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Un terreno ancora inesplorato: il rapporto di Ezra Pound con la musica

LIBRI / Nel volume di Mattia Rossi

Ezra Pound, poeta e critico americano, che visse a lungo in Italia (e vi morì nel 1972 a Venezia) è conosciuto soprattutto per la sua opera letteraria e per la sua ammirazione per il fascismo e Benito Mussolini. Quasi sconosciuto ai più, invece, è il rapporto che ebbe con la musica. ‘Ezra Pound e la musica – Da Omero a Beethoven’, libro edito per i tipi di Eclettica Edizioni nella collana Secolo Breve di Mattia Rossi ha l’indubbio merito di riscoprire questo legame che per l’autore americano non fu secondario, anzi per Pound il rapporto tra la poesia e la musica era fondamentale ed irrinunciabile. La prima riga del breve saggio poundiano, ‘Il verso libero ed Arnold Dolmetsch’ del 1917, che Rossi riporta integralmente, è emblematica: “La poesia è una disposizione di parole disposte in musica’. Nell’excursus di questo rapporto tra le due arti, che durerà per tutta la vita dello scrittore, vengono approfondite le varie fasi di approccio alla Musa, dallo studio della musica sacra, alle recensioni di Pound come critico musicale prima, come saggista musicale poi, alle sue composizioni, all’organizzazione dei concerti a Rapallo, con gli ‘Amici del Tigullio’, all’importante e decisivo ruolo avuto nella riscoperta di Vivaldi. E sullo sfondo c’è la figura di Olga Rudge, violinista, molto amata dal poeta (che gli diede una figlia, Mary, tutt’oggi vivente e custode della memoria del padre). Il libro, che si concentra esclusivamente sulla figura di Pound nel suo rapporto con la musica, tralasciando ogni altro aspetto, è ricco di riferimenti alla cultura italiana ed internazionale del Novecento e costituisce un ottimo stimolo di approfondimento anche per chi non dotto o profondo conoscitore del mondo musicale.  Mattia Rossi, in questo scritto, unisce la capacità comunicativa diretta propria del giornalista con la conoscenza della materia del critico musicale. Ha, infatti pubblicato studi ed articoli specialistici sul canto gregoriano, sulla musica trobadorica, sulla musica nella Commedia di Dante in diverse testate nazionali ed internazionali.

Massimo Iaretti

 

 

Torino tra architettura e pittura. Giuseppe Penone

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

9) Giuseppe Penone (1947-)

La verità è che con l’inizio della bella stagione in classe non ci resisterebbe nessuno, né gli allievi, né tanto meno gli insegnanti. La primavera è tutta una poesia, il sole tiepido penetra attraverso le finestre e invade le aule, il venticello che al mattino è ancora freddo si fa piacevole brezza dalla tarda mattinata in poi, i colori della natura si accendono e tutto diventa un irresistibile richiamo per uscire all’aria aperta. Inutile dirlo, il ritorno di Persefone scuote gli animi degli studenti esattamente come il gasatore infervora le molecole dell’acqua e la rende frizzante; gli scolari diventano sensibilissime palline da ping-pong, guizzano tra i banchi appena trovano una scusa sostenibile e ormai il cambio d’ora non ha nulla da invidiare all’intervallo. È come se il mondo fuori emettesse dei richiami a ultrasuoni, che entrano nelle nostre menti impercettibilmente: uscire, uscire, uscire…
Ma è proprio nelle situazioni d’emergenza che vengono “le idee luminose”. Così ho pensato di trasformare questo irrefrenabile sentire primaverile in una riflessione costruttiva riguardo al rapporto “uomo-natura”. Certo tale titolazione è a dir poco vasta e si presta a diramarsi in diversi ambiti, dalla letteratura all’arte all’educazione civica, si può riflettere altresì sull’importanza dell’ecologia o su quanto l’ambiente che ci circonda influisca sul nostro stato mentale.
Le considerazioni sono tantissime e i ragazzi, quando si tratta di argomenti che li interessano sul serio, si dimostrano motivati oratori.
Da un punto di vista artistico-letterario si può affermare che l’argomento “uomo-natura” è antico come il mondo. Agli albori del tempo, in epoca preistorica, la condizione naturale e ambientale è aspetto costitutivo delle primissime pratiche artistiche, le pitture rupestri, ad esempio, dimostrano come l’uomo delle caverne sia riuscito a tramutare la mera materialità in manifestazione creativa, con lo scopo di sondare ciò che lo circondava.

Non solo, si pensi ai miti classici e a quanto la natura sia stata fonte d’ispirazione per aedi e filosofi; la civiltà greca “in primis”, attraverso la “cosmogonia”, tramuta gli Dei in elementi della natura, così la Terra diventa Gea, il mare Poseidone, il vento Eolo e via discorrendo.
Già solo con questa più che semplificata premessa si comprende che l’argomento è sconfinato e fitto di diramazioni e incisi.
Proviamo ora a restringere leggermente il campo e focalizziamo l’attenzione sull’ambito iconografico. Con l’epoca rinascimentale il paesaggio – e dunque la natura- acquista una sua propria importanza, lo sfondo diventa ambientazione scenografica, gli elementi raffigurati si fanno sempre più realistici e dettagliati e si caricano di significati simbolici che concorrono alla narrazione del soggetto scelto. Giusto per proporre un esempio concreto, per Leonardo da Vinci (1452-1519), uomo rinascimentale per eccellenza -su cui non provo nemmeno a dilungarmi in questo contesto perché ne verrebbe fuori un inciso chilometrico- la natura è un costante oggetto d’indagine; per l’artista lombardo l’ambiente va studiato e raffigurato con attenzione, esso ha la stessa importanza delle figure che ricoprono il ruolo di protagoniste, così come si evince dalla “Vergine delle Rocce” (1483–1485), opera nella quale la vegetazione è raffigurata con precisione scientifica, i fiori e le piante paiono illustrazioni botaniche e la resa dell’atmosfera confluisce nel risultato ultimo dell’aspetto delle figure, non più nette e contornate da una linea scura, ma sfumate, attraverso un sapiente uso della colorazione e della luce.

Con il trascorrere dei secoli la rappresentazione dell’ambiente acquista sempre più importanza, nel Seicento nasce il genere del paesaggio, nel Settecento invece si diffondono nuove correnti pittoriche quali il “vedutismo” e il “paesaggismo”. È però con il Romanticismo che il contesto naturale si afferma definitivamente come soggetto autonomo delle opere d’arte. A caratterizzare la poetica romantica vi sono due concetti principali: il “sublime” e il “pittoresco”. Entrambe le tematiche trovano la loro espressione nella natura e nel suo duplice aspetto, da un lato “locus amoenus” virgiliano, dall’altro manifestazione spettacolare ma spaventosa, “l’orrido che affascina” di Foscolo e Leopardi. I massimi esponenti del Romanticismo sono gli inglesi Turner e Constable e il tedesco Caspar David Friedrich. Questi pittori indagano in maniera simbolica il rapporto “uomo-natura”, arrivando però a conclusioni molto differenti, per Constable l’ambiente naturale è rassicurante, fonte di religiosità e tranquillità, al contrario per Friedrich e Turner la natura è qualcosa di irrefrenabile, devastante, stupefacente, che pone l’essere umano di fronte ai propri limiti. Una delle tele che meglio esprime il sentire dell’artista tedesco è “Il mare di ghiaccio” (1823–1824), in cui è raffigurata una nave che soccombe sotto la pressante e inesorabile forza delle calotte polari che dominano la scena e si ergono a protagoniste del dipinto.
Il Novecento si pone sempre come discorso a parte, le due guerre fanno sì che gli artisti sviluppino un’ottica pessimistica e disillusa, anche nei confronti della natura, non più confortevole ma maligna. Questo sentimento di totale scoramento sarà alla base dei filoni letterari della distopia e della fantascienza, particolarmente apprezzati negli anni Settanta. Nessuna corrente artistica però si è incentrata sul rapporto “uomo-natura” quanto la “Land Art”. Siamo negli anni Sessanta e in ambito artistico nasce un modo nuovo di affrontare l’argomento: gli artisti non si limitano ad illustrare o dipingere l’ambiente, essi agiscono direttamente sulla natura e sul territorio, creando opere altamente impattanti, caratterizzate dalla precarietà dell’essere e continuativamente soggette alle variazioni climatiche. Altra peculiarità di queste creazioni è quella di non poter essere viste nella loro interezza con un semplice sguardo, è necessaria infatti una prospettiva aerea o un elevato luogo d’osservazione per osservarle completamente, poiché si tratta in genere di opere enormi, che si estendono per lunghissimi tratti di territorio.
Ha eseguito anche lavori inscrivibili al settore della “Land Art” l’artista di cui vorrei parlarvi oggi nello specifico, personaggio parimenti conosciuto come “artista degli alberi”, la cui ricerca è tutta sviluppata intorno alla tematica “uomo-natura”.

Si tratta di Giuseppe Penone (1947-), originario di Garessio, un non troppo grande comune piemontese, in provincia di Cuneo. Penone si forma a Torino presso l’Accademia Albertina di Belle Arti, dove conosce Giovanni Anselmo (934)-) e Michelangelo Pistoletto (1933-), con i quali, a partire dal 1967, entra a far parte del movimento dell’ “Arte povera”.
L’anno successivo, nel 1968, espone con successo alcune sue sculture al “Deposito d’Arte Presente”; i suoi lavori sono realizzati con materiali poco convenzionali quali piombo, rame, cera, pece, legno, in essi è implicata l’azione naturale degli elementi, come esemplifica “Scala d’acqua: corda, pioggia, sole”.
L’artista è da sempre interessato a sondare le possibilità che ha l’uomo di interagire con la natura circostante, in tal senso sono celebri gli interventi che porta avanti nei boschi di Garessio, con il preciso scopo di intervenire nel processo di crescita degli alberi (“Alpi marittime”, 1968). In questa situazione l’artista decide di “lasciare un segno” del suo passaggio ed esegue dei calchi realistici delle proprie mani e braccia, dopodiché li installa su alcuni piccoli tronchi. Con il passare del tempo gli alberi crescono, ma tale crescita è sensibilmente e inevitabilmente modificata dalla presenza degli arti bronzei di Penone, che stringono e affondano nella corteccia come corpi estranei artificiali di cui la pianta non può liberarsi.
L’arte di Penone non è univoca, egli ricorre anche alla “performance”, alla “body art” e all’ “arte ambientale”, ma se possono cambiare le modalità d’azione, rimane invariata la sua prerogativa di studiare e approfondire il rapporto “uomo-natura”, sotto forma di un costante dialogo complesso tra “io e mondo”. Alla tematica ambientale fanno riferimento alcune sue opere che si avvicinano alla poetica della “Land Art”, come i lavori che egli esegue per le personali al Kunstmuseum di Lucerna (1977), al Museum of Modern Art di New York (1981) o al Musée d’art moderne de la Ville di Parigi (1984) o ancora ai grandi alberi in bronzo destinati ad alcuni spazi pubblici come il “Pozzo di Münster” del 1987, il “Faggio di Otterloo” (1988), l’“Albero delle vocali” inaugurato nel 2000 alle Tuileries di Parigi o l’“Elevazione” a Rotterdam del 2000.

Alla base delle creazioni di Penone vi è l’idea che la scultura non sia un’operazione legata alla vista, bensì al tatto; l’artista stesso, infatti, mentre scolpisce, aderisce e si immerge nel materiale dell’oggetto che sta lavorando e tale aderenza comporta dei cambiamenti nell’oggetto stesso. A sostegno di tale tesi, Penone riporta questo esempio: “Se noi prendiamo in mano una tazzina, è questa tazzina ad essere una scultura. Tuttavia nel momento stesso in cui la nostra mano afferra la tazzina, essa prende la forma di quest’ultima. Quindi possiamo affermare che solamente in quel momento la mano può essere considerata una scultura”.
Da qui nasce la riflessione che con l’impronta di una mano si possa intervenire sulla crescita di un albero: l’idea si concretizza e nascono i vari calchi in bronzo e acciaio che entrano in contatto diretto con i tronchi e diventano specchio della relazione “uomo-natura”, “io-mondo” che caratterizza tutta la ricerca artistica di Penone. Da questa particolare visione e da questa peculiare tipologia di intervento artistico si sviluppa il processo che lo porta a studiare le prerogative proprie della materia e insite all’interno di un albero.
Tra i lavori più conosciuti vi sono le numerose versioni di “Alberi”. Si tratta di travi di legno di diverse lunghezze che l’artista ha pazientemente intagliato e scavato con lo scopo di mettere in evidenza, all’interno della trave stessa, la forma naturale dell’albero. Lo scavo deve avere una precisa profondità, in relazione ad uno degli anelli che corrisponde all’età della pianta, la quale riemerge dal legno, più giovane e con i rami, individuabili grazie a nodi. L’altra parte della trave però viene lasciata intatta, sia per mostrare l’intervento dell’artista, sia lo sviluppo naturale della crescita dell’albero.
Dagli anni Ottanta in poi Penone si dedica a elaborare sculture in bronzo, che sono in realtà calchi di parti di alberi, nelle quali spesso inserisce elementi vegetali viventi. A questa categoria appartiene lo spettacolare “Giardino delle sculture fluide” (2003-2007) realizzato al parco della Venaria Reale.

Un’altra opera decisamente interessante si trova a Rivoli, presso il Museo di Arte Contemporanea. Si tratta dell’installazione “Soffi”, in cui l’artista indaga il momento dell’inspirazione. L’osservatore si trova di fronte a un ambiente completamente rivestito di foglie di alloro profumate, al centro di tale ambientazione, posizionato sulla parete centrale, è visibile un polmone in bronzo dorato. La scultura quindi entra nel corpo di noi visitatori, nel momento stesso in cui respiriamo e inaliamo gli odori: attraverso l’azione del respirare l’artista pone delle riflessioni sui confini dello spazio e della forma e si conferma interessato non solo alla rappresentazione dell’oggetto quanto più all’evocazione di una suggestiva immagine poetica.
Non posso avviarmi a concludere senza citare un’altra scultura, presente proprio a Torino, precisamente di fronte all’ingresso della GAM (Galleria d’Arte Moderna). Si tratta di “In limine”, opera ideata con lo scopo di creare un segno che indichi il passaggio dalla spazialità della Città a quella sacrale del Museo. È un blocco di marmo, materia che proviene dal sottosuolo, che sostiene un albero, cresciuto a contatto con la pietra, sradicato e fuso in bronzo, posizionato di traverso, apparentemente instabile. Le parti più volatili dell’albero, le sue foglie, si protendono a cercare la luce e attraverso il processo della fotosintesi si oppongono alla forza di gravità. Lo stesso Penone così commenta l’installazione: “La vita segreta della materia risiede nel movimento dei fluidi. Le vene sono la traccia di un’esistenza che si sviluppa nel corpo delle cose, appare nel marmo, nelle radici, nella scorza, nei rami, nelle foglie e nell’uomo”.
Cari lettori, sinceramente non so quanto mi abbiate prestato attenzione, ma non vi rimprovererò, capisco che la bella stagione porti via la concentrazione e induca a pensare alle tanto agognate vacanze. Soltanto, fingendo che il bianco del foglio che segna la fine del pezzo possa metaforicamente essere paragonato al suono della campanella, e possa dunque destarvi dai vostri pensieri leggeri, mi permetto un ultimo commento: guardatevi sempre intorno con stupore, la vera arte sta nell’imparare a meravigliarsi sempre.

 

Alessia Cagnotto

 

 

Chi è Alberto Bertone, presidente e ad di Acqua Sant’Anna

Rubrica a cura di Progesia Management Lab

 

Inserito nel 2020 tra i 10 top manager di BusinessPerson of the Year nella categoria Food stilata dal magazine Fortune, Alberto Bertone è un imprenditore lungimirante. Fondatore, Presidente e Amministratore Delegato di Acqua Sant’Anna Spa, anche su consiglio del padre, da giovane diversifica il business nel settore dell’edilizia residenziale e industriale – tradizione di famiglia – per cimentarsi in quello delle acque minerali e nel 1996 fonda l’azienda Acqua Sant’Anna.

Con 20 milioni di bottiglie prodotte ogni giorno, oggi il marchio è leader in un mercato composto da circa 300 etichette e dominato dalle multinazionali, inoltre è la terza realtà imprenditoriale del Piemonte. Oltre alla leggerezza e alle proprietà organolettiche di quest’acqua che scorre nella Valle Stura, a Sant’Anna di Vinadio (CN), una delle leve del successo dell’azienda è l’innovazione. Da subito Bertone ha investito nella tecnologia automatizzando le linee di produzione; attento all’ambiente e alle tematiche green prima che diventassero una moda ha scelto una logistica che si avvale del trasporto su nave e su rotaia, più efficiente e a minore impatto ambientale, e la movimentazione delle merci avviene con dei robot a guida laser elettrici. Anche dal punto di vista del marketing e della comunicazione Sant’Anna è stata un precursore ed ha lanciato sia una campagna pubblicitaria con l’immagine del neonato, sinonimo di qualità superiore, sia una comparativa in cui confrontava le caratteristiche della sua acqua con quelle dei competitor. In 25 anni di attività l’azienda del beverage ha investito ingenti somme nella ricerca raggiungendo ottimi risultati. Ma l’attenzione non finisce qui: lo stabilimento è stato ristrutturato con materiali ecocompatibili, il calore dei macchinari di produzione è impiegato per il riscaldamento del sito e degli uffici e i camion usati sono alimentati a LNG, i migliori in termini di autotrasporto sostenibile, abbattimento delle emissioni in atmosfera e dal punto di vista acustico.

Ripercorriamo la storia e i successi di Acqua Sant’Anna?

“Il mio è stato un inizio quasi casuale. Appartenendo ad una famiglia di costruttori lavoravo con mio padre e avevo fatto diverse operazioni immobiliari, ma del mondo dell’acqua non sapevo nulla. Poiché volevamo diversificare abbiamo deciso di entrare nel settore e abbiamo scelto l’acqua delle Fonti di Vinadio. Abbiamo chiesto la concessione, aperto lo stabilimento e siamo partiti. I primi due anni sono stati complicati: abbiamo costruito il capannone e fatto gli impianti, ma al momento di iniziare non avevamo vendite. Dopo un primo momento in cui con mio padre abbiamo pensato di cedere le quote ai soci, lui mi disse che se fosse stato giovane non avrebbe mollato. Ha saputo pungermi nel vivo e così ho proseguito. Avevo 29 anni e giravo l’Italia in macchina per far conoscere il prodotto fino a quando dopo circa 10 anni è diventato leader del mercato.
Un passo decisivo è stata la scelta di far analizzare la nostra acqua all’ospedale Sant’Anna di Torino, che ha constatato che i bimbi che la bevevano avevano dei benefici. Abbiamo così ottenuto il certificato di acqua per bambini, un attestato di qualità superiore.

Crescendo molto negli anni abbiamo deciso di diversificare e il primo lancio è stato SanTHE’ Sant’Anna, oggi tra il terzo e il quarto posto in Italia con una crescita del 30% all’anno. Nel 2019 abbiamo invece lanciato la linea Sant’Anna Fruity Touch al limone, ai frutti rossi e al lime, zenzero e guaranà: nel mondo questo tipo di prodotto ha grande successo, ma in Italia mancava e stiamo facendo promozione per farla crescere”.

Tecnologia, innovazione e sostenibilità sono le vostre keywords? 

“Ogni azienda che guarda al futuro deve pensare a questi temi. La tecnologia serve per essere efficienti, l’innovazione coincide con il modificarsi per fare sempre meglio, anche perché la competizione è sempre più forte, e la sostenibilità è fondamentale per tutti noi che abitiamo su questo pianeta. La tecnologia è stata determinante perché man mano che crescevamo dovevamo reperire personale, ma nella nostra zona era difficile e così abbiamo trasformato i punti di debolezza in punti di forza robotizzando tutta l’azienda. In questo modo abbiamo raggiunto costi bassi in termini di mano d’opera ed un’efficienza superiore: un plus rispetto ai concorrenti. Ci tengo però a sottolineare che il personale che lavora con noi è del territorio e vive l’azienda come fosse propria. Siamo molto uniti e ci sentiamo una grande famiglia. L’innovazione, ma anche la capacità di avere un pensiero divergente, ci ha permesso inoltre di ovviare ad un altro problema: Vinadio è lontano dalle principali città italiane e per la logistica abbiamo puntato sui treni e sulle navi riuscendo così a distribuire i nostri prodotti ad un costo basso. Tutto questo lavoro, portato avanti con costanza, ci ha permesso di diventare leader in Italia e siamo orgogliosi del risultato raggiunto, anche se ovviamente non ci fermiamo”.

Ci presenta Bio Bottle, la bottiglia biodegradabile? 

“È realizzata con un biopolimero di origine vegetale che non contiene petrolio. Siamo stati il primo marchio al mondo a lanciare nel mass market una bottiglia di acqua minerale da 1,5 litri biodegradabile e compostabile nei siti di compostaggio che in 80 giorni torna a far parte della natura. Abbiamo creduto molto in questo progetto, anche se le persone non si dimostrano così interessate. Purtroppo si parla molto di ecosostenibilità, ma al lato pratico si agisce poco”.

Anche Sant’Anna Beauty è un’idea innovativa. Di cosa si tratta?

“Si tratta di acque funzionali in pratiche dosi pronte da bere, studiate nei nostri laboratori, che oltre a dissetare fanno bene alla pelle. C’è quella che contiene acido ialuronico e zinco e quella al collagene idrolizzato e zinco. L’acido ialuronico si trova naturalmente nel nostro organismo e preserva l’idratazione dei tessuti e la lubrificazione delle articolazioni, ma negli anni diminuisce drasticamente, mentre lo zinco protegge le cellule dallo stress ossidativo e contribuisce al mantenimento dello stato fisiologico della pelle. Bere quest’acqua fa bene a tutti, ma soprattutto a chi non è più giovane. Il collagene invece è la più importante proteina strutturale della pelle perché garantisce tono ed elasticità. Da giovani la sintesi del collagene è maggiore della sua degradazione e quindi la pelle rimane liscia. L’avanzare dell’età, le cattive abitudini e gli inquinanti ambientali portano ad una maggiore distruzione del collagene con la conseguente formazione di rughe. Studi scientifici hanno dimostrato che l’assunzione del collagene idrolizzato ha un effetto benefico sull’aspetto e sull’elasticità della pelle, in particolare sulla riduzione delle rughe e sulla formazione delle linee sottili”.

Di recente ha proposto una cauzione sulle bottiglie in plastica per incentivare il riciclo. Approfondiamo il tema? 

“Nella mia vita ho fatto alcune battaglie sul tema della sostenibilità e l’ultima di queste è legata al riciclo della plastica. Dobbiamo fare qualcosa di concreto per salvaguardare l’ambiente e a mio parere toccare nel portafoglio i consumatori è sicuramente una leva. Per questo vorrei convincere il Governo a far applicare una cauzione sull’acquisto di qualsiasi tipo di contenitore alimentare per evitare di trovare rifiuti per terra. Se applichiamo un piccolo costo aggiuntivo di 5-10 centesimi su tutti i contenitori, le persone saranno incentivate a restituirli per recuperare la cauzione oppure a raccogliere quelli dispersi per portarli nei centri di raccolta che possono essere posizionati nei centri commerciali, nei parcheggi o nei grossi condomini, favorendo così il corretto riciclo dei diversi imballaggi. Questo metodo è già in uso in alcuni paesi del mondo e ha raggiunto ottimi risultati”.

 

 

IL FOCUS DI PROGESIA

 

La storia dell’Acqua Sant’Anna inizia negli anni ’90, quando la famiglia Bertone decide di portare sulle tavole degli italiani un’acqua minerale che nasce a circa 2000 mt di altezza nelle valli sopra Vinadio, il cui nome è legato al Santuario Sant’Anna, protettrice delle mamme, luogo di culto cristiano più alto d’Europa, alla cui fonte i pellegrini sono soliti dissetarsi.

Il successo dell’azienda, oltre alle qualità intrinseche del prodotto, dovute alla sua origine – l’altitudine delle sorgenti, la purezza dell’aria, la conformazione delle rocce granitiche che filtrano naturalmente l’acqua – si è consolidato grazie ad alcune importanti iniziative di marketing, innovative per il momento storico in cui sono nate.

Quando l’Acqua Sant’Anna ottiene la certificazione di qualità da parte dell’ospedale Sant’Anna di Torino come acqua particolarmente adatta per i bambini, l’azienda decide di fare leva su questo argomento commerciale e così che per la prima volta su una bottiglia di acqua minerale compare la foto di un neonato: una semplice immagine che consente di far capire immediatamente all’acquirente il “valore” del prodotto, anche senza leggere in modo approfondito l’etichetta.

Un altro strumento di marketing che l’azienda ha iniziato fin da subito ad utilizzare con successo è la pubblicità comparativa, che consiste nel mettere a confronto in modo diretto le caratteristiche dei propri prodotti con quelli dei concorrenti.

Questo tipo di pubblicità è molto usato negli Stati Uniti, mentre è stato sempre poco utilizzato in Italia e Acqua Sant’Anna è stato uno dei primi marchi italiani a farne uso, facendo leva su alcune caratteristiche oggettive di qualità, per ottenere un vantaggio rispetto ai principali competitor.

In particolare sono state utilizzate delle tabelle per mettere a confronto alcuni dati chimico-fisici delle acque minerali dai quali emergeva che Sant’Anna aveva il residuo fisso più basso di tutte le concorrenti e anche la presenza di sodio, di nitrati e la durezza erano inferiori.

Quest’iniziativa ha dato un importante vantaggio competitivo ad Acqua Sant’Anna, ma ha anche avuto il merito di insegnare ai consumatori a leggere con attenzione le etichette sulle bottiglie, aumentando la consapevolezza dell’importanza di conoscere le caratteristiche chimiche e fisiche dell’acqua, per orientarsi nella scelta tra i diversi prodotti presenti sul mercato.

 

Coordinamento e Focus: Carole Allamandi

Intervista: Barbara Odetto

www.progesia.com

“L’orto fascista” Romanzo / 8

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XXIX

Il Podestà aveva convocato la Consulta Municipale per le 8 e 30. I sei membri erano stati svegliati all’alba dal vigile del comune che era andato a casa loro a consegna-
re la convocazione. Il Bertoli voleva consultarsi non sapendo bene come comportarsi in questa drammatica occasione. Aveva pen-sato di esporre la bandiera a mezz’asta al balcone del municipio, ma non sapeva se questa soluzione sarebbe apparsa troppo servile nei riguardi dei tedeschi. In fin dei conti si era in guerra e la morte di un soldato era, pur- troppo, cosa normale. Neppure il Segretario del Fascio aveva, almeno per ora, avanzato richieste in tal senso. Era deciso ad effettuare, insieme ai suoi aiutanti, una visita al Comandante della guarnigione tedesca per porgere le sue condoglianze e per mettersi a disposizione per i funerali e il trasporto della salma, o meglio di quello che rimaneva di Bernd, che era stata temporaneamente portata nella camera mortuaria dell’ospedale. Era molto timoroso per la possibile reazione che Franz avrebbe potuto avere nei suoi confronti e, per questo, il fatto di presentarsi in gruppo, poteva rendere la cosa meno imbarazzante. Non che temesse di essere insultato, ma che il Comandante potesse avere frasi di violento rimprovero verso i brenesi, questo era da aspettarselo.
Quando il gruppo di amministratori si riunì, vi furono violente discussioni. Chi voleva non solo l’esposizione della bandiera a mezz’asta ma anche che venissero pro- clamati tre giorni di lutto cittadino. Chi, invece, era con- vinto che si doveva lasciare passare il fatto sotto silenzio, con la sola “ufficiale” presenza del Sindaco e della Consulta con la bandiera del paese all’eventuale funerale. La parte strettamente politica doveva essere lasciata agli organi del Fascio che, sicuramente, sapevano, meglio di loro, come trattare con i tedeschi. Alla fine fu da tutti accettata quest’ultima soluzione, anche se qualcuno evidenziò il proprio personale dissenso. Non sapendo dove trovare Franz, si recarono all’albergo Fumo. La vettura, o meglio quello che restava della vettura, era stato rimosso e portato al garage Slanzi. Le macchie di sangue, miste all’olio del motore, erano state rico- perte da un alto strato di segatura. La buca, provocata dall’esplosione, era ancora aperta. Ad alcune finestre del- le case che davano sulla piazza si stava lavorando per sostituire i vetri rotti dallo spostamento d’aria.
L’unica cosa che impressionò Sindaco e consiglieri era che le strade e la piazza Mercato fossero assolutamente vuote. I negozi erano aperti ma nessun brenese era in circolazione, quasi che si temesse una ritorsione da parte dei tedeschi.
Trovarono il Comandante nella piccola hall dell’albergo, circondato dai suoi subalterni. Pallido, con la divisa sporca e stropicciata, le mani che si muovevano, scompostamente, dai capelli alle ginocchia, dalle ginocchia ai gomiti, e poi di nuovo ai capelli. Quasi un tic nervoso. Non si alzò dalla poltrona nella quale era seduto. Si limitò a stringere la mano al Podestà e a fare un cenno con la testa ai consiglieri. Sussurrò un “danke” e poi, a congedarli, girò la testa di lato come a guardare qualcosa che non c’era.
Imbarazzati i sette uomini salutarono i militari e, non sapendo cos’altro fare, girarono sui tacchi e se ne andarono.

 

XXX

Col passare delle ore in paese cresceva la preoccupa- zione. Ormai si sapeva che lunghi convogli di carri, abitualmente usati per il trasporto degli animali e con le porte piombate, partivano da varie stazioni italiane per la Germania. Non si sapeva ancora dei campi di sterminio ma il modo con il quale venivano trattati i deportati non lasciava presagire nulla di buono. Si raccontava di centinaia di persone prelevate in vari paesi della penisola dove era stato dato aiuto o ospitalità ai partigiani. A Breno era stato ucciso un tedesco e sicuramente la rappresaglia non sarebbe tardata. Il mistero su chi avesse compiuto quell’atto, e soprattutto le modalità con cui si era verificato, lasciavano tutti perplessi. La sparizione del Russì era passata inosservata anche per- ché l’uomo non era stato visto in giro neppure i giorni precedenti all’attentato. Tutti sapevano che quello strano personaggio a volte spa- riva dalla circolazione per settimane intere, da solo o con qualche donna, per passare il tempo negli alpeggi vicino a Bazena o verso il Passo del Maniva. L’Ovra non si era mossa, ufficialmente non avendo ricevuto ordine da parte dei tedeschi di farlo. La situazione era particolarmente scabrosa e quindi, se possibile, era meglio defilarsi. Del tutto discretamente don Cappelletti era stato invitato a Brescia. Avevano anche preso contatto, ancor più segretamente, con il Podestà di Breno perché convincesse sua moglie, Lucia, a recarsi a Brescia alla loro sede. A volte, si era pensato, i bambini sanno più cose di quelle che dovrebbero e qualche frase compromettente avrebbero potuto lasciarsela scappare. Coinvolgere qualche maestra e soprattutto la signora Lucia, così fedele al Regime, avrebbe potuto portare qualche frutto. Due giorni dopo l’attentato partirono per Brescia, all’in- saputa l’uno dell’altra, il Parroco e la maestra. Il prete, come quasi sempre, era riuscito ad ottenere un passaggio su un veicolo di servizio. La maestra, molto più modestamente, era partita per la città con il “Gamba de legn”. Per la maestra signora Lucia era una emozione nuova andare a Brescia. Infatti tutti gli abitanti della Val Camonica, quando dovevano andare in città per qualche acquisto importante o per qualche visita medica specialistica, si recavano a Bergamo, città più facilmente e più velocemente raggiungibile. Lucia conosceva pochissimo Brescia. Le avevano detto che la sede dell’Ovra era in una strada che partiva da Piazza Tebaldo Brusati e, giunta alla stazione di Brescia, con il solito abituale ritardo, non se l’era sentita di chiedere come raggiungere la piazza rischiando di perdere ulteriore tempo. Aveva quindi deciso di noleggiare una carrozzella trainata da uno scheletri- co cavallo senza dare, per non suscitare curiosità, l’indi- rizzo al quale era diretta, ma chiese al cocchiere di por- tarla in piazza Brusati.

Don Cappelletti, nel frattempo, era a colloquio con il solito funzionario dell’Ovra. Cercava di indorare il più possibile le poche e vaghe notizie che aveva da riferire e di mostrarsi più ossequiosamente disponibile a tutte le raccomandazioni che gli venivano propinate per cercare di non perdere l’abituale ricompensa. “Andate” disse alla fine il funzionario e, facendo il solito segnale al sottoposto che era venuto a prelevare il prete, soggiunse “e buon divertimento!” Don Cappelletti, raggiunta la solita stanza e sedutosi sul letto, cominciò a spogliarsi. Lucia, giunta alla porticina contrassegnata dal numero civico che le era stato detto, si guardò velocemente intorno, augurandosi che nessuno dei passanti la notasse, e suonò il campanello. Le venne ad aprire un giovane pallido ed allampanato che, vedendola, ebbe una strana espressione di meraviglia. “Sei nuova tu?” chiese facendola entrare. Lucia rimase meravigliata dal tono di voce e dal fatto che questi le si rivolgesse col tu. – Ma guarda te che gnocca che si becca quello stronzo di prete – pensò il giovane che la prese, con poca delicatezza, per un braccio e la guidò sino ad una porta in fondo ad un buio corridoio.“Entra” le disse ancora, lasciandole il braccio e riavviandosi verso l’ingresso. Lucia, sempre più imbarazzata, rimase un attimo ferma davanti alla porta. Poi si fece coraggio e la aprì. La stanza era semibuia. Dall’unica finestra filtrava una scarsa luce a causa delle persiane chiuse. “Entra, dai, e spogliati, che ho fretta!” disse una voce che giungeva da un posto imprecisato della stanza. Una voce scostante ma imperiosa che fece trasalire la donna. – Io questa voce la conosco! – si disse tra sé e sé, ma non riusciva a ricordare a chi appartenesse.
Quell’ordine finì di farle perdere la poca lucidità che le era rimasta. Si mise a tremare tutta impaurita e non riuscì ad evitare di iniziare a fare quanto le era stato ordinato. Non riusciva bene a vedere cosa ci fosse nella stanza. Intravide una seggiola sulla quale depositò i vestiti e la biancheria intima mano a mano che se la toglieva. Intravide anche un grande letto al centro della stanza ma non capì se fosse occupato da qualcuno. Quando ebbe finito di spogliarsi si rese conto della grottesca situazione nella quale si trovava e, per proteggere la propria nudità, non ebbe migliore idea di quella di precipitarsi nel letto e coprirsi con il lenzuolo. Sempre tremando e ad occhi chiusi, rimase ferma in posizione supina in attesa che qualcosa avvenisse. Ma fu un attimo: una mano fredda e sudaticcia si posò in mezzo alle sue cosce cercando di divaricarle. Non fu difficile perché la donna, ormai in stato di semi incoscienza, subiva tutto passivamente.
Qualcuno le stava montando sopra con l’intento di penetrarla, ma quando il suo viso e quello del suo violentatore si trovarono a poca distanza, la stessa voce di prima si mise ad urlare. “Madonna mia, ma non è possibile. Oh Signore, oh Signore, cosa sto facendo!” In quel mentre la porta si aprì e la luce venne accesa. Una donna molto prosperosa ed alquanto volgare entrò nella stanza, guardò verso il letto e scoppiò in una sonora risata. “Guarda, guarda questo sporcaccione” disse la donna con profondo accento emiliano. “Adesso non gliene basta più una, vuol fare l’ammucchiata! Purscel!” e si rimise a ridere.

Lucia, ritornando in sé, iniziò ad urlare. “Aiuto, aiuto, aiutatemi, per favore!”. Nel contempo pensava: – Perché non svengo. Madonna, per favore, fammi svenire! – A quelle urla il vano della porta si riempì per la presenza del giovane allampanato, del funzionario e di altri tre o quattro poliziotti. Tutti rimasero bloccati, allucinati dalla situazione e impreparati a gestirla. L’unica a non aver perso il controllo era la prostituta, abituata alle situazioni boccaccesche, i veri casini. Si rivolse agli uomini che erano fermi sulla porta: “Via, via, non c’è niente da vedere!” e li spinse fuori dalla stanza. Poi rivolgendosi a don Cappelletti gli disse: “Tu, fuori dalle palle. Per oggi hai scopato abbastanza. Prendi i tuoi vestiti e vattene.” Il prete, anche lui meccanicamente, si alzò dal letto e, presi biancheria e tonaca, si diresse verso la porta. Prima di usci- re si girò verso Lucia. Fu allora che questa lo riconobbe. Un lamento di bestia ferita le sgorgò dal profondo dei pol- moni e un pianto isterico cominciò a scuoterla tutta.

 

XXXI

Le due donne rimasero sole nella stanza. La prostituta si avvicinò a Lucia che continuava a singhiozzare mentre il corpo si rannicchiava su sé stesso in posizione fetale. La donna si sedette sulla sponda del letto e incominciò ad accarezzare il viso della maestra con affetto materno, mentre dalle sue labbra usciva un suono leggero e musicale, una cantilena rassicurante, come quando
le mamme cullano i loro piccoli. A poco a poco i singhiozzi si diradarono, il corpo sembrò distendersi e quando il respiro divenne regolare, Lucia, prostrata, si addormentò.
La donna continuò ad accarezzarla, le prese delicatamente il viso, se lo pose in grembo e cominciò a cullarla. Quando fu certa che Lucia dormisse profondamente, uscì dalla stanza e chiese di parlare con il funzionario. Questi, dopo aver somministrato una strigliata e, forse, qualche calcio nel sedere al poliziotto che aveva aperto la porta a Lucia, si era rintanato nel proprio ufficio cercando di decifrare l’accaduto: quali conseguenze avrebbe potuto avere su di lui e cosa fare della moglie del Podestà di Breno. Sapeva che questi era molto ben ammanicato con camerati in alto luogo. Per colpa di quel deficiente di un sottoposto, avrebbe potuto avere la carriera stroncata o, ancor peggio, ritrovarsi con l’ordine di un temutissimo trasferimento in Sardegna.
Quando gli comunicarono che la prostituta voleva con- ferire con lui, la fece immediatamente accomodare nel suo ufficio e la ascoltò con atteggiamento deferente. Fu assolutamente d’accordo che poteva rimanere accanto a Lucia sino al suo risveglio e ordinò a un suo collaborato- re di recarsi al vicino casino per giustificarne il ritardo.

 

XXXII

Nel frattempo don Cappelletti, rivestitosi frettolosa- mente, aveva raggiunto l’uscita e se ne era andato sbattendo la porta. In strada si era messo a correre in direzione della stazione ferroviaria. La sua mente sconvolta nemmeno si accorgeva della curiosità che suscitava nelle persone che incontrava e che, qualche volta, nella foga della corsa, urtava. Giunto in stazione ebbe la fortuna di trovare il treno in partenza, vi salì, cercò uno scompartimento vuoto, si se- dette nel posto vicino al finestrino e si abbassò il cappello sugli occhi fingendo di dormire. Ebbe la fortuna che sul treno ci fossero pochi passeggeri e che nessuno andasse a sedersi vicino a lui. Anche il controllore, pensando dor- misse, passò oltre. E fu davvero una fortuna perché il prete, nella fretta, non si era neppure lontanamente preoccupato di acquistare il biglietto. Cercava di ricostruire quanto era avvenuto, ma non riusciva a mettere insieme neppure due minuti delle ulti- me ore. Continuava a pensare alla maestra, non capiva cosa ci facesse a Brescia, in quel triste posto, in quel letto ove era entrata, sembrava, consenziente. Che avesse una doppia vita? Che, malata di masochismo, accettasse come sofferenza di prostituirsi più o meno a pagamento? Cosa sarebbe successo adesso, quando in qualche modo la cosa si sarebbe risaputa? O da una parte o dall’altra qualcuno avrebbe parlato. Come avrebbe potuto giustificare il suo comportamento sessuale e, soprattutto, il suo coinvolgimento con la poli- zia politica? Sentiva un gran freddo e un tremore interno come quando si è aggrediti da una febbre violenta. Rimase fermo, rannicchiato al suo posto sino a quando il treno non giunse – in un periodo brevissimo, almeno gli sembrò – a Breno.
Scese velocemente e, senza rispondere ai saluti che qual- che parrocchiano gli rivolgeva, quasi di corsa si diresse verso la casa parrocchiale. Entrato si rivolse bruscamente alla sua perpetua: “Elvira, una tazza di vino caldo! Portamela in camera. Sto male, anzi, sto malissimo. Sono ammalato, molto ammalato. Lasciami il vino sul comodino e poi non di- sturbarmi più. Starò malissimo anche domani. Quindi, dopo, vai dal don Arlocchi e digli che mi deve sostituire questa sera ai Vespri e domani mattina alla messa delle otto. E di non prendere impegni per i prossimi giorni perché io non so quando starò meglio”. “Le devo chiamare il medico, signor curato?” chiese, premurosa, l’Elvira.

“Allora non mi stai a sentire!” rispose strillando il prete. “Ho detto che non voglio vedere nessuno, non voglio parlare con nessuno. Insomma! Dillo anche al coadiutore. Che non gli venga in mente di venirmi a trovare!” Tracannò il bicchiere di vino caldo, si infilò la camicia da notte ed entrò nel letto. Mise la testa sotto il cuscino e cercò di calmarsi. Doveva ragionare, assolutamente. O forse era meglio che cercasse di dormire, di annegare i pensieri nel sonno per qualche ora e tentare di riprender- si sia mentalmente che fisicamente? Però non riusciva né ad addormentarsi né a calmarsi. Si ritrovò a pensare a quando era bambino e viveva con i genitori in una piccola casa insieme ai tre fratelli minori.
A otto anni era già stufo di quella vita. Il padre alla sera era perennemente ubriaco; la madre, stravolta dalla fatica, per cena non riusciva quasi mai a trovare il necessario per sfamare lui ed i tre fratellini. Nonostante l’età, era un bambino molto sveglio, intelligente ed acuto. Sapeva ragionare come un adulto ed era, soprattutto, furbissimo. Gli sarebbe piaciuto diventare maestro, forse perché desi- derava apprendere, forse anche perché il suo subcosciente gli suggeriva che quella del maestro non era una gran professione ma dava comunque uno stipendio sicuro e la possibilità di vivere rispettosamente. Tuttavia la sua fami- glia non avrebbe mai trovato i soldi per farlo studiare.
L’unica alternativa era quella di tentare di farsi prete. Ci pensò a lungo e poi, per studiata convenienza e senza sentire alcuna vocazione, espresse alla mamma il desiderio di entrare in seminario.
Lei, entusiasta, sia perché, almeno a quei tempi, un figlio in seminario dava sempre lustro, e soprattutto perché si eliminava una bocca da sfamare, era andata con lui a parlarne col Parroco.
Da quel giorno don Pompeo aveva iniziato a mentire con sé stesso e con tutti quelli che lo circondavano. Al Parroco fece credere di essere veramente attratto dalla vita religiosa e che sentiva che Gesù lo voleva con lui. Inventò anche uno strano sogno che raccontò al Parroco ed alla mamma. Si trovava in mezzo a una folla di gente miserabile. Nello zainetto aveva una mela e un panino con il formaggio. Aveva molta fame ma, impietosito da chi stava sicuramente peggio di lui, aveva donato la mela a una donna incinta e poi, preso il panino, ne aveva strappato dei piccoli bocconi che aveva cominciato a distribui- re. Più ne distribuiva più il panino si ingrossava ed era così riuscito a sfamare tutti. Alla fine, dalla folla gli veni- va incontro un bambino, scalzo e vestito miseramente. Gli sorrideva, lo prendeva per mano e lo conduceva in un bellissimo giardino pieno di fiori e di frutti. Fu allora che egli aveva riconosciuto in lui Gesù Bambino. Da quella notte, continuò a raccontare Pompeo, il suo più grande desiderio fu di mettersi al servizio degli altri. Il Parroco rimase impressionato da quelle parole e assicu rò la mamma che ne avrebbe parlato con i suoi superiori e con il Direttore del vicino seminario. L’ingresso al seminario avvenne un triste giorno di novembre. Cadeva una fine pioggerellina gelata che inzuppava la povera giacchetta ed il cappellino che Pompeo indossava. Il Parroco, che lo stava accompagnando a quel- la che sarebbe stata per lungo tempo la sua nuova dimo- ra, era munito di un grosso e largo ombrello di colore verde, ma non si era preoccupato di riparare il suo gio- vane parrocchiano che gli trotterellava alle spalle cercando di tenere il suo passo spedito.
In quella stagione il seminario sembrava ancora più te- tro. All’interno regnava un silenzio che rimbombava contro le alte volte dei larghi corridoi. Raramente da un’aula giungeva la voce di un docente infervoratosi su qualche argomento o intento a sgridare un allievo di- stratto o ignorante.

 

Pompeo ebbe la tentazione di girarsi, abbandonare Parroco e seminario e, correndo, ritornare a casa maledicendo quanto si era inventato. Ma non ne ebbe il tempo. Erano arrivati davanti alla porta dell’ufficio del Rettore e il Parroco, presolo per un braccio, lo spinse all’interno facendolo inginocchiare da- vanti al vecchio prete che dirigeva con polso, anche tro po rigido, docenti e scolari.“E dunque tu vorresti servire Dio abbandonando i piaceri del mondo?” Il Rettore si rivolse a Pompeo quasi continuando un discorso iniziato prima dell’ingresso del bambi- no. Non ricevendo alcuna risposta, anche perché il ragazzo stava pensando a quali potessero essere i piaceri del mondo che desiderava abbandonare, avendo sino ad allora conosciuto solo povertà e solitudine, il vecchio prete riprese: “Qui avrai tempo per studiare e meditare sulla tua scelta, per rafforzare la tua fede e per capire se effettivamente sei destinato ad essere un ministro di Dio, a seguire il Vangelo ed a predicare la Buona Novella. Vedremo, vedremo.” Poi, rivoltosi al Parroco: “Parroco, vi faremo sa- pere. Ci auguriamo che il ragazzo abbia le giuste qualità e una vera vocazione. Sarebbe triste dovervi richiamare per venire a riprendere la vostra pecorella.” Si alzò dall’imponente poltrona sulla quale era seduto, porse la mano al Parroco che, fatto un cenno di saluto al bambino, si girò e lasciò la stanza. Il Rettore si infilò la stola, prese per le spalle Pompeo guidandolo verso un inginocchiatoio. Si sedette sulla poltrona accanto e invitò il bambino a confessarsi. Non aveva molti peccati da ammettere un bambino di otto anni che aveva vissuto in una povera casa. Non aveva commesso peccati di gola, non potendo trovare in casa dolci o preli- batezze sconosciute; era troppo giovane per praticare quel- li della carne; nessun motivo di invidia verso gli altri ragazzi poveri come lui; bestemmie nemmeno a pensarlo, tanto erano orribili quelle che il padre lanciava dal baratro delle sue sbronze. Eppure la confessione durò oltre un’ora. Il vecchio prete, appigliandosi ad ogni occasione che il bambino gli dava, fosse una insicurezza o un dubbio, scavava nell’animo del nuovo seminarista per conoscerne la vera natura. Alla fine non era riuscito a capire molto della sua indole ed era, comunque, alquanto perplesso. Tutte le risposte del bambino sembravano studiate non per apparire migliore ma per ingraziarsi l’affetto e la considerazione di chi lo stava esaminando.
Infatti il piccolo Pompeo aveva capito subito che quella non era una vera confessione, ma un esame che doveva assolutamente superare se voleva rimanere in seminario. E sapeva che la prima impressione sarebbe rimasta a lungo nella mente del Rettore e avrebbe potuto condizionare la sua vita nei prossimi anni.
Vi erano solo due altri bambini in seminario: uno suo coetaneo ed uno di un anno più grande. Studiava con loro anche se Pompeo era molto meno preparato. Il maestro però lo aveva preso in simpatia e cercava di aiutarlo in tutti i modi con estrema pazienza. La vita del seminario gli apparve subito gradevole. La sveglia alle sei non lo disturbava, essendo la stessa ora alla quale si svegliava a casa; al freddo della camerata e dei bagni era abituato. Lo disturbava un poco la comodità del letto: il materasso di lana era troppo morbido per lui, che a casa dormiva su un saccone ripieno di foglie secche di granoturco. Finita la messa, tutti si recavano in refettorio dove, in vere tazzine, veniva servito del latte caldo e pane in abbondanza.

Il primo giorno Pompeo ritenne che quello fosse l’unico pasto sino alla cena. Si riempì di pane e di latte. Scolò anche le tazze di qualche vicino che, ormai sazio, non aveva finito di bere il latte freddato. Non essendo il suo stomaco abituato a tali scorpacciate dovette correre, nel corso della giornata, molte volte alla latrina in preda ad una violenta dissenteria.
A parte le lunghe ore trascorse a pregare in cappella, dove si annoiava mortalmente, e quelle passate ad ascoltare la vita dei santi, il resto della giornata era piacevole. Ap- prendere era un suo grande desiderio; il mangiare, anche se il cuoco sembrava mettercela tutta per rovinare qualsiasi pietanza, era abbondante; i momenti di svago brevi ma abbastanza divertenti.
Pompeo era sempre vigile nell’eseguire gli ordini del Prefetto e di tutti i maestri e professori: voleva suscitare la migliore impressione possibile ed evitare punizioni a volte dolorose, come quando si era costretti a rimanere inginocchiati, per lunghi periodi, sul pavimento cosparso di lenticchie secche.
Approfittando del fatto che aveva destato tra i convittori simpatia, riusciva spesso a intrufolarsi nei pensieri re- conditi anche dei ragazzi maggiori di lui e a riceverne confessioni indiscrete. Dopo averle ricevute, Pompeo, lasciato passare un certo periodo di tempo per non scoprirsi, trovava la scusa per riportarle agli insegnanti. Non sfacciatamente, da spia, ma da amico preoccupato di chi gli aveva fatto le confidenze. Questi gradivano le notizie che potevano permettere un più approfondito controllo sui ragazzi ed il più delle volte lo incitavano a continua- re ad informarli. Pompeo, in cambio di questo metodo che usava tradendo gli amici, ebbe, se non riconoscimenti, almeno la benevolenza dei superiori. Continuò per anni questo modo di fare, affinandolo. Riusciva sempre meglio ad entrare nelle confidenze degli altri seminaristi e a riportare maggiori dettagli della loro vita interiore. Tanti ragazzi furono puniti o costretti a lasciare il semi- nario in conseguenza delle confidenze fatte a Pompeo. La cosa era particolarmente importante soprattutto quando si parlava di un argomento vietatissimo: il sesso. Tale argomento era, allora molto più di oggi, l’ossessio- ne di tutti gli insegnanti di tutti i seminari. L’opera più malefica del diavolo! E per questo di grande attrattiva. Almeno a parole. E di parole sull’argomento se ne spen- devano molte anche tra i compagni di Pompeo che, ad ascoltare quei discorsi, traeva un certo piacere. Un’anticipazione di quello che avrebbe provato più avanti nella sua vita di confessore.

 

 

XXXIII

Lucia si svegliò solo alle quattro del pomeriggio. Le girava leggermente la testa e non riusciva a capacitarsi di dove fosse. Si accorse di essere nuda sotto le lenzuola e questo la sconvolse.
Accanto al letto vi era una sconosciuta che le stava accarezzando, le sembrò con affetto, i capelli e il viso. Improvvisamente ricordò. Il suo arrivo all’ufficio dell’Ovra, la strana accoglienza ricevuta, di essersi spogliata e, nuda, di essersi infilata nel letto già occupato da quel visci- do verme del Parroco, le sue mani sudaticce che la tocca- vano, il viso sopra il suo mentre cercava di violentarla. Ricominciò a tremare mentre la donna continuava ad accarezzarla, a sorriderle. Un dolce suono, forse una nenia, usciva dalle sue labbra. Dove era adesso? Era stata rapita per essere trasportata… dove? Era stata venduta come schiava? Dove era? Doveva assolutamente saperlo ma non riusciva ad articolare un suono, una parola per chiederlo. Finalmente la donna le parlò con un forte accento emiliano. “Stai tranquilla, è finito tutto. Adesso Carla, che sarei io, ti aiuta a rivestirti per tornare alla tua casa. A proposito, hai un marito, dei figli? Dove abiti?” “A Breno” rispose Lucia, grata a quella donna che si stava occupando di lei e sembrava la volesse proteggere. “Sono sposata, sì, ma non ho figli. Non te ne andare, non lasciarmi sola, ti prego!” supplicò quando la donna si alzò diretta verso la porta. Questa si voltò e le sorrise di un sorriso dolcissimo, nonostante i lineamenti tutt’altro che delicati.
“Non ti preoccupare, non ti lascio. Prendo solo i tuoi vestiti dalla seggiola dove li hai lasciati”. Aiutò Lucia a vestirsi, commentando, per metterla a suo agio, la finezza della biancheria intima e l’eleganza del tailleur grigio fumo che dava, così bene, risalto alle sue forme. Finalmente un sorriso apparve sul viso della giovane donna, grata per l’affetto dimostrato nei suoi con- fronti e anche per quel tanto di civetteria, tutta femminile, così sensibile agli apprezzamenti. Quando Lucia si fu rivestita, la prostituta, che per una volta nella sua vita si sentiva importante, padrona di prendere delle decisioni, aprì la porta della camera e, affacciatasi in corridoio, urlò in direzione del piantone: “Ehi tu, pelandrone! Chiama subito il commissario e che si spicci a venire”.
Questi arrivò veramente di corsa, si genuflesse, quasi, davanti alla maestra. Entrò nella stanza e chiuse la porta alle sue spalle.

Imbarazzatissimo, rosso in viso e leggermente tremante si rivolse a Lucia con un “Non so cosa dire, non so proprio cosa dire. Quale sia il mio imbarazzo ed il mio dolo- re, lei non può credere. Qualsiasi cosa possa fare mi dica e la farò. Qualsiasi, veramente qualsiasi”. Lucia non aveva né voglia né coraggio di guardarlo in faccia, ma doveva farlo. Doveva riuscire a capire che tipo di uomo fosse e se si poteva fidare di lui. “Commissario, io desidero solo che nulla si sappia. Qui oggi non è successo nulla. Lei capirà: io non posso perde- re la mia reputazione per una brutta avventura mal gestita. Io qui sono parte offesa e come tale devo essere trattata con il massimo rispetto. Le farò sapere le mie decisioni e lei, se è un uomo di onore, ad esse si atterrà scrupolosamente. Uno scandalo non gioverebbe neppure a lei né ai suoi diretti superiori. La prego, mi faccia chiamare un carrozza che voglio raggiungere la stazione al più presto”. “Per carità, signora!” rispose il commissario inchinando- si nuovamente. “Ho messo a sua disposizione la nostra macchina di servizio e un autista. Si faccia portare dove vuole e la tenga al suo servizio per tutto il tempo necessario.” Poi, sempre più premuroso: “Posso offrirle, che so, un caffè, un cordiale, qualsiasi cosa, signora?” La prostituta lo stava guardando con un sorrisino malizio- so sulle labbra. La divertiva vedere quell’uomo, considera- to potente, tutto servile e spaventato. Quando il commissario se ne accorse, si rivolse a lei con voce arrogante:
“E tu cosa ci fai ancora qui? Saluta, ringrazia la signora e togliti dai piedi!” Lucia rimase dapprima meravigliata dalla trasformazione del tono di voce del commissario e poi si infuriò per i modi villani e prepotenti. “Non si permetta di usare questo tono arrogante con questa signora!” urlò. “Né io, né lei, soprattutto lei, abbiamo la gentilezza e la bontà d’animo di questa don- na. La rispetti e, per favore, le chieda scusa!” Carla, a quelle parole, stava per mettersi a piangere tanto era la commozione e la gioia. Fu ancora più felice quando, dopo le scuse del commissario, Lucia le si avvicinò, la abbracciò con molto calore e le diede due affettuosi baci sulle guance. “Grazie” le sussurrò all’orecchio mentre gli occhi le tornavano lucidi. Quei momenti, per Carla, furono tra i più belli della sua vita.

(continua…)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rotta di collisione

IL PUNTASPILLI / ECONOMIA


Il capitalismo in salsa cinese sta ormai cedendo il passo ad un apparentemente sorprendente ritorno al passato.

 

La coesione sociale è da sempre cruciale per potere governare un Paese immenso e popoloso come la Cina ma lo diventa ancora di più quando la crescita economica (e la diffusione del benessere) sono messi a rischio da una demografia che inizia a segnare il passo (dal 2010 la popolazione attiva ha smesso di crescere e gli ultimi dati del censimento mostrano che anche la popolazione complessiva è ormai stabile e pronta per una graduale discesa) e da profondi squilibri.

 

Per quanto il Celeste Impero sia enormemente cresciuto negli ultimi quarant’anni rimane, in termini di reddito pro-capite, al 59mo posto (ed anche peggio, al 73mo, sulla base del potere di acquisto), ai livelli dei Paesi più poveri del terzo mondo.

 

Dietro il dato medio, poi, si nascondono enormi differenze  tra la zona costiera, dove prosperano le aziende private più importanti e profittevoli, ed il resto del Paese.

 

Il presidente Xi Jinping sta lanciando chiari messaggi che la situazione non può continuare così e che i più ricchi e le loro aziende avranno d’ora in poi una vita ben più difficile di quella goduta sinora.

 

Il cambiamento non arriva all’improvviso, lo si poteva prevedere osservando l’evoluzione della piramide demografica e quella della distribuzione del reddito, ma è sempre l’ultima goccia a fare traboccare il vaso.

 

La cosa non dovrebbe sorprendere troppo anche considerato che l’obiettivo di Pechino, orgogliosamente dichiarato nell’ultimo (il quattordicesimo) piano quinquennale (2021-2025), è quello di trasformare il Paese in “una grande e moderna nazione socialista”.

 

Per raggiungere questo obiettivo occorre migliorare la condizione delle famiglie cinesi (consentendo anche di aumentarne la dimensione con la possibilità di avere sino a 3 figli) e della classe media.

 

Poca importanza sembra avere se, per ottenere quanto desiderato, si provocano pesanti danni agli investitori finanziari (“speculatori capitalisti”) ed alle aziende che operano nei settori coinvolti.

 

L’ultima vittima è stato quello dell’educazione privata ed in particolare dei corsi di sostegno che, essendo secondo il governo troppo onerosi per le famiglie, vanno erogati gratuitamente.

 

Le società del settore hanno lasciato sul terreno in pochi giorni la metà del loro valore ed il messaggio è risuonato nuovamente forte e chiaro (con discese rovinose dei prezzi) anche su tutti i titoli coinvolti negli ultimi mesi dalla stretta del governo cinese, ormai in chiara rotta di collisione con le grandi aziende quotate (gestite con logiche “occidentali”, ben lontane dal nuovo corso riassumibile come un “ritorno al passato”).

 

Al prossimo congresso del partito, che si terrà nell’ottobre del 2022, cruciale per le conferme dell’attuale leadership, sarà fondamentale presentare dei risultati concreti e la volata è già iniziata.

 

Coerentemente con quanto avviene internamente anche la politica estera è tornata a proporre un confronto duro con gli Stati Uniti e la sensazione di un fastidioso “déjà vu” degli anni della guerra fredda è forse più che una nostalgica suggestione.

 

E’ presto per trarre delle conclusioni, che sarebbero oggi affrettate, ma quel che è certo è che il dragone è tornato a sputare fuoco e bisognerà prestare molta attenzione per non correre il rischio di scottarsi.

Luca Martina

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Emma Stonex “I guardiani del faro” -Mondadori- euro 19,00

Che l’autrice Emma Stonex (nata nel Northamptonshire nel 1983) abbia un legame particolare con i fari e la loro magia è più che evidente; è sbocciato fin da quando era piccola e trascorreva le vacanze in Cornovaglia e sull’isola di Wight. Oggi vive con il marito e le 2 figlie a Bristol e, dopo un’importante esperienza come editor in una prestigiosa casa editrice, ha deciso di dedicarsi totalmente alla scrittura con questo romanzo che ha spopolato alla Fiera del libro di Francoforte.
Leggendolo capirete subito il perché di tanto successo. E’ una storia intrigante imbastita intorno alla solitudine, ai rimpianti, ai segreti e alle bugie che si dicono per mettere al riparo le persone che amiamo. E’ ispirato a un fatto di cronaca vero, la misteriosa e inspiegabile scomparsa dei 3 guardiani di un faro su un’isola della Scozia nel 1900.
A questo si è ispirata la scrittrice inglese che ha ambientato lo stesso fatto inquietante nel 1972 al largo della Cornovaglia, a 15 miglia di distanza da Land’s End (praticamente al confine estremo di quella parte di mondo), nel Faro di Maiden Rock, dove i 3 custodi di turno sembrano svaniti nel nulla.
Questo non è un faro qualunque o come quelli della terraferma: è soprannominato Scoglio della Fanciulla e sorge in tutta la sua altezza su uno spunzone di terra in mezzo al mare e «…non hai mai visto una tempesta finché non ci sei stato in mezzo, lì, in mare aperto: il faro pare sbriciolarsi sotto i tuoi piedi per essere spazzato via dalle onde».
A guardia di questo remoto avamposto dovrebbero esserci il primo guardiano Arthur Black –grande esperienza e bravura nel suo lavoro- ,il primo assistente William Walker detto “Bill” e il secondo Vincent Bourne. Quando arriva il collega per un cambio, dei 3 uomini non c’è alcuna traccia, la porta del faro è chiusa dall’interno, dentro tutto è in ordine, gli orologi sono fermi tutti alle 8,45 (dettaglio da non dimenticare) ma non si palesa anima viva. Che fine possono aver fatto i 3 uomini è un mistero irrisolto ancora 20 anni dopo, quando troviamo le loro donne che hanno cercato di andare avanti da sole con quel buco nell’anima e senza saper dove siano finiti.
A riagitare le acque nel 1992 arriva l’affermato scrittore di romanzi di avventura e marinareschi Dan Sharp, che vuole farne materia del suo prossimo best seller.
Contatta personaggi legati agli uomini scomparsi, a partire dalle loro compagne, Helen, Jenny e Michelle. Sono rimaste tutte nei cottage messi a loro disposizione dalla Compagnia Trident House che ha provveduto al sostentamento delle vedove dei suoi 3 dipendenti. Ma la tragedia che ha straziato le loro anime, anziché unirle, le ha viste ritirarsi ognuna nel proprio guscio di dolore. Daniel Sharp le incontra e si fa raccontare le loro diverse versioni. E qui la bravura della Stonex scende in campo a tutto tondo. E’ magistrale il modo in cui riannoda i fili delle vite delle 3 coppie e porta a galla vissuti anche travagliati. Ed ecco venire a galla segreti, dolori strazianti e insuperabili, tradimenti, incomprensioni e solitudini, sensi di colpa e rabbia, paure e tantissimo altro….

Jazmina Barrera “Quaderno dei fari” -La Nuova Frontiera- euro 15,00

Questo è un affascinante viaggio letterario nelle pagine di grandi autori classici che hanno sviluppato pensieri ed emozioni collegate ai fari e al loro intrinseco fascino misterioso. Ed è la colta testimonianza di come questa scrittrice messicana (nata a Città del Messico nel 1988) abbia da sempre sviluppato una profonda fascinazione per le ammalianti torri che indicano la rotta e la salvezza ai naviganti; lighthouses che in inglese vuol dire “le case della luce”. Con l’animo della collezionista, la Barrera ne ripercorre la storia partendo dall’antichità e dai miti.
Dai Maya ai Greci che per primi diedero il nome di fari alle torri accese citate nell’Iliade di Omero: «….Fuoco che segnala la fine del mare.»
Fari e mare indissolubilmente collegati tra loro e allo stesso tempo contrapposti: «Non si può pensare il faro senza il mare. Perchè sono un tutt’uno, ma opposti. Il mare si espande verso l’orizzonte, il faro punta verso il cielo. Il mare è movimento perpetuo; il faro è una vedetta congelata. Il mare è volubile “un campo di battaglia di emozioni” dice Virginia Woolf. «Il faro è un signore stoico, irremovibile…….». Quelli più antichi conservatisi fino ad oggi risalgono al Medioevo, quando ad averne cura erano i monaci.
Poi l’autrice rintraccia gli innumerevoli fari citati nelle pagine di autori come Walter Scott, Lawrence Durrel, Virgina Woolf con il suo romanzo “Gita al faro”. E ancora, Robert Louis Stevenson che discendeva da una stirpe di ingegneri che misero in campo le loro conoscenze e osservazioni empiriche sui moti delle maree, l’altezza delle onde, la profondità dell’acqua, l’inclinazione del suolo e la configurazione della costa. Suo nonno ebbe il merito di aver edificato il primo faro lontano dalla costa, su uno scoglio affiorante in mezzo all’oceano, Belle Rock, che si diceva abitato dallo spirito del fantasma di un pirata.
Ed è solo la punta dell’iceberg del profondo viaggio in cui l’autrice –che colleziona anche antiche mappe dei fari disseminati nel mondo- vi conduce.

Sarah Langan “I buoni vicini” -SEM- euro 18,00

Benvenuti nel tranquillo quartiere da cartolina alla periferia di Long Island, Maple Street, quieta e sonnacchiosa enclave borghese i cui abitanti sotto la superficie nascondono lo sporco di inganni, cattiverie, capricci e insensibilità verso il prossimo. E’ in questo tran tran opaco ma rassicurante che nel 2027 irrompono i nuovi arrivati. Sono la rock star Arlo Wilde, la moglie Gertie ex reginetta di bellezza e i loro figli, la preadolescente senza freni Julia e il fratellino minore Larry. Un bel cambiamento per il vicinato che si trova alle prese con un padre molto diverso dagli altri, una madre che si sente respinta dalle vicine e fa fatica a relazionarsi, e pure i loro due figli sono fuori dagli schemi del luogo. Ape regina del sobborgo è Rhea Schroeder, professoressa universitaria dal passato insondabile, di mezza età, trasformatasi nel perfetto esempio di moglie e madre dei sobborghi residenziali. Organizzatrice delle feste di vicinato, aveva assunto anche l’impegno di accogliere ogni nuova entry di Maple Steet con un cestino di cioccolatini e un profumo. E nella bellissima e impenetrabile Gertie aveva annusato un’altra outsider disadattata con la quale avrebbe potuto costruire un rapporto intimo, in cui svelare i suoi veri sentimenti. E’ lei che in un certo senso adotta senza riserve i Wilde e cerca di introdurli nella comunità. Sotto la sua ala protettrice prende soprattutto Gertie con la quale trascorre lunghi pomeriggi a chiaccherare, alla quale fa un sacco di confidenze fino a riuscire a smussare la diffidenza della nuova arrivata.
Questo almeno è quanto accade in un primo tempo, poi inspiegabilmente anche Rhea allontana la nuova vicina escludendola dai party che organizza.
Poi irrompe l’imprevisto nel bel mezzo dei festeggiamenti per il 4 luglio. Una gigantesca voragine si apre di colpo e senza preavviso, un baratro profondo una cinquantina di metri che inghiotte un pastore tedesco e scatena l’allarme tra gli abitanti di Long Island. Non è la prima e non sarà l’ultima delle doline che scuotono Maple Street, dando la stura a una serie di eventi e di nodi che vengono al pettine.

Lorenza Gentile “Le piccole libertà” -Feltrinelli- euro 17,00

Protagonista è la 30enne Olivia, ancora precaria in un’azienda che produce barrette energetiche, amata dai genitori che su di lei hanno puntato tutto. E’ fidanzata con Bernardo, bello, intraprendente e in carriera, votato al successo, e stanno per sposarsi. Sembra una vita quasi perfetta, invece nel profondo della sua anima albergano paure, insicurezze, dubbi e indecisioni. Cerca di rimediare alla sua irrequietezza ricorrendo ad una analista, la dottoressa Manubrio che le spiega l’arcano: la vita è come il mare e bisogna imparare ad andare sul surf.
Tutto cambia quando le arriva la lettera della zia Vivienne, di cui si erano perse le tracce 16 anni prima, dopo un acceso confronto col fratello, il padre di Olivia , alla morte della loro madre.
Non si è mai scoperto cosa provocò l’irrimediabile rottura tra i due, ma i ricordi che Olivia ha della zia sono felici. Vivienne, magra, energica, ciglia lunghe, occhi nocciola, un caschetto di capelli biondi poi diventati bianchi era solita arrivare con un baule stracolmo di libri e vestiti fuori dall’ordinario. Una zia decisamente eclettica che da giovane era stata una modella, sempre infelice in amore, e aveva attraversato varie fasi di interessi: dall’astrologia all’ambientalismo, dall’essere vegetariana ad andare a soccorrere una famiglia di elefanti nel Serengeti, ossessionata dalle storie e dalla vita di Karen Blixen. Agli occhi del fratello, una superficiale volubile; invece grondante fascino per la nipote. Nella lettera la zia chiede a Olivia di raggiungerla a Parigi, e le dà appuntamento davanti alla celebre e storica libreria Shakespeare&Company. Sulla Rive Gauche, fondata nel 1919 da Sylvia Beach e nella quale transitarono alcuni degli scrittori più importanti del 900, tra i quali Ezra Pound, Ernest Hemingway e James Joyce. Olivia decide di partire, ma resta alquanto spiazzata quando la zia non si presenta all’appuntamento.
Di lì in poi, a Olivia è imposta una sola regola: aiutare in libreria e leggere un libro al giorno. Così trascorre giorni e notti tra gli storici scaffali, tra appassionanti letture, turni di lavoro e avvistamenti presunti di Vivienne. Soprattutto, Olivia conosce e frequenta un gruppo di pittoreschi artisti bohémienne in cerca di fama e successo, che fanno base proprio alla Shakespeare&Company. Ed ecco svilupparsi sotto gli occhi del lettore la profonda trasformazione emotiva della protagonista, che rinasce, opera scelte importanti e si avvia sul sentiero che conduce alla formula per trovare la felicità.

I teatri torinesi: Teatro Gobetti

Torino e i suoi teatri

1 Storia del Teatro: il mondo antico
2 Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti
3 Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri
4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti
5 I teatri torinesi :Teatro Carignano
6 I teatri torinesi :Teatro Colosseo
7 I teatri torinesi :Teatro Alfieri
8 I teatri torinesi :Teatro Macario
9 Il fascino dell’Opera lirica
10 Il Teatro Regio.

4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti

La storia del Teatro Gobetti è una storia a “matrioska”, la sua stessa vicenda continene al suo interno almeno altre due narrazioni, inscrivibili ad essa ma di pari importanza. Manteniamo dunque la metafora del tipico “souvenir” russo: la forma più esterna rappresenta la vicenda dell’Accademia Filodrammatica di Torino, a cui si deve la costruzione dell’edificio, la bambolina mediana invece costituisce le attività del Teatro Stabile, di cui il Teatro Gobetti diventa sede ufficiale a partire dagli anni Cinquanta e, infine, il guscio più piccolo e interno è il corrispettivo di un aneddoto sonoro che tange entrambi i contesti appena accennati: è proprio in questo palazzo che è avvenuta la prima esecuzione assoluta del “Canto degli Italiani”, meglio conosciuto come “Inno di Mameli” o “Fratelli d’Italia”, nel novembre del 1847. Approfondiamo dunque questa storia “a cipolla” e iniziamo a sbucciare dall’esterno le vicende, affrontandole una alla volta, senza fretta e senza perder tempo. Tutto inizia nel 1828, quando nasce l’Accademia Filodrammatica di Torino, un’associazione amatoriale di appassionati di arte teatrale; il gruppo decide di utilizzare come propria sede una sala di “Palazzo Pallenzo” – situato nell’attuale via Alfieri- in questo luogo si tengono dibattiti e rappresentazioni teatrali riservate ad un pubblico assai ristretto.
Qualche anno più tardi risulta necessario cambiare sede, così i membri dell’associazione acquistano un terreno in quella che all’epoca era chiamata “Contrada della Posta” – attuale via Rossini- non lontano dai Giardini Reali, e incaricano l’architetto Barnaba Panizza di progettare un edificio da far sorgere proprio in quella zona.

A dirigere i lavori subentra il ticinese Giuseppe Leoni, anche lui abile architetto e membro stesso dell’Accademia. Ci vogliono due anni per ultimare il progetto; nel 1842 il teatro inaugura l’apertura ufficiale, all’evento partecipa anche il principe Vittorio Emanuele II e per l’occasione si eseguono “La Pia dei Tolomei”, tragedia di Carlo Marenco -anche lui membro dell’associazione Filodrammatica- e la commedia di Eugène Scribe, titolata “Una visita a Bedlam”. Il palazzo progettato da Leoni è di stile neoclassico; l’edificio presenta delle proporzioni peculiari, dovute alla specifica conformazione del terreno su cui sorge, originariamente destinato ad accogliere un campo da gioco per la pallacorda.
La facciata dell’immobile di tre piani è costituita da un basamento con tre ingressi, su cui poggiano sei lesene scanalate di ordine corinzio, che si alternano a cinque finestre sormontate da timpani, di cui tre balaustrate in marmo. All’ultimo piano vi era un’incisione ormai non più visibile riportante il nome dell’ “Accademia Filodrammatica”.
Il palazzo era senza dubbio sontuoso ed elegante, così come riporta Pietro Visetti, che descrive il salone riservato all’accoglienza come una “graziosa saletta ottagona appositamente costruita per servire da camera d’aspetto”; Visetti racconta anche di un vestibolo ellittico da cui partiva una importante scala che si collegava al piano superiore, dove c’erano la sala per gli spettacoli e gli spazi di servizio; egli si sofferma anche sul “maestoso proscenio, sorretto da quattro colonne scanalate”, nonchè sul soffitto a cassettoni decorati con “eleganti emblemi musicali rappresentati sui binari di fianco”.

Leoni dunque è stato assai abile nel ricavare da locali decisamente angusti un edificio “impeccabile nella classicità delle proporzioni”.
La compagnia dell’Accademia Filodrammatica si scioglie negli anni Sessanta dell’Ottocento. L’edificio rimane prima inutilizzato, successivamente passa sotto l’amministrazione cittadina, che ne adibisce i locali per le aule del Liceo Musicale, infine, nel 1928, diviene “Casa del soldato”, ossia un centro d’accoglienza e conforto per i militari di stanza in città.
È solo nel secondo dopoguerra che la struttura ritorna alla sua funzione originaria di “teatro”, a seguito della decisione del Comune di dedicare l’edificio al critico e intellettuale antifascista Piero Gobetti.L’inaugurazione del “Teatro Gobetti” ha luogo il 22 dicembre 1945, con la rappresentazione della commedia di Vittorio Bersezio “Le miserie ‘d Monsù Travet”.
A settembre dello stesso anno il Comune affida il teatro a un’associazione formata dal “Piccolo Teatro Eleonora Duse” di Genova e da una compagine cittadina, il gruppo prende il nome di “Piccolo Teatro di Genova e Torino”. A metà degli anni Cinquanta l’edificio è indicato come sede ufficiale del “Piccolo Teatro della Città di Torino”. Per tale occasione viene messa in scena la commedia goldoniana “Gl’innamorati”, affiancata dall’atto unico di Alfred De Musset “Non si può pensare a tutti”.
Il tempo non si arresta, neanche per i fabbricati, così nel 1956 sono necessari diversi interventi di manutenzione. Le modifiche però non sono sufficienti e negli anni Ottanta la struttura non risulta idonea alle norme di sicurezza, il teatro deve dunque affrontare un altro lungo periodo di chiusura.

Solo negli anni Novanta lo stabile viene riaperto, grazie allo stanziamento di diversi fondi approvato dalla giunta comunale; in questi anni sono gli architetti Luigi e Maria De Abate a seguire il cantiere, ultimato solo nel 2001. Questa volta è una commedia di Pirandello, “La ragione degli altri”, a sancire l’inagurazione, (18 aprile 2001). Lo spettacolo è prodotto dalla compagnia del Teatro Stabile di Torino, in collaborazione con il Teatro Stabile dell’Umbria. Nel 2016 proseguono i lavori di restauro, dell’atrio e della “hall”, affidati allo “Studio De Ferrari”.
Ed ecco che senza quasi accorgercene abbiamo cambiato “strato”. Dovremmo dunque trattare ora delle vicende del Teatro Stabile di Torino, che surclassa il Piccolo Teatro nel 1957, dopo la prima vera restaurazione del palazzo. Il Teatro Stabile di Torino è tra i principali enti di produzione e ospitalità per il teatro di prosa a livello italiano ed europeo.
Mi risulta tuttavia rischioso dedicare un intero paragrafo alle vicissitudini dello Stabile, perchè finirei per trascrivere un lunghissimo e monotono elenco di nomi altisonanti che si succedono nelle varie epoche, a partire da Nico Pepe e Gianfranco De Bosio, che dirigono le stagioni teatrali tra gli anni Cinquanta e Sessanta, passando per il turbolento Sessantotto, in cui il nome di riferimento è Giuseppe Bartolucci, per arrivare poi a tempi più recenti, dove è opportuno citare la direzione di Luca Ronconi che, tra i vari allestimenti memorabili, propone una versione “tutta sua” de “Gli ultimi giorni dell’umanità” di Karl Kraus, allestita nella Sala Presse dello stabilimento dismesso di Fiat Lingotto. Non mi dilungherei su questa via dunque, ma prima di arrivare al “nocciolo interno”, tengo a ricordare ancora l’essenziale contributo di Guido Davico Bonino al quale succede Gabriele Lavia. A partire dal 2018 la direzione artistica è affidata a Valerio Binasco.
Siamo così arrivati alla “matrioska” più interna, cuore del metaforico “souvenir”, ma anche del presente articolo. Ho detto fin da subito che un evento particolare contraddistingue le vicissitudini del Tetaro Gobetti e di conseguenza del Teatro Stabile: il teatro, inteso come struttura, è stato sede, nel novembre del 1847, della prima esecuzione assoluta del “Canto degli Italiani”, composto da Goffredo Mameli (Genova,1827-Roma,1849) e musicato dal genovese Michele Novaro, secondo tenore e maestro dei cori dei teatri Regio e Carignano.

Il testo di quello che diventerà “il nostro inno” viene scritto da un giovane Goffredo, sul finire degli anni Quaranta dell’Ottoscento; egli è all’epoca uno studente appassionato ma sopratuttutto un fervente patriota. Le strofe del canto infatti sono pregne non solo dei suoi ideali, ma anche del generale patriottismo diffuso che preannuncia i moti del 1848 e lo scoppio della Prima Guerra di Indipendenza (1848-1849). Il giovine Mameli vuole inizialmente adattare il suo testo a qualche musica già esistente, tuttavia non trova soddisfazione in questi suoi tentativi, così prova a inviare il lavoro a Michele Novaro, il quale ne è subito conquistato e –come alcuni raccontano – si mette a musicarlo la sera stessa in cui gli è arrivato il celebre testo.
Sono sicura che, mentre state leggendo queste righe, già un po’ state canticchiando, magari anche perchè siamo tutti “freschi di ripasso” dopo gli Europei appena terminati.
Mi fa piacere allora continuare a fischiettare il motivo insieme a voi, provando però a rispolverare il significato del testo, specie di quelle parti meno note, perchè generalmente non vengono eseguite. Mano sul cuore e… “Fratelli d’Italia/ L’Italia s’è desta/ dell’elmo di Scipio/ s’è cinta la testa”. Goffredo qui propone un richiamo metaforico alla seconda guerra punica, quando Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano (253-183 a. C.), sconfisse a Zama (202 a.C.) i Cartaginesi guidati da Annibale, il senso è che l’Italia è ormai pronta alla guerra d’indipendenza contro l’Austria.
Proseguiamo, nella seconda strofa si incita la dea Vittoria – immaginata come una bellissima donna dai lunghi capelli – a “porgere la chioma”, il simbolico gesto richiama l’usanza di tagliare i capelli alle schiave in segno di sottomissione, ma in questa quartina Mameli suggerische che nessuno potrà privare la dea dei suoi capelli, nè l’Italia della sua vittoria.
Si parla poi di “coorte”, cioè un’unità di combattimento dell’esercito romano, esattamente la decima parte di una legione. È questa una vera e propria esortazione a impugnare le armi e allontanare l’oppressore straniero.

Nelle successive strofe si legge “Perchè non siam popolo/ perchè siam divisi”, verso che a suon di contrasti con le frasi successive sottolinea il desiderio tutto mazziniano, strenuamente condiviso anche da Goffredo, di unire i sette Stati in favore di una sola repubblica italiana. In altre strofe ancora meno conosciute, si accenna a degli episodi militari, alla battaglia di Legnano (1176) e alla coraggiosa difesa della Repubblica di Firenze che, tra il 12 ottobre del 1529 e il 12 agosto del 1530, viene assediata dall’esercito imperiale di Carlo V d’Asburgo.
Vi è anche la parola “Balilla” (“I bimbi d’Italia/ si chiaman Balilla”) nel nostro inno, ma l’attuale sentore di “politically correct” non ci fa arrivare a tale punto del canto, nè ci permette di capirne il significato. Balilla è il soprannome del mitico fanciullo genovese – probabilmente un certo Giambattista Perasso – che nel dicembre 1746 scaglia la prima pietra contro gli ufficiali della coalizione austro-piemontese, dando così avvio alla rivolta che porta alla liberazione della città. Siamo quasi giunti alla fine, siamo al “suon d’ogni squilla”, ossia di ogni campana; Mameli vuole qui richiamare l’episodio dei “Vespri Siciliani”, quando, il 31 marzo 1282, il lunedì di Pasqua, tutte le campane di Palermo si misero a suonare per incitare il popolo a insorgere contro i francesi.
Chiudiamo infine: “Stringiamci a coorte/ Siam pronti alla morte/ L’Italia chiamò.” Un ultimo invito a combattere, a dare il colpo di grazia all’ “aquila bicipite” degli Asburgo, un incitamento per i popoli oppressi a liberarsi dagli oppressori, gli Italiani dal giogo austriaco, come pure i Polacchi da quello russo (il “cosacco”).
Possiamo ora toglierci la mano dal cuore, felici e fieri di aver cantato fianco a fianco il nostro inno, che sempre ci rende orgogliosi e ci convince fermamente che, parafrasando il detto dazegliano, “oltre ad aver fatto l’Italia abbiamo anche fatto gli italiani”.

Alessia Cagnotto

 

 

 

 

“L’orto fascista” Romanzo / 7

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

 

XXIII

Quella porta semiaperta era un invito palese. Forte della propria certezza, la aprì completamente e, senza bussare, entrò nella stanza. Franz se ne stava seduto sul bordo del letto con l’ampio torace scoperto, di un biancore mai visto. Portava solo un paio di boxer e, stranamente, un paio di cortissime calze bianche tendenti al rosa, quasi da bambina. Benedetta trovò così strane quelle calzine a ricoprire i due piedoni enormi, abituati a calzare scarponi o stivali, da non riuscire a distoglierne gli occhi. Chiusa la porta, era rimasta ferma in piedi in mezzo alla stanza senza sapere come comportarsi. Franz, dopo aver- le sorriso, si era alzato dal letto e le si era avvicinato. Le aveva preso la mano destra tra le sue e se l’era portata lentamente alle labbra per un breve bacio.
Benedetta ne era rimasta sconvolta. Mai in tutta la sua vita aveva ricevuto un gesto di affetto e di considerazione alla sua persona come quel semplice baciamano. Si era commossa al punto che, per riconoscenza, stava per buttare le braccia al collo dell’uomo. Ma, questi, forse vergognandosi del gesto affettuoso che aveva fatto, si era bruscamente girato ed era ritornato a sedersi sul letto.
Imbambolata Benedetta lo guardò: era uno sguardo di gratitudine ma anche di disagio: cosa doveva fare?
Franz le venne ancora una volta in aiuto. Sorrise nuovamente e le tese le braccia. Benedetta allora si tolse il vesti- to rimanendo nuda. Non sarebbe mai riuscita a spiegarsi come avesse potuto compiere quel gesto, per lei così spregiudicato, con tanta naturalezza. Poi si avvicinò al letto.

 

XXIV

I trenta metri circa che lo separavano dall’obbiettivo gli sembrarono interminabili, quasi dovesse percorrere una distanza superiore a quella del pratone della Concarena con le roccette che portano in vetta. Appaiono sempre a portata di mano ma non ci si arriva mai. Camminava il più velocemente possibile, piegato in due per limitare la sua visibilità. Finalmente arrivò a toccare la parte posteriore dell’auto. Si sdraiò a terra, sistemò i due candelotti con le parti terminali delle micce annodate tra loro. Mentre prima era nervoso ed eccitato, ora erano sopraggiunte calma e tranquillità. Avvicinò l’accendino, con un gesto deciso l’accese e die- de fuoco alle due cordicelle impregnate di resina.

 

XXV

I suoi grossi seni erano giusto all’altezza del viso di Franz. Lui vi affondò la testa, irritando leggermente la pelle delicata con i suoi ispidi baffi. Poi le posò le due mani sulle natiche attirandola a sé. Le baciò il seno, prese in bocca un capezzolo succhiandolo dolcemente. Fece lo stesso con l’altro seno. Le mani intanto scendevano verso il basso ad accarezzare l’interno delle cosce.
Per Benedetta erano tutte sensazioni ed esperienze nuove: mai il suo corpo aveva ricevuto delle attenzioni così delicate, almeno per quanto lei si ricordasse. La mano di lui andò a cercare la mano della donna e la accompagnò verso il suo membro, ormai eretto, tenendola sino a quanto lei non lo avvolse con la sua mano. Poi ritornò ad accarezzarle le cosce e infine le grandi labbra.
Per tutti e due il tempo sembrò fermarsi. Benedetta, che aveva temuto un brutale assalto da parte di Franz, ed il tedesco, che temeva volgarità nel comportamento della donna, si ritrovarono a vivere quel momento magico che solo i ragazzi vivono ai primi approcci al sesso.

 

 

XXVI

Il violento scoppio li richiamò brutalmente alla realtà. Lo spostamento d’aria provocato dall’esplosione aveva spalancato la finestra della stanza e tutti vetri erano andati in frantumi. Come un colpo di vento aveva scompigliato i capelli a Benedetta e a Franz. Entrambi rimasero per molti secondi immobili, forse rifiutando di vivere una dimensione differente da quella che erano riusciti a creare con la delicatezza, quasi la dolcezza, dei pochi minuti che avevano passato insieme. Poi Franz spostò bruscamente Benedetta e si precipitò alla finestra, imprecando contro una scheggia di vetro che gli era penetrata in un piede. Quando si affacciò sulla piazza rimase in silenzio, rifiutando di accettare quello che stava vedendo. La piccola auto di servizio era stata scoperchiata dalla violenta esplosione e lasciava vedere l’interno dell’abita- colo che era, ad eccezione dei sedili anteriori, completa- mente vuoto. Sopra la portiera destra, che si era staccata dalla carrozzeria ed era caduta a terra, Franz notò qualcosa ricoperto da una stoffa grigio verde che comprese essere la gamba di un uomo. Il resto del corpo, con la testa completamente ricoperta di sangue, quasi staccata dal collo ed in una posizione innaturale, era a qualche metro di distanza da quello che era rimasto della vettura.“BERND!” urlò Franz. “BERND!” ripeté con voce stra- volta. “NEIN! MEIN GOT! NEIN!” Si girò verso Benedetta con occhi iniettati di sangue. “Scheusliche hure du hast das attentat organisiert” – Brutta puttana tu hai organizzato l’attentato – gridò e poi “Brutta puttana, tu attentato, io te fucilare!” Intanto si era infilato i pantaloni della divisa e una ma- glia bianca. Con un piede che gli sanguinava uscì di corsa dalla stanza. “Achtung, achtung, kameraten, kommt, kommt, es ist was fuerchterliches passiert!” – Attenzione, attenzione, camerati, venite, è successo qualcosa di terribile! – urlava intanto il tedesco correndo nel corridoio verso le scale. Benedetta, inebetita, non riusciva a rendersi conto di cosa potesse essere accaduto. Era rimasta ferma appoggiata al muro dove Franz l’aveva spinta quando era corso alla finestra. Lo sguardo stravolto del tedesco l’aveva terrorizzata e nella sua mente continuava a rimuginare le uniche parole che le erano rimaste impresse: “Io te fucilare!”

 

XXVII

Lo spostamento d’aria creato dalla forte deflagrazione lo investì quando ancora non aveva raggiunto l’androne e per poco non lo fece cadere a terra. Continuò la corsa senza voltarsi indietro.
Poco dopo udì i vetri delle finestre che, andati in frantu- mi, cadevano sull’acciottolato e una voce, con l’odiato accento tedesco, che urlava parole incomprensibili.

 

 

XXVIII

Don Arlocchi aveva appena terminato la messa delle sei. Cominciava a far freddo alla mattina presto, e le vecchiette che intervenivano alla celebrazione mattutina erano ormai solo una dozzina. Col passare delle setti- mane, quando il freddo si sarebbe fatto pungente, il numero non avrebbe superato le sei, sette. Le irriducibili, le chiamava il buon prete. Don Pompeo Cappelletti aveva pensato di abolire quella messa nel periodo invernale, ma le vecchiette si erano ribellate a questa ipotesi. Tanto avevano urlato contro il Parroco che lui aveva dovuto rinunciare al suo proposi- to. La pretesa era tanto più assurda perché le donne, quando rientravano a casa verso le sette, passavano il resto della mattina al freddo, senza qualcosa di concreto da combinare se non rigovernare la casa. Erano, per lo più, vedove e convivevano solo con la loro solitudine. Don Arlocchi stava togliendosi i paramenti pregustando il ritorno nella sua povera casa, dove avrebbe però trovato un caffellatte ben caldo, con i biscotti che la sua vecchia perpetua gli preparava freschi ogni due giorni. Era il momento migliore di tutta la giornata e quel piccolo peccato di gola si ripeteva tutte le mattine alle sette, perché lui, da anni, era stato incaricato di officiare la prima messa. Con fastidio il prete si accorse che qualcuno, senza far rumore, si era introdotto in sagrestia. Miope com’era, vedeva solo la sagoma di una persona intabarrata. – Un uomo in chiesa a quest’ora? Chi può essere? – pensò. “Vieni avanti, figliuolo. Chi sei?” disse per sollecitare l’intruso vedendo, con la mente, la tazza di caffellatte che iniziava a raffreddarsi sul tavolo della cucina. L’uomo si avvicinò guardando dalla porta della sagrestia la chiesa per sincerarsi che il Silestrini, che faceva da sacrista ed aveva servito la messa, avesse spento le candele e se ne fosse andato.

“Ah, ma sei il Russì!” esclamò il prete. “Quanto tempo è passato dall’ultima volta che ti ho visto in chiesa? Vediamo, vediamo… forse dal funerale della tua mamma. Una decina di anni fa. Se sei venuto per denunciare i tuoi innumerevoli peccati torna più tardi perché ce ne vorrà di tempo e io adesso ho… un impegno” disse e pensò – col mio caffellatte. –
“Non posso aspettare, padre” rispose il Russì con voce triste e deferente. “Ho ammazzato un uomo”. Don Arlocchi, nonostante la stazza e l’età, a quelle paro- le fece un salto. La stola, che stava piegando, gli cadde a terra e il Russì corse a raccoglierla. “Tu hai cosa? Tu sei impazzito. Io non capisco, o mi prendi in giro o… o… vade retro Satana!” e si fece più volte il segno della croce. Ma dallo sguardo dell’uomo capì che stava dicendo la verità. Poi riprese: “Senti, qui non possiamo stare, neanche in confessionale e poi, poi io non voglio sapere… soprattutto se è un delitto politico. Io, io… come faccio ad entrarci e poi, poi… non posso mica darti subito l’assoluzione. Io devo consultare il diritto canonico, mica si fa così a dare l’assoluzione come se avessi rubato un cucchiaio di marmellata. Io non so, non mi è mai capitato. Devo chiedere lumi. Cominciamo a dire un Pater noster insieme che magari ci schiariamo le idee. In ginocchio, però. In ginocchio. Oh Maria Vergine ora pro nobis! Ma guarda te se alla mia età doveva capitarmi una cosa del genere, a me che non mi è mai capitata. Preghiamo, dai preghiamo”. E cominciò a recitare il Padre nostro. Quando finì la preghiera, il prete era più confuso e inquieto di prima. Prese il Russì per un braccio, lo condusse fuori della sagrestia, chiuse la porta a doppia mandata e si diresse verso casa.
Qui arrivato, fece accomodare l’uomo nel suo piccolo studio e si diresse in cucina. In tre sorsi finì il caffellatte, che era diventato tiepido, sgranocchiò un biscotto e tornò nello studiolo.
“Dunque, vediamo un po’, torniamo da capo, come se ci incontrassimo adesso. Allora tu arrivi da me e mi dici: ‘Mi voglio confessare’. Io allora mi metto la stola, ah già la stola, la stola l’ho lasciata in sagrestia… beh Signore, perdonaci per questa volta, tu che perdoni sempre”. Questa frase gli era scappata, ma sperava che il penitente non la prendesse buona per lui. Gesù avrebbe perdo- nato, ma prima quell’assassino doveva dimostrare di essersi pentito. “Andiamo avanti senza stola, che speriamo vada bene lo stesso. Mi fai fare certe cose tu che mai ho fatto. Allora tu cominci a confessarti. Guarda che non è mica neces- sario che tu mi dica dove, come e quando… che io da queste cose voglio restare fuori. E neanche perché. Tanto tu di giustificazioni non ne hai di sicuro!”
“E invece sì” intervenne il Russì. “Io non avevo nessuna intenzione di uccidere. Io volevo solo dare una lezione ai tedeschi facendo saltare in alto la loro vettura. Mica potevo sapere che all’interno ci dormiva uno di loro”. “Aspetta, aspetta. Tu vuoi dire che non sapevi di uccide- re? Attento non dire falsa testimonianza durante una confessione, che la cosa diventa ancora più grave! Tu devi guardare dentro la tua coscienza e devi dire assolutamente la verità. E poi sei pentito di quello che hai fatto? Pensaci bene prima di rispondere!”

“Se è per quello sono più incazzato che pentito. Certo che mi spiace che quel ragazzo sia finito a pezzi, ma io mica volevo farlo. Come si fa a essere pentiti di una cosa che non si voleva fare e che è capitata per caso? Forse sono pentito di aver fatto saltare l’automobile dei tedeschi. Questo sì lo volevo fare, l’ho fatto e me ne dispiace”. Al prete si ingarbugliavano ancora di più le idee in testa. In effetti il ragionamento del Russì non faceva una piega. Ma non si può liquidare così l’uccisione di una persona. Però lui non sapeva quali argomenti trattare, come si doveva comportare da sacerdote: cosa dire, in definitiva al penitente. Improvvisamente si udì un gran bussare alla porta d’ingresso. – Ma chi può essere a quest’ora che viene a casa mia? Mica saranno i tedeschi che hanno seguito il Russì?- pensò. – Ma tutte oggi devono capitare. Mi fossi sveglia- to malato grave ed impossibilitato a dir messa, sarebbe stato molto meglio. – Si alzò ed andò ad aprire. Al di là della porta trovò il farmacista. “Buongiorno dottore” lo salutò. “Come mai da queste parti ed a quest’ora?” domandò. “Ho una cosa urgente da dirle, anzi da confessarle” rispose il Temperini tentando di farsi strada e di entrare nella casa. “Adesso non posso, sono occupato. Non posso proprio” rispose il prete cercando di difendersi dall’invadenza. “Ma io ho urgenza di parlarle. Di confessarmi, anche se non lo faccio da anni. Ma questa volta è grave. Ho aiutato ad uccidere un uomo”. A don Arlocchi mancarono improvvisamente le forze e, con un sospiro che sembrava un rantolo, si lasciò cadere pesantemente sulla seggiola che, provvidenzialmente, aveva alle spalle. Dalla porta dello studiolo si affacciò il Russì per vedere chi era arrivato. Trovatosi davanti il Temperini fece un passo indietro, quasi per nascondersi. Si sentiva in colpa per averlo coinvolto, anche se incolpevolmente, nell’uccisione del tedesco.
Il farmacista che aveva visto con grandissima meraviglia il Russì, trascurò di portare soccorso al prete ed entrò decisamente nello studio. “Che ci fai qui?” quasi urlò al Russì. “Tu sei matto, matto. Sei sulla lista nera, lo sai. Uno dei primi che vengono a cercare sei tu. Scappa perdio, scappa!” Don Arlocchi, che si era un po’ ripreso anche se non riusciva ad entrare in possesso di tutte le proprie facoltà mentali, intervenne anche lui alzando la voce verso il farmacista. “Qui non si bestemmia, non si deve mai bestemmiare, ma qui è casa di Dio. Farlo è ancora più grave. Diamoci tutti una calmata. Voi sedetevi e vediamo cosa fare.” Si sedette alla sua scrivania, appoggiò il gomito al tavolo e con due dita cominciò a massaggiarsi gli occhi chiusi. Quasi che privandosi della vista potessero anche scompari- re i problemi enormi che lo assillavano. Recitò mentalmen- te una breve preghiera chiedendo aiuto a Dio perché gli facesse comprendere chiaramente quanto stava succedendo e gli desse la forza e la saggezza per gestire la situazione. “Raccontatemi tutto quello che sapete. Tutto! Devo sapere tutto! In effetti è una confessione un po’ fuori del normale, ma Dio capirà: questa è una situazione tutta fuori del normale.”

Poi si rivolse al Russì. “Avanti, parla tu per primo, che mi sembra sia tu quello che ha le maggiori responsabilità.” “Cosa è successo? Quello che è successo non ci voleva, non doveva succedere ed invece è successo” rispose l’in- terpellato al quale oltre che le idee si erano confuse anche le parole. “Quello là cosa ci è andato a fare alle nove di sera nella macchina. Cosa ne sapevo io che lui era lì? Mica ce l’ho mandato, ed adesso ce l’ho io la colpa!” “Ascolta, figliuolo” lo interruppe il buon prete, “lascia stare tutti commenti e spiegami bene quello che è successo. I commenti, se mai, li faremo dopo. Comincia da capo e spiegati bene!” “Io e il farmacista, con altri, dei quali non farò il nome neppure se mi torturano, avevamo deciso di dare una lezione, quasi uno scherzo, a quei crucchi di tedeschi. Volevamo fargli saltare in aria quella stramaledetta mac- china e chi s’è visto s’è visto. Abbiamo preparato tutto per bene. Io ci avevo l’esplosivo, me l’ero procurato, l’avevo messo sotto la macchina, acceso la miccia e poi bum: tutto era saltato in aria ed io ero scappato a nascondermi. E invece quel cretino di un crucco – qui don Arlocchi, sentendo nominare il morto, si fece il segno della croce – era andato, a far cosa? A passare la serata in macchina. Le pare normale? Come si faceva a sapere una cosa del genere? E adesso io sono un assassino e chissà cosa combine- ranno i tedeschi per vendicarsi.” “Mi sa che ha ragione il dottore. Tu è meglio che te ne vada” riprese il prete che non trovava nessun’altra soluzione possibile. Ormai il guaio era fatto e non si poteva certo andare a dire ai tedeschi che era stato un errore. “Vai in montagna. Lascia detto al tuo socio qui presente dove poterti rintracciare se c’è bisogno di te. Io non lo voglio sapere. Non so ancora cosa fare, ma se mi viene in mente qualche soluzione voglio essere libero di agire senza correre il rischio di tradirti. E lei, Temperini, torni alla sua vita quotidiana come se quanto successo non la riguardasse. Per adesso l’unica cosa da fare è questa. Poi vedremo. Il buon Dio non mi lascerà solo, ne sono certo, e mi aiuterà a trovare qualche soluzione. E adesso sparite tutti e due. Tu Russì aspetta un attimo che ti do qualcosa”. Si alzò, andò in cucina e ritornò con un salame che gli avevano appena regalato e che teneva appeso nella fredda cucina in attesa di una occasione speciale per affettarlo.“Tienilo” disse porgendolo al Russì. “Mettilo insieme alle altre cose che riuscirai a trovare. Non puoi mica partire senza nulla da mangiare, soprattutto in questa stagione. Vi farò sapere.” Poi li accompagnò alla porta, rimanendo fermo qualche istante a guardare con preoccupazione i due che si allontanavano e con nostalgia il sala- me che si allontanava con loro.

(continua…)