoscendone il carattere e le idee politiche erano quasi sicuri che lui, se ne avesse avuta occasione, avrebbe aiutato chi stava lottando contro i tedeschi ed il Regime fascista. Il Russì fu immediatamente avvisato e se si spaventò non lo diede a vedere. Pregò chi gli aveva portato la notizia, un amico fidato, di avvisare il farmacista che aveva urgente bisogno di parlargli e di farsi trovare, se poteva, verso le 16 dal tabaccaio. Doveva assolutamente sembrare un incontro occasionale.
Dopo il sogno, il Temperini aveva preteso dal Russì, e questi aveva accettato subito, che i due ragazzi non sarebbero stati coinvolti. In effetti, anche lui ci aveva già pensato ed era giunto alla conclusione che se fosse successo qualche cosa al Mario e all’Ernesto, si sarebbero sentiti dei vermi e sarebbero stati emarginati da tutti gli abitanti del paese.
– Come ho fatto a pensare una cosa così folle? – si era detto. Al farmacista aveva promesso che si sarebbe interessato personalmente del trasporto dell’esplosivo in paese appena avesse trovato un luogo sicuro dove nasconderlo. Quando si incontrarono, anche il Temperini sapeva già quanto era stato detto dal milite.
“Non posso più farlo io” aveva detto il Russì senza preamboli. “Se mi stanno alla calcagna mi beccano subito. Purtroppo, caro amico, ci sono poche alternative. Deve farlo lei. Vedrà che organizzeremo in modo che non ci siano pericoli. Ci pensi e mi faccia sapere se accetta.” E se ne andò.

 

XVI

Il piano sembrava ben pensato. Martin Bascià aveva accettato di diventare uno dei protagonisti nella preparazione dell’attentato. Una mattina, all’alba, aveva raggiunto l’Orto Fascista e, accertatosi che nessuno lo vedesse, si era avvicinato alla piccola costruzione ove erano riposti gli attrezzi e aveva allentato le viti che sostenevano le pia- strine del catenaccio in modo che potessero essere rimosse a mani nude. Attaccato l’asino al carretto, aveva carica- to sul pianale una sedia rotta, una poltrona sfondata e qualche altro oggetto, tanto per far scena. Era quindi partito verso Pescarzo sulla strada che passava davanti alla chiesa di S. Maurizio. Pochi metri prima di trovarsi all’al-ezza della chiesa aveva fermato l’asino e si era chinato vicino alla ruota di sinistra del carretto, come a verificare se vi fossero problemi. In effetti aveva rimosso il forcellone che teneva la ruota ancorata al mozzo. Incitò l’asino e riprese la marcia ma, come aveva previsto, dopo pochi metri la ruota si staccò dal mozzo ed il carretto si inclinò sino a toccare terra con il fondo della sponda sinistra. Martin si mise ad urlare, fu una vera e propria sceneggiata. Imprecava e bestemmiava contro la mala sorte. Alle sue imprecazioni arrivarono di corsa tre uomini che, ben celati dagli alberi del vicino bosco, non aspettavano che quel segnale per fingere di arrivare in luogo solo per caso. Discusse con loro per qualche minuto, si caricò la ruota sulle spalle, prese un martello, salì i tre scalini antistanti il portico della chiesa, appoggiò la ruota sul lastricato e con il martello fece finta di ridare forma al cerchio che ricopriva il telaio in legno. Martellò, si fermò per riposarsi, parlò con i soccorritori che intanto stavano vuotando il pianale del carretto, diede altre due martellate e quindi sparì dietro il muretto del portico, sollevò il piastrellone che gli era stato indicato, si mise tre candelotti di dinamite sotto la giacca – uno in più può sempre servire, ce ne sono tanti! – rimise a posto il piastrellone, diede altri due inutili colpi al cerchio di ferro e scese gli scalini ritornando al mezzo. I tre aiutanti sollevarono la sponda del carretto e Martino rimise a posto la ruota ed il mollettone che la teneva ancorata al mozzo. Si rivolse ai tre uomini che lo avevano aiutato, prese dalla tasca il portafoglio, mimò di volerli pagare e loro rifiutarono; allora prese da un sacchetto che teneva legato ad una delle stanghe tre bottiglie di vino e le diede ai soc- corritori. Grandi sorrisi, ringraziamenti e pacche sulle spalle, i tre se ne andarono. Neppure loro si erano accorti di quello che aveva fatto Martin Bascià sotto il portico della chiesa. Rimasero perplessi e curiosi sulle ragioni della stranissima richiesta ricevuta.
– Quel Martin Bascià è veramente un po’ matto – pensa- rono e forse lo dissero tra loro. Lui, fischiettando, riprese il suo andare. Quando arrivò alle porte del paese si imbatté nel Temperini. Grandi saluti, il farmacista offrì una sigaretta, appese la giacca da cacciatore sul carro, si appoggiarono alla sponda e iniziarono a chiacchierare. Mentre parlavano Martino si aggirava intorno al carro simulando di mettere a posto le cose che trasportava, spostò anche la giacca del farmaci- sta facendola cadere, volutamente, a terra. Si chinò prontamente a raccoglierla. Mentre si trovava piegato mise i tre candelotti nella tasca posteriore della giacca, quella nella quale il cacciatore abitualmente ripone la selvaggina catturata, sfruttando il fatto che metà visuale era coperta dal carro, un quarto dal Temperini e l’altro qua to dalla sua schiena. Si scusò con il farmacista togliendo con leggeri colpi di mano quel poco di polvere che la giacca aveva raccolto dal terreno e quindi la porse al proprietario. Si salutarono con grande effusione e con gran- di sorrisi da parte di Martin che, ovviamente, era molto soddisfatto per come erano andate le cose.

Il farmacista invece aveva la bocca secca ed amarognola, un forte senso di nausea gli saliva dallo stomaco, le gambe, si accorse, non lo sorreggevano bene. Si incamminò verso la farmacia. Ad ogni angolo di strada si guardava in giro con fare circospetto temendo di vedere una coppia di tedeschi o una squadraccia della Muti a sbarrargli la strada. Giunto nei pressi della chiesa, ormai a poche centinaia di metri dalla farmacia, udì il rombo della vetturetta tedesca arrivargli alle spalle. Credette di svenire, ma appoggiandosi al muro che rasentava, riuscì a mantenersi in equilibrio. La vettura lo superò ma dopo qualche metro si fermò bruscamente. Dalla portiera destra scese l’Haupmann Reserve che gli andò incontro. Ormai stava succedendo l’irreparabile, si vedeva già ben- dato vicino al muro ove sarebbe stato fucilato. Invece sul viso del tedesco si aprì un grande sorriso.
“Caro dottore!” disse con la sua voce potente. “Grazie per suoi medicinali. Finita subito tortura di dolore. Io guarito. Grazie. Io spero di poter ricambiare” e battendo i tacchi e sollevando il braccio disteso urlò “Heil Hitler!” Senza attendere risposta – ma il Temperini non sarebbe riuscito a proferire parola mancandogli l’aria – si girò e risalì sulla macchina che si allontanò velocemente. “Tortura, ricambiare…” queste parole rimasero a lungo nella mente del farmacista. Con profondo raccapriccio il Temperini si rese conto di essersela fatta addosso. Non entrò in farmacia ma salì direttamente alla propria abita- zione. Prese della biancheria pulita dal cassettone della camera, un paio di pantaloni dall’armadio e delle pantofole. Si chiuse in bagno, si tolse con attenzione i pantaloni per non sporcarsi ulteriormente. Sfilò le mutande e le gettò direttamente nel gabinetto. Si vergognava con sé stesso per quanto era accaduto ma, in fondo in fondo, era anche sod- disfatto: aveva compiuto il primo atto eroico della sua vita. Pensando però che non era finita e che la seconda parte della missione sarebbe stata più pericolosa, gli venne un forte conato di vomito e cominciò a sudare freddo. Come era stata bella la sua vita da farmacista riverito e rispettato da tutti. Perché mai si era messo in testa, lui così accomodante con tutti, che non aveva mai avuto un litigio, ma neppure una vera discussione con nessuno, di fare il rivoluzionario? Pensava di sentirsi rinfrancato dalla presenza di quei tre candelotti di dinamite in tasca, forte, pronto a dare una svolta alla vita della valle, una lezione ai tedeschi invasori, una prova di forza che sarebbe pas- sata alla storia ed invece si sentiva incapace anche di comandare al proprio corpo.
Quella sera stessa avrebbe portato a termine il suo compito e poi che andasse come a Dio sarebbe piaciuto. Lui la sua parte l’aveva fatta ed era, forse la più pericolosa. Finì di lavarsi, fece a pezzi i pantaloni con la forbice che si trovava sulla specchiera e li gettò nello scarico. Non avrebbe saputo spiegare l’accaduto senza vergognarsi e senza dover dare spiegazioni.
Rivestitosi si recò al bar. Aveva bisogno di bere qualcosa di forte anche se al suo stomaco non avrebbe giovato. Nell’attraversare piazza S. Antonio ed entrando nel bar gli sembrò che gli sguardi che attirava fossero di ammi-razione ed i saluti che riceveva più ossequiosi e riverenti del solito. Che in giro si sapesse già dell’atto coraggioso compiuto e di quanto altro ancora doveva coraggiosa- mente affrontare.

Questo gli permise, anche se sapeva che in effetti doveva essere solo una sua illusione, di sentirsi rinfrancato. Ma se tutto fosse andato come programmato, allora sì, sarebbe passato alla storia tra i brenesi illustri. E allora gli sguardi di ammirazione, gli ossequi e le scappellate ci sarebbero state davvero.
Passò tutto il pomeriggio al bar, dormicchiando, chiacchierando con qualche avventore, facendo un solitario dietro l’altro e affidando la riuscita o meno del gioco a una risposta di come sarebbe andata a termine la sua missione. Quando il solitario riusciva, attraversava momenti di allegria, il successivo non riusciva e ricadeva nella paura, e così via.
Quando vide, attraverso i vetri del bar, che si stava abbassando la serranda della farmacia, rincasò. Si sedette a tavola e senza scambiare parola con la figlia e con la cameriera, mangiò la minestrina che gli servivano, un pezzo di formaggio e una pera che proveniva dal suo “brolo”. Finì il suo bicchiere di vino, si alzò, comunicò alle due donne “Io esco” e se ne andò.
Dall’istante in cui si era infilato la giacca con i tre candelotti nella tasca posteriore a quando era rientrato in far- macia, dopo aver lasciato l’esplosivo nel gabbiotto del- l’Orto Fascista, il Temperini non si ricordava nulla. Ave- va agito come un automa. Non ricordava di aver attraversato la piazza mercato, di aver incontrato qualcuno lungo il suo percorso, di aver messo i candelotti nel gabbiotto, di essere ritornato sui suoi passi. Niente. Aveva annullato quei momenti della sua vita come se non li avesse vissuti. Forse, in effetti il suo corpo aveva camminato, portato i candelotti, rimosso le viti della porticina del piccolo ripa- ro degli attrezzi, depositato i candelotti, richiuso la porticina, risistemate le viti, ripercorso la strada, rientrato in farmacia mentre la sua mente, anestetizzata dal terrore, si era rifiutata di partecipare e di registrare quanto avveniva. In fin dei conti meglio così. Non aveva sofferto.

 

XVII

Era stata una lunga giornata passata in mezzo ai boschi, sotto la pioggia, alla ricerca di un deposito di armi segnalato da una lettera anonima. C’erano ancora degli italiani che professavano lo spionaggio, vigliacca- mente, senza esporsi ma per facilitare l’egemonia delle forze occupanti, nonostante queste apparissero sempre più spietate. Quale sarebbe stato il futuro dell’Italia traditrice se le forze armate tedesche avessero avuto, insperatamente, il sopravvento finale nella guerra in corso?
Quella di serva del nazismo? Questo si chiedevano. Tuttavia nulla era stato trovato, anche se le ricerche, effettuate insieme a diversi membri della Brigata Muti, erano state meticolose e il posto controllato fosse sicura- mente quello indicato dalla segnalazione.
Invece i tedeschi erano rientrati all’albergo che li ospitava stanchi, bagnati e delusi. Qualcuno aveva anche sospettato che la lettera fosse stata uno scherzo e questa possibilità li aveva notevolmente innervositi. Franz, il Comandante, e Bernd, dopo essersi scaldati con un fornellino che funzionava con pastiglie Meta, una tazza di quella brodaglia che si continuava a chiamare caffè solo per abitudine, si erano spogliati e avevano steso le loro divise su una corda tesa tra i due letti. Chissà perché quando due uomini si trovano soli in una stanza seminudi, tra di loro si creano una certa intimità e una predisposizione a lasciarsi andare alle confidenze. Quando Bernd confidò al suo Comandante che era riuscito a conoscere una ragazza italiana che si era invaghita di lui – che in effetti era un gran bel ragazzo con uno smagliante sorriso a 32 denti bianchissimi – Franz prese al volo l’occasione per accennare ai suoi progetti.

Lo fece con estrema cautela, ma Bernd si appassionò immediatamente all’argomento. Anche lui provava un gran- de affetto verso il suo capo, affetto e riconoscenza per come era trattato. Anticipandolo, si dichiarò più che disponibile, qualora ve ne fosse l’occasione, a lasciare libera la stanza anche per una notte intera.
“Un posto per dormire da qualche parte in albergo lo trovo sempre. E lei sa che io posso dormire anche per terra” disse infervorandosi tutto. Franz, allora, spiegò quali erano i suoi progetti, raccontando le avances che aveva fatto a Benedetta, che le aveva accettate dimostrandosi ben disposta ad un incontro che, sicuramente, non sarebbe stato solamente romantico. La cosa si sarebbe potuta concretizzare al più presto, continuò il Comandante, ma era da scartare il fatto che Bernd occupasse un qualche luogo dell’albergo. Avrebbe sicuramente destato la curiosità di chi ne fosse venuto a conoscenza. “Non rimane che la macchina” disse Franz, “se non hai nulla in contrario”. “Assolutamente no!” rispose Bernd. “Ma desidero, Her Komandant, che questa mia partecipazione sia un atto di dovuta riconoscenza per il trattamento che Ella mi ha sempre riservato” continuò trattenendo, a stento, il desiderio improvviso che gli era venuto di abbracciare il suo capo. Si vede che anche i duri soldati tedeschi sono capaci, a volte, di dimostrare un briciolo di tenerezza. Quella notte Franz sognò sua moglie nelle sembianze di Benedetta, nuda, tra le sue braccia che gli sorrideva e gli diceva “Ti amo” mentre prendeva tra le mani il suo membro eretto. Alla mattina, con estremo imbarazzo, trovò le lenzuola ancora umide e sporche del suo liquido seminale. Dapprima ne fu inorridito – cosa avrebbe pensato Benedetta vedendo le macchie nel rifare il letto? – Ma poi gli venne da sorridere con nostalgia. Una cosa del genere non gli era più successa dai tempi della sua gioventù. E a Benedetta poteva quasi sembrare un richiamo d’amore e, comunque, la prova della sua ancora intatta virilità.

 

(continua…)

 

 

 

Quel “Mal d’Africa” compagno di strada di Angelo Ferrari

LIBRI / Nel Giardino di “Casa Lajolo” a Piossasco, incontro con il giornalista dell’AGI che presenta il suo ultimo libro

Domenica, 25 luglio

Piossasco (Torino)

“C’è un pezzo di mondo che, da tempo, bussa alle nostre porte. Guerre, oppressione politica, cambiamento climatico, voglia di riscatto sociale, spingono milioni di esseri umani a lasciare la propria terra in cerca di opportunità negate. E, quasi sempre, trovano un muro a respingerli”. Il muro dell’indifferenza. E un pezzo di  mondo (neppure troppo piccolo, anzi) che si chiama Africa. E che ben conosce, in tutti i suoi aspetti e risvolti – ambientali e sociali, umani e politici, culturali e simbolici, negativi e positivi – Angelo Ferrari, giornalista dell’AGI (Agenzia Giornalistica Italia), per la quale da anni si occupa proprio di problematiche relative, in generale, al Sud del mondo e all’Africa in particolare, dove ha seguito le più grandi tragedie del Continente: dalla guerra del Rwanda a quella della Somalia, fino ai conflitti nella Repubblica democratica del Congo e in Sierra Leone. Realtà drammatiche, spesso ignorate o rimosse in tutta la loro pesante e terribile complessità. Dove gli aiuti invocati ed urlati al mondo non arrivano mai o in misura assolutamente inefficiente. E, ancor peggio, politicamente ed economicamente sfruttate dalle “parti” più ricche della Terra e da tempi che si ripetono uguali nei secoli. Di questo e del suo ultimo libro “Mal d’Africa”( pubblicato nel 2020 da Rosenberg & Sellier) parlerà Ferrari, domenica 25 luglio (ore 17), in un incontro che si terrà nel giardino di “Casa Lajolo” a Piossasco, in via San Vito, 23. Moderato da Sante Altizio, l’incontro rientra nel programma di “Bellezza tra le righe”, la rassegna firmata da “Fondazione Casa Lajolo” e “Fondazione Cosso” con il contributo della Regione Piemonte, nata “per guardare al domani con uno spirito nuovo”. La volontà è quella di condurre il pubblico in luoghi di rara bellezza, ovvero i giardini di due dimore storiche della provincia di Torino, “Casa Lajolo” a Piossasco, e il “Castello di Miradolo” a San Secondo di Pinerolo: qui, nella pace che si respira poco prima della sera, andranno in scena, fino al 17 ottobre, conversazioni con alcuni personaggi pubblici protagonisti del presente. E tale è, certamente, anche Angelo Ferrari, esperto e trascinante cantore del “pianeta Africa”, tornato a essere terra di conquista. “Dopo i conflitti – si legge nel libro – scatenati nel secolo scorso per accaparrarsi le risorse naturali del continente, ora è ‘guerra’ commerciale, ma soprattutto militare, di tutti contro tutti. L’Occidente ha deciso che è giunto il momento di arginare l’influenza cinese che ormai ha le mani su tutto il continente, nessun paese escluso. Le forze militari straniere si stanno posizionando nel Corno D’Africa, in particolare in un fazzoletto di terra: Gibuti. Le guerre economiche in Africa non si combattono solamente attraverso accordi commerciali, è diventato indispensabile, per vincere la battaglia, ‘mettere gli scarponi sul terreno’”. Quello compiuto da Angelo Ferrari e raccontato in “Mal d’Africa” è un percorso lucido e analitico sulla situazione politica ed economica odierna del Continente, che lo scrittore ripercorre, anche narrativamente, attraverso i passi dei grandi viaggiatori del passato, lungo i suoi corsi d’acqua più imponenti, attorno ai laghi prosciugati dallo sfruttamento umano e dai cambiamenti climatici e nei gironi infernali delle miniere più preziose al mondo. Un viaggio già in precedenza sperimentato da Ferrari in altri libri sull’argomento, fra cui “Hakuna Matata, la globalizzazione galoppa mentre l’Africa muore” (2002), “Africa Gialla, l’invasione economica cinese del continente africano” (2008), “Le nebbie del Congo” (2011) e “Il mondo di Jordy”, il viaggio di un reporter e un ragazzo di strada nel cuore dell’Africa (2014).

Ingresso alla dimora storica comprensivo di visita guidata 8 euro. Conversazioni e incontri comprese nel biglietto di ingresso. Biglietto ridotto 6 euro per under 25. Gratuito under 10 e “Abbonamento Musei”. Prenotazione: tel. 333/3270586 o info@casalajolo.it

g. m.

Chi è Silvia Merlo, AD del Gruppo Merlo e Presidente Saipem

Rubrica a cura di Progesia Management Lab

La Merlo S.p.A. è un’industria metalmeccanica di Cervasca (CN) che conta circa 1.500 dipendenti e ha una rete di distribuzione composta da 6 filiali ed oltre 600 concessionari che le consentono un posizionamento internazionale. L’Amministratore Delegato di questa azienda leader che opera nel settore dei sollevatori telescopici, autobetoniere auto caricanti, sistemi e tecnologie per la movimentazione e il sollevamento, è Silvia Merlo che ricopre cariche anche nei Consigli di Amministrazione di altre società appartenenti al Gruppo. Laureata in Economia Aziendale, è stata componente del Consiglio di Amministrazione di Erg S.p.A. oltre che membro del Consiglio di Amministrazione, del Comitato Controllo Rischi e Sostenibilità, del Comitato per le Operazioni con Parti Correlate e Presidente del Comitato Remunerazione di Sanlorenzo S.p.A e a fine aprile è stata nominata Presidente di Saipem, il colosso petrolifero tra i più importanti fornitori di servizi a livello mondiale del settore della costruzione e manutenzione delle infrastrutture al servizio dell’industria energetica, con una operatività nei cinque continenti.

Infaticabile e competente, ha inoltre ricoperto incarichi di consigliere di amministrazione e di membro di comitati interni in diverse altre società tra cui Leonardo S.p.A., BNL Banca Nazionale del Lavoro S.p.A., GEDI Gruppo Editoriale S.p.A. e Banca CRS Cassa di Risparmio di Savigliano S.p.A. Per il Gruppo Merlo, e dunque per lei, al centro di tutto c’è la persona. Per questo l’azienda si impegna a rispettare l’ambiente e a rendere più sicuro e confortevole il lavoro degli operatori. Non stupisce quindi che nel 2014 Silvia Merlo sia stata insignita della Mela d’Oro nell’ambito del premio Donne ad Alta quota della Fondazione Marisa Bellisario per la sezione imprenditoria e che nel 2017 abbia ricevuto il Premio Amelia Earhart su iniziativa dello Zonta Club Alba-Langhe e Roero.

Con Intesa Sanpaolo avete sottoscritto una collaborazione a sostegno della filiera per fronteggiare la crisi causata dal Covid-19. Un’azione importante per i clienti e i fornitori?

“All’inizio di questa pandemia, anche memori delle precedenti crisi, è stata nostra cura mettere in sicurezza e portare valore aggiunto alla filiera per cui i clienti e i fornitori hanno potuto avere accesso ad una convenzione che abbiamo sottoscritto noi come gruppo e che ha permesso loro di godere di una serie di benefit. Utilizzando un canale semplificato con interlocutori dedicati e con un iter ragionato prima, chi ne ha avuto bisogno ha potuto accedere ad una serie di fondi che probabilmente avrebbe fatto difficoltà ad ottenere. Noi per loro abbiamo dettato i tempi di risposta della banca, che sono stati di circa 5 giorni, abbiamo concordato un tasso predefinito e abbiamo strutturato a priori l’iter procedurale. Tutto ciò ha portato dei grandi benefici e ci risulta che la filiera abbia usufruito di più di 140 milioni di erogazioni per cui sicuramente un aiuto lo abbiamo dato. Parlo al plurale perché Intesa Sanpaolo è stato un partner attento, rapido nella risposta e flessibile”.

Siete un gruppo con una visione di lungo termine. Parlando di sostenibilità, quale ruolo svolgeranno le energie rinnovabili nel nostro futuro?

“Tutto ciò che è sostenibile ci vede impegnati e attenti e anche se questo è il tema del momento noi, non seguendo le mode ma essendo dei precursori, nel 2013 abbiamo esposto il nostro primo sollevatore telescopico ibrido al quale abbiamo iniziato a lavorare già nel 2009. Nel 2020 abbiamo presentato nella nostra gamma il primo sollevatore telescopico full electric. Siamo interessati al tema della sostenibilità sia nel prodotto sia nei processi di produzione e per noi il concetto di energy saving è fondamentale perché la sostenibilità passa anche per il non spreco e per l’ottimizzazione delle energie e dei materiali”.

Da sempre il Gruppo Merlo mette al centro la persona. Con quali attività avete maggiormente sostenuto i vostri dipendenti?

“Sosteniamo e facciamo un’azione quasi di push verso i nostri collaboratori. Esiste un’associazione coordinata dagli stessi dipendenti che sostiene e promuove tutta una serie di iniziative, che vanno dalle gite alla formazione, passando per l’attenzione ai giovani. Sono iniziative legate al tempo libero, ma sono fondamentali per creare aggregazione e sentirsi parte di un gruppo, un requisito per noi fondamentale. Da sempre a Natale organizziamo una festa per i figli dei dipendenti: svuotiamo un capannone e lo riempiamo di giostre di grandi dimensioni come ottovolanti e trenini. Realizziamo molte iniziative, alcune anche legate al welfare, ma soprattutto ogni giorno diamo attenzione alle persone cercando di farle sentire non dei numeri, ma ognuno importante per la crescita della società. Perché ciascuno di loro non è un ruolo, ma un individuo con le proprie peculiarità”.

Rientrano in quest’ottica anche il Centro Formazione e Ricerca Merlo e il Master Universitario di secondo livello che organizzate con il Politecnico di Torino?

“Collaboriamo da molto tempo con il Politecnico di Torino, ma sono particolarmente affezionata a quest’ultimo progetto che riguarda la formazione di alto apprendistato di 12 ingegneri neolaureati che sono stati selezionati e assunti per essere formati attraverso un master organizzato in collaborazione con la Regione Piemonte e il Politecnico. Il master è durato 2 anni e la docenza è stata sia del Politecnico sia nostra.   Il primo corso si è tenuto in parte a Cuneo e in buona parte a Torino e, quando non seguivano le lezioni, i ragazzi con il loro tutor erano all’interno dell’organizzazione aziendale. Abbiamo inserito 12 ingegneri in 12 aree differenti del gruppo e, terminato l’apprendistato di alto apprendimento, sono stati tutti assunti. Il risultato è stato così soddisfacente che anche quest’anno abbiamo deciso di assumere ulteriori 12 ingegneri con la stessa formula, e lo abbiamo fatto a prescindere dal Covid-19 per lungimiranza, perché crediamo che questi studenti saranno dei pilastri importanti per l’azienda di domani. Abbiamo la volontà di guardare avanti e vogliamo dare un segnale forte sia dentro che fuori dal gruppo: vogliamo puntare sul futuro e sulle giovani generazioni. La nostra è un’azienda che parla di innovazione e che ha insita quella curiosità che è tipica dei giovani, ma anche dei non giovani. Mio padre, ad esempio, è un ragazzino di 85 anni ed è una persona estremamente innovativa e curiosa”.

Donna per lei significa?

“Non mi sono mai posta la questione uomo-donna, ma mi sono chiesta dove fossero le competenze, a prescindere dal genere. Io ho avuto il privilegio di poter fare un certo percorso, anche se non è stato facile. Ha iniziato ad essere meno dura quando ho deciso di andare diritta verso la meta senza farmi problemi sul fatto che fossi donna. È stato complicato, ma credo che sia importante avere un’attitudine più legata alla direzione e alla meta e meno alla differenza tra maschile e femminile. Sarò contenta quando smetterò di parlare ad una platea di sole donne. Se ce la raccontiamo tra di noi, a cosa serve? Soprattutto se a prendere le decisioni sono gli uomini”.

IL FOCUS DI PROGESIA

Il Gruppo Merlo è un importante gruppo industriale a conduzione familiare, leader italiano delle macchine operatrici, con un forte spirito internazionale e al tempo stesso con un forte legame con il territorio dove sorge l’azienda.

Al centro del progetto c’è l’essere umano e l’impegno del Gruppo a rispettare l’ambiente e rendere più funzionale, sicuro e confortevole il lavoro di chi utilizza macchine operatrici a marchio Merlo e di chi, ogni giorno in azienda, si dedica al costante miglioramento dell’efficienza e delle performance dei prodotti.

L’AD del gruppo, Silvia Merlo, sottolinea che la Merlo è un’azienda di famiglia a tutti gli effetti e che ci lavorano tutti quotidianamente all’interno; proprio per questo il riconoscimento ottenuto nel 2014 con l’iscrizione nel Registro delle Imprese Storiche è per tutti loro motivo di grande orgoglio; l’attività dell’azienda inizia nel 1911 con Giuseppe Merlo (nonno di Silvia) che apre un’officina per la lavorazione del ferro di soli 250 metri quadrati e quindi nel 2011 la Merlo Spa entra ufficialmente nella ristretta cerchia di aziende centenarie che hanno fatto la storia d’Italia e della provincia di Cuneo.

Oggi nella sede di San Defendente di Cervasca lavorano circa 1500 persone e nei loro confronti l’azienda attua numerose politiche di welfare, gestite da un apposito ente interno, nella convinzione che dipendenti e i collaboratori siano parte fondamentale di un’impresa e con il loro lavoro quotidiano contribuiscano a concretizzare i valori imprenditoriali.

Spiega Silvia Merlo: “la nostra scelta di welfare non è dettata dalla necessità di avere ritorni di indice, ma è legata ad una decisione della mia famiglia che sente molto forte la responsabilità di essere un’azienda del territorio e che vuole contribuire attivamente e concretamente al benessere dei nostri 1500 dipendenti e delle loro famiglie. Perché, nonostante la forte vocazione internazionale che ci contraddistingue, siamo ancora oggi un’azienda a misura d’uomo e di donna”.

Questo modello di welfare aziendale, evoluto e personalizzato, permette al Gruppo Merlo di rafforzare la propria immagine come datore di lavoro (employer branding) e al tempo stesso di fidelizzare i collaboratori aumentando il loro benessere e il senso di appartenenza. In questo modo si coniuga il welfare aziendale con la responsabilità sociale d’impresa e con l’incentivazione della forza lavoro, facendo sentire i collaboratori parte integrante dell’azienda in cui lavorano.

 

Coordinamento e Focus: Carole Allamandi
Intervista: Barbara Odetto

Torino tra architettura e pittura: Guarino Guarini

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

1) Guarino Guarini

Ne ho discusso poco tempo fa con i miei studenti, di quanto l’abitudine ci possa rendere indifferenti alle preziosità che ci circondano. Che si tratti di parchi o architetture, passeggiate lungo il fiume o piazze monumentali, le “cose belle” che sono alla nostra portata, che sono “sempre lì” a disposizione, ad un certo punto perdono –ai nostri occhi abituati- il loro fascino. Che fare allora? In classe non siamo addivenuti ad una soluzione, ma ci siamo ripromessi di camminare quanto più possibile con lo sguardo attento, magari provando a ricordare che cosa ci aveva originariamente colpito di certi luoghi, un tempo sorprendenti.

È più semplice di quel che sembra passeggiare per Torino senza accorgersi della preziosità dei suoi palazzi o della geometria perfetta delle vie del centro: Torino è “sempre lì”, sempre la stessa e ormai rischiamo –noi torinesi- di essere assuefatti al suo fascino malinconico, tanto da notare piuttosto una nuova vetrina o scoprire la chiusura di un negozio a cui eravamo affezionati e non osservare invece i decori aggettanti che inquadrano una precisa attività commerciale. Torino è una città esteticamente complessa, abbracciata dalle Alpi in lontananza, colorata dalle tinte degli alberi dei parchi e della collina, segnata da grandi architetture del passato e del presente. Nel capoluogo convivono in sorprendente armonia capolavori barocchi, edifici liberty e più recenti strutture, nate per la maggior parte negli anni Novanta, grazie soprattutto all’importante avvenimento dei XX Giochi Olimpici svoltisi proprio nella “nostra” città, per quest’ultima categoria ritengo opportuno ricordare la zona dell’ex Villaggio Olimpico, che sorge sull’area occupata fino al 2001 dai Mercati Generali.
È bene specificare che, oltre alle tipologie architettoniche più prestigiose, a Torino vi sono diversi edifici storici risalenti all’epoca lontana dell’antica Augusta Taurinorum, tra le costruzioni più datate vi sono Le Porte Palatine, attualmente inserite all’interno del Parco Archeologico, che racchiude e preserva molti altri reperti romani.

È però nel Seicento che iniziano gli elaborati interventi urbanistici che danno effettivamente lustro alla città; i numerosi lavori di ampliamento, di restauro e di costruzione di nuovi palazzi e quartieri si devono in prevalenza agli esponenti della famiglia Savoia, primi fra tutti Emanuele Filiberto (1528-1580) e Carlo Emanuele I (1580-1630). Ma andiamo in ordine e vediamo di percorrere brevemente quali sono stati gli avvenimenti più importanti a livello urbanistico e chi erano le personalità a cui era stata affidata la soprintendenza dei lavori. Nel 1563 Torino è capitale del ducato sabaudo, è dunque opportuno che l’estetica della città rispecchi l’importante funzione politica: a tal proposito Emanuele Filiberto avvia un primo sviluppo edilizio. Carlo Emanuele I prosegue poi con i lavori di modifica urbanistica e affida il progetto di ampliamento verso sud-est all’architetto civile Ascanio Vitozzi (1539-1615). Egli decide di mantenere per le nuove aree la trama a scacchiera, così da riprendere la primigenia struttura romana. Al Vitozzi si deve l’edificazione di Piazza Castello (1615), il primo tronco dell’attuale via Roma (all’epoca Via Nuova) e l’inizio della costruzione dei portici nelle strade principali. L’architetto si rifà al gusto francese, tanto apprezzato in quegli anni, e conferisce alla città un carattere omogeneo, attraverso la costruzione delle facciate dei palazzi che si susseguono uniformi e la scansione spaziale dei portici. All’architetto Vitozzi succede l’abile Carlo di Castellamonte (1560-1683), il quale continua l’opera di modernizzazione della città sabauda, egli realizza quindi Piazza San Carlo, che doveva unire l’antico nucleo storico con la parte nuova appena edificata, inoltre si adopera per completare la Via Nuova.

 

Va tuttavia sottolineata la geniale visione progettuale di Castellamonte, egli infatti, attraverso la costruzione di Piazza San Carlo, arriva all’uniformità del prospetto della piazza, in asse con la Via Nuova, grazie al doppio porticato aperto sui lunghi lati e alla ripetizione delle facciate degli edifici. Anche lui guarda al modello francese, per l’appunto la conformazione razionale di Piazza San Carlo ricorda la Piazza Reale di Parigi: un enorme spazio quadrato scandito da portici simmetrici le cui unità edilizie sono a malapena distinguibili. Nella seconda metà del Seicento Carlo Emanuele II ordina un ulteriore ampliamento verso il Po: tale progetto vede il Castello come vero e proprio fulcro del potere politico, attorno ad esso si sviluppano nuovi quartieri e nuove abitazioni. Nel 1658 viene edificato Palazzo Reale, altro edificio a testimonianza della presenza monarchica dei Savoia sul territorio.
Molte personalità illustri si adoperarono per rendere Torino elegante e regale, ma tra i tanti nomi spicca sicuramente quello di Guarino Guarini (1624-1683), padre dell’ordine dei Teatini, insigne matematico e studioso di filosofia; viaggia molto e lavora in diversi cantieri in città quali Modena, Messina e Parigi, inoltre soggiorna a Roma, dove ha modo di confrontarsi con i lavori artistici dei maestri barocchi, soffermandosi soprattutto sulle opere di Bernini e di Borromini; dagli autori seicenteschi assimila il rigore costruttivo, la fantasia delle articolazioni strutturali e il gusto del colore nella scelta dei materiali.

Nel 1666 l’architetto giunge a Torino, invitato dal padre generale dei Teatini a dirigere i lavori di rinnovamento della chiesa di San Lorenzo. In tale struttura, più che in altri edifici, è evidente che la geometria utilizzata da Guarini nei suoi progetti, pur basandosi su proporzioni matematiche, riesce a dare vita a un’architettura fantastica, grazie all’impiego di moduli incrociati di archi e all’introduzione di pilastri riccamente decorati privi di funzione portante. La chiesa ha una pianta geometricamente complessa, si tratta infatti di un ottagono; gli otto lati della struttura interna sono ricurvi verso il centro e costituiscono altrettanti ampi archi poggianti su sedici colonne in marmo rosso, oltre i quali si aprono nicchie con statue incorniciate da pilastri bianchi. Guarini, nella realizzazione delle cupole dell’asse longitudinale e del presbiterio, supera la concezione della cupola classica; la cupola dell’asse longitudinale è costituita da costoloni che formano una stella a otto punte e un ottagono su cui poi si innalza la lanterna. Tra i costoloni non vi è superficie muraria, ma ampie finestre ovali e tante altre più piccole, aperte con lo scopo di ottenere stupefacenti giochi di luce; all’osservatore la cupola appare leggerissima, egli guarda verso l’alto e punta gli occhi verso l’infinito celeste.
Nel 1668 Carlo Emanuele II vuole che Guarino diriga il cantiere della Cappella della Santissima Sindone, dedicata appunto all’inestimabile reliquia posseduta dai Savoia. L’architetto per prima cosa rivoluziona il precedente progetto di Carlo di Castellamonte, decisamente più tradizionale, e crea all’esterno il motivo delle sei grandi finestre del tamburo, evidenziato dal profilo ondulato del cornicione; al disopra inserisce l’originale motivo a “zig-zag” dei costoloni della cupola, che termina con la lanterna conica. L’interno della cupola è tutto giocato sulla successione decrescente di forme esagonali a stella, che conferiscono alla struttura un accentuato scorcio prospettico e accentuano l’effetto illusionistico in altezza.
Le cupole sono il tratto tipico della genialità e delle idee innovative del Guarini: in tali architetture il ritmo si fa serrato di segmenti curvilinei che si inscrivono in uno spazio vuoto, è come se tali strutture stessero sorprendentemente in equilibrio. “È l’istante in cui il calcolo matematico coincide con il percorso della fantasia che tende a Dio, l’istante in cui la logica coincide con la fede, l’istante in cui Dio si manifesta nel pensiero e nell’opera dell’uomo” (Argan, “Storia dell’Arte Italiana”, Rizzoli, 1981).
Il nome di Guarini è anche collegato ad un altro importante edificio torinese. In Palazzo Carignano, edificato tra il 1679 e il 1681, si riscontrano elementi del barocco romano. In tale edificio è evidente il richiamo al Borromini, prima di tutto nel motivo convesso del corpo centrale che si flette ai lati in concavità, mentre due grandi blocchi rettilinei concludono la facciata. L’andamento mosso, che rispecchia la disposizione interna del salone ovale e della scalinata, è ulteriormente sottolineato dall’uso uniforme del mattone rosso, con cui sono realizzati anche gli ornati, le inquadrature delle finestre e le accentuazioni delle lesene.

Guarini è sicuramente molto legato alla poetica borrominiana, più che all’insegnamento del Bernini, ma è opportuno ricordare che suo grandissimo merito è quello di essere stato in grado di sintetizzare le due lezioni, congiungendo le due antitetiche concezioni etico-religiose.
Proprio su quest’ultima affermazione vorrei soffermarmi prima di concludere. Guarini non è celebre solo per i suoi progetti architettonici, ma è degno di nota proprio per aver reso dialoganti tra loro le due opposte correnti di pensiero che si diffondono, apparentemente in antitesi, per tutto il Seicento.
Alla fine del Cinquecento la nascita del pensiero scientifico mette in discussione l’autorità degli antichi, le certezze dell’uomo rinascimentale risultano insufficienti e superate e gli studiosi si schierano in due differenti fazioni: chi sostiene la ragione, a discapito dei sensi, chi, al contrario, sostiene la necessità di far intervenire l’esperienza nel confermare o smentire la realtà. Tutto il Seicento oscilla tra queste posizioni, tra la teoria astratta di tipo matematico e quella a sostegno dell’esperienza, delle sensazioni emotive e dell’importanza dell’inconscio. La particolarità dell’architetto teatino è il sostenere che le due versioni si trovino in rapporto dialettico, egli è convinto infatti che la razionalità matematica non neghi l’esperienza, ma al contrario ne richieda l’intervento. Teoria e prassi operativa sono due momenti successivi ed inscindibili di un unico processo: il costruire.
Ma ora terminiamo. “Parlare” di tali argomenti è a mio parere “limitativo”, l’arte e l’architettura vanno vissute, viste, guardate, assimilate. Le lezioni dei grandi sono da apprendere sul campo, con i polpastrelli che tastano i materiali e percepiscono la differenza tra il marmo, l’intonaco e il cemento, con il collo che “scrocchia” a furia di tenere il capo rivolto all’insù. È questo che dico sempre ai miei studenti: non smettete mai di stupirvi.

Alessia Cagnotto

“L’orto fascista” Romanzo / 4

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

X

L’Hauptmann Reserve Comandante del presidio te-desco non poteva che chiamarsi Franz: alto, grosso, con un paio di baffi alla Francesco Giuseppe che teneva curatissimi, una voce roboante che incuteva soggezione. Era, in effetti, un buon bottegaio trasformato in Sturm-führer dagli eventi della guerra. Aveva un grande desiderio della sua famiglia che non vedeva da oltre un anno, della grassa moglie con tette che sembravano le colline della Bavaria e un culone burroso ma ancora sodo. La chiamava “la morbidosa” quando facevano all’amore e le affondava il viso in mezzo all’abbondante seno solleticandola con i baffoni. Ricordava, con sempre maggior nostalgia, quando rimaneva- no abbracciati lungamente al caldo sotto i piumoni nel loro grande letto: lui abbondantemente appagato e lei soddisfatta di essere con il suo uomo. Ora avrebbe voluto fare sesso anche per scaricare la tensione nervosa accumulata nel lavoro, che svolgeva con scrupolo tedesco, ma senza condividerne la finalità né i sistemi. Tutto questo lo stressava notevolmente, ma non sapeva come fare. Non poteva mischiarsi ai suoi soldati e agli altri italiani che lo conoscevano ed andare al casino di Lovere. Luogo, tra l’altro, gli avevano detto, squallido più di quanto potesse essere già di per sé un posto dove si fa all’amore a pagamento. Aveva cercato, in ogni occasione che aveva avuto di avvicinare una donna, di capire se una sua eventuale avance potesse essere gradita. Ma era evidente che da tutte era considerato un invasore, un nemico odiato dai più e mal sopportato dai fascisti che pur apparivano subdolamente deferenti. Nelle sue elucubrazioni notturne era arrivato persino ad immaginare di fare sesso con Benedetta, la cameriera dell’albergo addetta alle pulizie delle camere, al bucato per la biancheria intima e per le camicie dei tedeschi. Benedetta, che doveva avere almeno cinque anni più di Franz, gli ricordava in qualche modo sua moglie, con quel grosso seno, i fianchi abbondanti e quel sorriso, assai raro ma così simpatico, che metteva in mostra una dentatura ancora sana e brillante. Cercava di capire se avrebbe provato piacere a baciarla e, possibilmente, a fare qualcosa di più con lei. Una notte decise che era arrivato il momento di tentare.
Non aveva mai tradito la moglie in tanti anni di matrimonio, aveva scarsa dimestichezza con le donne, ma la fame di sesso lo aveva convinto che doveva mettere in piedi, al più presto, un progetto per avvicinare la donna. Aveva cominciato abbandonando i gelidi saluti quando la incontrava, condendoli con ampi sorrisi. Aveva poi trovato il modo, nel suo stentatissimo italiano, di farle capire che era molto soddisfatto di come veniva trattata la biancheria e di come veniva effettuata la pulizia della stanza. Era passato quindi a qualche regalo di tavolette di cioccolata, una delle poche cose che riceveva come extra dal proprio comando. Fu poi la volta di un sacchetto di caffè seguito da qualche lira.

Benedetta, che aveva capito subito tutto, stava al gioco sia perché cioccolata, caffè e qualche lira le facevano comodo, sia perché quel grasso tedesco le ricordava il suo Angelino, che l’aveva lasciata tanti anni prima per andare a cercare fortuna, o, almeno, lavoro, in Belgio. Sparito poi, non si sa se inghiottito in una delle terribili miniere che esistevano in quel paese o in un letto di qualche donna belga sedotta dal fascino latino. Erano tanti anni che non toccava un uomo e, se non ne avesse approfittato subito, avrebbe potuto perdere l’ultima occasione. Così, quando il tedesco fu più esplicito, Benedetta non è che gli si buttò immediatamente tra le braccia, ma gli fece capire che era lusingata dalle sue attenzioni.
Bisognava comunque risolvere un problema logistico. Di incontrarsi a casa sua Benedetta non avrebbe neppur accettato di parlarne. La cosa doveva essere fatta in gran segreto, per non beccarsi, oltre alle critiche e ai pettegolezzi, magari anche della collaboratrice. In albergo, dove tra l’altro lei due volte alla settimana faceva anche da guardiano notturno, i tedeschi dormivano due in ogni camera e lo spostamento dell’attuale compagno di sta za del suo futuro amante era alquanto difficile. Con lui, il compagno di notti infarcite di russate terribili, Franz aveva raggiunto una certa confidenza e, considerata la differenza d’età, lo trattava come un figlio.
Era ovvio che il suo sottoposto, Bernd, assiduo frequentatore del casino di Lovere, riuscisse a capire i problemi che una prolungata astinenza poteva provocare all’Hauptmann Reserve e che il suo desiderio di una donna fosse più che comprensibile. Bernd, tutti lo sapevano e ci scherzavano su, bastava appoggiasse la testa a un sostegno qualsiasi e, a qualsiasi ora del giorno e della notte, nel giro di due minuti, prendeva sonno. Le notti non erano ancora fredde: al riparo di una coperta, il suo aiutante avrebbe potuto passare qualche ora dormendo in qualche locale non frequentato dell’albergo, o, addirittura, in auto. Gli seccava un po’ che qualcuno sapesse esattamente quello che lui stesse facendo e per quanto tempo fosse intento a godere, ma non trovava altra alter- nativa. Gliene avrebbe parlato al più presto.

 

XI

Arrivarono al ristorante dell’albergo Fumo quasi con- temporaneamente e si diressero a un tavolino d’an- golo che permetteva ad entrambi di vedere bene tutta la
sala e chi andava o veniva. “Polenta e coniglio per tutti e due, e un litro di rosso” disse il Temperini al cameriere che si era avvicinato al loro tavolo. Lo disse con voce imperiosa a sottolineare l’importanza della scelta fatta anche a nome del suo compagno, quasi a far dimenticare che quel giorno all’albergo Fumo si servivano solo polenta e coniglio, come scritto in un cartello apposto all’ingresso del locale. Era fatto così il farmacista, si sentiva sempre un personaggio importante in paese e aveva costante il desiderio di mettersi in mostra.
D’altra parte di farmacista a Breno ce ne era uno solo: un po’ come il Padreterno, gli veniva da pensare qualche volta… o, più modestamente, una primadonna.
In attesa della polenta, il Russì raccontò dell’incontro con Martin Bascià spiegando che, data la rabbia che Martin aveva nei riguardi dei tedeschi, se ne avessero avuto bisogno avrebbero potuto contare su di lui. “Ma cosa hai in mente?” chiese il Temperini alla fine del racconto e dopo un minuto di silenzio. Il farmacista era al tempo stesso timoroso di essere coinvolto in qualcosa di troppo grosso per lui, ma anche esaltato dall’avventura che avrebbe vissuto da protagonista. – Storie a non finire! Ci sarà da raccontarne al bar per mesi, forse per anni – aveva pensato vedendosi già al Bar Monte Grappa a raccontare nell’attento silenzio dei soli- ti avventori. “Hai già pensato a tutto? Perché tutto vuol dire: come preparare il… diciamo… il colpo; quali risultati, o meglio quali danni si vogliono arrecare; poi, dopo il casino, cosa ci dobbiamo aspettare dai fascisti, dai tedeschi… da tutti quelli, insomma, che non la pensano come noi e che saranno incazzatissimi”.
Il Russì non si decideva a parlare. Ogni poco si portava il bicchiere alla bocca trangugiando piccoli sorsi di vino come se avesse bisogno di tener bagnata la lingua. In effetti anche lui si era posto le stesse domande e si era dato un sacco di risposte diverse. Avrebbe voluto dimostrare ai tedeschi che loro non erano degli intoccabili e, soprattutto, farli apparire vulnerabili perché smettessero di comportarsi con la prosopopea dei conquistatori di un popolo vile e sottomesso anche, e soprattutto, psicologicamente. Avrebbe potuto essere poco più di una burla, un scherzo un po’ pesante con la mira di ledere la dignità teutonica. E non sarebbe stato poco: l’Italia s’è desta – pensava in grande.
“Dottore, ascolti” disse infine il Russì. “Mica li voglio ammazzare, ’sti tedeschi. Gli facciamo uno scherzo: un po’ di dinamite sotto la macchinetta e bum, gliela facciamo a pezzi. Vedrà che calano le arie e per un po’ non rompono”. “La dinamite so dove trovarla, la portiamo in paese, la mettiamo nel gabbiotto degli attrezzi che hanno costruito in quello che chiamano l’Orto, aspettiamo una notte che ci si veda poco, portiamo il pacchetto di dinamite sotto la macchinetta, un pezzo di miccia e via. Tutto finito. Io, prima che arrivi qualcuno, sono già nel vicolo delle suore verso il Cerreto del matt Ruscu e lì vado a passare la notte”.

“E io, io cosa faccio, come posso partecipare?” chiese subito il farmacista che si sentiva, improvvisamente, escluso dalla gloria che sarebbe piovuta su chi avesse partecipato all’attentato. Cosa avrebbe mai potuto racconta- re al bar? Che sapeva e non aveva fatto nulla? Che era un pauroso e un coglione? In quel momento giunse, dall’ingresso, un forte vociare e rumore di suole dure sull’impiantito di legno. Subito dopo, dalla porta entrò lo Sturmfürher, seguito da tre dei suoi uomini. L’ufficiale tedesco fece due o tre passi verso il centro della sala, quindi, distendendo il braccio, urlò “Heil Hitler!”Attese, invano, che qualcuno degli avventori facesse anche solo un cenno di partecipazione. Tutti continuarono a mangiare o a parlare a bassa voce dei fatti loro come se nulla fosse accaduto. L’ufficiale rimase imbambolato in mezzo alla sala, si sentiva sempre triste e solo in un paese che lo detestava. Ciò nonostante, ripeteva questo gesto spontaneamente quando entrava in qualche locale pubblico, pur sapendo che il comportamento degli italiani sarebbe sempre stato lo stesso.
– E allora perché lo faccio? – si domandava ogni volta sempre più avvilito. Probabilmente questione di carattere, ma che carattere del cavolo aveva!
A toglierlo dall’imbarazzo fu il cameriere che, prendendolo quasi per un braccio e dicendogli:
“Venga, Comandante”, lo guidò verso un tavolino un po’ defilato. Ai tedeschi non veniva mai fornita la Lista del giorno, in quanto loro consumavano le razioni che ogni tre giorni arrivavano dal Comando di Brescia, razioni che venivano preparate con puntigliosa precisione: ognuna aveva persino il suo stuzzicadenti. Nonostante abituati alla loro cucina, che mischiava ingredienti salati e dolci ma senza alcun profumo, quando si sedevano a tavola al Fumo erano costretti a comparare le loro por- zioni anonime con gli appetitosi profumi che giungeva- no dai piatti degli altri commensali che guardavano con invidia. L’albergo aveva avuto sempre la tradizione di un’ottima cucina ed anche in tempo di autarchia il cuoco cercava di sopperire alla mancanza di ingredienti con l’amore verso il proprio lavoro. Quel giorno, poi, quella polenta con il coniglio arrosto, la specialità di Vittorio il cuoco, li fece impazzire di desiderio.
In mancanza di olio e con poco burro a disposizione, il Vittorio aveva imparato a far imbrunire salvia e rosmarino nello strutto e ad insaporire il sugo con le interiora del coniglio lasciate a macerare per una notte nel vino rosso e poi tritate fini fini, sino a ridurle in poltiglia. Ma il segre- to, che avrebbe fatto inorridire i buongustai e che non avrebbe mai rivelato neppure sotto tortura, era quel cuc- chiaino di miele di castagno che andava sempre ad aggiun- gere di nascosto per mitigare l’amarognolo del rognone. “Bravo dottore, qui la volevo! Avevo paura che mi lasciasse solo a fare tutto, come fate abitualmente voi ric- chi che ve lo menate tutto il giorno e intervenite solo quando c’è da incassare!” Alzò il bicchiere, ormai quasi vuoto, in un gesto di complicità condito con un sorriso d’amicizia. “Il lavoro c’è, è molto delicato e anche pericoloso, se lo volete fare”.

“Certo che lo voglio fare” rispose il farmacista con il tono di voce un po’ meno entusiasta dopo quei “delica- to” e “pericoloso” usati dal Russì.
“Vede, bisogna trovare il modo di portare l’esplosivo in paese; mica lo posso mettere nello zaino io, che se mi fermano i fascisti o i tedeschi mi ritrovo sparato come un coniglio. Ormai se vedono uno entrare in paese quasi sempre lo fermano e lo perquisiscono.” Questa asserzione fece scorrere un brivido di gelo lungo la schiena del farmacista. Organizzare un attentato era una cosa, parteciparvi attivamente era ben diverso. Ma ormai c’era dentro e non poteva ritirarsi senza perdere la faccia. “Cosa hai in mente?” chiese mentre lo sconforto lo pren- deva sempre più.
“Ci ho pensato molto, ma non trovavo la soluzione. Poi mi è venuta in mente una cosa che, però, un po’ mi ripu- gna.” Si fermò per un po’ quasi fosse restio a continuare, come se avesse veramente vergogna a proporla. Tra i due uomini corsero molte occhiate che esplicitavano tutto il disagio che avevano dentro di loro. Alla fine il montana- ro, dopo essersi schiarita la voce ed essersi guardato in- torno per sincerarsi che nessuno degli occupanti dei tavoli vicini fosse a portata di voce, riprese a parlare: “Dottore, io glielo dico, però lei non mi dà una risposta senza prima averci pensato bene. In un primo momento la mia proposta le darà fastidio e la troverà inaccettabile; quindi non dica nulla sino a quando non avrà valutato i pro e i contro. Per fare il trasporto ci vorrebbe un bam- bino. Nessuno controlla i loro giochi e il loro andare e venire per i boschi. Ormai è tempo di funghi e, per esempio, il figlio del dentista con il suo amico, mi pare si chiami Ernesto, due o tre volte la settimana vanno, appunto, per funghi. Lei li conosce bene: qualche volta vi ho visti parlare insieme e mi sembrava che la stessero ad ascoltare con grande ammirazione e interesse. Probabilmente lei stava raccontando qualcuna delle storielle che si inventa per i grandi ma che, adattate all’età, piacciono anche ai bambini. Lei dovrebbe raccontare loro che, insieme a me, ha preparato un concime miracoloso. Un concime che, se usato nell’orto che stanno lavorando con i loro compagni di scuola, darebbe un raccolto da farli diventare famosi. Lei potrebbe offrire loro un po’ di questo concime, a patto di mantenere il segreto. Guai se parlassero: prima di tutto perché il meri- to non sarebbe più stato loro, poi perché avrebbero potuto sgridarli, avendo compiuto una cosa di nascosto dalla maestra… quella poco di buono che hanno nomi- nato, cose da pazzi, Custode dell’Orto Fascista. Li potrebbe mandare da me a ritirare un pacco di questo… concime, da nascondere nel gabbiotto dell’orto, in atte- sa di usarlo al momento giusto. Il momento glielo dirà lei, studiando le fasi della luna. Ci pensi su. E adesso andiamo che a me questa presenza dei tedeschi mi fa girare le palle”.

 

XII

Lasciato il farmacista, il Russì era andato verso il Punt della Madonna a cercare 3B, ovvero Bettino Bum Bum, così chiamato perché aveva fatto, prima di prendersi la silicosi, il minatore in Francia, dove si era specializzato come preparatore di candelotti di dinamite e nel farli brillare nel modo giusto. Al rientro al paese aveva continuato a tenersi in esercizio, dando, a volte una mano all’Azienda Autonoma Statale della Strada nell’anticipare la caduta di una frana che minacciava di invadere qualche via di comunicazione, soprattutto in montagna; altre volte lavorando per i Tassara, che stava- no preparando nuovi piccoli invasi per ottenere energia elettrica per il funzionamento dei macchinari della fonderia. Tutte le volte che gli affidavano la dinamite per qualche lavoro, il Bettino, attentissimo a non essere scoperto, ne sottraeva un piccolo quantitativo nascondendolo in luoghi sicuri. Avere della dinamite a portata di
mano, come lui diceva, “serve sempre”. Il Russì andò da lui a colpo sicuro, ma fu costretto a spie- gare sin nei minimi dettagli il piano che aveva in mente, per creare un certo interesse nel Bettino che, da uomo dai nervi d’acciaio – freddezza, precisione ed un certo grado di incoscienza avevano permesso al “brillatore” di portare a casa, dalla Francia, la “ghirba” – non aveva inizialmente mosso ciglio alle sue parole. “Ci vediamo domani alle 10 al crusal, che ci devo pensa- re!” fu l’unico commento del Bettino. “Attento: se ho il cappello in testa ci parliamo, se ce l’ho in mano fa’ finta di niente e non avvicinarmi. Guarda, comunque, che io non ho sentito niente di quello che mi hai detto. Se ci starò ti dirò dove e quando andare a prendere la “merce” già pronta. Ma noi oggi non ci siamo incontrati. Cazzi tuoi! Io non posso rischiare la galera o una bevuta di olio di rici- no. Tre giorni in gattabuia senza cure o una dissenteria e io sono bell’e che morto. E per adesso non ho nessuna voglia di lasciare la mia Ninetta dopo tanti anni che le sono stato lontano”. Detto questo si girò e rientrò in casa. Non si aspettava un atteggiamento diverso da quello e quindi, tirate le somme il Russì si ritenne soddisfatto dell’incontro. Era sicuro che Bettino gli avrebbe fornito l’occorrente per l’attentato e che, da antifascista qual era, fosse in fondo in fondo lieto di partecipare.
– Le sue paure sono scusabili – si disse conoscendo le pre- carie condizioni di salute di 3B. La mattina seguente prima delle 10 era al luogo dell’ap- puntamento, in attesa. Finalmente vide, in lontananza, la figura mingherlina del Bettino. Avanzava lentamente e un po’ ingobbito per la strada in leggera salita, probabilmente a causa della difficoltosa respirazione. Gli sembrò stesse parlando da solo, mentre continuava a mettersi e togliersi il cappello.
Improvvisamente, con un gesto melodrammatico, si ficcò il copricapo in testa, raddrizzò il corpo e si mise a camminare più speditamente: sembrava trasformato. Al Russì venne da sorridere: l’amico aveva deciso di aiutarlo e se ne sentiva fiero. Infatti dopo poco gli si avvicinò e gli disse: “Stammi bene a sentire perché non ripeterò. Vai alla chiesa di S. Maurizio. Sotto il portico alla destra c’è una lastra più grande delle altre che non è ben francata: la alzi e sotto trovi otto candelotti di dinamite. Ne prendi due di quelli che hanno la miccia più lunga. Poi rimetti a posto la lastra e dimentichi tutto. Tutto: quello che hai visto e gli incontri che abbiamo avuto. TUTTO. Ciao” e se ne andò.
Ora bastava solo andare a prendere l’esplosivo e portarlo in paese: poi sarebbe stato tutto pronto! Bisognava solo aspettare il momento giusto per far saltare in aria quella maledetta auto tedesca.

 

XIII

La signora maestra Lucia aveva ottenuto dal signor Direttore della scuola di poter acquistare qualche attrezzo per la lavorazione della terra da dare ai ragazzi per- ché iniziassero, dopo averlo pulito dai sassi, dai calcinacci e dai pezzi di legno, a smuovere la terra in attesa di una prossima semina. Inoltre, poiché l’Orto Fascista era al- quanto distante dalla sede della scuola, bisognava provvedere alla realizzazione di un riparo, anche se piccolo, per gli attrezzi. Come al solito si pensò di affidare l’incarico alla locale Associazione Alpini, che era sempre disponibile a dare una mano a chi avesse bisogno. Così in breve fu costruito un piccolo deposito in muratura di un metro per un metro, con la sua bella porta in legno mu-
nita di un robusto chiavistello con lucchetto. Rimuovere un terreno così duro, abbandonato da anni, risultò subito impresa difficile per dei ragazzini che, oltre tutto, dovevano lavorare con attrezzi pesanti e non adatti alla loro altezza. D’altra parte l’inverno era alle porte e il momento della semina vicino. O abbandonare l’impresa o far intervenire, sperando nell’indifferenza delle autorità verso una soluzione non desiderata dal Regime, i soliti alpini volontari. E così fu fatto. Nessuno pensò di avanzare critiche o suscitare polemiche, anche perché la situazione in valle continuava a complicarsi per la sempre maggior presenza di partigiani e per i rapporti con i tedeschi che, dopo una iniziale esultante accoglienza da parte dei fascisti locali, si erano alquanto raffreddati sia per la intransigente durezza che i tedeschi ponevano nel- l’affrontare qualsiasi situazione, sia perché, in fondo alla mente di ognuno, rodeva un piccolo tarlo che diceva, sottovoce, “attento che la guerra finisce male per voi, non vi esponete troppo”. Le teste calde, naturalmente, c’erano ancora, ma tendevano a diminuire di numero con una certa celerità.
Gli alpini furono come al solito molto sbrigativi ed organizzati. Nel giro di una settimana il terreno era pronto alla semina del grano: bastava tracciare i solchi, lavoro che non fu compiuto da loro per dare la soddisfazione ai bambini di effettuarlo. Quando tutto fu a posto venne organizzata la cerimonia della semina. Non una cerimonia importante come quella per la nascita dell’Orto, ma comunque furono invitati ed intervennero, il Podestà, il Parroco, il Segretario del partito, il Direttore delle Scuole di Breno, il Maresciallo dei Reali Carabinieri, il responsabile dell’Associazione Alpini della Valle Camonica, il Generale Ronchi – nonno di Ernesto, il Direttore dell’o- spedale e le rappresentanze delle altre scuole del paese. Quattro bambini, portando a tracolla un sacchetto che conteneva le sementi, tenendosi a distanza di un paio di metri l’uno dall’altro, iniziarono a percorrere a passi lenti il campo, lanciando, con ampi gesti del braccio, i chic- chi di grano sul terreno lavorato. I poveretti avevano dovuto rinunciare per due settimane a tutte le ricreazioni per imparare a camminare tenendo tra loro la stessa distanza, alla stessa velocità e a compiere con sincronismo il gesto del braccio impegnato nella semina. Dopo tanta fatica erano riusciti a raggiungere un buon risulta- to, tanto che il Podestà dichiarò in una intervista rilasci ta al “Giornale della Valle” che “l’incedere dei piccoli seminatori, incedere altero nella loro consapevolezza di e sere parte di un grande progetto che solo il Duce aveva potuto partorire nella sua illuminata lungimiranza, ricordava quello dei pazienti buoi (???) che trascinano l’aratro con serietà e fermezza. Un gran bel vedere: con il gesto della semina che ricordava il colpo d’ala dell’aquila fascista”. Non era riuscito ad inserirci anche i fasci littori ma in compenso non ci si capiva nulla.

 

(continua…)

 

 

 

 

 

 

 

A Genova esaltano Giuliani e le foibe

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

L’esaltazione di Carlo Giuliani visto come martire e come compagno di lotta che vive, a vent’anni dal G 8 genovese, è cosa che solo menti malate di faziosità possono fare.

Giuliani avrebbe potuto  uccidere un carabiniere il quale per legittima difesa, sparò e uccise questo ragazzo. E il padre di Giuliani che è responsabile della sua educazione forse non proprio esemplare, non può oggi salutare su un palco e  indignarsi perché  non ci fu un processo. In più processi, anche alla Corte europea, il carabiniere venne assolto. Resta il dolore per la morte di un giovane ma la vera vittima appare oggi il  carabiniere che non seppe difendersi al processo (e fu  assolto!) e che ebbe la sua  vita rovinata per sempre. Non si riprese più da quel trauma e da quel clima di odio creato attorno a lui. Anche la sua vita privata fu difficile e l’accusa di pedofilia da cui venne assolto è un segno di una realtà molto problematica che ha origine remota  nell’episodio di piazza Alimonda a Genova. Su Facebook ho scritto che era vergognoso celebrare Giuliani e lo ribadisco. Lo striscione di esaltazione delle foibe (ispirato al libretto uscito qualche mese fa) ci rivela chi sono molti tra gli estimatori di Giuliani. Vetero-comunisti,  giovani, meno giovani e vecchi malvissuti  che fanno della violenza politica il loro metodo di lotta. Esaltare le foibe è un atto infame paragonabile al gesto di chi avrebbe potuto  uccidere un carabiniere, lanciandogli un estintore. Questi estremisti sono nemici dell’Italia. Un assembramento, vietato a causa del Covid ma tollerato dalla Polizia, che rivela la stoltezza, l’ignoranza, la malafede di certa gente che io non esito  a definire traditori  e disertori nei confronti dell’Italia democratica e civile, in primis di quella nata dalla Resistenza. Gente che, se non fossimo dei liberali e dei democratici, andrebbe idealmente “messa alla gogna”. Loro ci metterebbero alla gogna senza la minima esitazione, ricorrendo alla violenza contro chi ha la colpa di non pensare in rosso.

Papa Francesco e la Messa di Pio V

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

La questione della Messa in latino sembrava un argomento su cui non fosse più il caso di discutere. Appariva un tema non più divisivo all’interno del mondo cattolico, invece, all’improvviso, è intervenuto con fermezza Papa Francesco, ritenendo la celebrazione della Messa di Pio V motivo di scontro conflittuale  all’interno della Chiesa.

Il Pontefice ha revocato  con il Motu proprio “ Traditionis costodes “le concessioni dei suoi due predecessori relative ad una certa “liberalizzazione“ nella  celebrazione della Messa in Latino secondo il Messale  del 1962 ,precedente al Concilio Vaticano II. Tra le principali novità – scrive” Avvenire”, voce della CEI- viene affermato il ruolo esclusivo del vescovo nell’autorizzare l’uso del Messale precedente alla riforma liturgica voluta da Paolo VI.
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Il Pontefice è preoccupato che vere e proprie comunità di credenti vedano nella Messa in latino una  forma  di contestazione non solo del Concilio, ma addirittura della stessa autorità del Papa attuale, sollevando la questione della sua illegittimità. Esistono infatti sacerdoti e credenti che ritengono che l’unico  vero Papa sia Benedetto XVI. Si tratta di posizioni estreme volte a sconvolgere l’intera Chiesa in  nome di  un tradizionalismo ribelle  che va persino oltre quello del vescovo  Lefebvre che fu promotore  di un piccolo scisma contro il  Concilio e la nuova liturgia che non si limitava a tradurre nelle diverse lingue il Messale, ma cambiava anche radicalmente la Messa, partendo dall’altare dal quale essa veniva celebrata. Ci fu chi disse che la nuova liturgia ribaltava  una visione teocentrica ( con il sacerdote che dava le spalle ai fedeli e restava rivolto verso l’altare) in una visione antropocentrica in cui l’assemblea dei fedeli era coprotagonista del rito. Un tentativo, si disse, per riavviare un dialogo verso il mondo protestante. Non ho la cultura sufficiente in materia liturgica per dare dei giudizi, ma ricordo di aver vissuto  da studente liceale tutta la vicenda. La Messa di Pio V e del Concilio di Trento   fu archiviata come un’eredità della Controriforma. Un segno di rinnovamento che svecchiava la Chiesa di secoli privandola di un qualcosa che aveva sfidato il tempo ed era diventato quasi metastorico. La Chiesa cattolica romana preferì abbandonare o almeno ridimensionare la tradizione
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La  lingua latina venne considerata superata . La liturgia  tradizionale e il canto gregoriano che rappresentava un’attrattiva persino per l’ateo Massimo Mila (che ne  subiva il fascino non solo musicale  vennero sacrificati a favore di un rinnovamento che cancellò un’eredità che durava da secoli. Nel Latino sconosciuto ai più c’era il  fascino del mistero che è andato perduto. Forse la via obbligata della Chiesa era quella di aprirsi al presente e al futuro, guardando al terzo e al quarto mondo. La questione sociale è diventata anche per Chiesa   la questione centrale e l’attuale Papa, anche per le sue origini, appare assai concentrato sui temi sociali, sulla povertà evangelica, sulle disuguaglianze e sui temi ambientali. Questa stretta molto ferma sulla possibilità di celebrare la Messa di Pio V ha  sicuramente delle ragioni che vanno oltre la sua  celebrazione che alcuni hanno utilizzato come una clava contro l’attuale Pontefice, che ha risposto in modo duro e anche comprensibile, mettendo sotto il controllo dei vescovi la possibilità di celebrare la Messa precedente al Concilio. Se devo essere sincero, la Messa voluta da Paolo VI non mi ha mai entusiasmato e ricordo le discussioni animate con il  mio compagno di liceo Mauro Barrera (mancato da poco) che ne era entusiasta. Non credo casualmente Barrera divenne uno dei leader della contestazione studentesca nel ‘68 e seguitò  coerentemente per tutta la vita nella sua scelta progressista. Al contrario  ho sentito rimpianto per la vecchia Messa che ragazzino andavo a servire, come si usava in quell’epoca. Ricordo le solenni Messe cantate nelle grandi festività che davano il senso della festa religiosa oggi forse non più recuperabile.
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Capisco  che i nostalgici  siano considerati dei reazionari. Io che non mi sento affatto un reazionario, ma un liberale  sento il valore di una tradizione che viene da lontano. Vivere immersi nel presente a volte e’ cosa miserevole specie in tempi di nichilismo più o meno totale. Forse è anche la nostalgia della giovinezza a far rimpiangere l’antico. Oggi non avrebbe ragione l’umanista Lorenzo Valla a dire che i veri antichi siamo noi  perchè il presente senza radici che stiamo vivendo  ci priva dell’eredità del passato. Sarebbe  necessario ,a mio modo di vedere , recuperare il senso della storia e del passato e anche la Messa di Pio V costituisce un tassello importante, al di là del fatto che si creda o non si creda. Vivere nel presente può portare a grandi disastri . La storia consente un dialogo tra generazioni diversamente impossibile. Ed oggi il dialogo tra generazioni è diventato sempre più difficile persino all’interno della stessa Chiesa.

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Lura Goria

Benjamin Taylor “Siamo ancora qui. La mia amicizia con Philip Roth” -Nutrimenti- euro 15,00

Per chi ama i libri di Philip Roth ed è attratto dalla sua singolare vita, questo libro è prezioso perché fa luce su alcuni anfratti della sua personalità, del suo pensiero, delle sue ambizioni e delusioni, dei suoi sentimenti più profondi.
106 scorrevolissime pagine in cui emerge il ritratto affettuoso di questo scrittore -monumento della letteratura americana- impetuoso, controverso, visto dietro le quinte, nell’ambito più domestico e intimo, quello sconosciuto ai più.

A raccontarlo è il suo migliore amico e confidente degli ultimi 20 anni della vita dello scrittore, Benjamin Taylor; autore di 2 romanzi e vari saggi, tra cui una biografia di Marcel Proust (altro scrittore immenso che come Roth non ottenne il Premio Nobel per la letteratura).
Roth aveva cercato una donna giovane e bella che si prendesse cura di lui (come Jane Eyre accudì Rochester)….e invece trovò Taylor: sensibile conoscitore della letteratura, grande capacità di ascolto che lo rese il confidente perfetto e speciale.
Due scrittori diversi ma in profonda sintonia umana, un rapporto sempre più stretto man mano che Roth scivola in un crescente declino fisico -tra ricoveri e interventi vari- e si lascia andare a ricordi e bilanci. Emergono così squarci inediti del grande romanziere di Newark e delle sue idiosincrasie, vizi, slanci ingenui e conti in sospeso.
Come quello con la prima moglie Maggie che lo raggirò fingendosi incinta per farsi sposare e poi gli diede a intere di avere abortito. Fu un pessimo matrimonio, finito con lei che muore nello schianto dell’auto su una traversa di Central Park, mentre l’uomo che era con lei si salva. Fine dell’inferno coniugale e Roth che chiama l’amante della moglie “Il mio liberatore”.
Resterà comunque sempre complicato il suo rapporto con le donne. Perennemente innamorato, un seduttore, ma anche fedifrago perché incapace di gestire le sue relazioni, in fuga dalla monogamia e pronto a innamorarsi di nuovo. A Taylor confiderà «Ho bisogno del sesso per essere indomabile, per un breve istante immortale”.
Le confidenze “tra maschi” continuano e toccano altri punti, tra cui la gigantesca vita interiore di Roth le cui emozioni erano fuori misura ….e lui che affermò «Ho scritto proprio perché queste emozioni non mi ammazzassero».
Poi dialoghi sulla sua famiglia di origine -povera ma in armonia-, sui suoi libri e sulla delusione per non aver ricevuto il Nobel.
Infine i gravi acciacchi che più volte l’avevano avvicinato alla morte, il cuore sempre più malato e le continue operazioni. Lui si era organizzato per il suicidio in caso di gravi disabilità, e alla fine, stanco di vivere in precarie condizioni in ospedale, chiese ed ottenne che gli venisse tolto il respiratore che lo teneva in vita, lasciandosi così andare a una fine cosciente.

 

Mario Desiati “Spatriati” -Einaudi- euro 20,00

In dialetto pugliese “spatriato” vuol dire ramingo, balordo, disorientato, precario e a volte è un insulto per etichettare una persona che non ha un posto fisso e un’identità chiara rispetto agli altri.
Altre volte indica semplicemente un modo di essere fluido, più libero, come rappresentato dai personaggi di questo romanzo.
Desiati, nato a Martina Franca, nelle Murge, si è sentito definire così più volte da amici e parenti, perché a 40 anni non si è ancora creato una famiglia e neanche si sa bene dove stia di casa, dopo aver vissuto a Roma, Milano e Berlino.
Protagonisti del romanzo sono due giovani nati a Martina Franca, incerti e disorientati che crescono andando via non tanto da un luogo quanto dalle convenzioni.
Francesco Veleno e Claudia Fanelli si sono conosciuti sui banchi di scuola; da allora lui è innamorato di lei, che invece sogna solo di lasciare la provincia che le sta stretta e diventare cittadina del mondo.
Claudia è solare ed esplosiva, la sua femminilità viene potenziata quando indossa abiti maschili; Francesco è timido e ombroso e da lei accetta tutto o quasi, rodendosi in silenzio, e comunque felice anche di essere schiavizzato da colei che ama incondizionatamente.
Negli anni continuano a restare in contatto anche se lei, più libera e spregiudicata, si allontana presto da casa,
volando prima a Londra, poi a Milano e infine a Berlino.
Una storia d’amore travestita da grande amicizia. Potrebbe essere definito così il loro legame particolare, fatto di complicità, grande intesa e confidenza. Lei gli racconta degli uomini con cui sta e lui patisce, neanche tanto in silenzio, però continua a professarle il suo amore.
Gli anni scorrono e i due trovano il modo di stare insieme e fare in qualche modo famiglia anche se sono geograficamente lontani. Il loro è un rapporto saldamente basato sulla verità, a partire da quando Claudia gli svela che suo padre e la madre di Francesco sono amanti.
Claudia negli uomini cerca «imprevedibilità, mistero e una tenera inettitudine alla vita» e passa da un’esperienza all’altra.
Francesco resta più indietro, remissivo e alla ricerca della sua identità più vera e profonda.
Il loro allontanarsi e ritrovarsi continuo esprime anche la dialettica tra il modo di vivere la provincia e le grandi città.
E’ dopo i 35 anni che entrambi capiscono che la loro identità è fluida, che la scoperta di se stessi non ha età, che in fondo anche se si spostano non sono mai appagati e stentano a stare bene in qualunque posto.

 

 

Rebecca Solnit “Ricordi della mia inesistenza” -Ponte alle Grazie- euro 16,80

Rebecca Solnit,-scrittrice, giornalista , storica e attivista femminista- in questo memoir si racconta e apre pagine intime e profonde sulla sua vita e le sue esperienze.
Inizia da quando non ancora diciottenne si insediò in un minuscolo appartamento in un vecchio quartiere di San Francisco; è da lì che inizia a ricostruire il suo lavorio interiore per capire meglio la sua natura e le sue aspirazioni, mettendo a nudo pensieri ed emozioni più profondi.
Epoca in cui era povera, raccoglieva mobili che erano stati abbandonati in strada, vestiti nei negozi dell’usato e articoli per la casa dai mercatini. Scrive: «La maggior parte delle cose che mi appartenevano erano più vecchie di me e questo mi dava gusto; ogni oggetto era un ancoraggio al passato».
Appassionata lettrice, ma scarsa di mezzi, leggeva in piedi nelle librerie o prendeva volumi in prestito dalle biblioteche, oppure li trovava usati e a prezzi stracciati. Racconta che voleva sempre qualcosa di più, perché «il senso di incompiutezza è un buco da riempire di cose, e le cose che hai scompaiono dietro quelle che vuoi».

Racconta che dai 13anni in poi aveva subito pressioni a sfondo sessuale da uomini adulti che gravitavano intorno alla sua famiglia, o da sconosciuti per strada; è così che divenne abile nello sgattaiolare via, nell’eludere contatti indesiderati, un’esperta nell’arte di non esistere, visto che era tanto pericoloso.
Una delle sue grandi libertà era camminare: la sua gioia, il suo mezzo di trasporto economico, il sistema per imparare a conoscere i luoghi e a stare al mondo.

Poi le sue grandi passioni, prima fra tutte voler diventare scrittrice, e la sua fame di letture.
Perché per lei «c’è qualcosa di sbalorditivo in quella sospensione del tempo e dello spazio in cui viaggiamo in altri tempi e spazi».
Un modo di sparire da dove ci troviamo per entrare nella mente dell’autore……traduciamo le sue parole in nostre immagini, volti, luoghi, luci e ombre, suoni ed emozioni».
Importante fu l’avventura del primo libro che scrisse; racconta che scrivere è un’arte, pubblicare è un business.
E a seguire altre pagine di storia vissuta: tra incontri con personaggi e aneddoti vari, la sua dichiarazione d’amore verso la San Francisco dei quartieri degli artisti e delle proteste contro guerre e discriminazioni varie.

 

Paul Scott “Il gioiello della Corona” – Fazi Editore- euro 20,00

Questo è il primo volume della tetralogia intitolata “The Raj Quartet”, che lo scrittore inglese Paul Scott (nato nel 1920 e morto nel 1978), pubblicò a partire dal 1966. L’autore -che nel 1977 vinse il Man Booker Prize con il romanzo “Staing On”- durante la seconda guerra mondiale prese servizio in India e Malesia, diventando un profondo conoscitore del colonialismo britannico e del suo declino.
Poi lavorò a lungo nell’editoria e pubblicò 13 romanzi, i più famosi sono quelli appartenenti all’ambizioso progetto “The Raj Quartet”.
In “Il gioiello della Corona” compone un intreccio vasto e complesso, ricco di personaggi e avventure, per ricreare e farci conoscere più a fondo la realtà dell’India coloniale.
La storia inizia nel 1942 nella città indiana di Mayapore, in pieno conflitto mondiale con l’Inghilterra concentrata su come fermare la minaccia nazista. E racconta come il più bel gioiello della corona della regina -ovvero il dominio britannico sulla colonia indiana- inizi a vacillare.
Due mondi legati storicamente, ma profondamente diversi, vivono profonde tensioni. La struttura del romanzo è alquanto complessa e riporta svariate vicende e drammatiche esperienze, come quella della giovane inglese Daphne Manners stuprata da un gruppo di delinquenti che restano ignoti. Una violenza che inaugura una drammatica serie di eventi.

Tra gli sviluppi, c’è l’amore impossibile tra Daphne e il giovane Hari Kumar, dalla pelle scura, di origine indiana ma cresciuto in Inghilterra dove ha studiato in una delle migliori scuole. Daphne è diversa per sensibilità e stile di pensiero rispetto alle coetanee inglesi che disdegnano rapporti con i neri e ostentano un‘algida superiorità. Ma la società dell’epoca non consente certe scelte…

Le traversie dei due innamorati sono solo una parte dei tanti intrecci di vite ed eventi attraverso i quali Scott ritrae l’India dando voce a punti di vista molto diversi tra loro.
Emerge un ritratto composito della realtà delle colonie, un imponente affresco e un autentico documento storico che attraversa più livelli: dal rapporto tra indiani e inglesi ai cenni alla politica del Mahatma Gandhi che con la non violenza intende guidare il suo popolo verso l’indipendenza.
Poi le riflessioni sul razzismo e la barriera del colore della pelle, rivolte e crimini violenti in un’epoca in cui la storia sta cambiando e l’India si affaccia alla soglia della libertà e dell’autonomia.