ERNESTO MASINA
L’Orto Fascista
Romanzo
PIETRO MACCHIONE EDITORE
In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.
XIV
Aveva parlato ai bambini e loro avevano accettato con entusiasmo. Il gioco e l’avventura li intrigava. Avevano eseguito le indicazioni del farmacista e si erano incontrati con il Russì. Preso il pacchetto di concime, lo avevano appoggiato in fondo al sacco da montagna e lo avevano ricoperto con delle foglie di fico e, sopra, quattro o cinque porcini che avevano raccolto.
Presa la strada per il paese, scesa la via S. Antonio, supera- to il “crusal”, erano giunti in piazza Mercato. Poi, giù verso il fiume, erano arrivati al gabbiotto dell’Orto Fascista.
Ernesto, che era diventato un po’ il sostituto della maestra nella conduzione dei lavori e aveva la chiave del lucchetto, aprì la porticina.
Estrassero il pacchetto di concime dallo zaino e stavano per riporlo nel gabbiotto quando furono bloccati da quattro braccia robuste e ricoperte da una camicia nera. I proprietari delle braccia si impossessarono del pacchetto e tenendo ciascuno con una mano il collo di uno dei ragazzini, li costrinsero a seguirli sino alla Casa del Fa- scio, ove aveva sede il comando della Brigata Muti.
Qui i due ragazzi vennero legati strettamente ciascuno ad una sedia, in attesa che qualcuno cominciasse l’interrogatorio.
Furono preparati pinze per strappare le unghie, ferri da arroventare per marchiare chissà dove i ragazzi, spilloni per poter continuare le torture.
Di fronte a Ernesto e Mario, pure lui legato strettamente ad una sedia, vi era il Temperini, un Temperini tutto tremante ed ansimante.
Era sicuro che i suoi compagni di prigionia, sotto tortura, avrebbero spifferato tutto ai fascisti e lui sarebbe finito in un bel casino. Avrebbero sicuramente iniziato a torturarlo per conoscere il nome dei suoi complici, e lui sapeva di essere un vigliacco e di non sopportare il dolore. Li avrebbe denunciati e sarebbe passato alla storia co- me un traditore. Purtroppo, per chissà quanto tempo, qualcuno avrebbe ricordato la storia di quel fetente di farmacista che aveva, con le sue pretese da rivoluzionario, incasinato il paese e con la sua vigliaccheria mandato al patibolo almeno due dei più onesti e valorosi paesani.
Si guardò ancora in giro per illudersi di avere una possibilità di fuga. Le due finestrelle che illuminavano a sten- to la piccola stanza erano ad almeno tre metri dal pavimento. La porta era in pesante legno con una serratura a quattro mandate. Improvvisamente vi fu un forte rumore, come se qualcuno picchiasse violentemente contro la porta, e il farmacista pensò che stessero arrivando i suoi aguzzini. Il bussare continuò sempre più violento sino a quando, finalmente, il Temperini si svegliò dall’incubo, bagnato completamente di sudore.
Si alzò dal lettino, che era stato messo nel retro della farmacia per le notti di turno, si mise la vestaglia e si diresse verso il portoncino d’ingresso con le gambe che mal lo sostenevano. Aveva la bocca amara e la testa che gli doleva. Riusciva a tenere a malapena gli occhi aperti: quasi fosse reduce da una notte di grandi bevute. Aprì lo spioncino e per poco non gli venne una sincope: al di là della porta un viso arcinoto, quello dell’Hauptmann Reserve Franz. Questi guardò il viso terreo del farmacista con una strana espressione, poi tentò di sorridere e indicò al Temperini il gonfiore che aveva sotto la guancia destra. “Come dite voi? Scesso? Io molto dolore, non dormire. Possibile cachet? Scusare per disturbo. Grazie”. Aveva parlato tutto d’un fiato come se avesse preparato il discorso in anticipo scegliendo con cura tra le poche parole di italiano che conosceva.
Il farmacista non si scostava dalla porta, non riusciva proprio a comandare le gambe. Non sapeva come fare. Poi raccolse tutte le sue forze, fece un mezzo sorriso al tedesco, andò al banco, aprì un cassetto, prese una manciata di cachets e li mise in un sacchettino di carta. Ritornò alla porta e, attraverso lo spioncino, passò il sacchetto al tedesco.
“Gratis” disse con un altro mezzo sorriso, richiuse lo spioncino e andò a sedersi sulla sedia più vicina. Non aveva mai conosciuto il terrore ma adesso sapeva cosa fosse: si sentiva vuoto dentro, senza capacità di ragiona- mento né di difesa, incapace di muovere gambe e braccia mentre una paura angosciante lo avvolgeva tutto e lo faceva tremare e sudare.
Ma come avevano potuto pensare, lui ed il Russì, di coinvolgere in un fatto tanto grave dei bambini! Usarli, mettendoli in pericolo per raggiungere i loro scopi. Di una sola cosa ora era sicuro: mai e poi mai i bambini sarebbero stati coinvolti, anche a costo di abbandonare l’idea o di litigare con il suo amico.
XV
Un milite della Muti aveva iniziato a frequentare alla sera il bar Monte Grappa. Abitualmente si sedeva ad un tavolino, ordinava da bere e cercava di attaccare discorso con qualcuno degli avventori. Quasi sempre con scarso successo. I clienti non riuscivano a capire questa assidua presenza in un luogo a lui ostile e temevano che il milite avesse avuto ordine di tenere le orecchie bene aperte e cercare di carpire qualche
notizia compromettente. Una sera, dopo aver bevuto più del solito, e forse per cercare di attirare un po’ di attenzione, chiese al proprietario se tra i clienti fosse presente il Russì. Ricevuta risposta negativa soggiunse: “E fa bene a non farsi vedere troppo in giro. Lo teniamo sotto controllo e se lo becchiamo ad aiutare quegli stronzi di partigiani lo facciamo fuori”.
Il gelo cadde nel locale. Tutti avevano, o avevano avuto, rapporti col Russì. Tutti lo stimavano. Conoscendone il carattere e le idee politiche erano quasi sicuri che lui, se ne avesse avuta occasione, avrebbe aiutato chi stava lottando contro i tedeschi ed il Regime fascista. Il Russì fu immediatamente avvisato e se si spaventò non lo diede a vedere. Pregò chi gli aveva portato la notizia, un amico fidato, di avvisare il farmacista che aveva urgente bisogno di parlargli e di farsi trovare, se poteva, verso le 16 dal tabaccaio. Doveva assolutamente sembrare un incontro occasionale.
Dopo il sogno, il Temperini aveva preteso dal Russì, e questi aveva accettato subito, che i due ragazzi non sarebbero stati coinvolti. In effetti, anche lui ci aveva già pensato ed era giunto alla conclusione che se fosse successo qualche cosa al Mario e all’Ernesto, si sarebbero sentiti dei vermi e sarebbero stati emarginati da tutti gli abitanti del paese.
– Come ho fatto a pensare una cosa così folle? – si era detto. Al farmacista aveva promesso che si sarebbe interessato personalmente del trasporto dell’esplosivo in paese appena avesse trovato un luogo sicuro dove nasconderlo. Quando si incontrarono, anche il Temperini sapeva già quanto era stato detto dal milite.
“Non posso più farlo io” aveva detto il Russì senza preamboli. “Se mi stanno alla calcagna mi beccano subito. Purtroppo, caro amico, ci sono poche alternative. Deve farlo lei. Vedrà che organizzeremo in modo che non ci siano pericoli. Ci pensi e mi faccia sapere se accetta.” E se ne andò.
XVI
Il piano sembrava ben pensato. Martin Bascià aveva accettato di diventare uno dei protagonisti nella preparazione dell’attentato. Una mattina, all’alba, aveva raggiunto l’Orto Fascista e, accertatosi che nessuno lo vedesse, si era avvicinato alla piccola costruzione ove erano riposti gli attrezzi e aveva allentato le viti che sostenevano le pia- strine del catenaccio in modo che potessero essere rimosse a mani nude. Attaccato l’asino al carretto, aveva carica- to sul pianale una sedia rotta, una poltrona sfondata e qualche altro oggetto, tanto per far scena. Era quindi partito verso Pescarzo sulla strada che passava davanti alla chiesa di S. Maurizio. Pochi metri prima di trovarsi all’al-ezza della chiesa aveva fermato l’asino e si era chinato vicino alla ruota di sinistra del carretto, come a verificare se vi fossero problemi. In effetti aveva rimosso il forcellone che teneva la ruota ancorata al mozzo. Incitò l’asino e riprese la marcia ma, come aveva previsto, dopo pochi metri la ruota si staccò dal mozzo ed il carretto si inclinò sino a toccare terra con il fondo della sponda sinistra. Martin si mise ad urlare, fu una vera e propria sceneggiata. Imprecava e bestemmiava contro la mala sorte. Alle sue imprecazioni arrivarono di corsa tre uomini che, ben celati dagli alberi del vicino bosco, non aspettavano che quel segnale per fingere di arrivare in luogo solo per caso. Discusse con loro per qualche minuto, si caricò la ruota sulle spalle, prese un martello, salì i tre scalini antistanti il portico della chiesa, appoggiò la ruota sul lastricato e con il martello fece finta di ridare forma al cerchio che ricopriva il telaio in legno. Martellò, si fermò per riposarsi, parlò con i soccorritori che intanto stavano vuotando il pianale del carretto, diede altre due martellate e quindi sparì dietro il muretto del portico, sollevò il piastrellone che gli era stato indicato, si mise tre candelotti di dinamite sotto la giacca – uno in più può sempre servire, ce ne sono tanti! – rimise a posto il piastrellone, diede altri due inutili colpi al cerchio di ferro e scese gli scalini ritornando al mezzo. I tre aiutanti sollevarono la sponda del carretto e Martino rimise a posto la ruota ed il mollettone che la teneva ancorata al mozzo. Si rivolse ai tre uomini che lo avevano aiutato, prese dalla tasca il portafoglio, mimò di volerli pagare e loro rifiutarono; allora prese da un sacchetto che teneva legato ad una delle stanghe tre bottiglie di vino e le diede ai soc- corritori. Grandi sorrisi, ringraziamenti e pacche sulle spalle, i tre se ne andarono. Neppure loro si erano accorti di quello che aveva fatto Martin Bascià sotto il portico della chiesa. Rimasero perplessi e curiosi sulle ragioni della stranissima richiesta ricevuta.
– Quel Martin Bascià è veramente un po’ matto – pensa- rono e forse lo dissero tra loro. Lui, fischiettando, riprese il suo andare. Quando arrivò alle porte del paese si imbatté nel Temperini. Grandi saluti, il farmacista offrì una sigaretta, appese la giacca da cacciatore sul carro, si appoggiarono alla sponda e iniziarono a chiacchierare. Mentre parlavano Martino si aggirava intorno al carro simulando di mettere a posto le cose che trasportava, spostò anche la giacca del farmaci- sta facendola cadere, volutamente, a terra. Si chinò prontamente a raccoglierla. Mentre si trovava piegato mise i tre candelotti nella tasca posteriore della giacca, quella nella quale il cacciatore abitualmente ripone la selvaggina catturata, sfruttando il fatto che metà visuale era coperta dal carro, un quarto dal Temperini e l’altro qua to dalla sua schiena. Si scusò con il farmacista togliendo con leggeri colpi di mano quel poco di polvere che la giacca aveva raccolto dal terreno e quindi la porse al proprietario. Si salutarono con grande effusione e con gran- di sorrisi da parte di Martin che, ovviamente, era molto soddisfatto per come erano andate le cose.
Il farmacista invece aveva la bocca secca ed amarognola, un forte senso di nausea gli saliva dallo stomaco, le gambe, si accorse, non lo sorreggevano bene. Si incamminò verso la farmacia. Ad ogni angolo di strada si guardava in giro con fare circospetto temendo di vedere una coppia di tedeschi o una squadraccia della Muti a sbarrargli la strada. Giunto nei pressi della chiesa, ormai a poche centinaia di metri dalla farmacia, udì il rombo della vetturetta tedesca arrivargli alle spalle. Credette di svenire, ma appoggiandosi al muro che rasentava, riuscì a mantenersi in equilibrio. La vettura lo superò ma dopo qualche metro si fermò bruscamente. Dalla portiera destra scese l’Haupmann Reserve che gli andò incontro. Ormai stava succedendo l’irreparabile, si vedeva già ben- dato vicino al muro ove sarebbe stato fucilato. Invece sul viso del tedesco si aprì un grande sorriso.
“Caro dottore!” disse con la sua voce potente. “Grazie per suoi medicinali. Finita subito tortura di dolore. Io guarito. Grazie. Io spero di poter ricambiare” e battendo i tacchi e sollevando il braccio disteso urlò “Heil Hitler!” Senza attendere risposta – ma il Temperini non sarebbe riuscito a proferire parola mancandogli l’aria – si girò e risalì sulla macchina che si allontanò velocemente. “Tortura, ricambiare…” queste parole rimasero a lungo nella mente del farmacista. Con profondo raccapriccio il Temperini si rese conto di essersela fatta addosso. Non entrò in farmacia ma salì direttamente alla propria abita- zione. Prese della biancheria pulita dal cassettone della camera, un paio di pantaloni dall’armadio e delle pantofole. Si chiuse in bagno, si tolse con attenzione i pantaloni per non sporcarsi ulteriormente. Sfilò le mutande e le gettò direttamente nel gabinetto. Si vergognava con sé stesso per quanto era accaduto ma, in fondo in fondo, era anche sod- disfatto: aveva compiuto il primo atto eroico della sua vita. Pensando però che non era finita e che la seconda parte della missione sarebbe stata più pericolosa, gli venne un forte conato di vomito e cominciò a sudare freddo. Come era stata bella la sua vita da farmacista riverito e rispettato da tutti. Perché mai si era messo in testa, lui così accomodante con tutti, che non aveva mai avuto un litigio, ma neppure una vera discussione con nessuno, di fare il rivoluzionario? Pensava di sentirsi rinfrancato dalla presenza di quei tre candelotti di dinamite in tasca, forte, pronto a dare una svolta alla vita della valle, una lezione ai tedeschi invasori, una prova di forza che sarebbe pas- sata alla storia ed invece si sentiva incapace anche di comandare al proprio corpo.
Quella sera stessa avrebbe portato a termine il suo compito e poi che andasse come a Dio sarebbe piaciuto. Lui la sua parte l’aveva fatta ed era, forse la più pericolosa. Finì di lavarsi, fece a pezzi i pantaloni con la forbice che si trovava sulla specchiera e li gettò nello scarico. Non avrebbe saputo spiegare l’accaduto senza vergognarsi e senza dover dare spiegazioni.
Rivestitosi si recò al bar. Aveva bisogno di bere qualcosa di forte anche se al suo stomaco non avrebbe giovato. Nell’attraversare piazza S. Antonio ed entrando nel bar gli sembrò che gli sguardi che attirava fossero di ammi-razione ed i saluti che riceveva più ossequiosi e riverenti del solito. Che in giro si sapesse già dell’atto coraggioso compiuto e di quanto altro ancora doveva coraggiosa- mente affrontare.
Questo gli permise, anche se sapeva che in effetti doveva essere solo una sua illusione, di sentirsi rinfrancato. Ma se tutto fosse andato come programmato, allora sì, sarebbe passato alla storia tra i brenesi illustri. E allora gli sguardi di ammirazione, gli ossequi e le scappellate ci sarebbero state davvero.
Passò tutto il pomeriggio al bar, dormicchiando, chiacchierando con qualche avventore, facendo un solitario dietro l’altro e affidando la riuscita o meno del gioco a una risposta di come sarebbe andata a termine la sua missione. Quando il solitario riusciva, attraversava momenti di allegria, il successivo non riusciva e ricadeva nella paura, e così via.
Quando vide, attraverso i vetri del bar, che si stava abbassando la serranda della farmacia, rincasò. Si sedette a tavola e senza scambiare parola con la figlia e con la cameriera, mangiò la minestrina che gli servivano, un pezzo di formaggio e una pera che proveniva dal suo “brolo”. Finì il suo bicchiere di vino, si alzò, comunicò alle due donne “Io esco” e se ne andò.
Dall’istante in cui si era infilato la giacca con i tre candelotti nella tasca posteriore a quando era rientrato in far- macia, dopo aver lasciato l’esplosivo nel gabbiotto del- l’Orto Fascista, il Temperini non si ricordava nulla. Ave- va agito come un automa. Non ricordava di aver attraversato la piazza mercato, di aver incontrato qualcuno lungo il suo percorso, di aver messo i candelotti nel gabbiotto, di essere ritornato sui suoi passi. Niente. Aveva annullato quei momenti della sua vita come se non li avesse vissuti. Forse, in effetti il suo corpo aveva camminato, portato i candelotti, rimosso le viti della porticina del piccolo ripa- ro degli attrezzi, depositato i candelotti, richiuso la porticina, risistemate le viti, ripercorso la strada, rientrato in farmacia mentre la sua mente, anestetizzata dal terrore, si era rifiutata di partecipare e di registrare quanto avveniva. In fin dei conti meglio così. Non aveva sofferto.
XVII
Era stata una lunga giornata passata in mezzo ai boschi, sotto la pioggia, alla ricerca di un deposito di armi segnalato da una lettera anonima. C’erano ancora degli italiani che professavano lo spionaggio, vigliacca- mente, senza esporsi ma per facilitare l’egemonia delle forze occupanti, nonostante queste apparissero sempre più spietate. Quale sarebbe stato il futuro dell’Italia traditrice se le forze armate tedesche avessero avuto, insperatamente, il sopravvento finale nella guerra in corso?
Quella di serva del nazismo? Questo si chiedevano. Tuttavia nulla era stato trovato, anche se le ricerche, effettuate insieme a diversi membri della Brigata Muti, erano state meticolose e il posto controllato fosse sicura- mente quello indicato dalla segnalazione.
Invece i tedeschi erano rientrati all’albergo che li ospitava stanchi, bagnati e delusi. Qualcuno aveva anche sospettato che la lettera fosse stata uno scherzo e questa possibilità li aveva notevolmente innervositi. Franz, il Comandante, e Bernd, dopo essersi scaldati con un fornellino che funzionava con pastiglie Meta, una tazza di quella brodaglia che si continuava a chiamare caffè solo per abitudine, si erano spogliati e avevano steso le loro divise su una corda tesa tra i due letti. Chissà perché quando due uomini si trovano soli in una stanza seminudi, tra di loro si creano una certa intimità e una predisposizione a lasciarsi andare alle confidenze. Quando Bernd confidò al suo Comandante che era riuscito a conoscere una ragazza italiana che si era invaghita di lui – che in effetti era un gran bel ragazzo con uno smagliante sorriso a 32 denti bianchissimi – Franz prese al volo l’occasione per accennare ai suoi progetti.
Lo fece con estrema cautela, ma Bernd si appassionò immediatamente all’argomento. Anche lui provava un gran- de affetto verso il suo capo, affetto e riconoscenza per come era trattato. Anticipandolo, si dichiarò più che disponibile, qualora ve ne fosse l’occasione, a lasciare libera la stanza anche per una notte intera.
“Un posto per dormire da qualche parte in albergo lo trovo sempre. E lei sa che io posso dormire anche per terra” disse infervorandosi tutto. Franz, allora, spiegò quali erano i suoi progetti, raccontando le avances che aveva fatto a Benedetta, che le aveva accettate dimostrandosi ben disposta ad un incontro che, sicuramente, non sarebbe stato solamente romantico. La cosa si sarebbe potuta concretizzare al più presto, continuò il Comandante, ma era da scartare il fatto che Bernd occupasse un qualche luogo dell’albergo. Avrebbe sicuramente destato la curiosità di chi ne fosse venuto a conoscenza. “Non rimane che la macchina” disse Franz, “se non hai nulla in contrario”. “Assolutamente no!” rispose Bernd. “Ma desidero, Her Komandant, che questa mia partecipazione sia un atto di dovuta riconoscenza per il trattamento che Ella mi ha sempre riservato” continuò trattenendo, a stento, il desiderio improvviso che gli era venuto di abbracciare il suo capo. Si vede che anche i duri soldati tedeschi sono capaci, a volte, di dimostrare un briciolo di tenerezza. Quella notte Franz sognò sua moglie nelle sembianze di Benedetta, nuda, tra le sue braccia che gli sorrideva e gli diceva “Ti amo” mentre prendeva tra le mani il suo membro eretto. Alla mattina, con estremo imbarazzo, trovò le lenzuola ancora umide e sporche del suo liquido seminale. Dapprima ne fu inorridito – cosa avrebbe pensato Benedetta vedendo le macchie nel rifare il letto? – Ma poi gli venne da sorridere con nostalgia. Una cosa del genere non gli era più successa dai tempi della sua gioventù. E a Benedetta poteva quasi sembrare un richiamo d’amore e, comunque, la prova della sua ancora intatta virilità.
(continua…)