Rubriche- Pagina 48

Del Boca, il non accademico che combattè il colonialismo

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Ho avuto qualche polemica con Angelo Del Boca in passato, ma non ho mai disconosciuto la sua buonafede. La morte del giornalista e saggista ha portato a riscrivere del   colonialismo fascista di cui  egli è  stato uno dei massimi studiosi, anche se Del Boca non era neppure laureato

Io ho una naturale diffidenza per chi non abbia appreso un metodo storico sicuro con studi regolari, ma è l’abitudine di tanti giornalisti quella di avventurarsi nei cammini impervi  della storia che spesso viene semplificata nel tentativo di divulgarla ai non addetti: un lavoro sicuramente utile ,ma non sempre rigoroso. Per altri versi, gli storici cadono spesso nel difetto di scrivere  per i colleghi ,usando linguaggi da addetti ai lavori. Dalla sua opera noi comprendiamo gli aspetti nefasti del colonialismo italiano che, secondo De Boca, fu pari a quello inglese, portoghese, francese ecc. Egli vede nel colonialismo una sorta di male assoluto, concetto che gli storici non accettano perché tendono sempre a relativizzare gli eventi .Il male assoluto in campo storiografico non esiste. Il colonialismo mastodontico inglese non è neppure confrontabile con quello italiano che arrivò alla fine dell’800,quando le grandi potenze europee si erano impossessate da secoli di intere parti dei diversi continenti mondiali. Montanelli polemizzo’ con lui da giornalista e da reduce dalle campagna d’Etiopia ed ebbe torto, nel negare l’uso dei gas a cui Graziani fece  effettivamente ricorso. Del Boca cavallerescamente difese Montanelli, quando il suo monumento milanese venne imbrattato. Gli studi della storica Federica Saini Fasanotti in “Etiopia :1936-1940. Le operazioni di polizia coloniale nelle fonti dell’ Esercito italiano “ mettono in rilievo aspetti che non vennero abbastanza considerati da Del Boca, innanzi tutto l’opera pacificatrice in Etiopia del Vice Re Amedeo di Savoia – Aosta ,opera interrotta dallo scoppio della guerra. Il Duca d’Aosta non va confuso con altri nella maniera più assoluta. Se ci furono atrocità italiane , ci furono anche atrocità indicibili dei guerriglieri etiopi nei  confronti dei soldati italiani fatti prigionieri  che vennero evirati  . All’epoca della conquista dell’ Impero vigeva in Etiopia un regime schiavista che non può essere ignorato. Può sembrare paradossale che sia stato il regime fascista ad abolire la schiavitù, ,ma la storia è quella, piaccia o non piaccia. La retorica fascista ha nascosto gli aspetti inconfessabili di quella campagna coloniale, ma è indubbio che gli italiani portarono anche nelle colonie scuole, strade, ospedali: un fatto indiscutibile. A Tripoli quel poco di significativo nel campo degli edifici pubblici esistenti  prima della fine  drammatica del regime di Gheddafi ,era stato costruito dagli Italiani, quando Italo Balbo fu Governatore. La figura di Balbo in Libia è molto diversa da quella del Quadrumviro  della Marcia su Roma e del capo dello  squadrismo  di Ferrara. Sia reso onore al giornalista del Boca per la coerenza della sua opera . A volte si e’ permesso persino di polemizzare con uno storico come Renzo De Felice che era oggettivamente a lui molto superiore. Si è accusato De Felice di essersi via via “innamorato” di Mussolini nel corso dei suoi studi trentennali sul duce, sarebbe facile dire che anche Del Boca che dedicò due libri al Negus e a Gheddafi, si fosse “ innamorato“ di un certo mondo africano. Io ho conosciuto ex combattenti delle guerre coloniali e   profughi d’Africa  penso agli Italiani cacciati brutalmente  da Gheddafi dalla Libia) che non stimarono (uso un eufemismo) Del Boca, che non ha considerato l’altera pars ,come dovrebbero fare  sempre gli storici. Ma di fronte alla sua morte provo grande  rispetto perché credo nella buona fede delle sue battaglie, un concetto che  però non coincide con quello degli storici che non debbono intraprendere battaglie, ma limitarsi a raccontare e valutare i fatti con animo sgombro da pregiudizi. Gheddafi, ad esempio, fu un ferocissimo  dittatore,  direi indifendibile, se  non ricorrendo al machiavellismo che vede in lui chi seppe trattenere le tribù sanguinarie che si contesero la Libia dopo la sua morte. Anche il periodo coloniale italiano, che certo non intendo esaltare, ebbe a che fare con tribù libiche ancora più feroci. Il senso della storia ci impone di ricordarlo . Del Boca però ha svelato verità scomode  che gli storici accademici  prima di lui  ci avevano nascosto o avevano omesso di indagare .Appare incredibile che Giorgio Rochat abbia dovuto attendere le ricerche di Del Boca che lascia un vuoto difficilmente colmabile. Non fu certamente  uno storico nel senso della storiografia di Chabod, ma fu  sicuramente un uomo intellettualmente onesto che merita considerazione anche da parte di chi è lontano dalle sue idee.
scrivere a quaglieni@gmail.com

Torino e i suoi teatri. Storia del Teatro: il mondo antico

Torino e i suoi teatri

1 Storia del Teatro: il mondo antico
2 Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti
3 Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri
4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti
5 I teatri torinesi :Teatro Carignano
6 I teatri torinesi :Teatro Colosseo
7 I teatri torinesi :Teatro Alfieri
8 I teatri torinesi :Teatro Macario
9 Il fascino dell’Opera lirica
10 Il Teatro Regio.

 

1 Storia del Teatro: il mondo antico

Per scaramanzia non lo diciamo a voce troppo alta, ma le cose sembra stiano migliorando e si ha la comune impressione che, poco a poco e con le dovute precauzioni, si possa tornare a togliersi qualche sfizio.

Il mese scorso io stessa ho riscoperto il piacere di andare al cinema e, lo ammetto, mi è parso un delizioso diletto dal gusto antico, sedersi – distanziati- sulle poltroncine, osservare le luci che si assopiscono, quell’attimo di buio afono che separa l’inizio della pellicola dall’incessante parlottio delle pubblicità. Le piccole cose dunque non sono poi così tanto piccole: i divertimenti, le passioni, gli “hobbies” fanno parte di noi così come i grandi insegnamenti dei libri e della scuola.
Torino ovviamente offre una molteplicità di scelte non indifferenti per quel che riguarda come trascorrere il tempo libero, le vie del centro brulicano di locali dove sedersi per un aperitivo, le panchine lungo il Po costeggiano il fiume sia per i viandanti affaticati che per le coppiette innamorate e le sale dei cinema sono nuovamente pronte ad accogliere gli amanti della celluloide. Eppure tra i tanti modi di occupare una serata ce n’è uno che talvolta passa in sordina: andare a teatro.
In questo nuovo ciclo di articoli vorrei proprio dedicarmi a raccontarvi qualcosa dei maggiori teatri torinesi, quali il Gobetti, il Carignano o ancora il celeberrimo Teatro Regio, nella speranza – cari lettori- di intrattenervi piacevolmente, di narrarvi qualcosa di nuovo o di cui vi eravate momentaneamente dimenticati e, soprattutto, con l’augurio di spingervi a passare qualche piacevole serata estiva in compagnia di attori e musicisti.

Tuttavia prima di addentrarmi nel vivo dell’argomento, vorrei proporvi una più che breve storia del teatro e dello spettacolo, a partire dalle origini fino alla contemporaneità. Va da sé che la materia è assai vasta, complessa e articolata, tenterò dunque di svolgere l’esposizione nel modo più esaustivo possibile, cercando di non tediarvi con eccessivi cavilli.
Che queste letture siano appunto uno svago, un breve passatempo mentre osservate lo scorrere del fiume o sorseggiate un Martini al Caffè Torino.
La parola “teatro” deriva dal greco “θέατρον” (théatron), “luogo di pubblico spettacolo”, termine che rimanda al verbo “θεάομαι” (theàomai) “guardare”, “essere spettatore” e indica un insieme di diverse discipline che vanno a concretizzarsi nell’esecuzione di un evento spettacolare dal vivo.
Il teatro ha una storia antichissima, pare infatti che ancora prima della tragedia greca fosse praticato nell’antico Egitto, sotto forma del culto dei “Misteri di Osiride”.
Il primo punto da sottolineare è che la “storia del teatro” non equivale alla “storia della drammaturgia” e la “storia dello spettacolo” non è la “storia delle opere”; la “storia del teatro” è invece la materia che mira a ricostruire l’immagine di fenomeni perduti sulla base di diverse testimonianze, che possono comprendere documenti letterari, diretti, indiretti o figurativi, oggetti concreti, come ad esempio vasi su cui è stato rappresentato un attore, fino a prove più astratte come una moderna registrazione televisiva.
Caratteristica essenziale del teatro è l’essere “effimero”. Tale peculiarità viene apprezzata anche da diversi ambiti artistici in quanto “non produce prodotti” così come la “performance”, “l’action painting” o la “body art”, tutte modalità creative che volutamente pongono l’attenzione non sul prodotto artistico finale ma sulle modalità del suo farsi.
Da un punto di vista più storico-artistico e sociologico gli studiosi sono soliti far risalire le origini del teatro ai riti religiosi o alle identificazioni magiche tra l’uomo-attore e l’animale o l’oggetto interpretato, non di meno fanno altresì parte della storia del teatro quelle teatralità diffuse quali le feste o gli spettacoli popolari, alcuni tipi di giochi, le sfilate, le processioni o alcune esibizioni individuali.

Mi pare doveroso – prima di affrontare argomenti più conosciuti- un rapido accenno al teatro dei popoli “primitivi”, per lo più legato ad una periodicità fissa, cioè quella dei cicli stagionali. Tali manifestazioni, a cui partecipa l’intera comunità, diventano strumento essenziale per abolire metaforicamente la netta distinzione tra passato, presente e futuro, a favore di un’esperienza collettiva che coinvolge la storia e il destino del gruppo. Durante queste manifestazioni teatrali-rituali non solo avviene l’insegnamento dei fenomeni naturali attraverso l’azione del “mimo” – l’anziano “mima” ai fanciulli i comportamenti degli animali o le fattezze delle piante- ma si assiste anche alla trasmissione in termini rappresentativi del patrimonio mitico-culturale; questi riti, spesso consistenti in brevi cerimonie, sono soliti avere una medesima struttura, essi sono divisi in tre momenti essenziali: le prove fisiche o psichiche, la manifestazione degli spiriti e la rivelazione agli iniziati che in realtà gli spiriti non sono altro che uomini mascherati.

Pur non dimenticando l’importanza di tali realtà, è necessario sottolineare che la base storica della tradizione teatrale dell’Occidente è da ricercarsi in Grecia nelle rappresentazioni tragiche e comiche dell’Atene del V secolo a.C. Questi spettacoli sono a loro volta connessi a precedenti forme rituali connotate con il termine “ditirambo”, ossia il canto lirico-corale, di cui troviamo testimonianza nella “Poetica” di Aristotele e nelle “Storie” di Erodoto. Da questi testi si evince che il “ditirambo” viene cantato e accompagnato da danze, dunque non si tratta solamente di una forma letteraria bensì di uno spettacolo a tutti gli effetti.
Gli spettacoli tragici in Atene si svolgono in tre periodi dell’anno, durante le “Grandi Dionisie”, le “Lenee” e le “Dionisie rurali”, tutte festività in onore del dio Dioniso; essi hanno luogo in un edificio costruito su una collina, in modo da sfruttarne la pendenza, dotato di una scenografia e di un’orchestra, dove si muove il coro. Peculiarità del teatro greco è il crearsi di una forte simbiosi tra attori e spettatori, il pubblico infatti viene coinvolto in un’esperienza unica, che provoca la “catarsi”, una sorta di purificazione dell’anima. Questo avviene durante l’azione della tragedia, che suscita nello spettatore la necessaria riflessione per liberarsi dagli impulsi e “rinascere purificato”.
Gli spettacoli sono organizzati per conto e sotto la sorveglianza dell’autorità pubblica e sono un vero e proprio concorso (“agone”), al quale vengono ammessi tre poeti finemente selezionati, mentre la cura e le spese della messa in scena sono affidate ai cittadini più abbienti; vengono altresì dati dei premi alla migliore realizzazione scenica, al miglior poeta e al miglior attore.
È Aristotele che sottolinea l’evoluzione architettonica e scenografica del teatro, che si modifica in parallelo a quella degli stilemi scenici della rappresentazione tragica, costituita dal dialogo tra gli attori e il coro, composto da quindici persone a nome dei quali parla il “corifeo”. Tali dialoghi sono in realtà gli “episodi” – i nostri “atti”- intercalati da intermezzi lirici cantati dall’intero coro, gli “stasimi”. Se negli “stasimi” nessun attore è presente, nel momento di maggior tensione drammatica, il “kommòs”, anche l’attore è coinvolto nel canto e nella danza. In principio il dialogo avviene tra il solo attore e il coro, successivamente con Eschilo viene introdotto un secondo attore, infine Sofocle ne aggiungerà un terzo. Ricordiamo subito che tre sono i massimi poeti della tragedia ateniese del V secolo a.C., Eschilo, Sofocle, Euripide.

Con il tempo anche la funzione del coro cambia, perdendo sempre di più il ruolo centrale che aveva in Eschilo; anche l’aspetto stesso degli attori muta, come si può notare se si pensa ai costumi imponenti utilizzati per impersonare i personaggi di Eschilo e li si confronta con gli abiti degli attori sofoclei, vestiti, pare, solamente di stracci (“rakia”).
A tali cambiamenti corrispondono le modifiche architettoniche dell’edificio del teatro. L’aspetto della “cavea”, cioè le gradinate destinate agli spettatori, nel tempo si allontana sempre di più dalla forma originale trapezoidale e assume le sembianze dei teatri arcaici, a pianta a semicircolare.
Secondo tradizione gli spettacoli più antichi, come le tragedie di Tespi, di cui quasi nulla sappiamo, ma che fu considerato l’inventore del genere tragico (VI sec. a.C.) o di Eschilo (come sopra indicato il primo dei tre grandi tragici greci) avvengono su piani distinti, uno per il coro che si trova nell’ “orchestra” (una zona circolare al centro del teatro nel cui mezzo si trova un altare) e l’altro dedicato all’attore, che si muove su una piattaforma – l’equivalente del nostro palcoscenico- innalzata al fondo dell’orchestra e appoggiata a una struttura di sfondo denominata “skenè”, utilizzata sia dagli attori per cambiarsi, sia come vera e propria scenografia. Con Sofocle la “skenè” viene per la prima volta adornata con pitture e motivi architettonici; in seguito sulla “skenè” compare una porta centrale adornata con un protiro e affiancata, a partire dal 450 a.C., da due piccoli edifici aggettanti, detti “paraskenia”. La “skenè” diviene dunque il fulcro dell’azione, anche se il coro continua ad entrare attraverso dei corridoi laterali, le “parodoi”.
La storia della tragedia, ossia del teatro europeo, si apre per noi con il vertice poetico di Eschilo, che – come prima indicato – con l’aumento degli attori da uno a due consente il confronto e l’opposizione di individui e di idee, e riconosce all’organismo drammatico la possibilità di esprimere tutto un mondo di valori. Dal rapporto tra l’ineluttabilità del destino e la responsabilità dell’uomo dell’opera drammatica di Eschilo, alla suprema armonia della tragedia di Sofocle, che si duole della fragilità dell’uomo, a Euripide, che raggiunge l’intensità della più alta poesia, e che comprende lucidamente che la vita ordinaria è pervasa da una umanità degradata, ma tanto più capace di soffrire. Le creature da lui rappresentate guardano dentro di sé, con una introspezione acuta e spietata. Ben a ragione sul suo sepolcro così recita l’epitaffio: “Di Euripide è monumento l’Ellade tutta intera”.

L’invenzione del teatro rappresenta una delle eredità più importanti trasmesse dall’antica Grecia alla civiltà europea.
Dopo la tragedia, non possiamo non accennare alla commedia, di cui si occupa anche Aristotele nell’ultima parte della sua “Poetica”. Vi sono però anche altre fonti, come il filosofo Stagira, il quale racconta che la commedia deriva dagli “exarchontes”, coloro che intonano i canti fallici nel corso dei cortei celebrati in onore di Dioniso, alle cui origini vi erano certamente riti stagionali e di fecondità. Ad Atene le commedie vengono soprattutto rappresentate durante le feste Lenee, tra i mesi di gennaio e febbraio, ma anche in occasione delle Grandi Dionisie, quando una intera giornata è dedicata agli spettacoli comici. Si è soliti dividere la storia della commedia greca in tre fasi: antica, di mezzo e nuova. Della prima fase fa parte la triade citata dal poeta latino Orazio “Eupolis atque Cratinus, Aristofanesque poetae”. In questa fase l’elemento centrale delle commedie è la “parabasi”, una sorta di sfilata del coro e degli attori accompagnata da versi pungenti. Tra i vari autori spicca il nome del grande ateniese Aristofane (V-IV secolo a.C.), a cui si deve la stesura di celebri opere quali “Gli uccelli”, “Lisistrata” o “Pace”; le sue rappresentazioni sono il trionfo della fantasia creatrice, la scena è audacemente lanciata nell’irreale, nel regno del fantasioso, piena di una straordinaria vivacità e della sublimità del comico.
Le tematiche sono disparate, e passano dall’involucro del mito allo studio della realtà, alle disquisizioni sull’uomo e sul suo destino, alle riflessioni sulla politica e sulla società. Proprio perché gli argomenti sono condivisi dalla cittadinanza, non è insolito che il pubblico nel corso degli spettacoli partecipi in prima persona, al punto che si viene ad instaurare un vero e proprio dialogo tra gli attori, il poeta e gli spettatori.

Il totale sovvertimento della struttura formale e dei contenuti drammatici della commedia coincide con la perdita dell’indipendenza politica di Atene e con il conseguente venir meno degli ideali e dei valori legati all’impegno civile degli abitanti; nel 388 a.C. la “polis” ateniese viene sconfitta a Cheronea, e come riflesso le opere degli autori cambiano tono e finiscono per concentrarsi su tematiche legate al quotidiano. È il momento della commedia “nuova”, di cui i massimi esponenti sono Filemone di Soli ( 361-263 a.C.) e soprattutto Menandro (343-291 a.C). Con la commedia “nuova” si stabilizzano due elementi strutturali: l’intreccio e il carattere. Gli episodi sono organizzati secondo uno schema logico che parte da uno squilibrio iniziale e perviene a un equilibrato assetto finale. Ogni personaggio ha un suo tratto psicologico dominate, i “caratteri”. Da un punto di vista scenico scompaiono molti elementi, resta solo la smorfia mimica, accentuata dalle maschere. Lo spazio scenico e la scenografia rimangono dunque simbolici, anticipando un tratto tipico del teatro romano, la cui drammaturgia continua ad essere decisamente legata a rielaborazioni della commedia “nuova”.
Per quel che riguarda il teatro della commedia nella Roma antica, merita fare appena un breve cenno ai suoi due massimi esponenti Plauto (III sec. a C.) e Terenzio (II sec. a.C.), che si rifanno agli autori comici greci. Plauto, dominatore della scena teatrale, capace di smontare il suo modello greco per poi ricomporlo come un insieme coerente e originale, in una lingua di grandissima ricchezza e varietà, sia a livello lessicale che sintattico, un insieme davvero unico e inconfondibile. Della grandezza del poeta è testimonianza anche il celebre epigramma sepolcrale: “Da quando Plauto è morto, la Commedia è in lutto, la scena è rimasta deserta, il Riso, lo Scherzo, il Gioco, e i Ritmi innumerevoli tutti insieme sono scoppiati a piangere (“numeri innumeri simul omnes collacrimarunt”). Diversa dalla vivacità della commedia plautina, la commedia di riflessione di Terenzio, che si rivela stretto seguace del greco Menandro, poggia sulla serietà dei temi e dei personaggi; nella scelta linguistica assume come punto di riferimento la conversazione delle classi colte, con parole scelte, in un tono moderato ed elegante. Egli riprende l’ideale di “humanitas” della cultura filosofica greca e lo rende più corretto, insistendo sui comportamenti che corrispondono alla dignità umana.

I generi teatrali romani sono di importazione greca: la “palliata” (commedia) e la “cothurnata” (tragedia), vi sono poi la “togata” e la “praetexta” cioè commedia e tragedia pensate con un’ambientazione romana, la prima è una forma di spettacolo popolare a cui fanno riferimento anche l’ “atellana” – a cui si accosterà la commedia dell’arte- e il “mimo”, forma di recitazione priva di maschera e considerata estremamente volgare; la seconda, di maggiore levatura, è invece dedicata al portare in scena fatti storici.Tutta romana è anche la “pantomima”, genere che nasce in epoca augustea, in cui un coro o un cantore cantano i passi più belli delle tragedie, mentre un attore con una maschera a tre volti interpreta tutti i personaggi. In tale tipologia di spettacolo non importa più la forma né il contenuto, ma tutto è incentrato sulla gestualità.
Mi pare di essermi dilungata già eccessivamente sul teatro nel mondo classico e non vorrei correre il rischio di annoiarvi, ottenendo il risultato contrario a quello sperato. Tuttavia in chiusura mi piace soffermarmi brevemente su un dettaglio della nostra Torino antica, che anche in ambito teatrale ha qualcosa da mostrarci.

Vi è a Torino infatti il “Teatro romano”, compreso nelle vestigia romane dell’antica “Augusta Taurinorum”; i resti dell’edificio sono visibili nell’area del Parco Archeologico e risalgono al 31 a.C.
Tale edificio è l’unica struttura del Quadrilatero -la parte romana della città- ad averci lasciato numerose testimonianze delle diverse fasi costruttive, rendendo gli studi archeologici leggermente più semplici. L’edifico è rimasto abbandonato e in fase di drammatico decadimento per secoli, fino al 1899, quando, per volere di re Umberto I, finalmente viene riportato alla luce.
Il teatro sorge in quella che anticamente era la parte più agiata della città, circondato da abitazioni patrizie e vicino al “forum”; è stato edificato su un declivio, in modo da sfruttarne il pendio e a ridosso delle mura che circondavano la città, come si evince dal ritrovamento dell’“intervallum”, il camminamento ricavato nello spazio che intercorre tra le mura e gli edifici lì vicino. Esso risulta quindi essere stato parte integrante delle mura urbiche, la parete nord del teatro era probabilmente dotata di torri similari a quelle della “Porta Principalis Dextera”, in cui vi erano gli ingressi che consentivano l’accesso diretto al teatro per coloro che venivano da fuori città.

Il teatro romano torinese, che è uno degli esempi di teatro più piccoli del suo genere, ricorda nella struttura il teatro di Augusta Raurica, l’attuale Basilea.
Originariamente occupava un’intera “insula” ed era costituito da una “cavea” semicircolare realizzata in marmo e da una parete con tre portali che costituiva la “scaena”, che comprendeva anche il “pulpitum”, (il palcoscenico) e i due “parascaenia”; l’ “aulaeum” (il sipario) veniva probabilmente azionato da macchinari in legno ancorati a diversi pozzetti tutt’oggi visibili.
Sappiamo altresì che per ovviare alle intemperie la “cavea” era sovrastata da un “velarium”, una grande copertura in tela che riparava dalla pioggia ma anche dall’eccessivo sole estivo.
Con questo spunto conclusivo spero non solo di aver iniziato ad invogliarvi a “spulciare” quali spettacoli poter vedere in queste sere accaldate, ma mi auguro di avervi incuriosito ad andare a visionare il sito archeologico, poiché studiare e vedere le fonti è sempre il miglior modo per appassionarsi a qualsivoglia argomento. È ora di fermarsi e di riflettere sul fatto che siamo solo noi “moderni” a non sfruttare abbastanza quella che da sempre è stata una delle forme di intrattenimento più apprezzate e diffuse dalla notte dei tempi. È forse ora di smettere di considerare certi passatempi come “troppo lontani da noi” o rivolti solo ad un certo genere di pubblico, la cultura è e deve essere di tutti, così come il teatro.

Alessia Cagnotto

Libertà, vaccino e tutela della salute

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Un gruppo di medici che non vogliono vaccinarsi, sta cercando di invocare dei presunti diritti costituzionali di libertà, per non sottoporsi alla vaccinazione. Una vera e propria ribellione, palese e ingiustificabile  provocazione che rivela la irresponsabilità di una minoranza di medici, a fronte dello spirito di sacrificio  e, a volte, anche dell’eroismo del personale medico e paramedico italiano.

In una libera democrazia, di fronte ad una emergenza epocale come una pandemia mondiale , non possono essere accettati  atteggiamenti che ledono la libertà e la salute pubblica  e possono compromettere la stessa  vita di altri cittadini. Lo sforzo ciclopico che lo Stato sta facendo per garantire la vaccinazione a tutti, non può essere compromesso dai pregiudizi antiscientifici di persone che hanno scelto di lavorare in campo medico. Il Governo deve porre l’aut – aut  della immediata sospensione dal servizio e dallo stipendio e in casi estremi del licenziamento. La vaccinazioni obbligatorie hanno fatto la differenza nella qualità della vita in passato e chi ha scoperto i vaccini viene considerato tra i benefattori dell’Umanità come Jenner, Pasteur, Sabin. Ma il cattivo esempio di medici che rifiutano il vaccino rappresenta anche un pessimo esempio che andrebbe sanzionato socialmente e penalmente perché causa diretta di nuove infezioni. Ci sono anche semplici cittadini che stanno evitando di sottoporsi alla vaccinazione in base a pregiudizi che non hanno valide giustificazioni. In uno Stato democratico il cittadino non può rivendicare una libertà che in effetti è licenza e che costituisce un’aggressione agli altri cittadini. Non confondiamo la libertà che deve sempre essere responsabile, con il libertinaggio anarcoide. Il liberalismo si fonda sui valori dello Stato che esso stesso ha contribuito a creare nel corso dei secoli, ponendo dei limiti ai suoi poteri. Porre dei limiti ai poteri dello Stato è da liberali, negare lo Stato è proprio dell’anarchia, idea tra utopia e violenza, che ha nulla di liberale. Chi ritiene che ciascuno possa comportarsi come meglio ritiene di fronte ad una pandemia , non può essere tollerato perché attenta alla vita degli altri e alla sua stessa esistenza. In una società nichilista che ha fatto tabula rasa anche dei valori solidali, va riaffermato con forza il dovere morale e civile di vaccinarsi. Ma di fronte alle nuove difficoltà  e ai nuovi pericoli che si stanno profilando all’orizzonte, i cittadini che non adempiono  a questo dovere, vanno almeno sanzionati con forti multe, se non con provvedimenti più gravi. Occorre un deterrente per chi ha smarrito la ragione e si comporta in modo incivile come vivesse in una foresta di barbari. Su questi punti occorrono chiarezza e fermezza assoluta da parte di  chi ci governa. I Decreti del Presidente del Consiglio Conte che marginalizzavano il Parlamento , potevano sollevare dei dubbi di legittimità costituzionale ,ma di fronte alle vaccinazioni che non violano nessuna libertà e salvano vite umane, non ci possono essere debolezze di sorta .I miopi egoismi individuali non sono segni di libertà, sono l’esatto contrario anche solo del semplice, comune  buonsenso. Direi che in primis è dovere di noi cittadini far opera di convinzione con chi si sta sottraendo più o meno inconsapevolmente a un dovere che è anche un diritto. Chi spera nell’immunità di gregge ,più che pecora, si sta rivelando un lupo pericoloso da cui difenderci. Anche se negli Usa – è notizia recente – stanno morendo proprio i non vaccinati.

La rassegna dei libri del mese

Consueto appuntamento con la rassegna dedicata al mondo dei libri a cura della redazione del sito Il passaparola dei libri – Notizie, appuntamenti e curiosità per ogni tipo di lettore!

In questo mese hanno tenuto banco sul gruppo Un libro tira l’altro ovvero il passaparola dei libri  le discussioni legate alla rosa dei finalisti del Premio Strega: i cinque romanzi finalisti sono Due Vite (Neri Pozza) , di E. Trevi, Il pane perduto (La Nave di Teseo) di E. Bruck,  Borgo Sud (Einaudi) di D. Di Pietrantonio,  L’Acqua Del Lago Non E’ Mai Dolce (Bompiani) di G. Caminito e  Il Libro Delle Case (Feltrinelli) di A. Bajani. Leggete il nostro approfondimento e partecipate al sondaggio per votare il vostro preferito, sul nostro gruppo FB.

Incontri con gli autori

 

Prosegue la nostra collaborazione con il sito  Novità in libreria.it che questo mese pubblica le interviste con alcuni dei nuovi nomi del panorama narrativo italiano. Questo mese abbiamo incontrato: Riccardo Piana, emergente autore di Janina (Youcanprint), Domenico Corna, che torna in libreria con Nuvole Al Tramonto (Robin Edizioni) e Vincenzo Corrado, nota penna de La Gazzetta di Mantova, che racconta la sua città di adozione nel suo ultimo libro: Un’Altra Mantova (Editoriale Sometti).

 

Andar per libri (e non solo)

 Ripartono alcune iniziative legate al mondo dei libri, come  la sesta edizione di Trovautore  in programma a Fiuggi dal 16 al 18 luglio. Dedicata alla piccola e media editoria, la rassegna letteraria ospiterà gli stand di tante case editrici indipendenti che presenteranno le loro novità. Il programma, che prevede incontri con gli scrittori, letture e laboratori sono disponibili sui canali dell’Associazione Culturale Trovautore.

Dal 15 al 18 luglio torna anche Riminicomix, rassegna dedicata al mondo de fumetto e dell’illustrazione. Informazioni e programma sul sito della manifestazione.

 

Per questo mese è tutto, iscrivetevi al nostro sito per rimanere sempre aggiornati sul mondo dei libri e della lettura! unlibrotiralaltroovveroilpassaparoladeilibri.it

I fatti di Genova venti anni dopo

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni  Concita De Gregorio, già direttore de l’”Unità“, ha scritto un pezzo su “La Stampa“- in cui rivela una indiscussa bravura nello scrivere, pari solo alla sua  innata faziosità – dedicato ai fatti di Genova del luglio 2001 in occasione del G8.

Sono passati vent’anni, c’è’ stato un processo in cui sono stati condannati i responsabili delle violenze che  subirono i manifestanti alla Caserma “Diaz”, violenze ingiustificabili che fanno orrore. Limitarsi di fatto a parlare di  quelle violenze , dimenticando che Genova venne messa a ferro e  fuoco dai black- blok e dai centri sociali arrivati da tutta Italia, appare però vistosamente come una mistificazione della realtà. Addossare al governo Berlusconi delle colpe è un altro segno non di buona fede anche  se il ministro degli interni Scajola non si rivelò una cima. Sostenere che sia stata la polizia  la regista occulta di una vera e propria insurrezione, è un falso storico fondato su una frase di Giorgio Bocca. La violenza eversiva e distruttiva  dell’estremismo di sinistra solo i ciechi non riuscirono e non riescono  a vederla. Mettere come icona di quel luglio genovese la foto di Carlo Giuliani che tentò di ammazzare  un carabiniere, lanciandogli addosso un estintore, è un’altra scelta scellerata perché in Giuliani si vuole vedere solo la vittima e non l’eversore violento. A Genova ci fu chi tentò di celebrarlo, sua madre venne eletta senatrice  di Rifondazione comunista che dedicò al figlio la sede del  suo gruppo parlamentare al Senato della Repubblica. Il carabiniere ventenne  Mario Placanica che sparò per legittima difesa – come venne riconosciuto in tutte le sedi giudiziarie anche internazionali – fu oggetto di un linciaggio intollerabile anche a livello mediatico  ed ancora oggi la De Gregorio lo cita in modo  non veritiero come fosse stato un pistolero assassino. Io sono anche disposto ad aver pietà per il giovane Giuliani che aveva alle spalle una vita travagliata, ma esigerei una ricostruzione storica non emotiva e unilaterale  che racconti la verità complessiva dei fatti. Le vulgate di allora  di don  Gallo e di Franca Rame oggi non possono reggere. Don   Andrea Gallo lo conobbi qualche anno dopo in treno da Genova a Roma. Dopo poco ci mettemmo a parlare e devo riconoscere che, al di là delle sue idee, era una persona  molto simpatica. Parlammo anche di Don Bosco perché originariamente era stato salesiano. Provai ad avviare  inopportunamente un discorso sul giovane Giuliani così tenacemente difeso dal “prete degli ultimi“, così caro a De Andre’.  Ma subito si irrigidì  all’improvviso come lo avessi colpito in modo proditorio e il nostro dialogo si interruppe . Mi ero permesso di dirgli che io stavo dalla parte del carabiniere. Anche oggi stare da quella parte sembra ancora  difficile. E sono trascorsi vent’anni. Vedremo cosa scriveranno  e diranno attorno al 18 /20 luglio, quando ci sarà l’anniversario di quei fatti che portarono alla ribalta personaggi come tal Vittorio Agnoletto che sicuramente verrà intervistato come un reduce di quelle epiche e dannate  giornate genovesi.

Turin Confidential

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Cosa succede a Torino: informazioni per chi arriva in città 

What’s on in Turin: events and attractions for tourists, occasional visitors and expat

I confess, I do not know when we exactly moved from spring to a hot summer. But this summer is one of the best I can recall. I cannot say if it is because we are going back to normality, with the opening of theatres and museums, the possibility to eat out with friends or go to a concert. Or if it is because super hot days are followed by nice sunsets with a fresh breeze that makes an evening out really pleasant. Whatever it is, let’s profit and live it at the fullest.

And if you need some ideas to chill and relax, here is my event selection.

Summer nights

From July 2 to August 3, at La Venaria Reale   , you can find Metamorfosi: 39 shows of dance, theatre and music. The events taking place in the gardens are included in the entrance ticket, while others, such as those held near the remains of the Diana Temple have a different ticket. You’d better check their website.

The municipality of Collegno hosts the Flowers Festival with concerts of Italian artists.

And what about a night at the theatre?

 

From 6 July to 8 August, Turin meets London and our Teatro Carignano becomes Shakespeare’s Globe Theatre. Here you will find Prato Inglese, English Garden, a kermess proposing Shakespeare’s plays. This year, it is the turn of “Much ado about nothing” which in Italian becomes “Molto rumore per nulla”. A great occasion to return to theatre and to learn some Italian, as we all know what is going to happen in this romantic and funny comedy.

Art

The Paratissima festival still hosts Peter Lindberg’s amazing exhibition “Untold Stories” at  ARTiglieria, as well as the sessions entitled “Rebirthing” and “Ph.ocus – About Photography”.

Nearby, at Circolo del Design, until 30 September, you can find Humanizing Technology, a program with online and offline events, movies, talks and workshops. You need to become a member to enter, with an annual membership that costs 12 euros.

From Circolo del Design, with a 5-minute walk you can reach Camera, Italian center for photography were you can still find the exhibitions dedicated to Lisette Model and Horst P.Horst, until July 18.

But let’s move to Quadrilatero Romano. This district is home to Mao, where you can visit the exhibition “China Goes Urban” or get lost in the enchanting and timeless permanent collection.

Open air museums

Art in Turin is not only in traditional museums, it can be in former factories or even in areas where once there were factories. Parco Dora is an urban park were graffiti perfectly blend with the playground. Here you can come for a walk, run or practice your favorite sport surrounded by incredible murals.

And if you love Street art like me, you cannot miss a visit to Mua, in the Campidoglio district. This Urban Art Museum stretches on the walls of an entire neighborhood. Discover their project with their guided tours.

Sport

Back to La Reggia di Venaria, with their  Green Fitness, you can attend lessons of urban fit, body combat, yoga and much more.

But if you are more like me and prefer to watch rather than do sports, until July 11, you can attend the European Championship of table football, organized by Spaccio di Cultura, a cultural association based in Porta Palazzo.

And for a moment of pure pleasure…

Porta Palazzo and Quadrilatero Romano are home to many restaurants, bistros and bars. Summer vacation (or staycation) must include an evening out in one of the many catering facilities that pinpoint Piazza Emanuele Filiberto. Pautasso and Antico Balon are perfect if you are looking for traditional dishes, while traditional drinks will be kindly proposed by Pastis.  Cheers!

Lori Barozzino

Lori is an interpreter and translator who lives in Turin. If you want to read more, here’s her blog.

 

(La foto di copertina è di Stefano Zanarello, quella della Reggia di Venaria è di Mario Alesina)

L’isola del libro

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Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Speciale desaparecidos argentini e dittatura militare

 

Marco Bechis “La solitudine del sovversivo” -Guanda- euro 18,00

Ci sarebbero innumerevoli pagine da scrivere su questo libro, sull’esperienza di Mario Bechis e sui film che ha fatto; pietre miliari per capire cosa hanno vissuto i desaparecidos durante la dittatura militare in Argentina dal 1976 al 1982. E potete anche ascoltare la lunga intervista che ha concesso a Benedetta Pallavidino, che trovate su You Tube.

Marco Bechis, nato a Santiago del Cile da madre cilena e padre italiano, profondo conoscitore dell’America Latina, ha 20 anni quando viene catturato a Buenos Aires, nel 1977, all’uscita dalla scuola che frequenta per diventare maestro con il sogno di andare a insegnare nel nord del paese ai bambini indigeni.
Condivideva un appartamento con alcuni compagni coinvolti nella guerriglia contro i militari; ma aveva preso le distanze dalla loro strategia suicida, fatta di lotta armata e attentati. A denunciarlo era stata la giovane Muñeca catturata prima di lui e torturata. E’ l’inizio di un’atroce prigionia, bendato, incatenato e seviziato con le scariche elettriche della “picana”.

Nei sotterranei del Club Atlético diventa il detenuto AO1, bloccato dai lucchetti alle caviglie numeri 190 e 191, rinchiuso nella cella 16 (un asfittico buco sotto terra) e perennemente bendato.
Nel libro racconta tutto l’orrore vissuto in pagine che lasciano il segno e spingono ad approfondire uno dei capitoli più crudeli della storia dell’umanità. Non per niente i luoghi in cui venivano rinchiusi e ammazzati i prigionieri erano chiamati campi di concentramento. Metodi di eliminazione diversi da quelli nazisti, ma identico scopo: sterminare l’altro, in questo caso gli oppositori al regime.
Negli anni della dittatura almeno 30.000 persone sono scomparse nel nulla. Sedate e gettate in mare ancora vive; o comunque uccise, sotterrate chissà dove, oppure bruciate. Cancellate dalla faccia della terra, senza che le loro famiglie avessero un luogo dove piangere i familiari perduti.

Nelle pagine di Bechis c’è la cronaca della sua prigionia, le torture che non hanno lasciato segni visibili sul corpo, ma cicatrici immense nell’anima; riassumerle non renderebbe appieno la portata di ciò che ha subito. Lui è un “sopravvissuto” attanagliato dal senso di colpa per essere stato salvato e aver avuto quella possibilità di vita e futuro, strappata invece alle migliaia di desaparecidos.
Ha impiegato anni per arrivare a riconoscersi nel ruolo di “vittima”; ed è stato un percorso impervio che 44 anni dopo lo ha portato a scrivere questo libro, una sorta di catarsi all’alba dei 65 anni.

C’è anche il racconto della sua complicata liberazione, il ritorno in Italia e la sua vita, dopo quella tragedia, dedicata a denunciare le atrocità della dittatura. C’è l’accusa verso un sistema perverso che dopo la deposizione dei militari ha comunque consentito ai tanti aguzzini di vivere liberi a fianco delle loro vittime sopravvissute e sempre dilaniate da una paura e un’ incertezza che stravolgevano la vita.
E c’è la sua deposizione contro i torturatori che non hanno mai mostrato un’oncia di pentimento. Anzi si sono fatti scudo di un’arroganza smisurata, complice l’amnistia di cui godettero per un certo tempo. E, ad aggiungere infamia, c’è il fatto che non hanno mai rivelato che fine avessero fatto i desaparecidos, né dove li avevano sepolti e fatti sparire.

 

Marco Bechis è diventato sceneggiatore, regista e produttore, punto di riferimento per chi vuole capire più a fondo queste tragiche vicende.
Vi consiglio la visione del suo film “Garage Olimpo” ( lo trovate su Prime Video), presentato nel 1999 al Festival di Cannes. Un potente pugno nello stomaco perché le immagini, i suoni, le parole e le dinamiche di questa pellicola esprimono appieno il clima che si respirava nei sotterranei in cui i prigionieri venivano ingoiati.
Protagonista è la giovane attivista Maria che si oppone alla dittatura e insegna nelle baraccopoli. Vive con la madre Diane (un’intensa Dominique Sanda) che per le difficoltà economiche ha affittato alcune stanze della magnifica villa in cui vive. Maria viene catturata e sprofonda nel buio della prigionia e delle scariche elettriche. Non avrà speranze e alla fine sarà sedata e caricata con altri prigionieri sui camion che li portano fuori dal Garage maledetto…destinazione i voli della morte.
C’è anche la descrizione di quanto i militari si ritenessero autorizzati a qualsiasi nefandezza, come derubare della propria casa la mamma di Maria in cambio dell’ingannevole e spregevole promessa di farle rivedere la figlia.

Un film che, quando uscì nelle sale cinematografiche in Argentina, fu visto da poche persone, perché all’epoca gli aguzzini vivevano tranquillamente graziati dall’amnistia ed era troppa la paura che appesantiva l’aria. Poi quando sono usciti i VHS le vendite sono balzate alle stelle e almeno 30.000 hanno visto questo film che oggi è punto di riferimento. Ogni 24 marzo, anniversario del giorno del Colpo di Stato dei militari,
viene proiettato nelle scuole e Marco Bechis apre a tutti la possibilità di vederlo su Vimeo.

Horacio Vertbitsky “Il volo” -Feltrinelli- euro 30,00

Altro libro imprescindibile sull’argomento è questo racconto delle rivelazioni agghiaccianti fatte dal militare pentito Adolfo Scilingo, raccolte dal giornalista argentino Horacio Verbitsky.
Scilingo era stato capitano di corvetta e membro dell’apparato repressivo che detenne il potere in Argentina dal 1976 al 1983. Fu processato insieme ad un centinaio di altri aguzzini e condannato, nel 2005, da un tribunale spagnolo a 640 anni di carcere.

Nel 1995 l’ex militare -che aveva prestato servizio nel principale campo di concentramento clandestino, l’EMA, ovvero la Scuola di meccanica della Marina- contatta Vertbitsky e inizia a raccontare l’orrore della dittatura e la “guerra sporca” contro gli oppositori o presunti tali. E quello che tutti già sapevano, raccontato da chi aveva perpetrato l’orrore, ebbe l’impatto di un uragano.

Fu una caccia ai “sovversivi” spietata e senza quartiere. Gli squadroni li braccavano per strada, nelle case, ovunque e poi li facevano sparire.
E’ la tragedia dei 30.000 desaparecidos che durante la prigionia venivano torturati con le scariche elettriche della “picana”, e poi, stupri, mutilazioni e barbarie varie, infine giustiziati con le armi, cremati o sedati con potenti sonniferi, caricati sugli aerei e gettati vivi e intontiti nel mare.

Due i metodi di eliminazione privilegiati: il volo e la griglia. Al riguardo Scilingo racconta «Nel deposito di costruzioni vidi una vasca lunga 2 metri e alta 30 centimetri, con sopra una griglia. Su un bordo c’era un tubo con un imbuto rialzato. Mettevano lì i corpi e attraverso l’imbuto facevano passare il gasolio. Era così che scomparivano».

Racconta come i prigionieri venivano ingannati dicendo loro che sarebbero stati trasferiti in luoghi di detenzione migliori, poi una prima dose di sonniferi spacciata per vaccino necessario per il trasferimento. Secondo Scilingo nessuno di loro sospettò che quella in realtà era la condanna a morte.
Per lo più perdevano le forze poco dopo essere saliti sui camion che li portavano alla pista dell’aeroporto militare. Lì ormai semicoscienti venivano caricati a forza sull’aereo, dove un altro medico faceva in volo una seconda iniezione sedante; poi si ritirava in cabina, mentre i corpi venivano denudati e scaraventati in mare.

Una macchina di morte ben organizzata che prevedeva voli fissi ogni mercoledì, ma anche altri nel corso della settimana,.
Scilingo partecipò a due trasferimenti aerei. Durante il primo, con 13 prigionieri a bordo, rischiò di scivolare dallo sportellone aperto insieme a un corpo nudo; questo shock contribuì a incrinare dentro di lui il perverso meccanismo militare di spersonalizzazione e a fargli vedere per la prima volta le vittime come esseri umani.

Racconta anche un’onta che macchia la storia ecclesiastica argentina dell’epoca: dal punto di vista religioso tutto ciò era accettato.
I cappellani militari approvavano i voli della morte, giustificavano gli assassini affermando che quella era una morte cristiana «…perché non soffrivano, non era traumatica». Scilingo riporta che il prete diceva che dovevano essere eliminati e che «anche la Bibbia prevedeva l’eliminazione dell’erba cattiva dai campi di grano».

 

C’è poi un’altra pagina nera nella storia della dittatura. Il sistema efficiente e perverso con cui gli aguzzini rubavano alla nascita i bambini delle prigioniere per darli a famiglie delle alte sfere e dei militari. Una doppia morte per le madri, che dopo il parto venivano immancabilmente uccise, mentre i neonati crescevano proprio con chi le aveva eliminate.

Ne ha parlato anche Marco Bechis nel suo film “Figli”; mentre io vi segnalo il libro scritto da

Elsa Osorio – “Doppio fondo”, che l’autrice venne a presentare al Salone del Libro di Torino nel 2017.
La Osorio e’ anche l’autrice di quello che in America latina è ormai un classico, “I 20 anni di Luz”, sui “desaparecidos con vida”, una delle pagine più aberranti della follia.

In “Doppio fondo”, a distanza di 30 anni, si incrociano due storie.
Anno 2004, in un tranquillo villaggio di pescatori bretoni viene ripescato il cadavere di Marie, riservatissima dottoressa di origine argentina. Ha le ossa spappolate dall’impatto con l’acqua e tracce di Pentonaval (l’anestetico usato per sedare i prigionieri prima di scaraventarli, vivi, in mare). Suicidio o altro?
Buenos Aires 1977, nel pieno della dittatura, la giovane militante dei Montoneros, Juana, è catturata insieme al figlio di 3 anni. Per metterlo in salvo e sfuggire ai “voli della morte” finge di pentirsi, diventa ostaggio dell’Esma -l’abisso della tortura- e di Rulo, l’aguzzino che la manda in Francia come spia con l’incarico di scoprire le mosse degli esuli sovversivi. A trovare il filo che lega le due vicende sarà la giornalista Muriel Le Bris, la cui carriera riprenderà slancio.

Vi ripropongo alcuni stralci dell’intervista che le feci al Salone del Libro.
Quanto l’ha toccata da vicino la dittatura argentina? E perché torna spesso sui figli dei desaparecidos?
«La dittatura ha spezzato in due la nostra vita…e lo ha fatto nel periodo in cui iniziavamo ad avere figli e una vita lavorativa. Io ho vissuto un esilio interno, nascosta per un po’ in Argentina con il mio ex marito; poi in Francia ed infine siamo ritornati. Ma non potevo lavorare perché vigeva la legge di sicurezza nazionale ed ero stata licenziata. Non ho mai fatto parte di gruppi armati; semplicemente ho sempre pensato con la mia testa e al massimo ho avuto rapporti con il sindacato».
Quanto le è costato scrivere di quel periodo ?
«Per molto tempo non sono stata in grado di farlo; non perché qualcuno me lo impedisse, ma per una sorta di mia evoluzione interiore. Ci sono riuscita solo dopo 20 anni dal golpe».
Il confine tra fatti storici realmente accaduti e finzione narrativa?
«Mi interessa il metodo narrativo della composizione. Invento liberamente, ma sempre basandomi su fatti reali. Prendo elementi e caratteristiche di una persona o di un’altra, li metto insieme e costruisco un personaggio di finzione che faccio interagire con personaggi che hanno una realtà storica. Per esempio, in “Doppio fondo” Rulo è inventato, ma sono realmente esistiti i suoi compagni torturatori che cito».
La letteratura cosa e quanto può fare?
«Scrivere significa mettere in parole questi fatti e credo sia importante soprattutto per il recupero della memoria storica. Sono convinta che i popoli debbano tornare al loro passato per poter vivere il presente. Scrivendo riesco anche a capire meglio quello che nella vita mi sfugge: come quando cerco di mettermi nei panni di personaggi che trovo ripugnanti, e riesco ad afferrare di più anche il loro lato di esseri umani con determinati sentimenti».
Torture, furti di neonati e voli della morte. Che spiegazione si è data di tanta crudeltà?
«E’ una domanda che mi faccio spesso e continuo a non trovare risposta. E non solo nei confronti della dittatura: in genere non riesco a capire come l’uomo possa arrivare a certi livelli di atrocità».
In “Doppio fondo” uno dei personaggi si chiede perché, visto che i militari disprezzavano tanto i prigionieri, prendevano e crescevano i loro bambini. Effettivamente sembra un controsenso.
«Me lo spiego considerandolo una sorta di esperimento che hanno voluto fare. Allevare e crescere i figli del nemico, cercando di convertirli alla loro ideologia, renderli ostili ai genitori naturali. Come dire: sterminare un’ideologia dalle radici».
La storia è piena di tragedie ,dai lager nazisti al genocidio attuato dai Khmer rossi di Pol Pot in Cambogia: la repressione argentina ha avuto connotati unici ?
«Caratteristico è stato il furto dei bambini per farli crescere dagli oppressori. Poi… ed è un tema centrale di “Doppio fondo”… ad un certo punto la persecuzione ha smesso di essere ideologica ed è diventata di stampo mafioso. Venivano sequestrate persone con grandi patrimoni, e costrette a firmare documenti con cui passavano tutti i loro beni ai torturatori».
Madri e poi abuelas, le nonne di Plaza de Mayo, quanto hanno fatto la differenza?
«Sono state l’unica vera resistenza alla dittatura. 40 anni fa ci fu la loro prima uscita in Plaza de Mayo; quando iniziarono a chiedere cosa fosse successo a figli e nipoti. In quel momento c’era uno stato di assedio ed erano proibiti gli assembramenti di qualsiasi tipo. E cosa fecero? Al centro della piazza c’è un albero e loro, a 2 a 2, gli girarono intorno, continuando a manifestare in questo modo ogni giovedì».
A che punto è la ricerca dei neonati desaparecidos con vida?
«Si scava ancora in quel periodo; c’è un lavoro incredibile e si continuano a trovare quei bambini. Ora sono uomini e donne di circa 40 anni che credevano di essere figli di una certa coppia, e così non è».
E’ vero, come ha scritto, che qualcuno nella gerarchia della chiesa argentina suggerì che era più cristiano mettere i prigionieri su un aereo che non sarebbe mai arrivato a destinazione”?
«Si e non lo dico io, è un fatto storico. La chiesa ha avuto sicuramente una responsabilità molto forte perché è stata complice. Il Nunzio Apostolico disse alle abuelas che non dovevano preoccuparsi: i nipoti sarebbero cresciuti meglio nelle famiglie abbienti a cui erano stati dati, più che con i genitori e i nonni biologici».

Filantropia e Credito: 500 anni dalla Compagnia all’istituto San Paolo

LIBRI / Presentato il nuovo volume della Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura che mette in luce la centralità del ruolo della Compagnia di San Paolo nella storia economica e finanziaria dell’Italia e d’Europa tra credito e beneficenza. Filantropia e credito. Atlante dei documenti contabili, dalla Compagnia all’Istituto bancario San Paolo di Torino (secoli XVI-XX)

Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo ha presentato il volume Filantropia e credito. Atlante dei documenti contabili, dalla Compagnia all’Istituto bancario San Paolo di Torino (secoli XVI-XX) di Claudio Bermond e Fausto Piola Caselli, con la collaborazione di Anna Cantaluppi. Si tratta del terzo volume della collana della Fondazione Quaderni dell’Archivio Storico-II Serie, edita da Leo S. Olschki (Firenze, XII 2020).

La storia della Fondazione Compagnia di San Paolo è un esempio del legame strettissimo tra filantropia e credito, come rileva l’intervento del Segretario Generale della Fondazione Compagnia di San Paolo, Alberto Anfossi, che ripercorre le tappe dei suoi cinquecento anni di storia e il rapporto con l’attualità. L’incontro è stato introdotto da Piero Gastaldo, Presidente della Fondazione 1563, e Francesco Profumo, Presidente della Fondazione Compagnia di San Paolo, e moderato da Blythe Alice Raviola, Università degli Studi di Milano. In presenza degli autori hanno illustrato il volume Paola Avallone dell’Istituto di Studi sul Mediterraneo, CNR, Napoli, Andrea Maria Locatelli dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e Anna Cantaluppi, storica e archivista.

La Fondazione 1563, con le proprie ricerche e con gli strumenti di consultazione del patrimonio archivistico, messi a disposizione della comunità, intende evidenziare la continuità di intenti e la profondità storica delle azioni che la Fondazione Compagnia di San Paolo, oggi come ieri, mette in campo per lo sviluppo sociale, economico e culturale della sua comunità di riferimento. La genesi di Filantropia e Credito è indissolubilmente legata alla mission della Fondazione 1563, ente strumentale della Compagnia di San Paolo, che tra i suoi compiti principali ha la conservazione e la valorizzazione culturale dell’Archivio Storico della Compagnia di San Paolo, un patrimonio che abbraccia quattro secoli e mezzo di storia dell’ente, articolato in oltre due chilometri lineari di documentazione.
In particolare, l’Atlante è uno degli esiti del progetto di Brand Heritage, a cui la Fondazione 1563 lavora per tutelare il patrimonio documentale della storia della Compagnia di San Paolo con l’obiettivo di far emergere e valorizzare la storia dell’ente, legandola ai suoi obiettivi e missioni contemporanei.

“La Fondazione 1563 favorisce l’ampliamento della fruizione dell’Archivio storico della Compagnia di San Paolo nella consapevolezza del suo valore scientifico e civile. L’attenzione alle fonti contabili, da cui prende avvio la pubblicazione Filantropia e Credito nella collana dei Quaderni dell’Archivio, per la prima volta propone l’edizione di documenti esemplari posti a confronto con scritture di altre istituzioni, con una puntuale descrizione archivistica nel contesto storico di riferimento. – sottolinea Piero Gastaldo, Presidente della Fondazione 1563 – Grazie alla continuità plurisecolare delle serie documentarie, gli autori hanno potuto fare emergere una innovativa ricostruzione della storia economica e finanziaria della Compagnia, e poi dell’Istituto bancario San Paolo di Torino, nelle sue varie trasformazioni. Il nesso tra credito e beneficenza, tra banca e filantropia è assolutamente centrale nella storia economica e sociale d’Italia e d’Europa, in un percorso che va dai Monti di pietà medievali fino alle attuali fondazioni.”

Partendo dallo studio delle carte dell’Archivio storico della Compagnia, costituito in gran parte da fonti contabili, il volume Filantropia e Credito propone una selezione significativa di cento documenti amministrativi, commentati dagli autori da un punto di vista tecnico e contenutistico. Attraverso la collazione dei documenti, è emersa una struttura dell’antica Compagnia di San Paolo prevalentemente orientata in età moderna alla beneficenza, con la presenza al suo interno – tra le molteplici istituzioni caritative – di un “monte di pietà” dedito al piccolo prestito gratuito di denaro contro pegno di oggetti ad uso personale e familiare.
In età contemporanea, a partire dall’occupazione francese, l’istituto del monte di pietà assume un ruolo sempre più importante, divenendo dapprima una sorta di cassa di risparmio, che raccoglie e tutela i piccoli depositi, e poi, dal 1932, dopo aver assorbito la Banca Agricola Italiana di Riccardo Gualino, un istituto di credito di diritto pubblico. Negli anni del miracolo economico, l’istituto, assunto il nuovo nome di Istituto Bancario San Paolo di Torino, sostiene il rilevante sviluppo industriale del Nord Ovest del paese, senza comunque mai tralasciare le sue tradizionali funzioni assistenziali
Nel 1992, in attuazione della riforma bancaria Amato-Carli, l’istituto torinese origina una fondazione, che prende nome dall’antica Compagnia di San Paolo e che assume il controllo dell’ente creditizio Istituto Bancario San Paolo di Torino s.p.a. Questi, dopo aver acquisito la proprietà di alcune banche nazionali ed essersi poi fuso con Imi, il 1° gennaio 2007 si è unito con Banca Intesa, originando il Gruppo Intesa Sanpaolo s.p.a., attualmente il più importante ente creditizio del paese.

Nel suo intervento Alberto Anfossi, Segretario Generale della Fondazione Compagnia di San Paolo ha focalizzato l’attenzione su come “La Compagnia di San Paolo, attraverso la sua storia plurisecolare e la sua attività filantropica che prosegue ancora oggi, offre spunti, metodi e strumenti per riflettere sullo strettissimo legame tra credito e filantropia. Estendere lo sguardo al passato, e ai quasi 500 anni di storia della Compagnia, permette di capire quanto siano longeve – e perché – quelle istituzioni, oggi bancarie, che nella loro evoluzione hanno avuto uno stretto legame con l’attività filantropica e con la funzione sociale del credito, favorendo la circolazione del denaro a beneficio dell’intera collettività. Risiedono in questo percorso, tracciato nei secoli, molte delle azioni delle odierne Fondazioni bancarie, che da enti erogatori stanno maturando il ruolo di attori di sviluppo territoriale, rendendo l’antica filantropia uno strumento capace di mettere al centro le persone, la cultura e il pianeta.”

www.fondazione1563.it

Silvia Padulazzi e “La manutenzione dell’Eugenio” 

LIBRI / Dall’idraulico Eugenio e il suo strano modo di accomiatarsi al missionario Casaciock e la sua vodka siberiana, dalla mitica Orchidea Nera, vera e propria regina dell’amore, a Teresa Bocca di rosa, fino al  signor Müller, la bella Carlina e il suo mangiadischi Fonette, l’ippopotamo Willy e il ballerino Mauro, copia perfetta del Tony Manero reso famoso da “Giontravolta”:

i personaggi delle quindici storie narrate da Silvia Padulazzi nel suo “La manutenzione dell’Eugenio e altre cose” sono incredibilmente vivi e simpaticamente sfrontati. L’ambiente dove si svolgono questi racconti spazia tra i laghi d’Orta e Maggiore, nei paesi di confine tra l’Italia e la Svizzera ticinese. Ogni capitolo è illustrato dai disegni di Giorgio Rava, poeta e pittore omegnese, narratore e gourmet molto noto. Silvia Padulazzi  nella vita si occupa di pubbliche relazioni e comunicazione ed è – oltre che un artista poliedrica – anche counselor life coach con una grande esperienza su questi temi. Conduce laboratori di crescita personale, di autobiografia musicale, linguistici, creativi, di prevenzione al bullismo nelle scuole, per adulti e giovani. Ma è anche, come ama definirsi, una “frivola perdigiorno e cantante”, autrice di canzoni, poesie, testi di teatro civile e narrativa, ha tradotto per Casa Editrice Nord e nel 2020 ha pubblicato il manuale “La zampa che cura. La relazione mediata da Napo e Zoe” per Morphema Editrice. Ha viaggiato molto e ascoltato molte storie: vite vissute, immaginate o desiderate, aneddoti, problemi, perfino quelle che lei chiama “balle colossali”. Poi un bel giorno si è messa a scrivere, andando ad attingere in quell’enorme archivio della memoria. Così, pagina dopo pagina, si sono materializzati di questi racconti che, è quasi scontato, non sono che i primi di una lunga serie.

Marco Travaglini