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“L’orto fascista” Romanzo / 4

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

X

L’Hauptmann Reserve Comandante del presidio te-desco non poteva che chiamarsi Franz: alto, grosso, con un paio di baffi alla Francesco Giuseppe che teneva curatissimi, una voce roboante che incuteva soggezione. Era, in effetti, un buon bottegaio trasformato in Sturm-führer dagli eventi della guerra. Aveva un grande desiderio della sua famiglia che non vedeva da oltre un anno, della grassa moglie con tette che sembravano le colline della Bavaria e un culone burroso ma ancora sodo. La chiamava “la morbidosa” quando facevano all’amore e le affondava il viso in mezzo all’abbondante seno solleticandola con i baffoni. Ricordava, con sempre maggior nostalgia, quando rimaneva- no abbracciati lungamente al caldo sotto i piumoni nel loro grande letto: lui abbondantemente appagato e lei soddisfatta di essere con il suo uomo. Ora avrebbe voluto fare sesso anche per scaricare la tensione nervosa accumulata nel lavoro, che svolgeva con scrupolo tedesco, ma senza condividerne la finalità né i sistemi. Tutto questo lo stressava notevolmente, ma non sapeva come fare. Non poteva mischiarsi ai suoi soldati e agli altri italiani che lo conoscevano ed andare al casino di Lovere. Luogo, tra l’altro, gli avevano detto, squallido più di quanto potesse essere già di per sé un posto dove si fa all’amore a pagamento. Aveva cercato, in ogni occasione che aveva avuto di avvicinare una donna, di capire se una sua eventuale avance potesse essere gradita. Ma era evidente che da tutte era considerato un invasore, un nemico odiato dai più e mal sopportato dai fascisti che pur apparivano subdolamente deferenti. Nelle sue elucubrazioni notturne era arrivato persino ad immaginare di fare sesso con Benedetta, la cameriera dell’albergo addetta alle pulizie delle camere, al bucato per la biancheria intima e per le camicie dei tedeschi. Benedetta, che doveva avere almeno cinque anni più di Franz, gli ricordava in qualche modo sua moglie, con quel grosso seno, i fianchi abbondanti e quel sorriso, assai raro ma così simpatico, che metteva in mostra una dentatura ancora sana e brillante. Cercava di capire se avrebbe provato piacere a baciarla e, possibilmente, a fare qualcosa di più con lei. Una notte decise che era arrivato il momento di tentare.
Non aveva mai tradito la moglie in tanti anni di matrimonio, aveva scarsa dimestichezza con le donne, ma la fame di sesso lo aveva convinto che doveva mettere in piedi, al più presto, un progetto per avvicinare la donna. Aveva cominciato abbandonando i gelidi saluti quando la incontrava, condendoli con ampi sorrisi. Aveva poi trovato il modo, nel suo stentatissimo italiano, di farle capire che era molto soddisfatto di come veniva trattata la biancheria e di come veniva effettuata la pulizia della stanza. Era passato quindi a qualche regalo di tavolette di cioccolata, una delle poche cose che riceveva come extra dal proprio comando. Fu poi la volta di un sacchetto di caffè seguito da qualche lira.

Benedetta, che aveva capito subito tutto, stava al gioco sia perché cioccolata, caffè e qualche lira le facevano comodo, sia perché quel grasso tedesco le ricordava il suo Angelino, che l’aveva lasciata tanti anni prima per andare a cercare fortuna, o, almeno, lavoro, in Belgio. Sparito poi, non si sa se inghiottito in una delle terribili miniere che esistevano in quel paese o in un letto di qualche donna belga sedotta dal fascino latino. Erano tanti anni che non toccava un uomo e, se non ne avesse approfittato subito, avrebbe potuto perdere l’ultima occasione. Così, quando il tedesco fu più esplicito, Benedetta non è che gli si buttò immediatamente tra le braccia, ma gli fece capire che era lusingata dalle sue attenzioni.
Bisognava comunque risolvere un problema logistico. Di incontrarsi a casa sua Benedetta non avrebbe neppur accettato di parlarne. La cosa doveva essere fatta in gran segreto, per non beccarsi, oltre alle critiche e ai pettegolezzi, magari anche della collaboratrice. In albergo, dove tra l’altro lei due volte alla settimana faceva anche da guardiano notturno, i tedeschi dormivano due in ogni camera e lo spostamento dell’attuale compagno di sta za del suo futuro amante era alquanto difficile. Con lui, il compagno di notti infarcite di russate terribili, Franz aveva raggiunto una certa confidenza e, considerata la differenza d’età, lo trattava come un figlio.
Era ovvio che il suo sottoposto, Bernd, assiduo frequentatore del casino di Lovere, riuscisse a capire i problemi che una prolungata astinenza poteva provocare all’Hauptmann Reserve e che il suo desiderio di una donna fosse più che comprensibile. Bernd, tutti lo sapevano e ci scherzavano su, bastava appoggiasse la testa a un sostegno qualsiasi e, a qualsiasi ora del giorno e della notte, nel giro di due minuti, prendeva sonno. Le notti non erano ancora fredde: al riparo di una coperta, il suo aiutante avrebbe potuto passare qualche ora dormendo in qualche locale non frequentato dell’albergo, o, addirittura, in auto. Gli seccava un po’ che qualcuno sapesse esattamente quello che lui stesse facendo e per quanto tempo fosse intento a godere, ma non trovava altra alter- nativa. Gliene avrebbe parlato al più presto.

 

XI

Arrivarono al ristorante dell’albergo Fumo quasi con- temporaneamente e si diressero a un tavolino d’an- golo che permetteva ad entrambi di vedere bene tutta la
sala e chi andava o veniva. “Polenta e coniglio per tutti e due, e un litro di rosso” disse il Temperini al cameriere che si era avvicinato al loro tavolo. Lo disse con voce imperiosa a sottolineare l’importanza della scelta fatta anche a nome del suo compagno, quasi a far dimenticare che quel giorno all’albergo Fumo si servivano solo polenta e coniglio, come scritto in un cartello apposto all’ingresso del locale. Era fatto così il farmacista, si sentiva sempre un personaggio importante in paese e aveva costante il desiderio di mettersi in mostra.
D’altra parte di farmacista a Breno ce ne era uno solo: un po’ come il Padreterno, gli veniva da pensare qualche volta… o, più modestamente, una primadonna.
In attesa della polenta, il Russì raccontò dell’incontro con Martin Bascià spiegando che, data la rabbia che Martin aveva nei riguardi dei tedeschi, se ne avessero avuto bisogno avrebbero potuto contare su di lui. “Ma cosa hai in mente?” chiese il Temperini alla fine del racconto e dopo un minuto di silenzio. Il farmacista era al tempo stesso timoroso di essere coinvolto in qualcosa di troppo grosso per lui, ma anche esaltato dall’avventura che avrebbe vissuto da protagonista. – Storie a non finire! Ci sarà da raccontarne al bar per mesi, forse per anni – aveva pensato vedendosi già al Bar Monte Grappa a raccontare nell’attento silenzio dei soli- ti avventori. “Hai già pensato a tutto? Perché tutto vuol dire: come preparare il… diciamo… il colpo; quali risultati, o meglio quali danni si vogliono arrecare; poi, dopo il casino, cosa ci dobbiamo aspettare dai fascisti, dai tedeschi… da tutti quelli, insomma, che non la pensano come noi e che saranno incazzatissimi”.
Il Russì non si decideva a parlare. Ogni poco si portava il bicchiere alla bocca trangugiando piccoli sorsi di vino come se avesse bisogno di tener bagnata la lingua. In effetti anche lui si era posto le stesse domande e si era dato un sacco di risposte diverse. Avrebbe voluto dimostrare ai tedeschi che loro non erano degli intoccabili e, soprattutto, farli apparire vulnerabili perché smettessero di comportarsi con la prosopopea dei conquistatori di un popolo vile e sottomesso anche, e soprattutto, psicologicamente. Avrebbe potuto essere poco più di una burla, un scherzo un po’ pesante con la mira di ledere la dignità teutonica. E non sarebbe stato poco: l’Italia s’è desta – pensava in grande.
“Dottore, ascolti” disse infine il Russì. “Mica li voglio ammazzare, ’sti tedeschi. Gli facciamo uno scherzo: un po’ di dinamite sotto la macchinetta e bum, gliela facciamo a pezzi. Vedrà che calano le arie e per un po’ non rompono”. “La dinamite so dove trovarla, la portiamo in paese, la mettiamo nel gabbiotto degli attrezzi che hanno costruito in quello che chiamano l’Orto, aspettiamo una notte che ci si veda poco, portiamo il pacchetto di dinamite sotto la macchinetta, un pezzo di miccia e via. Tutto finito. Io, prima che arrivi qualcuno, sono già nel vicolo delle suore verso il Cerreto del matt Ruscu e lì vado a passare la notte”.

“E io, io cosa faccio, come posso partecipare?” chiese subito il farmacista che si sentiva, improvvisamente, escluso dalla gloria che sarebbe piovuta su chi avesse partecipato all’attentato. Cosa avrebbe mai potuto racconta- re al bar? Che sapeva e non aveva fatto nulla? Che era un pauroso e un coglione? In quel momento giunse, dall’ingresso, un forte vociare e rumore di suole dure sull’impiantito di legno. Subito dopo, dalla porta entrò lo Sturmfürher, seguito da tre dei suoi uomini. L’ufficiale tedesco fece due o tre passi verso il centro della sala, quindi, distendendo il braccio, urlò “Heil Hitler!”Attese, invano, che qualcuno degli avventori facesse anche solo un cenno di partecipazione. Tutti continuarono a mangiare o a parlare a bassa voce dei fatti loro come se nulla fosse accaduto. L’ufficiale rimase imbambolato in mezzo alla sala, si sentiva sempre triste e solo in un paese che lo detestava. Ciò nonostante, ripeteva questo gesto spontaneamente quando entrava in qualche locale pubblico, pur sapendo che il comportamento degli italiani sarebbe sempre stato lo stesso.
– E allora perché lo faccio? – si domandava ogni volta sempre più avvilito. Probabilmente questione di carattere, ma che carattere del cavolo aveva!
A toglierlo dall’imbarazzo fu il cameriere che, prendendolo quasi per un braccio e dicendogli:
“Venga, Comandante”, lo guidò verso un tavolino un po’ defilato. Ai tedeschi non veniva mai fornita la Lista del giorno, in quanto loro consumavano le razioni che ogni tre giorni arrivavano dal Comando di Brescia, razioni che venivano preparate con puntigliosa precisione: ognuna aveva persino il suo stuzzicadenti. Nonostante abituati alla loro cucina, che mischiava ingredienti salati e dolci ma senza alcun profumo, quando si sedevano a tavola al Fumo erano costretti a comparare le loro por- zioni anonime con gli appetitosi profumi che giungeva- no dai piatti degli altri commensali che guardavano con invidia. L’albergo aveva avuto sempre la tradizione di un’ottima cucina ed anche in tempo di autarchia il cuoco cercava di sopperire alla mancanza di ingredienti con l’amore verso il proprio lavoro. Quel giorno, poi, quella polenta con il coniglio arrosto, la specialità di Vittorio il cuoco, li fece impazzire di desiderio.
In mancanza di olio e con poco burro a disposizione, il Vittorio aveva imparato a far imbrunire salvia e rosmarino nello strutto e ad insaporire il sugo con le interiora del coniglio lasciate a macerare per una notte nel vino rosso e poi tritate fini fini, sino a ridurle in poltiglia. Ma il segre- to, che avrebbe fatto inorridire i buongustai e che non avrebbe mai rivelato neppure sotto tortura, era quel cuc- chiaino di miele di castagno che andava sempre ad aggiun- gere di nascosto per mitigare l’amarognolo del rognone. “Bravo dottore, qui la volevo! Avevo paura che mi lasciasse solo a fare tutto, come fate abitualmente voi ric- chi che ve lo menate tutto il giorno e intervenite solo quando c’è da incassare!” Alzò il bicchiere, ormai quasi vuoto, in un gesto di complicità condito con un sorriso d’amicizia. “Il lavoro c’è, è molto delicato e anche pericoloso, se lo volete fare”.

“Certo che lo voglio fare” rispose il farmacista con il tono di voce un po’ meno entusiasta dopo quei “delica- to” e “pericoloso” usati dal Russì.
“Vede, bisogna trovare il modo di portare l’esplosivo in paese; mica lo posso mettere nello zaino io, che se mi fermano i fascisti o i tedeschi mi ritrovo sparato come un coniglio. Ormai se vedono uno entrare in paese quasi sempre lo fermano e lo perquisiscono.” Questa asserzione fece scorrere un brivido di gelo lungo la schiena del farmacista. Organizzare un attentato era una cosa, parteciparvi attivamente era ben diverso. Ma ormai c’era dentro e non poteva ritirarsi senza perdere la faccia. “Cosa hai in mente?” chiese mentre lo sconforto lo pren- deva sempre più.
“Ci ho pensato molto, ma non trovavo la soluzione. Poi mi è venuta in mente una cosa che, però, un po’ mi ripu- gna.” Si fermò per un po’ quasi fosse restio a continuare, come se avesse veramente vergogna a proporla. Tra i due uomini corsero molte occhiate che esplicitavano tutto il disagio che avevano dentro di loro. Alla fine il montana- ro, dopo essersi schiarita la voce ed essersi guardato in- torno per sincerarsi che nessuno degli occupanti dei tavoli vicini fosse a portata di voce, riprese a parlare: “Dottore, io glielo dico, però lei non mi dà una risposta senza prima averci pensato bene. In un primo momento la mia proposta le darà fastidio e la troverà inaccettabile; quindi non dica nulla sino a quando non avrà valutato i pro e i contro. Per fare il trasporto ci vorrebbe un bam- bino. Nessuno controlla i loro giochi e il loro andare e venire per i boschi. Ormai è tempo di funghi e, per esempio, il figlio del dentista con il suo amico, mi pare si chiami Ernesto, due o tre volte la settimana vanno, appunto, per funghi. Lei li conosce bene: qualche volta vi ho visti parlare insieme e mi sembrava che la stessero ad ascoltare con grande ammirazione e interesse. Probabilmente lei stava raccontando qualcuna delle storielle che si inventa per i grandi ma che, adattate all’età, piacciono anche ai bambini. Lei dovrebbe raccontare loro che, insieme a me, ha preparato un concime miracoloso. Un concime che, se usato nell’orto che stanno lavorando con i loro compagni di scuola, darebbe un raccolto da farli diventare famosi. Lei potrebbe offrire loro un po’ di questo concime, a patto di mantenere il segreto. Guai se parlassero: prima di tutto perché il meri- to non sarebbe più stato loro, poi perché avrebbero potuto sgridarli, avendo compiuto una cosa di nascosto dalla maestra… quella poco di buono che hanno nomi- nato, cose da pazzi, Custode dell’Orto Fascista. Li potrebbe mandare da me a ritirare un pacco di questo… concime, da nascondere nel gabbiotto dell’orto, in atte- sa di usarlo al momento giusto. Il momento glielo dirà lei, studiando le fasi della luna. Ci pensi su. E adesso andiamo che a me questa presenza dei tedeschi mi fa girare le palle”.

 

XII

Lasciato il farmacista, il Russì era andato verso il Punt della Madonna a cercare 3B, ovvero Bettino Bum Bum, così chiamato perché aveva fatto, prima di prendersi la silicosi, il minatore in Francia, dove si era specializzato come preparatore di candelotti di dinamite e nel farli brillare nel modo giusto. Al rientro al paese aveva continuato a tenersi in esercizio, dando, a volte una mano all’Azienda Autonoma Statale della Strada nell’anticipare la caduta di una frana che minacciava di invadere qualche via di comunicazione, soprattutto in montagna; altre volte lavorando per i Tassara, che stava- no preparando nuovi piccoli invasi per ottenere energia elettrica per il funzionamento dei macchinari della fonderia. Tutte le volte che gli affidavano la dinamite per qualche lavoro, il Bettino, attentissimo a non essere scoperto, ne sottraeva un piccolo quantitativo nascondendolo in luoghi sicuri. Avere della dinamite a portata di
mano, come lui diceva, “serve sempre”. Il Russì andò da lui a colpo sicuro, ma fu costretto a spie- gare sin nei minimi dettagli il piano che aveva in mente, per creare un certo interesse nel Bettino che, da uomo dai nervi d’acciaio – freddezza, precisione ed un certo grado di incoscienza avevano permesso al “brillatore” di portare a casa, dalla Francia, la “ghirba” – non aveva inizialmente mosso ciglio alle sue parole. “Ci vediamo domani alle 10 al crusal, che ci devo pensa- re!” fu l’unico commento del Bettino. “Attento: se ho il cappello in testa ci parliamo, se ce l’ho in mano fa’ finta di niente e non avvicinarmi. Guarda, comunque, che io non ho sentito niente di quello che mi hai detto. Se ci starò ti dirò dove e quando andare a prendere la “merce” già pronta. Ma noi oggi non ci siamo incontrati. Cazzi tuoi! Io non posso rischiare la galera o una bevuta di olio di rici- no. Tre giorni in gattabuia senza cure o una dissenteria e io sono bell’e che morto. E per adesso non ho nessuna voglia di lasciare la mia Ninetta dopo tanti anni che le sono stato lontano”. Detto questo si girò e rientrò in casa. Non si aspettava un atteggiamento diverso da quello e quindi, tirate le somme il Russì si ritenne soddisfatto dell’incontro. Era sicuro che Bettino gli avrebbe fornito l’occorrente per l’attentato e che, da antifascista qual era, fosse in fondo in fondo lieto di partecipare.
– Le sue paure sono scusabili – si disse conoscendo le pre- carie condizioni di salute di 3B. La mattina seguente prima delle 10 era al luogo dell’ap- puntamento, in attesa. Finalmente vide, in lontananza, la figura mingherlina del Bettino. Avanzava lentamente e un po’ ingobbito per la strada in leggera salita, probabilmente a causa della difficoltosa respirazione. Gli sembrò stesse parlando da solo, mentre continuava a mettersi e togliersi il cappello.
Improvvisamente, con un gesto melodrammatico, si ficcò il copricapo in testa, raddrizzò il corpo e si mise a camminare più speditamente: sembrava trasformato. Al Russì venne da sorridere: l’amico aveva deciso di aiutarlo e se ne sentiva fiero. Infatti dopo poco gli si avvicinò e gli disse: “Stammi bene a sentire perché non ripeterò. Vai alla chiesa di S. Maurizio. Sotto il portico alla destra c’è una lastra più grande delle altre che non è ben francata: la alzi e sotto trovi otto candelotti di dinamite. Ne prendi due di quelli che hanno la miccia più lunga. Poi rimetti a posto la lastra e dimentichi tutto. Tutto: quello che hai visto e gli incontri che abbiamo avuto. TUTTO. Ciao” e se ne andò.
Ora bastava solo andare a prendere l’esplosivo e portarlo in paese: poi sarebbe stato tutto pronto! Bisognava solo aspettare il momento giusto per far saltare in aria quella maledetta auto tedesca.

 

XIII

La signora maestra Lucia aveva ottenuto dal signor Direttore della scuola di poter acquistare qualche attrezzo per la lavorazione della terra da dare ai ragazzi per- ché iniziassero, dopo averlo pulito dai sassi, dai calcinacci e dai pezzi di legno, a smuovere la terra in attesa di una prossima semina. Inoltre, poiché l’Orto Fascista era al- quanto distante dalla sede della scuola, bisognava provvedere alla realizzazione di un riparo, anche se piccolo, per gli attrezzi. Come al solito si pensò di affidare l’incarico alla locale Associazione Alpini, che era sempre disponibile a dare una mano a chi avesse bisogno. Così in breve fu costruito un piccolo deposito in muratura di un metro per un metro, con la sua bella porta in legno mu-
nita di un robusto chiavistello con lucchetto. Rimuovere un terreno così duro, abbandonato da anni, risultò subito impresa difficile per dei ragazzini che, oltre tutto, dovevano lavorare con attrezzi pesanti e non adatti alla loro altezza. D’altra parte l’inverno era alle porte e il momento della semina vicino. O abbandonare l’impresa o far intervenire, sperando nell’indifferenza delle autorità verso una soluzione non desiderata dal Regime, i soliti alpini volontari. E così fu fatto. Nessuno pensò di avanzare critiche o suscitare polemiche, anche perché la situazione in valle continuava a complicarsi per la sempre maggior presenza di partigiani e per i rapporti con i tedeschi che, dopo una iniziale esultante accoglienza da parte dei fascisti locali, si erano alquanto raffreddati sia per la intransigente durezza che i tedeschi ponevano nel- l’affrontare qualsiasi situazione, sia perché, in fondo alla mente di ognuno, rodeva un piccolo tarlo che diceva, sottovoce, “attento che la guerra finisce male per voi, non vi esponete troppo”. Le teste calde, naturalmente, c’erano ancora, ma tendevano a diminuire di numero con una certa celerità.
Gli alpini furono come al solito molto sbrigativi ed organizzati. Nel giro di una settimana il terreno era pronto alla semina del grano: bastava tracciare i solchi, lavoro che non fu compiuto da loro per dare la soddisfazione ai bambini di effettuarlo. Quando tutto fu a posto venne organizzata la cerimonia della semina. Non una cerimonia importante come quella per la nascita dell’Orto, ma comunque furono invitati ed intervennero, il Podestà, il Parroco, il Segretario del partito, il Direttore delle Scuole di Breno, il Maresciallo dei Reali Carabinieri, il responsabile dell’Associazione Alpini della Valle Camonica, il Generale Ronchi – nonno di Ernesto, il Direttore dell’o- spedale e le rappresentanze delle altre scuole del paese. Quattro bambini, portando a tracolla un sacchetto che conteneva le sementi, tenendosi a distanza di un paio di metri l’uno dall’altro, iniziarono a percorrere a passi lenti il campo, lanciando, con ampi gesti del braccio, i chic- chi di grano sul terreno lavorato. I poveretti avevano dovuto rinunciare per due settimane a tutte le ricreazioni per imparare a camminare tenendo tra loro la stessa distanza, alla stessa velocità e a compiere con sincronismo il gesto del braccio impegnato nella semina. Dopo tanta fatica erano riusciti a raggiungere un buon risulta- to, tanto che il Podestà dichiarò in una intervista rilasci ta al “Giornale della Valle” che “l’incedere dei piccoli seminatori, incedere altero nella loro consapevolezza di e sere parte di un grande progetto che solo il Duce aveva potuto partorire nella sua illuminata lungimiranza, ricordava quello dei pazienti buoi (???) che trascinano l’aratro con serietà e fermezza. Un gran bel vedere: con il gesto della semina che ricordava il colpo d’ala dell’aquila fascista”. Non era riuscito ad inserirci anche i fasci littori ma in compenso non ci si capiva nulla.

 

(continua…)

 

 

 

 

 

 

 

A Genova esaltano Giuliani e le foibe

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

L’esaltazione di Carlo Giuliani visto come martire e come compagno di lotta che vive, a vent’anni dal G 8 genovese, è cosa che solo menti malate di faziosità possono fare.

Giuliani avrebbe potuto  uccidere un carabiniere il quale per legittima difesa, sparò e uccise questo ragazzo. E il padre di Giuliani che è responsabile della sua educazione forse non proprio esemplare, non può oggi salutare su un palco e  indignarsi perché  non ci fu un processo. In più processi, anche alla Corte europea, il carabiniere venne assolto. Resta il dolore per la morte di un giovane ma la vera vittima appare oggi il  carabiniere che non seppe difendersi al processo (e fu  assolto!) e che ebbe la sua  vita rovinata per sempre. Non si riprese più da quel trauma e da quel clima di odio creato attorno a lui. Anche la sua vita privata fu difficile e l’accusa di pedofilia da cui venne assolto è un segno di una realtà molto problematica che ha origine remota  nell’episodio di piazza Alimonda a Genova. Su Facebook ho scritto che era vergognoso celebrare Giuliani e lo ribadisco. Lo striscione di esaltazione delle foibe (ispirato al libretto uscito qualche mese fa) ci rivela chi sono molti tra gli estimatori di Giuliani. Vetero-comunisti,  giovani, meno giovani e vecchi malvissuti  che fanno della violenza politica il loro metodo di lotta. Esaltare le foibe è un atto infame paragonabile al gesto di chi avrebbe potuto  uccidere un carabiniere, lanciandogli un estintore. Questi estremisti sono nemici dell’Italia. Un assembramento, vietato a causa del Covid ma tollerato dalla Polizia, che rivela la stoltezza, l’ignoranza, la malafede di certa gente che io non esito  a definire traditori  e disertori nei confronti dell’Italia democratica e civile, in primis di quella nata dalla Resistenza. Gente che, se non fossimo dei liberali e dei democratici, andrebbe idealmente “messa alla gogna”. Loro ci metterebbero alla gogna senza la minima esitazione, ricorrendo alla violenza contro chi ha la colpa di non pensare in rosso.

Papa Francesco e la Messa di Pio V

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

La questione della Messa in latino sembrava un argomento su cui non fosse più il caso di discutere. Appariva un tema non più divisivo all’interno del mondo cattolico, invece, all’improvviso, è intervenuto con fermezza Papa Francesco, ritenendo la celebrazione della Messa di Pio V motivo di scontro conflittuale  all’interno della Chiesa.

Il Pontefice ha revocato  con il Motu proprio “ Traditionis costodes “le concessioni dei suoi due predecessori relative ad una certa “liberalizzazione“ nella  celebrazione della Messa in Latino secondo il Messale  del 1962 ,precedente al Concilio Vaticano II. Tra le principali novità – scrive” Avvenire”, voce della CEI- viene affermato il ruolo esclusivo del vescovo nell’autorizzare l’uso del Messale precedente alla riforma liturgica voluta da Paolo VI.
.
Il Pontefice è preoccupato che vere e proprie comunità di credenti vedano nella Messa in latino una  forma  di contestazione non solo del Concilio, ma addirittura della stessa autorità del Papa attuale, sollevando la questione della sua illegittimità. Esistono infatti sacerdoti e credenti che ritengono che l’unico  vero Papa sia Benedetto XVI. Si tratta di posizioni estreme volte a sconvolgere l’intera Chiesa in  nome di  un tradizionalismo ribelle  che va persino oltre quello del vescovo  Lefebvre che fu promotore  di un piccolo scisma contro il  Concilio e la nuova liturgia che non si limitava a tradurre nelle diverse lingue il Messale, ma cambiava anche radicalmente la Messa, partendo dall’altare dal quale essa veniva celebrata. Ci fu chi disse che la nuova liturgia ribaltava  una visione teocentrica ( con il sacerdote che dava le spalle ai fedeli e restava rivolto verso l’altare) in una visione antropocentrica in cui l’assemblea dei fedeli era coprotagonista del rito. Un tentativo, si disse, per riavviare un dialogo verso il mondo protestante. Non ho la cultura sufficiente in materia liturgica per dare dei giudizi, ma ricordo di aver vissuto  da studente liceale tutta la vicenda. La Messa di Pio V e del Concilio di Trento   fu archiviata come un’eredità della Controriforma. Un segno di rinnovamento che svecchiava la Chiesa di secoli privandola di un qualcosa che aveva sfidato il tempo ed era diventato quasi metastorico. La Chiesa cattolica romana preferì abbandonare o almeno ridimensionare la tradizione
.
La  lingua latina venne considerata superata . La liturgia  tradizionale e il canto gregoriano che rappresentava un’attrattiva persino per l’ateo Massimo Mila (che ne  subiva il fascino non solo musicale  vennero sacrificati a favore di un rinnovamento che cancellò un’eredità che durava da secoli. Nel Latino sconosciuto ai più c’era il  fascino del mistero che è andato perduto. Forse la via obbligata della Chiesa era quella di aprirsi al presente e al futuro, guardando al terzo e al quarto mondo. La questione sociale è diventata anche per Chiesa   la questione centrale e l’attuale Papa, anche per le sue origini, appare assai concentrato sui temi sociali, sulla povertà evangelica, sulle disuguaglianze e sui temi ambientali. Questa stretta molto ferma sulla possibilità di celebrare la Messa di Pio V ha  sicuramente delle ragioni che vanno oltre la sua  celebrazione che alcuni hanno utilizzato come una clava contro l’attuale Pontefice, che ha risposto in modo duro e anche comprensibile, mettendo sotto il controllo dei vescovi la possibilità di celebrare la Messa precedente al Concilio. Se devo essere sincero, la Messa voluta da Paolo VI non mi ha mai entusiasmato e ricordo le discussioni animate con il  mio compagno di liceo Mauro Barrera (mancato da poco) che ne era entusiasta. Non credo casualmente Barrera divenne uno dei leader della contestazione studentesca nel ‘68 e seguitò  coerentemente per tutta la vita nella sua scelta progressista. Al contrario  ho sentito rimpianto per la vecchia Messa che ragazzino andavo a servire, come si usava in quell’epoca. Ricordo le solenni Messe cantate nelle grandi festività che davano il senso della festa religiosa oggi forse non più recuperabile.
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Capisco  che i nostalgici  siano considerati dei reazionari. Io che non mi sento affatto un reazionario, ma un liberale  sento il valore di una tradizione che viene da lontano. Vivere immersi nel presente a volte e’ cosa miserevole specie in tempi di nichilismo più o meno totale. Forse è anche la nostalgia della giovinezza a far rimpiangere l’antico. Oggi non avrebbe ragione l’umanista Lorenzo Valla a dire che i veri antichi siamo noi  perchè il presente senza radici che stiamo vivendo  ci priva dell’eredità del passato. Sarebbe  necessario ,a mio modo di vedere , recuperare il senso della storia e del passato e anche la Messa di Pio V costituisce un tassello importante, al di là del fatto che si creda o non si creda. Vivere nel presente può portare a grandi disastri . La storia consente un dialogo tra generazioni diversamente impossibile. Ed oggi il dialogo tra generazioni è diventato sempre più difficile persino all’interno della stessa Chiesa.

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Lura Goria

Benjamin Taylor “Siamo ancora qui. La mia amicizia con Philip Roth” -Nutrimenti- euro 15,00

Per chi ama i libri di Philip Roth ed è attratto dalla sua singolare vita, questo libro è prezioso perché fa luce su alcuni anfratti della sua personalità, del suo pensiero, delle sue ambizioni e delusioni, dei suoi sentimenti più profondi.
106 scorrevolissime pagine in cui emerge il ritratto affettuoso di questo scrittore -monumento della letteratura americana- impetuoso, controverso, visto dietro le quinte, nell’ambito più domestico e intimo, quello sconosciuto ai più.

A raccontarlo è il suo migliore amico e confidente degli ultimi 20 anni della vita dello scrittore, Benjamin Taylor; autore di 2 romanzi e vari saggi, tra cui una biografia di Marcel Proust (altro scrittore immenso che come Roth non ottenne il Premio Nobel per la letteratura).
Roth aveva cercato una donna giovane e bella che si prendesse cura di lui (come Jane Eyre accudì Rochester)….e invece trovò Taylor: sensibile conoscitore della letteratura, grande capacità di ascolto che lo rese il confidente perfetto e speciale.
Due scrittori diversi ma in profonda sintonia umana, un rapporto sempre più stretto man mano che Roth scivola in un crescente declino fisico -tra ricoveri e interventi vari- e si lascia andare a ricordi e bilanci. Emergono così squarci inediti del grande romanziere di Newark e delle sue idiosincrasie, vizi, slanci ingenui e conti in sospeso.
Come quello con la prima moglie Maggie che lo raggirò fingendosi incinta per farsi sposare e poi gli diede a intere di avere abortito. Fu un pessimo matrimonio, finito con lei che muore nello schianto dell’auto su una traversa di Central Park, mentre l’uomo che era con lei si salva. Fine dell’inferno coniugale e Roth che chiama l’amante della moglie “Il mio liberatore”.
Resterà comunque sempre complicato il suo rapporto con le donne. Perennemente innamorato, un seduttore, ma anche fedifrago perché incapace di gestire le sue relazioni, in fuga dalla monogamia e pronto a innamorarsi di nuovo. A Taylor confiderà «Ho bisogno del sesso per essere indomabile, per un breve istante immortale”.
Le confidenze “tra maschi” continuano e toccano altri punti, tra cui la gigantesca vita interiore di Roth le cui emozioni erano fuori misura ….e lui che affermò «Ho scritto proprio perché queste emozioni non mi ammazzassero».
Poi dialoghi sulla sua famiglia di origine -povera ma in armonia-, sui suoi libri e sulla delusione per non aver ricevuto il Nobel.
Infine i gravi acciacchi che più volte l’avevano avvicinato alla morte, il cuore sempre più malato e le continue operazioni. Lui si era organizzato per il suicidio in caso di gravi disabilità, e alla fine, stanco di vivere in precarie condizioni in ospedale, chiese ed ottenne che gli venisse tolto il respiratore che lo teneva in vita, lasciandosi così andare a una fine cosciente.

 

Mario Desiati “Spatriati” -Einaudi- euro 20,00

In dialetto pugliese “spatriato” vuol dire ramingo, balordo, disorientato, precario e a volte è un insulto per etichettare una persona che non ha un posto fisso e un’identità chiara rispetto agli altri.
Altre volte indica semplicemente un modo di essere fluido, più libero, come rappresentato dai personaggi di questo romanzo.
Desiati, nato a Martina Franca, nelle Murge, si è sentito definire così più volte da amici e parenti, perché a 40 anni non si è ancora creato una famiglia e neanche si sa bene dove stia di casa, dopo aver vissuto a Roma, Milano e Berlino.
Protagonisti del romanzo sono due giovani nati a Martina Franca, incerti e disorientati che crescono andando via non tanto da un luogo quanto dalle convenzioni.
Francesco Veleno e Claudia Fanelli si sono conosciuti sui banchi di scuola; da allora lui è innamorato di lei, che invece sogna solo di lasciare la provincia che le sta stretta e diventare cittadina del mondo.
Claudia è solare ed esplosiva, la sua femminilità viene potenziata quando indossa abiti maschili; Francesco è timido e ombroso e da lei accetta tutto o quasi, rodendosi in silenzio, e comunque felice anche di essere schiavizzato da colei che ama incondizionatamente.
Negli anni continuano a restare in contatto anche se lei, più libera e spregiudicata, si allontana presto da casa,
volando prima a Londra, poi a Milano e infine a Berlino.
Una storia d’amore travestita da grande amicizia. Potrebbe essere definito così il loro legame particolare, fatto di complicità, grande intesa e confidenza. Lei gli racconta degli uomini con cui sta e lui patisce, neanche tanto in silenzio, però continua a professarle il suo amore.
Gli anni scorrono e i due trovano il modo di stare insieme e fare in qualche modo famiglia anche se sono geograficamente lontani. Il loro è un rapporto saldamente basato sulla verità, a partire da quando Claudia gli svela che suo padre e la madre di Francesco sono amanti.
Claudia negli uomini cerca «imprevedibilità, mistero e una tenera inettitudine alla vita» e passa da un’esperienza all’altra.
Francesco resta più indietro, remissivo e alla ricerca della sua identità più vera e profonda.
Il loro allontanarsi e ritrovarsi continuo esprime anche la dialettica tra il modo di vivere la provincia e le grandi città.
E’ dopo i 35 anni che entrambi capiscono che la loro identità è fluida, che la scoperta di se stessi non ha età, che in fondo anche se si spostano non sono mai appagati e stentano a stare bene in qualunque posto.

 

 

Rebecca Solnit “Ricordi della mia inesistenza” -Ponte alle Grazie- euro 16,80

Rebecca Solnit,-scrittrice, giornalista , storica e attivista femminista- in questo memoir si racconta e apre pagine intime e profonde sulla sua vita e le sue esperienze.
Inizia da quando non ancora diciottenne si insediò in un minuscolo appartamento in un vecchio quartiere di San Francisco; è da lì che inizia a ricostruire il suo lavorio interiore per capire meglio la sua natura e le sue aspirazioni, mettendo a nudo pensieri ed emozioni più profondi.
Epoca in cui era povera, raccoglieva mobili che erano stati abbandonati in strada, vestiti nei negozi dell’usato e articoli per la casa dai mercatini. Scrive: «La maggior parte delle cose che mi appartenevano erano più vecchie di me e questo mi dava gusto; ogni oggetto era un ancoraggio al passato».
Appassionata lettrice, ma scarsa di mezzi, leggeva in piedi nelle librerie o prendeva volumi in prestito dalle biblioteche, oppure li trovava usati e a prezzi stracciati. Racconta che voleva sempre qualcosa di più, perché «il senso di incompiutezza è un buco da riempire di cose, e le cose che hai scompaiono dietro quelle che vuoi».

Racconta che dai 13anni in poi aveva subito pressioni a sfondo sessuale da uomini adulti che gravitavano intorno alla sua famiglia, o da sconosciuti per strada; è così che divenne abile nello sgattaiolare via, nell’eludere contatti indesiderati, un’esperta nell’arte di non esistere, visto che era tanto pericoloso.
Una delle sue grandi libertà era camminare: la sua gioia, il suo mezzo di trasporto economico, il sistema per imparare a conoscere i luoghi e a stare al mondo.

Poi le sue grandi passioni, prima fra tutte voler diventare scrittrice, e la sua fame di letture.
Perché per lei «c’è qualcosa di sbalorditivo in quella sospensione del tempo e dello spazio in cui viaggiamo in altri tempi e spazi».
Un modo di sparire da dove ci troviamo per entrare nella mente dell’autore……traduciamo le sue parole in nostre immagini, volti, luoghi, luci e ombre, suoni ed emozioni».
Importante fu l’avventura del primo libro che scrisse; racconta che scrivere è un’arte, pubblicare è un business.
E a seguire altre pagine di storia vissuta: tra incontri con personaggi e aneddoti vari, la sua dichiarazione d’amore verso la San Francisco dei quartieri degli artisti e delle proteste contro guerre e discriminazioni varie.

 

Paul Scott “Il gioiello della Corona” – Fazi Editore- euro 20,00

Questo è il primo volume della tetralogia intitolata “The Raj Quartet”, che lo scrittore inglese Paul Scott (nato nel 1920 e morto nel 1978), pubblicò a partire dal 1966. L’autore -che nel 1977 vinse il Man Booker Prize con il romanzo “Staing On”- durante la seconda guerra mondiale prese servizio in India e Malesia, diventando un profondo conoscitore del colonialismo britannico e del suo declino.
Poi lavorò a lungo nell’editoria e pubblicò 13 romanzi, i più famosi sono quelli appartenenti all’ambizioso progetto “The Raj Quartet”.
In “Il gioiello della Corona” compone un intreccio vasto e complesso, ricco di personaggi e avventure, per ricreare e farci conoscere più a fondo la realtà dell’India coloniale.
La storia inizia nel 1942 nella città indiana di Mayapore, in pieno conflitto mondiale con l’Inghilterra concentrata su come fermare la minaccia nazista. E racconta come il più bel gioiello della corona della regina -ovvero il dominio britannico sulla colonia indiana- inizi a vacillare.
Due mondi legati storicamente, ma profondamente diversi, vivono profonde tensioni. La struttura del romanzo è alquanto complessa e riporta svariate vicende e drammatiche esperienze, come quella della giovane inglese Daphne Manners stuprata da un gruppo di delinquenti che restano ignoti. Una violenza che inaugura una drammatica serie di eventi.

Tra gli sviluppi, c’è l’amore impossibile tra Daphne e il giovane Hari Kumar, dalla pelle scura, di origine indiana ma cresciuto in Inghilterra dove ha studiato in una delle migliori scuole. Daphne è diversa per sensibilità e stile di pensiero rispetto alle coetanee inglesi che disdegnano rapporti con i neri e ostentano un‘algida superiorità. Ma la società dell’epoca non consente certe scelte…

Le traversie dei due innamorati sono solo una parte dei tanti intrecci di vite ed eventi attraverso i quali Scott ritrae l’India dando voce a punti di vista molto diversi tra loro.
Emerge un ritratto composito della realtà delle colonie, un imponente affresco e un autentico documento storico che attraversa più livelli: dal rapporto tra indiani e inglesi ai cenni alla politica del Mahatma Gandhi che con la non violenza intende guidare il suo popolo verso l’indipendenza.
Poi le riflessioni sul razzismo e la barriera del colore della pelle, rivolte e crimini violenti in un’epoca in cui la storia sta cambiando e l’India si affaccia alla soglia della libertà e dell’autonomia.

Turin Confidential

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Cosa succede a Torino: informazioni per chi arriva in città 

 

What’s on in Turin: events and attractions for tourists, occasional visitors and expats

 

Italy has won the football European championship. What our national team made at Wembley Stadium in London was a surgical operation planned by coach Roberto Mancini to bring the cup home. Our home, not theirs. With a perfect Italian Job. Which is also a cult movie filmed in Turin in 1969.

 

Many are the locations the producers chose for the crazy car chases between Mini Coopers and the Italian police. But do you know that Mr Gianni Agnelli offered, for free, a fleet of Fiats 500 and Lancias for the making of the movie? Legend has it that in this project he saw a great marketing opportunity but an English woman said “No, it is an English movie, it has to be made with English cars”. The woman, according to this legend, was Queen Elizabeth II. The Mini Coopers remained, but Mr Agnelli, as a perfect gentleman not only gave some cars, he also opened the doors of Lingotto and Mirafiori, giving the permission to shot some spectacular scenes on the roofs of both plants.

So why not watching the movie one more time and trying to spot all the streets and palaces of our beautiful city?

Music

 

The Flowers Festival in the municipality of Collegno continues with live concerts and Saturday 17 the rhythm is courtesy provided by Subsonica, iconic band from Turin.

Cap10100 is a cultural space which hosts concerts but also plays and art performances in a beautiful location along the Po River. This week you will find concerts of the Ginzburg Park Festival whose stage has been destroyed by a tree during a storm. As you can see, nothing stops the music in Turin till the fat lady sings!

Docks Dora, a former industrial area dating back to the beginning of the 20th century, is pin pointed with artists’ studios, creative spaces and bistros. One of these, Amen bar, is a lovely restaurant with a great combination of food and live music. Thursday 22, Sabrina Mogentale will plunge the entire venue into Brasilian mood. Eat, drink, chill, repeat.

Museums

With a 5-minute walk from Amen bar, you can reach the Ettore Fico Museum which unfortunately is closed at the moment. Keep this address in mind, we will right back at it in September.

But since we talked about movies, why not going to the Cinema Museum inside the Mole Antonelliana? From July 20, the exhibition Photocall will celebrate Italian actors and actresses, while until July 25, from 10 pm to 00.30 am, you can admire the four sides of the cupola enlightened by images to celebrate the magic of movies.

And for the kids

 

At the Natural Park La Mandria, in Venaria Reale, children can join a treasure hunt on Sunday 20 July, while in Bussoleno, the association Nel Bosco con Helix organizes activities for little explorer.

Back to Turin, Spazio ZeroSeiin Piazza della Repubblica 2b,  is a space where activities for children and their families help developing creativity, curiosity and imagination. They also have a baby parking called Spazio Ponte at n. 16 of the lovely Galleria Umberto 1.

 

And for a moment of pure pleasure…

Galleria Umberto I (foto Museo Torino)

Leave the kids at the baby parking and take a seat in one of the many bars and restaurants of Galleria Umberto 1. One of my favourites is Avocuddle where Giorgio and Lucia prepare homemade avocado toasts, cakes and all sort of appetizers. When the sun goes down, the gallery is lit by Marco Gastini’s art installation conceived for Luci D’Artista, the city Christmas lights.  At this point the night is about to come and the gallery is wrapped in a blue atmosphere.  Just like the uniform of the Italian football team. Oh, by the way, did I tell you that we won the European football cup?

Lori Barozzino

Take a look to the last articles, here and here, as many events are still taking place.

Lori is an interpreter and translator who lives in Turin. If you want to read more, here’s her blog.

Garage rock USA 1966. Discografia minore / 6

CALEIDOSCOPIO ROCK USA ANNI 60

Il mitico 1966 si inseriva anche in un periodo di incredibile crescita nell’economia degli States, con il progredire di grandi opere pubbliche (soprattutto le reti stradali ed autostradali) e con l’ascesa costante della produzione industriale.

Inutile ribadire come la cosiddetta “rust belt” del Midwest è testimonianza di una frenesia produttiva che vedeva due grandi poli di riferimento: le acciaierie di Pittsburgh (Pennsylvania) e l’industria motoristica GM di Detroit (Michigan). Non è un caso che proprio nel Midwest il rock avesse assunto caratteri crudi e “sporchi”, quasi a riflettere la dura realtà delle aree industriali e dei “quartieri-dormitorio” (basti ricordare quello enorme a sud-est di Chicago al confine con l’Indiana). Da quel carattere “dirty” del rock emergeranno già evidenti i caratteri del “proto-punk” americano, precursore genuino e ancora non politicizzato del punk del decennio successivo (che gli inglesi faranno proprio con “fiuto per il mercato musicale”). Continua qui la discografia USA del 1966, con esempi anche del proto-punk suddetto.

 

– The Us Too Group “The Only Thing To Do / I’ll Leave You Crying” (Jinx Records 17817-17818);
– The Wild Cherries “I Cried Once / Baby, Baby” (Shoestring Records SHO-112);
– The Abandoned “Come On Mary / Around And Around” ([The Abandoned] 4867-1);
– The Chargers “Taxi / I’m So Alone” (Julian Records J-106);
– The Levis “Hear What I Say / That’s Not The Way” (Fleetwood Records FL 4563);
– Tony and The Bandits “The Sun Don’t Shine Now That You’ve Gone / I’m Goin’ Away (from you)” (Coral 62477);
– The Mo-Shuns “What Can I Say / The Way She Walks” (20th Century Fox Records 45-6645);
– Mick & The Shambles “Lonely Nights Again / Girls, Girls, Girls” (Verve Folkways KF2010);
– The Rumbles “Fourteen Years / It’s My Turn To Cry” (Mercury 72600);
– The Runaways “18th Floor Girl / Your Foolish Ways” (Alamo Audio Company 45-105);
– The Groupies “Primitive / Hog (I’m A Hog For You, Baby)” (ATCO Records 45-6393);
– The Iguana[s] “Black Suit / Leaving You Baby” (Valerie Records V-107);
– The Society “For Me / One Way Ride” (Feature Records 817R-112);
– The Chancellors “Don’t Tell Me / I Don’t Know Where I’m Going” (Caddo Records 102);
– The Weejuns “Way Down / Without Your Love” (Skoop 968S-1068);
– Danny and The Counts “You Need Love / Ode To The Wind” (Coronado Records 136);
– The “In”-vaders “By The Sea / That Girl” (Music Town Records 45-114);
– The Thingies “It’s A Long Way Down / Merry-Go-Round Of Life” (Casino 2305-2306);
– The Sleepers “I Want A Love / Time Will Tell” (Marvy Records);
– The Royale Coachmen “Killer Of Men / Standing Over There” (Jowar Records J.W. 103);
– Plato & The Philosophers “C.M. I Love You / I Don’t Mind” (General American Records GAR 104);
– Sir Winston & The Commons “Come Back Again / We’re Gonna Love” (SOMA 1454);
– The Sires “Don’t Look Now / Come To Me Baby” (Graves Recording Service GRS 1094);
– The Hotbeats “Listen / Injun” (Rychard Records JW61661).

(… to be continued…)

Gian Marchisio

 

“L’orto fascista” Romanzo / 3

Questo romanzo è pura opera di fantasia. I luoghi citati appartengono solo alla geografia dell’invenzione letteraria. Nomi, personaggi, fatti e avvenimenti sono invenzioni dell’autore e hanno soltanto lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

 

 

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

***

VI

 

Quell’anno la famiglia di Ernesto non aveva trascorso l’abituale vacanza al mare. Tutti erano preoccupati per le vicende politiche e della guerra in corso che non lasciavano spazi a programmi festaioli. Però alla fine di agosto suo papà era riuscito a trovare qualche giorno di riposo e fu così che, in fretta e furia, la famiglia fece i bagagli per dieci giorni di vacanze in alta Val Camonica, a Pezzo, un paesino nei pressi del Passo del Tonale. Poco più di quattro case con un alberghetto dal nome pretenzioso “Alte vette” ma che era poco più di una locanda. Le camere avevano un arreda- mento approssimativo, ma la cucina era buona e il paesaggio stupendo: fitti boschi, ruscelli e pascoli pieni di vacche che attendevano l’inizio dell’autunno per scendere a valle lasciando gli alpeggi. Una mattina, all’alba, una vettura di servizio era arrivata in albergo a prendere suo papà per portarlo al Comando dei Carabinieri di Brescia. Era successo qualcosa di vera- mente grave, che però Ernesto non comprendeva completamente: il piccolo, borioso e pauroso Re d’Italia e Imperatore di Etiopia, preso dalla paura per l’imminente invasione dell’Italia da parte delle truppe americane e inglesi, aveva firmato l’armistizio con i nemici abbandonando gli alleati tedeschi. Poi, il Re Cialtrone, tremante ma abbastanza lucido da portare con sé tutti i beni possibili, compresa la sua collezione di monete dal valore inestimabile, era fuggito per mare, a bordo di un incrociatore, lasciando nei guai più assoluti i suoi sudditi, ma soprattutto i soldati che gli avevano giurato fedeltà. I generali non sapevano come comportarsi e i soldati, che si sentivano abbandonati, avevano in massa gettato le divise dandosi alla macchia.
Intanto i tedeschi, traditi dagli italiani, con le truppe inviate in Italia dopo il 25 luglio di quell’anno – quando Mussolini era stato arrestato per ordine del Re e l’al- leanza con l’Italia stava traballando – avevano occupato, con la perfetta organizzazione che possedevano, tutti i punti chiave, compreso il Comando della Legione Carabinieri di Brescia.
Molti dei soldati che avevano lasciato l’esercito avevano cercato di rientrare ai loro paesi di origine. Altri, non sapendo dove andare né a quale santo votarsi, avevano lasciato le città, dove potevano essere facilmente riconosciuti a causa della giovane età, prendendo la via delle valli e delle montagne. In Val Camonica ne erano arriva- ti parecchi. Erano stati accolti con simpatia e con amore dai contadini e dai pastori che riconoscevano in loro i figli che si trovavano al fronte o che avevano perso nel corso della guerra.
Ben presto i tedeschi emanarono una legge marziale intimando ai fuggiaschi di rientrare nei ranghi, pena la morte. Pochi risposero all’invito, preferendo rischiare la pelle in attesa dell’arrivo dei liberatori anglo-americani piuttosto che combattere agli ordini di chi ritenevano ora fosse il vero nemico. Infatti si cominciava a diffondere la voce che i tedeschi non avevano accolto a braccia aperte come avevano promesso, i soldati rientrati nelle loro caserme. Buona parte di loro, infatti, era stata avviata in campi di concentramento e di sterminio in Germania.

Anche a Breno arrivarono sei militari tedeschi, tutti uomini di una certa età tranne Bernd, un giovane che aveva fatto domanda di entrare nell’esercito tedesco non- ostante fosse riformato perché gravemente menomato alla mano destra. La perdita di tre dita, indice, medio ed anulare non gli permetteva di premere il grilletto di nessun tipo di arma da fuoco.
Erano giunti a bordo di una di quelle vetturette che ave- vano proprietà anfibie e che si arrampicavano sui sentieri montani con estrema facilità, oltre a una motocicletta munita di sidecar che nessuno in paese aveva mai visto. Si erano installati in tre camere dell’albergo Fumo in piazza del Mercato, proprio vicino alla vecchia casa dei nonni di Ernesto. A vederli sembravano dei bonaccioni, ma gli ordini che avevano ricevuto erano feroci e dove- vano essere eseguiti senza esitazione. Avevano il compito di individuare e catturare i partigiani, interrogarli anche con la tortura, e quindi passarli per le armi. Avevano l’appoggio incondizionato della Milizia Fascista, special- mente delle Brigate Muti che avevano già avuto occasione di dimostrare la loro ferocia.
Una delle prime operazioni di rastrellamento era avvenuta a Bienno, dove, con l’aiuto di quel Parroco che il Cappelletti voleva segnalare ai fascisti, erano stati accolti alcuni fuggiaschi. Si vociferava del coinvolgimento di don Pompeo, tanto amico dell’OVRA. L’intervento dei tedeschi e dei loro collaboratori della Muti era stata immediata. Furono presi degli ostaggi e minacciati di morte, ma la reazione degli abitanti del piccolo paese fu violenta, per quanto potesse esserlo la reazione di uomini e donne armati solo di attrezzi agricoli contro tedeschi e fascisti ben forniti di armi per quei tempi ritenute sofisticate. I morti furono parecchi e anche qualcuno delle Brigate Muti ci lasciò la pelle. Nel giro di pochi giorni il clima della valle era completamente cambiato: da una sonnolenta esistenza ad una situazione di guerra.
I tedeschi, con i soli due veicoli, pochi ma efficientissimi, si spostavano velocemente da una parte all’altra della valle e avevano il controllo delle principali vie di comu- nicazione. Qualche volta si inoltravano nei sentieri che salivano verso i monti per rapide incursioni.
Anche al bar Monte Grappa l’atmosfera era cambiata. Non più allegri pomeriggi e serate all’insegna del vino e delle battute salaci, ma incontri tra uomini che più non si fidavano dei vecchi amici; dove i sospetti, magari generati da una parola di troppo, rendevano tutti insicuri e timo- rosi. Persino il farmacista era sempre triste: gli avevano sequestrato il fucile da caccia proprio all’inizio della stagione venatoria e non aveva più la possibilità di raggiungere i casolari isolati per le sue avventure senza rischiare di essere intercettato dai tedeschi. L’andare e venire dal paese senza uno scopo evidente poteva portare a gravi sospetti. Il coprifuoco, imposto dai fascisti, obbligava tutti ad esse- re a casa alle nove di sera. E chi, come il Temperini, aveva un letto freddo, ne era particolarmente colpito.

 

VII

Le lezioni erano riprese nelle piccole aule della scuola di Breno, in ciascuna si accalcavano oltre trenta scolari. Alla signora maestra Lucia quell’anno toccava insegnare alla quarta classe. Erano quasi tutti maschi: le femmine avevano abbandonato la scuola in gran numero alla fine del primo ciclo. Gli scolari appartenevano a tutte le classi sociali: figli di contadini, di operai della Fonderia Tassara – l’unica grande fabbrica del paese – di qualche commerciante e di un paio di professionisti. L’unico nuovo allievo, Ernesto, veniva da Brescia: era il figlio del Comandante del Gruppo dei Reali Carabinieri della città. La sua famiglia, tranne il padre che aveva dovuto restare al suo posto di comando, si era trasferita a Breno per sfuggire ai bombardamenti, accolta nella grande casa del nonno materno, personaggio molto importante e conosciuto in tutta la Valle Camonica essendo un Generale degli Alpini in pensione.
Ernesto era un bambino molto più alto della media, magro magro. Si sentiva spaesato tra i nuovi compagni che comunicavano tra loro quasi sempre in un dialetto per lui incomprensibile. Quando poi si seppe che era nato a Bengasi, in Libia, divenne quasi un’attrattiva per tutti i bambini, guardato con rispetto ma anche con sospetto. Tutti pensavano che non fosse uno di loro. Anche la maestra aveva una sorta di riverenza nei suoi confronti: sia perché papà e nonno erano delle personalità impor- tanti, sia perché la famiglia era culturalmente avanzata ed avrebbe potuto valutare con senso critico il suo operato. D’altra parte insegnare in una classe nella quale vi erano figli di persone assolutamente analfabete e figli di famiglie acculturate non era sicuramente facile. Bisogna- va avere tatto, rispetto e pazienza con i primi rimanendo vigili affinché gli altri non si annoiassero ripetendo più volte cose, per loro, ovvie. E poi una buona maestra doveva anche fare in modo che gli scolari socializzassero tra loro, eliminando le differenze tra gli strati sociali. Bi- sogna dire che Lucia in tutto questo metteva un lodevole impegno avendo vissuto sulla propria pelle, lei, figlia di un netturbino, grandi disagi.

Quando Ernesto cominciò a stringere le prime amicizie e a frequentare i nuovi compagni anche fuori dalla scuola, si accorse di quante cose non sapesse della vita. Uno degli argomenti più trattati era il sesso. I figli dei conta- dini sapevano tutto sugli accoppiamenti degli animali, sia bovini che cani o gatti, ma anche quello che succede- va molto spesso nel letto dei loro genitori in quanto, data la ristrettezza delle loro abitazioni, a volte dormivano tutti nella stessa camera.
Lui non capiva molto bene l’importanza di questi argo- menti in quanto non si era posto mai il problema di sapere se fosse stato concepito e tanto meno come. Ma la cosa fece violentemente irruzione nei suoi pensieri quando, un sabato pomeriggio, recatosi con tutti i ragazzi del paese che avevano già ricevuto la prima comunione, a confessarsi, il vice Parroco, don Arlocchi, gli chiese se “si era toccato”. Lui ci pensò su bene, senza capire il senso della doman- da. Sapendo che non poteva mentire e che sicuramente si era toccato lavandosi le mani, la faccia, le gambe, rispose di sì. Il vecchio prete gli fece una predica conci- tata della quale lui non capì il significato, tranne che queste cose non si fanno e gli comminò, come penitenza, sette Pater, Ave e Gloria.
Ernesto uscì dalla chiesa che quasi si sentiva male. Come avrebbe potuto continuare a vivere? Fu il Mario Bertolasi a dargli il primo aiuto. Vedendolo così di cattivo umore e ben avendo sperimentato l’Arlocchi, capì subito che qualcosa era successo in confessionale. Gli si avvicinò e, senza preamboli, gli chiese:
“T’ha dumandà se te set tucà l’usel? L’ha vulu anche sapee’ come e se te ghel faseved vide?”
Il povero Arlocchi, che nonostante il suo caratteraccio, era in effetti una gran brava persona, era tacciato di tendenza alla pedofilia dagli stessi ragazzi che lo frequentavano e che lui, soprattutto in confessionale, tendeva ad abbracciare ma per puro affetto. Non si era sentito dire che avesse mai avuto altre confidenze con i bambini. L’unica cosa strana era che si infilava, sempre con qualche scusa, negli spogliatoi dell’oratorio quando, dopo qualche partita di calcio o qualche altro gioco prolungato chi, avendo a disposizione vestiti di ricambio – ed erano in pochi – li sostituiva con quelli sporchi di sudore. Di docce, a quei tempi, non si parlava neppure. Ernesto rimase alquanto imbarazzato. Ammettere di non aver capito cosa significava la domanda del prete valeva anche come ammissione di non sapere niente del proprio corpo e dei suoi stimoli. I pensieri gli frullavano in testa sconclusionatamente e lui non riusciva a dar loro un ordine logico né una priorità. Guardò con qualche riconoscenza il compagno, ma non aveva coraggio di raccogliere il suo aiuto e si allontanò senza salutarlo.

A casa disse alla mamma di avere mal di stomaco e all’ora di cena preferì andare a letto senza aver mangiato. In effetti voleva star da solo e ripensare a tutti gli eventi della giornata mettendo un po’ d’ordine nei suoi pensieri. Ma non sapendo da dove cominciare ben presto si distrasse e si addormentò. La mattina dopo a scuola, durante l’intervallo, mentre mangiucchiava due fichi secchi ed una noce – la meren- da tanto invidiata da alcuni compagni che non avevano nulla – gli si avvicinò il Bertolasi che senza altri preamboli gli chiese:
“Ma tu una donna nuda l’hai mai vista?” “No” fu la secca risposta.- Ma che interesse può avere vedere una donna nuda? – pensò Ernesto che però rimase assai turbato.
Per tutto il resto della mattinata non prestò alcuna attenzione alle lezioni perché la domanda del compagno continuava a rigirargli in testa. All’uscita della scuola il Bertolasi lo raggiunse mentre svelto se ne stava tornando a casa e gli disse: “Se vuoi il Sergino ti fa vedere sua mamma” e senza attendere risposta si unì a due amici mettendosi a gioca- re a spallate.
Dopo pranzo, finiti i compiti, Ernesto scese in piazza, proprio sotto casa, dove tanti bambini si ritrovavano per giocare a pallone, con una povera palla fatta di stracci, o a “chi manda in gozza cagna. Questo gioco molto in voga in paese si praticava con delle palline di terracotta. Si faceva una piccola buca, a volte togliendo un sasso dall’acciottolato. Da un paio di metri dalla buca si lanciava la propria pallina e chi riusci- va a sistemarla più vicino alla buca stessa giocava per primo. Doveva colpire con la sua pallina quella dell’av- versario o degli avversari e ad ogni impatto contava “tre!”, “sei!”, “nove”, sino a “18”. Si doveva quindi tirare in buca la pallina. Chi riusciva faceva – non si capisce perché, se non per la rima – “pancotto”. Se si sbagliava un colpo toccava all’avversario giocare. Chi riusciva a fare “pancotto” vinceva le palline degli avversari.
Le biglie erano molto fragili e, essendo probabilmente fatte a mano, di forma molto irregolare. L’urto contro i sassi dell’acciottolato le scheggiava o, addirittura, le rompeva. Ovviamente chi rimaneva senza palline non pote-va giocare e quindi cercava di scambiare qualsiasi cosa per procurarsele.
Il Sergino, che non era un gran giocatore e di palline ne perdeva molte, aveva inventato uno scambio semplice e proficuo. Tutti i sabati pomeriggio sua madre, una gran bella signora con ampie curve, si lavava nel bagno di casa che era dotato di una delle poche vasche del paese. I bat- tenti della porta del bagno erano sovrastati da una finestrella di vetro, attraverso la quale si poteva vedere tutto quello che avveniva all’interno. Il Sergino trasportava fuori della porta una leggera scala di legno e, dietro pagamento di un determinato numero di palline, lasciava salire sulla scala, nel massimo silenzio, il pagatore a godersi lo spettacolo.

Quel giorno non gliene andava bene una: perse quattro partite di seguito e tre palline, nell’urto contro i sassi, si ruppero miseramente. Era arrabbiatissimo ed invidioso dell’Ernesto che, si vedeva, aveva una tasca piena di palline e continuava ad aumentarne il numero vincendo una partita dietro l’altra.
“Domani è sabato” disse il Sergino ad alta voce perché tutti i bambini lo sentissero. Tutti smisero di giocare e scese un gran silenzio. Ciascuno mentalmente fece il conto di quante palline potesse offrire per poter fare da spettatore. Il Bertolasi parlò per primo e disse: “E’ ora che ci venga l’Ernesto. Io penso che ti possa dare venti palline!”
Un “ohh” meravigliato uscì dalle bocche dei presenti. Venti palline erano una piccola fortuna! Il Sergino guardò l’Ernesto che era rimasto frastornato – ma ormai il destino aveva già deciso per lui – con estremo interesse e poi allungò verso di lui le due mani avvicinate a coppa. Contò le venti palline e le diede al compagno di giochi. “Alle cinque” disse il Sergino e trionfante si allontanò dal gruppo. Alle cinque meno un quarto l’Ernesto si presentò a casa dell’amico. Provava una strana sensazione: gli pareva di non essere presente totalmente con la mente e di navigare su un mare non completamente calmo che gli dava, insieme a una lieve sensazione di vertigine, un po’ di nausea. Non sapeva esattamente cosa andasse a vedere né quanto gli interessasse, ma sapeva che DOVEVA andarci. Suonò alla porta che si aprì immediatamente, come se Sergino fosse dietro la stessa in attesa. Imboccarono un lungo corridoio ed entrarono in una stanza mettendosi a giocare con delle figurine, in attesa di veder passare la mamma diretta verso il bagno che si trovava in fondo al corridoio.
Non dovettero aspettare molto. Con l’immancabile sigaretta tra le labbra, fasciata in una vestaglia rosa, la donna passò davanti alla porta senza interessarsi né del figlio né dell’ospite. Sembrava leggermente in trance, forse appena risvegliatasi da un sonnellino pomeridiano.
Entrata nel bagno la porta fu chiusa a chiave. Sergino corse a prendere una leggera scala di legno che appoggiò sulla parete a lato della porta. Chiamò a gesti l’Ernesto, si pose il dito indice sulle labbra a raccomandargli di fare silenzio e, dopo avergli indicato di salire sulla scala, se ne andò correndo senza far rumore.
Ernesto salì lentamente, quasi controvoglia, sino alla finestrella. Gli era venuta una violenta paura di andare a vedere cose “proibite”, ma soprattutto di essere scoperto. In un attimo vide la madre di Sergino raccontare alla sua come e dove l’aveva sorpreso. Sua mamma che, scoppiata in lacrime, lo guardava con dolore e disprezzo con quei suoi occhi verdi che già di solito, difficilmente, esprime- vano affetto. Ma si fece coraggio e guardò: la donna stava inginocchiata davanti allo scaldabagno. Una stufa alta circa un metro e mezzo, di forma cilindrica, ricoperta da un lungo tubo di rame che saliva a serpentina verso l’alto e dentro al quale, evidentemente, scorreva l’acqua da scaldare. La donna stava accendendo il fuoco con un pezzo di giornale e qualche ramoscello secco: aggiunse tre o quattro pezzi di legna e richiuse lo sportello. Si rialzò ed andò davanti allo specchio. Diede con le dita qualche col- petto alla capigliatura quasi a volerla aggiustare e, volgendo con malizia la testa un poco verso destra e poi verso sinistra, rimase a contemplarsi con sulle labbra un leggero sorriso di soddisfazione. E aveva ragione, pensò Erne- sto: aveva veramente un viso ben formato, occhi chiari e vivissimi, un sorriso smagliante nonostante le tante siga- rette che fumava da anni.

Poi si tolse la vestaglia, rimanendo nuda, dando le spalle alla porta. Ernesto, preso alla sprovvista, per poco non ruzzolò dalla scala ma, ripresosi, scese con lo sguardo lungo il corpo esposto totalmente alla sua vista, fermando- si a rimirare le chiappe, un po’ grosse, ma ben tornite. La sua attenzione fu immediatamente attratta da qualcosa di più interessante: i seni riflessi dallo specchio. Lei appoggiò le palme delle mani sotto di loro quasi a soppesarli, li spin- se verso l’alto e quindi uno contro l’altro. Intanto aveva cominciato a canticchiare con quella voce, leggermente rauca, che tanto arrapava gli uomini. Un leggero sorriso di soddisfazione confermò che anche questa parte del corpo riceveva l’approvazione della sua proprietaria.
Infine quel corpo nudo si voltò ed Ernesto rimase a bocca aperta quando vide una selva di peli biondi e ricci, a forma di triangolo, che scendevano da pochi centimetri sotto l’ombelico sino all’inizio delle cosce. E sotto o so- pra i peli nulla, nulla di lontanamente paragonabile a quello che aveva lui in quella posizione. Anzi, PROPRIO ASSOLUTAMENTE NULLA!
La donna fece due passi avanti e si mise a sedere sul water. Poi si udì chiaramente il rumore del liquido che usciva dal suo corpo. Aveva fatto pipì. Ma da dove era uscita? Non gli rimase che pensare che le donne fossero come le mucche, che aveva visto tante volte fare i loro bisogni, liquidi o solidi che fossero, usando sempre lo stesso buco. Ma ci avrebbe ripensato poi, adesso era troppo occu- pato a guardare quel corpo che gli veniva offerto, vera- mente in tutta la sua nudità. Lei lasciò il water, lo richiuse con la tavoletta e si avvicinò allo specchio prendendo dalla mensola un paio di pin- zette. Iniziò a togliersi qualche pelo dalle cosce e poi scese sotto le ginocchia. E poi più in basso. Ma per comodità si risedette sul water, alzò la gamba destra e appoggiò il piede sulla parte anteriore della tavoletta. E fu allora che Ernesto la vide: una ferita, aperta, rosea che iniziava da sotto i peli e finiva giù quasi all’attaccatura delle natiche. Questa volta non rimandò il proponimento di cercare di capire in un secondo momento. La cosa lo intrufolava troppo, doveva vedere bene e, se possibile, capire.

Purtroppo la depilazione della parte inferiore della gam- ba durò poco tempo, ma a lui il tempo sembrò ancora più breve.
Iniziò poi la depilazione della gamba sinistra ma, quando fu raggiunta la posizione che Ernesto tanto attendeva, dalla sua angolazione non si riusciva che a vedere la parte laterale della coscia sinistra e una chiappa. Un leggero sudore, lui che non sudava mai, cominciò a bagnargli le spalle e uno strano formicolio si fece sentire nella zona del basso ventre. Ma lui non poteva ancora capire da cosa, effettivamente, queste due sensazioni derivassero. L’acqua, finalmente calda, aveva cominciato a scendere nella vasca e quel corpo nudo, bagnato ed insaponato pareva ancora più bello. La donna si massaggiava tutto il corpo insaponandosi e traendone un evidente piacere. Alla fine uscì dalla vasca e, aiutandosi con un telo azzurro che ben si addiceva al colore dei suoi capelli, a quello dei peli e della pelle, cominciò ad asciugarsi con lenta lascivia. Prima il seno, le spalle, poi il ventre, i peli del pube e poi… e poi si dedicò alla ferita che per un mo- mento apparve ad Ernesto, leggermente aperta, rosea. Come un fiore di primavera! A questo punto non ce la fece più, scese dalla scaletta e fuggì via.

VIII

Un gigante dagli occhi verdi e dai capelli rossi, una leggenda tra i pastori dell’alta valle che lo consideravano il loro re. Uno che non sbagliava mai l’accesso a un pascolo, che non aveva mai perso una bestia in vita sua, che era capace di caricarsi in spalla un vitello, nato prematuramente, e portarlo, camminando ore e ore, alla
stalla a valle perché ricevesse le necessarie cure.
Era il padrone delle montagne che dividevano la Val Camonica dalla Val di Scalve. A lui si rivolgevano i gros- si allevatori per affidare le vacche da portare agli alpeggi, sicuri per la loro incolumità e perché fossero fatti onesti conti sul formaggio prodotto dal latte dei loro capi. Ma anche escursionisti che volevano raggiungere le alte vette che si affacciavano sulla valle, senza correre grossi rischi. Sapeva in anticipo di ore se il tempo sarebbe cambiato, conosceva le pareti ove era possibile raccogliere le stelle alpine, dove aveva fatto il nido il gallo cedrone o il for- cello, dove cacciare, d’inverno, le lepri dal mantello bianco, le grasse marmotte o quei pochi daini che erano rimasti. Sapeva cucinare i peluc raccogliendoli al momento della giusta maturazione, annegandoli nel burro di baita che ha quel poco di profumo di affumicato che esalta il palato. Peluc e polenta: un piatto da grande intenditore. La mascherpa, pur nella sua povertà, fatta da lui aveva quel qualcosa in più da essere richiesta dalle ricche famiglie del bresciano.
Uno di quei personaggi dei quali, come si dice, si è perso lo stampo. Il suo corpo emanava uno strano odore, non di sporco, ché ci teneva moltissimo alla pulizia persona- le, ma quasi di selvatico, un odore che piaceva alle donne (e molte, anche tra le così dette della buona società, se ne dovevano essere impregnate in esaltanti incontri amorosi) ma che gli permetteva anche di poter avvicinare gli animali che cacciava a distanze molto inferiori a quelle che erano consentite agli altri cacciatori.
La sua pazienza negli appostamenti era proverbiale. Riusciva a stare ore fermo alla posta in attesa che la preda, ormai sicura di non essere braccata, gli arrivasse a porta- ta di tiro, un solo tiro, che quasi sempre risultava morta- le. Vederlo tirare al gallo cedrone in volo, quando scendeva rasente le cime degli alberi dalle vette a 100 chilo- metri all’ora, era uno spettacolo che, purtroppo, era con- cesso a pochi. Lui e il suo bracco, di nome Diana, erano veramente leggendari.
Aveva più di sessant’anni ma ne dimostrava venti di me- no con quel fisico possente, ancora elastico nel camminare e nell’arrampicarsi.
Nemico da sempre dei tedeschi, o comunque di tutti quelli che parlavano quella lingua dura adatta solo al comando, che gli avevano ucciso il fratello, nei primi giorni di battaglia della guerra ’15-’18.Aveva odiato Mussolini da quando si era alleato coi cruc- chi per combattere le altre nazioni europee. L’arrivo dei militari, alleati o occupanti a seconda dei punti di vista, in paese lo aveva reso ancora più restio a venirci se non quando aveva necessità di qualcosa di urgente. E quel giorno ci stava andando per rifornirsi di sale, tabacco e fiammiferi. Sarebbe stata una visita breve dal solo tabac- caio, se non avesse fatto due incontri che gli cambiarono la vita per molto tempo.

Appena finito il viottolo che portava al Cerreto del mat Ruscun e arrivato in piazza S. Agostino, vide venirgli in- contro, uscito precipitosamente dalla farmacia, il dott. Temperini. I due, vecchi compagni di escursioni, grandi bevute e battute di caccia, neppure si salutarono. Il farmacista, quando gli arrivò a pochi metri, gli sussurrò: “Andiamo a bere un bicchiere che ho da parlarti”.
Entrarono nel bar, vuoto a quell’ora della mattina, si diressero al bancone e, fattosi dare un bicchiere di vino, si accomodarono a un tavolo d’angolo. Il farmacista entrò subito in argomento:
“Russì, così non si può andare avanti, siamo diventati tutti delle signorine. Capisci, sei tedeschi tengono in scacco tutto un paese, tutta una valle… e noi non facciamo niente. Cacciamo giù tutto come se fosse una cosa naturale. A quelli dobbiamo dare una lezione”. Il Russì lo guardava serio, continuando a muovere lo sguardo a destra ed a sinistra per controllare che nessuno li ascoltasse, ma era attento e continuava ad annuire alle parole del Temperini. “Con quella maledetta macchina corrono su e giù per la valle tutto il giorno e ci tengono tutti sotto controllo; non si può uscire dal paese perché quelli della Muti gli danno una mano e all’improvviso te li trovi davanti in qualsiasi viottolo che va verso i monti. E se ti fermano, vogliono i documenti… e perché si trova qui? e da dove viene? e cosa c’è nella borsa? e di qua e di là. Russì, son tre mesi che non scopo, non riesco più ad andare a trovare le mie ami- che! Ma non è per quello, è che se ci caghiamo tutti addosso per noi è finita. Nel ’18 avevamo conquistato un po’ di dignità, ma ora l’è finita sotto i piedi!” Il Russì stette in silenzio un paio di minuti e poi disse, sottovoce ma risoluto:
“Gli facciamo saltare in aria la macchina!” Il farmacista sgranò gli occhi, lo guardò fisso e poi, menandogli una gran botta su una coscia, si mise a ridere e a voce altissima gli disse:
“Cristo, sei sempre il migliore”, pensando scherzasse. Poi lo guardò meglio in faccia e dalla sua espressione, così dura, capì che la decisione era seria, forse maturata da tempo come se tutto fosse già programmato, qua- si già avvenuto. “Fermati al Fumo che ci mangiamo qualcosa insieme. Andiamo nella tana del lupo così nessuno dubiterà di niente. Ci vediamo a mezzogiorno” disse il farmacista diventato a sua volta teso e pensieroso. Russì fece un cenno di assenso, si alzò e, mentre il farmacista si avvicinava al banco per farsi riempire nuovamente il bicchiere, uscì dal locale. I discorsi del farmacista gli avevano risvegliato pensieri che gli giravano nel cervello da tanto tempo. Pensieri che non aveva mai elaborato ma che erano sicuramente dettati da un profondo stato di disagio e che ora lo stimolavano, fortemente, a fare qualche cosa. Adesso aveva fretta, già che era in paese, era meglio se riusciva ad incontrare le persone giuste per poter cominciare a programmare l’attentato. Come sempre quando avvistava una preda si lasciava prendere dalla smania di iniziare l’inseguimento – in questo caso la preparazione – per raggiungere lo scopo. Mentre parlava col farmacista gli era venuto in mente che un aiuto impor- tante poteva venire dal Martin Bascià, che lui conosceva come un fratello e del quale si fidava completamente.

IX

Martin Bascià era arrivato in paese intorno agli anni Trenta, ragazzo. Nessuno si era mai preso la briga di sapere da dove provenisse, al seguito di una vecchia zia che, occupato un fondaco nelle case sotto il lavatoio, vi si era installata senza mai uscire se non per fare la spesa. Da dove provenissero i soldi, che spendeva abbondantemente almeno per i generi alimentari, non si sapeva. Né si sapeva dove li custodisse. Martino era di pelle scura, neri erano gli occhi e i peli: “sembra un scurbat”, diceva qualcuno, ma altri lo chiamavano “u scaraffone”. Nessuno riuscì mai a scoprire quando e come sparì la zia. Il panettiere e il macellaio un giorno videro presentarsi, a far acquisti, il nipote che continuava a comprare la stessa quantità di cibo, come se a mangiare fossero sempre in due. Ma con il passare del tempo e dalle poche parole che i negozianti riuscivano a strappargli, si seppe che la zia non abitava più con il ragazzo. Anzi, era pro- prio sparita forse per ritornare nella patria d’origine. Nonostante il paese brulicasse di curiosi, nessuno si inte- ressò mai seriamente per chiarire la situazione. Passava il tempo, Martino cresceva, aveva sempre i soldi per paga- re e non dava fastidio a nessuno. Diventato un giovane uomo, un giorno sparì anche lui dalla circolazione per ripresentarsi, dopo qualche mese, accompagnato da tre belle ragazze che fece iscrivere all’Ufficio Anagrafe asserendo fossero sue cugine.
Nel vecchio, piccolo fondaco, al padrone del quale anche da lontano aveva continuato a pagare l’affitto, ora risiedevano in quattro.
Martino tutte le mattine si alzava all’alba e, dopo un’abbondante colazione, partiva, tirando un carretto, alla raccolta di qualsiasi cosa trovasse buttata via lungo le strade, nei cortili o nelle aie dei contadini: carta, vetro e me- talli. Tornava alla sera, prima di cena, con il carretto sempre pieno. Lo scaricava davanti al fondaco e, dopo esser- si accesa la pipa e aver preso posto su una comoda poltrona che aveva portato fuori da casa, dirigeva le tre ragazze nella suddivisione di quanto aveva raccolto.
Questo succedeva tutti i giorni della settimana, sabati e domeniche comprese. Solo al lunedì Martino trasporta- va il suo piccolo tesoro: il metallo alle ferriere Tassara; il vetro alla ditta Pontebba che poi lo rivendeva alle vetrerie; carte e cartoni giù al Lanico dove venivano ammucchiati vicino ai binari del treno, in attesa fosse raggiunto il quantitativo necessario a riempire un vagone da man- dare alle cartiere. Di soldi doveva guadagnarne abbastanza perché ci vive- vano in quattro, e ai vicini sembrava abbastanza bene. La cosa che suscitava grande invidia era che le ragazze erano sempre in preda ad una grande allegria, durante tutta la giornata o cantavano o scherzavano ridendo anche sguaiatamente. Comunque nel loro gruppo non accettavano nessuno e con i vicini scambiavano solo le parole per una civile convivenza. Non si sapeva cose succedesse alla sera nel fondaco ma, data la costante allegria delle ragazze, qualcosa doveva succedere e, sicuramente, di molto piacevole. In paese, privi di notizie certe, si cominciò a mor- morare che le tre ragazze fossero, in effetti, il piccolo harem di Martino che, nonostante le fatiche di un lavo- ro pesante, riusciva ad accontentarle tutte e tre.

Naturalmente gli uomini sbavavano, invidiosi, pensando che uno straccione come Martino era riuscito ad attuare, così sfacciatamente, il sogno nascosto di ogni uomo: far convivere sotto lo stesso tetto moglie, amante e amante di riserva. Le donne, che avrebbero dovuto sentirsi parte lesa, invece, anche sulla base di quella allegrezza che le tre concubine dimostravano tutti i giorni, parteggiavano per Martino, che un giorno divenne per tutti Martin Pa- scià, storpiato poi, per ignoranza, in Martin Bascià.
Un giorno Martino vicino al lavatoio, in un posto al ri- paro, legò un asinello. La mattina dopo arrivò con un piccolo carretto e con gli accessori per attaccarci l’asino. La ditta si ingrandiva, Martino riusciva a visitare più posti, a recarsi nei paesi vicini e, davanti al fondaco, la quantità dei materiali raccolti continuava a crescere.
Un giorno mentre si trovava a Pescarzo, una frazione di Breno, venne avvicinato da una giovane vedova che ave- va deciso, dopo la morte del marito e non avendo figli, di trasferirsi presso una sorella che risiedeva a Brescia. Aveva bisogno di guadagnare e, forse, in città avrebbe potuto trovare da lavorare, magari a fare le pulizie in qualche famiglia benestante. La donna gli offrì di ritira- re, per quattro soldi, mobili e suppellettili della casa che stava per abbandonare. Martino accettò ben volentieri e da quel giorno si trovò, oltre all’abituale raccolta, a com- merciare in mobili usati e, di rado, in pezzi di antiqua- riato. Comprò il fondaco dove abitava con le tre concubine, lo allargò; prese in affitto un magazzino dove cominciò ad accatastare i mobili che non riusciva a rivendere subito. Insomma, incominciò una attività di compra-vendita che venne conosciuta praticamente in tutta la valle.
Ora, quasi sempre, erano i venditori a cercare lui; alcune volte offrendogli persino gli arredamenti in conto vendita, permettendogli così di tenere sotto controllo una grande quantità di merce senza grossi impegni finanziari. Quando ancora era ragazzo, durante uno dei suoi giri in cerca di rottami, Martino si era avvicinato a una cascina che sembrava abbandonata, attraversando un boschetto al centro del quale vi era quello che restava di un vecchio pollaio. L’attenzione fu attratta da un grosso pezzo di ferro, ormai arrugginito, che aveva una forma strana. Il ragazzo, cercando di rivoltarlo, lo spinse col piede. Un urlo terribile percorse la valle. Martino, tra dolori indici- bili, cercava di staccarsi quella morsa di ferro che gli lacerava la gamba. Ma la tagliola per volpi era fatta in modo tale che solo un uomo robusto riuscisse ad aprirla. Guidato dalle urla del ragazzo, il Russì, che stava pascolando alcuni capi proprio sopra la cascina abbandonata, venne in suo soccorso. Aprì con grandi sforzi la tagliola, tolse la gamba di Martino, se lo caricò sulle spalle per poi adagiarlo sul carretto del ragazzo e partire verso l’ospedale di Breno. Per fortuna nessun nervo era stato leso e la gamba fu sistemata con una ottantina di punti di sutura ed ingessata. Martino, da quel giorno, ebbe per il suo soccorritore una grande riconoscenza, quasi una venera- zione. Il Russì non si limitò, infatti, al trasporto in ospedale, ma andò a visitarlo durante i tre giorni di ricovero.

 

Fu lui a trasportarlo a casa e a portargli da mangiare sino a quando il ragazzo non fu in grado di camminare. Quando Martin Bascià vide venirgli incontro l’amico Russì, gli rivolse un gran sorriso per poi abbracciarlo fraternamente apostrofandolo scherzosamente: “Vecchio orso delle montagne, è la fame di femmine che ti ha fatto scendere a valle?” e dopo avergli battuto affettuosamente la mano sulla spalla lo invitò ad entrare nel Bar Littorio per bere un aperitivo. “Sto volentieri con te, ma aperitivi niente. Se no con la mia morosa rendo poco e lei ci tiene alle mie prestazioni. Te e le tue donne come andate? Ce la fai a mettere al mondo un figlio, che sarebbe ora? Mi sa che non ci sai fare. Vedrò di trovare il tempo per darti qualche lezione e magari… una mano”. Tutti e due scoppiarono a ridere e il Russì prese l’amico per un braccio, tirandolo verso il centro del paese dov’era il tabaccaio. Con voce più bassa chiese all’amico: “Come va con i tedeschi? Ti rompono le balle anche a te? Brutti bastardi”.
“Non li posso più vedere” rispose Martin. “Tutte le volte che mi incrociano e vedono che ho il carretto pieno me lo fanno scaricare neanche nascondessi partigiani o bombe. Un po’ lo fanno per dispetto, ma soprattutto lo fanno perché ormai hanno paura di tutto e di tutti. E poi girano sempre intorno a casa mia con la speranza di incontrare una delle mie donne e vedere di combinarci qualcosa. Io un giorno gli sparo a quegli affamati. La figa se la cerchino tedesca. Potevano pensarci prima di veni- re a rompere i coglioni a noi!” “Ho un progettino per castigarli” disse il Russì, “e forse potresti darmi una mano, naturalmente se te la senti”. “Con te sempre e ovunque” gli rispose. Dal tono della voce si capiva che era veramente disposto a seguire l’ami- co in ogni avventura.

 

(continua …)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“La passione per la libertà” di Quaglieni, al via il tour di presentazione in tutta Italia

LIBRI / Martedì 20 luglio alle ore 21,15 per la rassegna Autori in Giardino per iniziativa del Comune di Poirino, e   Giovedì 22 luglio alle ore 21, per il ciclo “Patto per la Cultura” patrocinato dal Comune di Loano, presso il foyer dell’Arena estiva “Giardino del Principe” (Loano, piazza Italia), verrà presentato il libro di Pier Franco Quaglieni “La passione per la libertà. Ricordi e riflessioni”. Buendia Books, 2021.

Interverrà la giornalista Grazia Noseda, letture dell’attrice Giulia Isnardi. Entrata libera fino ad esaurimento dei posti. Seguiranno in agosto presentazioni a Bardonecchia il 3 e il 4 ad Exilles  il 22 al Sestriere e altre presentazioni in Liguria ad Alassio, Andora, Bordighera e in Versilia. Il libro verrà presentato da settembre nelle grandi città: Roma, Napoli , Milano, Venezia ecc.
Il libro, con il rigore e la chiarezza che sono propri dello storico Pier Franco Quaglieni, ci ricorda alcune figure della storia italiana recente, ma affronta anche temi controversi della storia e dell’attualità, aiutandoci a liberare le nostre menti dalle semplificazioni manichee e da certi revisionismi che stanno emergendo e soffocando la ricerca storica. La passione per la libertà, che riecheggia il titolo del saggio di Mario Pannunzio su Tocqueville, è un invito al rispetto di tutte le idee, uno dei cardini della civiltà liberale
Dichiara l’autore : “E’ un libro molto diverso dai miei altri precedenti  perché rappresenta una rivisitazione complessiva della storia italiana dal fascismo in poi, andando oltre i luoghi comuni e il conformismo attuale. Affronto temi ancora divisivi come le foibe e rifletto sui temi della laicità rispetto al Cattolicesimo e all’Islam . Una parte  del libro riguarda il mio ritorno alla pratica religiosa in pieno COVID  che è avvenuto proprio in Liguria sotto la guida di un monsignore alassino. Non è un libro  destinato a passare nell’indifferenza , farà discutere forse anche animatamente  e forse verrò anche attaccato dalla solita intellighenzia intollerante. Ma ho voluto scrivere in assoluta libertà il mio pensiero ,senza timori reverenziali per nessuno. Non lo ritengo un merito, ma un dovere.”

Gambarotta detective svela il giallo della rapina del secolo

LIBRI / Ricordo Bruno Gambarotta affiancare Adriano Celentano con evidente imbarazzo. In televisione. Cercava di intercettare i discorsi surreali, senza capo ne coda, del molleggiato meneghino, con qualche risposta improvvisata. Facendogli da spalla.

Fu il suo esordio davanti alle telecamere. Inventandosi quel ruolo resosi necessario all’ultimo momento. Su Rai tre. Il programma era ”Svalutation”. Erano i tempi di Telekabul, di Angelo Guglielmi e del Gruppo 63 a viale Mazzini, di Sandro Curzi al telegiornale. Quella Rai tre. La rete più a sinistra della sinistra. Faceva un pò il verso a Felice Andreasi, il più icastico e esilarante dei comici torinesi del cabaret e del nostrano avanspettacolo, poco conosciuto dal grande pubblico, ma famigliare a chi della torinesità, porta il marchio di fabbrica. E divenne un famoso di nicchia nazionalpopolare. Astigiano di nascita e torinese di adozione, ha fatto del Piemonte e in particolare di Torino, il metacommento del mondo più vasto. Una lente di ingrandimento dei vizi e delle virtù dell’uomo contemporaneo, antieroe del quotidiano, comico spaventato guerriero, così l’avrebbe definito Stefano Benni. Nacque nella città di Vittorio Alfieri nel 1937 e lavorò in Rai per trent’anni, da programmista duro e puro. Così ”fortissimamente volle ”. Film e telefilm portano la sua firma, a nostra insaputa. Con il racconto-documento ” Il Postino spara sempre due volte ” (edizioni La Stampa, 2008, pagg. 193 euro 7,90) da vero e proprio sociologo della devianza, scartabellando le cronache giornalistiche e facendo finta di non sapere come va a finire, scopre i fatti man mano che accadono e un pó come il Peter Falk-Tenente Colombo della nostra adolescenza, per induzione e estrazione, ci porta a scoprire l’intreccio e le dinamiche, di un fatto di cronaca nera di rilevanza nazionale, avvenuto nel 1996: il tentativo di furto del secolo alle Poste di Torino. Il poliedrico Bruno Gambarotta, ha scritto per La Stampa, per anni, per la rubrica ” Storie di città” sul supplemento ” Torino Sette”, collaborando per l’ inserto ”Tutto Libri”, sempre dell’ammiraglia torinese. Per l’editrice di via Marenco, dalla sua prolifica penna, sono nati 700 racconti, raccolti in quattro volumi e tre spettacoli. Ha esordito nella narrativa nel 1977, per i tipi della Mondadori, con il romanzo ”La nipote scomoda”, scritto a quattro mani con Massimo Felisatti. La città di Torino e i torinesi sono la fonte costante delle sue narrazioni, un pó come Parigi per Georges Simenon. Si possono ricordare tra gli altri per Garzanti ”Torino lungodora Napoli” (1995) da cui è stato tratto il film ”Libero Burro” con Sergio Castellitto e ”Tutte le scuse sono buone per morire ”. In occasione della Fiera del Libro del 2006 è uscito ” Il codice gianduiotto” Morganti editori. La risposta italiana al Codice da Vinci. Nel 2007 per Ambaradan ha dato alle stampe ”Giallo polenta” scritto a quattro mani, modello Fruttero-Lucentini, con Renzo Capelletto. Nella recente trasmissione televisiva ‘Viaggio nella Grande Bellezza’ intervistato dal giornalista Cesare Bocci, narra della distilleria Carpano, della ricetta del ‘bicerin’, bomba iperglicemica ad uso e consumo della nobiltà sabaudo risorgimentale, nonché dei nostri coevi abitanti postmoderni. Ci racconta delle radici savoiarde dell’espressione linguistico gergale «fare una figura da cioccolatai» figura retorica al cacao, sovente descrittiva della nostra penisola. Il tutto ripreso in Galleria Subalpina. Il salotto buono taurinense. Visionare per sapere. In open source.

Aldo Colonna