Rubriche- Pagina 42

Sandro Doglio a 90 anni dalla nascita. Giornalista, uomo libero e gastronomo fuori ordinanza

Di Pier Franco Quaglieni

Novant’ anni fa nasceva uno straordinario personaggio che il Piemonte dovrebbe onorare per la poliedricità dei suoi interessi che lo hanno portato a vivere esperienze professionali e di vita  diverse, sempre ricche di significato.

Forse di lui resta intatto il ricordo del gastronomo, ma sarebbe errato scrivere di Sandro Doglio ricordando solo i suoi interessi per quella che  Veronelli chiamava la «cultura del cibo» e il suo amore per la campagna e le cose naturali. Sì, è stato anche un eccellente  gastronomo, ma lo è stato come lo fu Mario Soldati che, in televisione, tra un film e un romanzo, andava alla ricerca dei «cibi genuini» nella Valle del Po. Infatti, se parliamo di Sandro Doglio (nato a Torino nel 1931), non possiamo dimenticare che fu un giornalista a tutto tondo. Aveva esordito giovanissimo sulla storica Gazzetta del Popolo, che fu una vera e propria scuola di giornalismo per intere generazioni, per poi passare undici anni dopo  alla Settimana Incom, un settimanale in cui si rispecchiava l’Italia degli anni ’60.

Dal 1962 al 1970 divenne corrispondente della Stampa da Bruxelles, chiamato al giornale da Giulio De Benedetti, un direttore-despota  che ha rappresentato una pagina eccezionale del giornalismo italiano. Doglio, anche per la sua preparazione nel campo dell’economia, era stato scelto come corrispondente da Bruxelles che, tra mille difficoltà e mille contraddizioni, stava diventando la capitale della nascente Europa. La scelta di De Benedetti venne confermata dal nuovo direttore Alberto Ronchey che tese subito a modificare, soprattutto a livello di corrispondenti esteri, lo staff creato dal suo predecessore. Resta degli otto anni trascorsi a Bruxelles la testimonianza di un libro (Europa senza domani,1968) che Doglio ebbe il coraggio di scrivere, dimostrando lungimiranza rispetto ad un europeismo di maniera, destinato a naufragare nell’utopia perché incapace di fare i conti con le difficoltà di conciliare un’Europa molto meno unita ed omogenea di quanto pensassero i Padri nobili dell’europeismo post –bellico. Doglio comprendeva le difficoltà di un’unità politica neppure oggi raggiunta . Ebbi spesso occasione di parlarne con lui  negli Anni 70 perché  fui per cinque anni vicepresidente del Consiglio italiano del Movimento Europeo e seguivo da vicino il dibattito europeista che aveva in Sergio Pistone ,mio maestro all’ Università e mio caro amico,un punto di riferimento molto importante.

Nel 1970 Doglio aderì’  all’invito di Umberto Agnelli che gli scrisse  testualmente: «La Fiat deve fornire l’immagine profonda di tutte le sue attività. Mi occorre non una, ma una serie di pubblicazioni specializzate, ben fatte, curate da giornalisti e coordinate da un ufficio che raccolga le informazioni dentro e fuori l’azienda. Lei è l’uomo adatto ad impostare e dirigere questo settore». Era finita l’era  di Valletta e con essa l’imperium della mitica signorina  Maria Rubiolo all’ufficio stampa della Fiat. Umberto Agnelli voleva qualcosa di più. A 39 anni Doglio si trova a capo della direzione stampa e relazioni esterne di corso Marconi. Ronchey l’avrebbe voluto corrispondente della Stampa da Mosca, ma l’invito di Agnelli ebbe prevalenza e Doglio rimase 6 anni in Fiat.

Furono anni di un’esperienza straordinaria , ma estremamente difficile perché essi coincisero con un clima arroventato in termini sindacali e politici, dentro e fuori la Fiat. Doglio non venne risparmiato e fu accusato di essere un giornalista prezzolato al soldo degli Agnelli: una definizione che avrebbe potuto portarlo davanti  al piombo del terrorismo eversivo nascente, come capitò, in fondo, per molto meno, a Carlo Casalegno. Ma Doglio non era certo uomo da arrendersi facilmente . Era un duro, un uomo capace di tenere salde le sue posizioni. Dal 1978 succedette a Ennio Caretto alla direzione di Stampa sera, il quotidiano del pomeriggio che stava affrontando la sfida per la sopravvivenza di fronte all’incalzare dell’informazione televisiva. Nel 1981 cedette la direzione a Michele Torre e Doglio si apprestò ad occuparsi, dopo tanti anni di giornalismo militante, di altre cose. La sua direzione del quotidiano rivelo ‘  anche qui la sua grinta e ricordo che non fu  sempre facile intrattenere rapporti con lui . Era un direttore che in tempi di prevaricazioni sindacali da parte dei giornalisti , sapeva farsi rispettare . E furono anni in cui  quel giornale divenne un covo di estremisti  simpatizzanti con le ali  politiche più estreme  , se non  con ambienti vicini al terrorismo , come denuncio ‘ con coraggio Vittorio Messori . Anche Doglio poteva essere un obiettivo dei terroristi .

Il suo ritiro a Montiglio d’Asti  gli consentì di dedicarsi ai piaceri semplici a cui aveva dovuto rinunciare .

Chi lo  ha conosciuto, sa che non si trattò di un’improvvisazione perché il culto della gastronomia, della vita agreste e ritirata era un qualcosa che lui sentiva profondamente e rappresentava quasi il contrappeso ad un impegno giornalistico  stressante che lo portava spesso a viaggiare lontano da casa . Quando poté ritirarsi a vivere nella sua casa  di campagna astigiana,  come è stato scritto, «tra i suoi cani, i suoi fiori, le piante da frutta, le uova d’anatra, l’acqua del pozzo, gli alambicchi stillanti, il pane del forno», Doglio visse in qualche modo una nuova giovinezza.

Incominciò a scrivere una fortunata rubrica, Il gentiluomo di campagna, in cui poté esprimere questo aspetto inedito di sé. In essa dispensava apparentemente dei consigli per la campagna, gli animali da cortile, i cani, i fiori, i vigneti, i vini, i formaggi tipici, le piante da frutto e tanti altri aspetti dalla vita in campagna. Se però si sapeva leggere tra le righe, si capiva che la rubrica era un pretesto per poter parlare di un mondo contadino in cui Doglio aveva saputo ritrovare elementi autentici per cui valeva vivere. Nelle sue pagine si respirava la poesia della nebbia delle sue colline del Monferrato con un lirismo che sarebbe stato difficile intuire in un uomo con la sua esperienza e con un carattere piuttosto difficile. Solo Edoardo Ballone, anche lui legato al Monferrato, a Moncalvo per la precisione, ha saputo, come Doglio, far rivivere certe atmosfere contadine che fanno pensare ad alcune pagine del Carducci e del Pascoli, due poeti molto distanti tra loro, ma ambedue sensibili al mondo della natura.

È la civiltà contadina del vecchio Piemonte, quello eternato da certe pagine di Filippo Burzio e di Arrigo Cajumi, un Piemonte ormai definitivamente scomparso di cui Doglio è stato uno degli ultimi interpreti. Scrivere di tradizioni piemontesi e di cucina ha significato per Doglio recuperare quanto poteva ancora essere salvaguardato dal diluvio imminente della “globalizzazione” che avrebbe reso tutto scialbo e banale perché standardizzato, ripetitivo, industriale. Perdere le ragioni della civiltà contadina è stato un grave arretramento in termini di civiltà. Mario Soldati l’aveva già capito molti anni prima, mettendo in evidenza come ormai la qualità fosse rintracciabile solo in provincia, nelle zone rimaste vergini rispetto a un certo apparente progresso. Doglio, che vive in un’altra epoca, cerca disperatamente di salvare ciò che è salvabile di un mondo che tra gli anni ’80 e ’90 sta per essere travolto. Il tanto celebrato Carlin Petrini non ha inventato nulla perché si è messo sulla scia dei Soldati e dei Doglio con indubbie capacità organizzative e tantissimi consensi che gli hanno permesso persino di diventare professore universitario  per chiara fama  e di fondare una università a Pollenzo.

Il libro I buoni indirizzi – La guida di Sandro Doglio Piemonte, Liguria, Costa Azzurra, Valle d’Aosta, 1996 resta un piccolo classico di come si possa salvare un mondo che stava e sta definitivamente scomparendo sotto i colpi dei supermercati, delle pizzerie e delle tavole calde. Indirizzi di ristoranti e di trattorie ma anche enoteche, panetterie, negozi di alimentari, pasticcerie, macellerie ecc. che, come ha scritto Piero Bianucci, rappresenta «una carta geografica mirata esclusivamente  alla buona tavola e ai cibi genuini». Doglio nella sua guida rifiuta l’uso di stelle, cappelli, forchette e cuori. A lui non interessa attribuire dei voti, ma fornire una informazione il più oggettiva possibile: per i ristoranti segna prezzo medio, tipo di cucina, arredo, parcheggio, specialità, piatti particolari, indicazione sui vini. Se lo ritiene necessario, aggiunge qualche notazione storica e qualche cenno su chi gestisce il locale o sta in cucina. Ma non dà giudizi, perché è il lettore che deve scegliere e poi giudicare. Rispetto a tante altre guide, quelle di Doglio brillano per il rigore informativo e il rifiuto di scelte trancianti.

Quando scrisse una sorta di rassegna annuale delle principali guide (erano gli anni in cui, ad esempio, stava  affermandosi Vissani, il cuoco di d’Alema) tenne conto delle principali sei, ma senza ricalcarne i giudizi, anzi mantenendo una voluta neutralità. Il modello a cui si ispirava Doglio era quello di Ruth Rechi, critica–gastronoma del New York Time che «cerca sempre  di mantenere l’incognito, mascherandosi anche con parrucche di diverso colore» e che prima di dare un giudizio su un locale «ci deve aver mangiato almeno quattro volte». Doglio, senza fare polemiche con gli autori delle diverse guide, si limitò ironicamente a osservare che «l’America è lontana», anche se con quella frase diede un giudizio sferzante assai eloquente. Nel Dizionario della gastronomia piemontese fa un’opera quasi di ricostruzione filologica di un mondo sconosciuto ai più .

Doglio mori nel luglio 1998. Così in qualche modo si interruppe  il senso di un lavoro  importante per la tutela di una tradizione e di una cultura che costituiscono uno dei titoli di maggiore orgoglio della  erra piemontese. Ma certo egli è stato un antesignano di quel “gusto”, anzi di quel buongusto che faceva di lui, oltre che un giornalista cosmopolita, un gentiluomo di campagna. Oggi dimenticato e travolto dall’egemonia Slow Food e da Eataly, la gastronomia politicamente corretta che ha trionfato ed ha predominato all’Expo di Milano. A volte, durante la rassegna milanese, ho pensato cosa avrebbe potuto scrivere Doglio di tanti miti e di tante sciocchezze celebrate nel corso del 2015 e che si sono rivelati fuochi fatui.

L’altra sera pranzando amabilmente ad Albenga ,ospite di Silvio Fasano, con Edoardo Raspelli ,il più grande ,vero ed unico gastronomo italiano d’oggi , mi è tornata alla mente ( erano quasi le tre del mattino ) la figura di Doglio . Avrei voluto chiedere a Raspelli un suo ricordo di Sandro  ,mentre  invece abbiamo parlato  di un grande giornalista e  comune amico, Franco Pierini  , un altro grande dimenticato ,in primis da un giornalismo che ha perso la sua vera dimensione professionale e civile . Poi ci siamo scritti e Raspelli mi ha detto che fu un suo grande amico .

Chissà se qualcuno si ricorderà di  lui almeno a novant’anni dalla sua nascita? Molti ne hanno abbastanza delle prediche di Petrini e degli affari di Farinetti . Riandare a Doglio significa pensare alla semplicità di una vita che non c’è più . Una volta gli raccontai della mia “ infanzia dorata “ nel castello di Camerano Casasco a contatto con i cavalli ,i pulcini ,le anitre ,i conigli e mi disse che ero stato un privilegiato.E in effetti oggi che vivo prevalentemente “tra il cordame dei velieri” come diceva Gozzano, desidero con crescente nostalgia  quelle colline che  Doglio amava ed a cui ha dedicato pagine  cariche di una profonda evocazione, anche poetica, per il tempo che fu .E ‘ scandaloso che non sia stato possibile reperire neppure una sua fotografia almeno a Montiglio .

Per favore, un sacchetto o un fazzolettino per Fido!

Diario minimo urbano. Vedere e ascoltare… per credere

Di Gianni Milani

Non raccontatemi che, almeno una volta, nella vita non sia capitato anche a voi! Non ci crederei. Del resto, niente di che! Si dice anche che pestare la cacca (più fine, popò?) di un cane porti fortuna. Anch’io, le non poche volte che m’è successo, l’ho pensato. E sperato. Pur non esimendomi di lanciare anatemi e cazzute imprecazioni contro gli incivili screanzati padroni (che brutto termine!) degli innocenti Fido a quattro zampe. Che nulla possono d’essersi “imparentati” con gli incivili, di cui sopra. Io credo che, se avessero il dono della parola (il solo che gli manca), sarebbero loro stessi ad invitarli di brutto a pulire marciapiedi e giardini dove, non essendosi ancora inventate toilettes e bagni per cani con tanto di sciacquone, sono dai tempi dei tempi costretti a depositare (forse loro malgrado) pipì e popò . Per carità, non tutti gli umani cani-muniti sono di tal pasta? Ci sono perfino, e sempre più, quelli che oltre a paletta e sacchetto si portano appresso, ogni qual volta, scendono a “pisciare il cane”– come diceva la mitica Lucianina Littizzetto – una bottiglietta d’acqua al fine di nettare il passaggio degli umani dalla fisiologica minzione canina. Certo! Può talvolta capitare di dimenticare a casa paletta e sacchettino. Ma anche in questo caso, pur comprensibile, sabbe davvero atto di civiltà rimuovere con altri mezzi di fortuna i pur santi “ricordini” canini. E’ proprio quanto m’è capitato di vedere, con gioia, qualche giorno fa. In breve. Ecco i fatti. Via Duchessa Jolanda, a pochi passi da via Palmieri (zona mercato piazza Benefica), le 10 del mattino. Una ragazza in preda al panico è ferma in centro al marciapiedi, al guinzaglio un cagnolino, anche lui dall’espressione incredula. Che stiamo a fare qui?, sembra chiedere, mentre la padroncina dirige il traffico dei passanti. Scusate, scusate – ripete – attenzione alla cacca del cane. Scusate, ho dimenticato a casa paletta e sacchetto. Qualcuno può per favore prestarmi un sacchetto della spesa  o un fazzolettino? Incredibile ma vero! La giovane avrebbe potuto lasciare, con aria indifferente, il malloppo tutto lì e andarsene alla chetichella, fischiettando, non appena il via vai (neppure troppo intenso) della gente si fosse smaltito. E invece no! Brava. E’ così che s’haddafà! Ricordo che con la mia povera Peggie, una dolcissima e indimenticata Labrador scomparsa a 14 anni, il giorno di San Ventino di tre anni fa, andavo quasi a raschiare l’asfalto per raccogliere tutta la mercanzia da lei depositata. Perfino con la strada innevata. Affondavo la paletta in cumuli di neve per non lasciarne traccia. Alla giovane civilissima ragazza di via Duchessa Jolanda, una signora ha offerto un gran sorriso (se lo meritava proprio) e un fazzolettino. L’oggetto del reato è stato così rimosso. Da applausi. Perfino il cagnolino le ha rivolto un dolce bau bau di ammirazione. E pensare che poco prima, appena svoltato dalla piazza Bernini, quasi davanti all’ex scuola “Giovanni Pascoli” (oggi Istituto Comprensivo “Rita Levi Montalcini”) avevo visto – meglio rivisto, perché è lì da giorni senza che nessuno pulisca – una bella “spatasciata” ricoperta (pensate un po’!) da due biglietti del “Gratta e Vinci”. Forse il bizzarro buontempone pensava che quella popò portasse, così semioccultata, ancor più fortuna al malcapitato che avesse la ventura di inciamparvisi sopra. Ma che bella pensata. Complimenti!

 

Lo stupido sfregio al murale in piazza Risorgimento

Diario minimo urbano. Vedere e ascoltare…per credere

Di Gianni Milani

 

Che inutile sgarbo lo stupido sfregio al murale in piazza Risorgimento a Torino dedicato a Teresa Noce! Piccolo sfregio… eppure nessun si muove

Non so quando sia successo. Ma certamente è opera vandalica di uno stupido (o più stupidi; la stupidità si fortifica se esercitata a bande!) buontempone/i, lo sfregio – una sorta di incomprensibile, insulsa firma e qualche scritta altrettanto insulsa – che mortifica il coloratissimo, eseguito ad arte, murale realzzato nell’aprile del 2017 da Karim Graffiti Cherif in piazza Risorgimento a Torino in memoria di Teresa Noce (Torino, 1900 – Bologna, 1980) fra i primi leader del Pci, nelle cui file fu deputata durante le prime due legislature, antifascista, partigiana, prigioniera in ben tre lager nazisti e madre costituente, attentissima alle esigenze e ai diritti delle donne nonché firmataria della prima legge sulla tutela della maternità delle lavoratrici. Suo nome di battaglia (conferitogli da Palmiro Togliatti), Estella, e moglie “ripudiata” –a sua insaputa – nel 1953 dell’allora presidente del Pci Luigi Longo, Teresa è  simbolicamente rappresentata nel grande murale realizzato sul lato – via Buronzo del Rifugio antiaereo, fra i più grandi degli oltre quaranta scavati in periodo bellico a Torino e riaperto nel ‘95, come un grande fiore rosso, un grande papavero con petali svolazzanti che, nel linguaggio floreale vuole raccontarci di una vita ricca di amori profondi, passioni e orgoglio tristemente sopito. La politica, il marito, i tre figli. Le sue grandi e sofferte vittorie. Le su cocenti sconfitte. La più dolorosa, la cacciata dalla direzione del Pci per salvare, dopo lo scioglimento (nella Repubblica di San Marino) del matrimonio con Longo, la reputazione di uno dei suoi “sommi sacerdoti” e, di conseguenza, dello stesso partito. Un omaggio doveroso, quindi, quell’opera di street art realizzata nella sua città (dove a lei è stata anche dedicata una piazza e una panchina in piazza Arbarello), nel vecchio Borgo Campidoglio, sede del MAU il primo in Italia Museo di Arte Urbana diretto da Edoardo Di Mauro che conta a oggi circa180 murales realizzati sui muri esterni delle case. Suggestivo, glorioso Museo a cielo aperto. Lo stupido “ingombro” compiuto sull’opera di piazza Risorgimento ci sembra anche per davvero cosa da poco. Basterebbe un’esperta pennellata (magari dello stesso autore) a rimettere a posto le cose. Perché non si fà? L’invito è diretto al MAU. E (mi pare il colmo!) alla sezione ANPI – Martiri del Martinetto che si trova a poche centinaia di metri, nella vicina via Bianzé. Ripeto. Costerebbe poco. Tutte le volte che passo lì davanti, se avessi pennelli e colori, sarei tentato a metterci mano io. Ma credo che farei ulteriori disastri. E allora – nonostante la madre degli imbecilli sia sempre incinta – avanti chi può. E deve. Chi ha orecchie per intendere, intenda!

Le donne dell’Età dei lumi, libere e ignorate

LIBRI / Massimo Novelli “Donne  libere” Interlinea  18 euro

Di Pier Franco Quaglieni

Massimo Novelli è uno dei  migliori giornalisti  torinesi  della sua generazione, figlio dell’ indimenticabile Piero, grande firma della “Gazzetta del Popolo“.  E ‘ stato firma autorevole di ”Repubblica“ ed oggi scrive sul “Mattino“. La sua città, come sempre capita ai grandi torinesi, non gli è stata finora sufficientemente grata. I maggiori riconoscimenti li ha avuti come scrittore non sotto la Mole, ma in tutta Italia. Novelli è un rarissimo esempio di giornalista con una vasta ed approfondita cultura storica. Di norma i giornalisti che scrivono di storia sono leggibili (pensiamo a Montanelli), ma poco approfonditi ed a volte poco attendibili. Cosa opposta si può dire per gli storici che seguono criteri metodologici più o meno rigorosi, ma sono riescono a raggiungere il vasto pubblico con il loro periodare trascurato ed a volte persino contorto (pensiamo a De Felice). Novelli riesce ad essere leggibile, pur affrontando i temi con rigore storico che lo rende un giornalista anomalo. In questo nuovo libro, l’ultimo di una lunga e fortunata serie, affronta un tema di particolare interesse: le donne dell’Eta’ dei lumi: amanti, patriote, eroine e pensatrici settecentesche  in molti casi quasi del tutto sconosciute. L’autore ha sicuramente fatto un lungo e disagevole lavoro di ricerca per consentire ai lettori di conoscere un mondo femminile che fa parte dell’Illuminismo anche se non ha mai contato abbastanza . La Rivoluzione Francese che fu la fase che affermò i principi dell’Illuminismo e li tradì quando scelse il giacobinismo, non fu abbastanza attenta alla parità tra i due sessi perché i suoi protagonisti furono quasi interamente ed esclusivamente uomini. Il cammino della parità non è neppure concluso oggi a distanza di secoli. Le figure femminili che Novelli indaga sono state ignorate da una storia scritta al maschile. Anche un maestro come Franco Venturi che ha scritto pagine conclusive sul ”Settecento riformatore“ e sui diversi Illuminismo, malgrado la militanza politica della giovinezza in G.L., ha rivolto la sua attenzione ai Verri, ai Beccaria, al Passerano amato da Gobetti  e a tanti altri personaggi maschili. Un illuminista sui generis, uomo controcorrente anche lui molto amato da Gobetti, il Baretti manifestò una incomprensione astiosa verso il mondo femminile, malgrado le aperture internazionali della sua vita e della sua cultura. Novelli sembra rispondere a Baretti dimostrando che l’universo femminile settecentesco che passa dai cicisbei e dalle parrucche incipriate alle ghigliottine e alle trichoteuses, è ricco di personalità diverse in tutta Europa che attraversano le classi  sociali, rivelandosi protagoniste capaci di battersi per le loro idee. Novelli  scrive di un  amore del principe Eugenio di Savoia, di una margravia di Brandeburgo, dell’amica di Lord Byron, delle ballerine di Casanova, ma scrive anche di donne che non vivono di luce riflessa. La stessa  moglie del Conte Passerano è un esempio di donna con una sua precisa e forte personalità. Ci sono donne di umili origini, cortigiane, persino soldatesse. Se l’Illuminismo fu una sfida ai pregiudizi, questa sfida andrebbe declinata soprattutto al femminile. E’ un libro obbligatoriamente da leggere da parte di chi chi ritiene il Secolo dei Lumi la grande stagione del rinnovamento  civile e kantianamente  lo sente come l’uscita dallo stato di minorità.  Quello di Novelli è un libro che avrebbe dovuto scrivere Venturi o anche solo Ricuperati. Ma succede che gli storici trascurino elementi importanti e siano i giornalisti a colmare le lacune. Non voglio far arrabbiare l’autore, ma mi sia consentito di ricordare cosa scrisse il giornalista  Pansa su temi ignorati dagli storici. Tra Pansa e Novelli c’è però una grande differenza : il primo non andò mai oltre il giornalismo , mentre Novelli si rivela corazzato di una cultura storica che gli consente di scrivere libri di significativo ed originale spessore storico.

Pane e talebani

IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

Da alcune settimane le notizie provenienti dall’Asia centrale sono il pane quotidiano di tutti gli analisti, anche di quelli che si concentrano sulle sue ripercussioni economiche.

 

Dopo la presa del potere da parte dei talebani la Cina si è detta subito disponibile a intraprendere con loro relazioni “cooperative ed amichevoli” e l’agenzia di comunicazione ufficiale di Pechino ha sottolineato come ora l’ Afghanistan potrà finalmente beneficiare degli investimenti previsti dalla “Nuova via della seta”, la “Belt and Road Initiative (BRI)”.

 

Si tratta dell’ imponente progetto che viene descritto per esteso nel sito governativo cinese come “Silk Road Economic Belt and the 21st-Century Maritime Silk Road”.

 

​La “cintura (belt)” è costituita dalla rete di collegamenti via terra tra la Cina e l’Europa mentre la “strada (Road)” circumnaviga le terre emerse, dal Mare Cinese meridionale al Mediterraneo.

 

Alcuni analisti lo ritengono un tentativo di esportare la globalizzazione in stile cinese assumendo il controllo economico di regioni sempre più ampie.

E’ curioso come ad innescare questa iniziativa siano stati proprio i loro attuali maggiori critici, gli Stati Uniti, quando nel 2011 l’allora segretario di Stato Hillary Clinton propose la creazione di una Nuova Via della Seta con al centro proprio l’Afghanistan.

 

Pungolata (e irritata) da una intrusione in quella che percepiva la propria area di influenza, la leadership cinese decise proprio allora di unire i singoli progetti intrapresi in giro per il mondo in una strategia ad ampio respiro.

 

Due anni dopo, nel 2013, il presidente Xi Jinping, annunciava ufficialmente la BRI, un gigantesco progetto di rafforzamento dei collegamenti e delle comunicazioni che andava ben oltre la regione euroasiatica, estendendosi sino al continente africano (al centro da tempo degli interessi del Celeste impero, sempre alla ricerca di fonti di approvvigionamento di materie prime per le proprie industrie).

 

L’obiettivo dichiarato, dettato da una visione globale del mondo che consentirà, a progetto completato, di dotare delle infrastrutture fondamentali (strade, oleodotti, ferrovie, ponti…) i Paesi in via di sviluppo, sarebbe quello di consentire una riduzione della povertà e delle disuguaglianze.

 

Inoltre saranno ridotti i costi ed i tempi richiesti al trasporto e questo si tradurrà in una maggiore crescita economica.

 

Pur se non esplicitamente menzionati innumerevoli sono i vantaggi per la stessa Cina che sarà così in grado di beneficiare, con le proprie aziende, di grandi commesse (finanziate in buona parte dai Paesi coinvolti) per i progetti da realizzare, potrà aprire nuovi mercati per la proprie aziende (sempre alla ricerca di nuovi mercati di sbocco che ne riducano la dipendenza da quello americano) ed avrà accesso all’esplorazione di vasti bacini di risorse naturali (delle quali è il principale consumatore mondiale).

 

Proprio questo ultimo aspetto risulta un evidente corollario del passaggio del testimone a Kabul.

Negli ultimi vent’anni le ricche miniere afghane hanno prodotto per il governo locale ingenti perdite (qualche centinaia di milioni di dollari ogni anno) e la precaria sicurezza (atti di violenza e intimidazione hanno impedito la messa in produzione della maggior parte delle miniere) ha scoraggiato gli investitori internazionali (con l’eccezione della Cina).

 

Il mese scorso il co-fondatore (con il mullah Mohammed Omar, morto di tubercolosi nel 2013) del ricostituito Emirato islamico dell’Afghanistan e Presidente de facto di quest’ultimo, Abdul Ghani Baradar, ha incontrato il ministro degli esteri cinesi Wang Yi.

 

Uno dei temi del vertice sino-talebano è stato sicuramente la “normalizzazione” della situazione afghana e la messa in sicurezza delle attività minerarie (la cinese Metallurgical Corporation of China, MCC, è il principale operatore del settore nel Paese) oltreché la garanzia di non intervenire in aiuto della minoranza islamica uigura in Cina.

 

Si preannuncia per i Paesi occidentali una sempre più sgradita dipendenza nelle preziose “terre rare”, indispensabili per la produzione di prodotti ad alta tecnologia (dai superconduttori ai motori per veicoli elettrici), dalla Cina (principale produttore) e dai suoi alleati.

 

A volere riscuotere il dividendo talebano c’è poi, oltre alla “solita” Russia (storicamente molto attiva nella regione) anche il Pakistan (Paese che, pur ricevendo enormi quantità di denaro dagli Stati Uniti, si è dimostrato assai poco affidabile nel contenere il terrorismo internazionale), nelle cui “madrase” hanno studiato molti dei nuovi governanti afghani, che già nel 1996 aveva fornito il suo supporto al governo degli “studenti” e questo potrebbe tradursi in accresciute tensioni con l’odiato vicino: l’India.

 

Dal punto di vista economico le conseguenze immediate di tutto ciò sono limitate ma l’ombra degli eventi di questi giorni si allungherà sicuramente nei prossimi anni ed è opportuno valutarle sin da ora per poterne prevenire gli effetti.

 

Nei giorni e mesi che verranno il principale rischio è quello umanitario e occorrerà che tutti i Paesi si attivino affinchè non si ripetano i fenomeni che hanno portato in passato allo sterminio e alla sottomissione di tutti coloro che si opponevano al regime.

 

L’Afghanistan ha una vasta superficie, pari a quella dell’Italia e della Germania, per lo più montuosa e desertica, insieme ed una popolazione (circa 38 milioni) di poco superiore ad un quarto alla nostra sommata a quella tedesca.

La capitale Kabul ha calamitato negli ultimi anni una fetta crescente di afghani sino agli attuali 5 milioni, che sono anche quelli più “occidentalizzati” e proprio perciò a rischio più elevato di subire persecuzioni e ritorsioni.

 

Solo uno stretto controllo della situazione da parte del mondo civilizzato, in questo momento alla finestra, potrà mantenere alta l’attenzione ed evitare le conseguenze più estreme.

 

Fondamentale sarà la pressione nei confronti della Cina: essendo l’unico Paese ad avere le carte in grado di influenzare l’esito della partita dovremo scongiurare il rischio che decida di tenerle in mano, giocandole solo quando lo riterrà ed a proprio unico vantaggio.

 

Non sarà certo un compito facile perché, come amava dire il segretario di Stato americano Henry Kissinger:  “I Cinesi, avendo fatto a meno di noi per 5.000 anni, pensano di potere continuare a farne a meno.”

 

“L’orto fascista” Romanzo / 12

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XLVII

Lucia non aveva avuto tempo per pensare quale seguito dare alla sua avventura bresciana e quali decisioni prendere, distratta, come tutti in paese, da quanto successo. Aveva, di sfuggita, ipotizzato di parlarne con il marito cercando di trovare le parole giuste per descrivere una situazione che avrebbe lasciato perplesso chiunque. Ma un dubbio l’aveva assalita da subito e un po’ terrorizzata.
E se, per non sovraccaricarsi di problemi, il marito si fosse dimostrato indifferente alla gravità della cosa?
Da tempo aveva capito quanto lui si fosse staccato da lei e, addirittura a volte, la considerasse persino un peso. Di sicuro non mostrava alcun affetto nei suoi confronti. L’aveva dimostrato anche con la mancanza di preoccupa- zione la sera del suo rientro da Brescia a notte fatta. Sapendo dove si era recata avrebbe potuto telefonare all’Ovra per avere notizie e non lo aveva fatto. Al suo ritorno non le aveva neppure chiesto se stesse bene, o se avesse avuto qualche contrattempo. No, solo un bacio frettoloso sulla porta di casa ed un arrivederci al giorno dopo. Tutto questo colpiva enormemente il suo orgoglio, l’orgoglio di una donna che si sapeva intelligente, sicura- mente più colta del marito e molto desiderata dagli uomini. Se avesse appurato l’indifferenza del coniuge gliela avrebbe fatta pagare. Sapeva a chi rivolgere le sue attenzioni andando a colpo sicuro e, questa volta, per appaga-re sé stessa e non le smanie di carriera del marito.
In fin dei conti quel farmacista che si era fatto avanti tempo prima non era sicuramente un uomo da buttar via. Forse era stata troppo drastica nel respingerlo. D’al- tra parte rivolgere pubblicamente lo sdegno che nutriva nei riguardi di quel lurido Parroco poteva essere pericoloso e rivoltarsi contro di lei. Dopo il suo intervento all’arresto dei suoi paesani da parte delle SS, il prete era diventato, agli occhi di tutti, fascisti e non, quasi un eroe. Non sarebbe riuscita a rendersi credibile. Inoltre avrebbe dovuto giustificare la sua presenza negli uffici dell’Ovra in un momento assai delicato per il Regime. Avrebbe avuto bisogno dell’appoggio delle autorità fasci- ste, ma quale sarebbe stato il prezzo che avrebbe dovuto pagare per ottenerlo? Qualche dubbio sul modo di agire dei fascisti e dei tedeschi cominciava a insidiarla.

Il pomeriggio del giorno dopo la brutta avventura si era incontrata con l’amica Annetta. Questa, ancora sotto shock, le aveva raccontato quanto si era verificato in sua presenza nella casa-prigione. La descrizione particolareggiata delle sevizie alle quali era stato sottoposto il Fausto Domeneghini l’aveva sconvolta ed il fatto che il marito avesse in qualche modo tacitamente approvata l’azione dei tedeschi le dava il voltastomaco. Desiderò cancellare il ricordo degli ultimi avvenimenti. Si sentiva sola, triste e priva di quelle sicurezze che da anni la sostenevano.
Fu così che decise di non compiere alcun atto contro il Parroco: in fin dei conti, ammise, non era stata violentata
– se non moralmente, ma forse dava un po’ troppa importanza al fatto. L’unico, orribile, contatto con il corpo del prete era stato quando lui aveva insinuato le mani tra l sue cosce. L’unico, almeno, che lei ricordasse. Ma in fin dei conti poteva essere lo scotto da pagare, la giusta punizione alla indegna disponibilità che aveva preso di soddisfare voglie di altri uomini per avvantaggiare la carriera del marito. Giunta a questa decisione si sentì immediatamente meglio. Forse avrebbe fatto un salto in farmacia a comprare qualche cachet se le fosse tornato il mal di testa, ma in effetti per farsi vedere dal farmacista e chissà… Il Temperini aveva ripreso la sua vita abituale. Ora che il pericolo che si verificassero altre conseguenze all’attenta- to, sembrava passato, aveva una gran voglia di racconta- re a tutti la parte – Eroica, ragazzi. Mica da ridere porta- re a spasso della dinamite. E se non ci fossi stato io chi avrebbe avuto il coraggio di farlo? – avuta nell’atto di ribellione ai tedeschi. Più di una volta al bar si era morsicato la lingua per evita- re di lasciarsi andare ad un racconto, romanzato, di quan- to aveva fatto. Ma non poteva assolutamente coinvolgere i suoi soci in eventuali conseguenze e non era, comunque, il caso di rischiare. Ormai i partigiani al nord e gli anglo- americani che stavano risalendo l’Italia stavano dando un colpo mortale alla resistenza fascista e ai tedeschi.
La Liberazione stava avvicinandosi. Bisognava avere pa- zienza, aspettare, ma dopo quanto avrebbe avuto da rac- contare! E intanto ci ricamava su col pensiero, aggiungen- do ai fatti realmente accaduti particolari inventati per ren- dere la descrizione più gustosa e affascinante.
“Signora Lucia, vederLa è sempre un gran piacere per gli occhi. Grazie per la visita. Cosa posso fare per Lei?” dis- se, col più bello dei sorrisi possibili, alla maestra quando entrò in farmacia.

 

 

XLVIII

Lo chiamavano tutti Cantamessa da così tanto tempo che nessuno ricordava più il suo vero nome. Il soprannome era dovuto al fatto che passava tutta la giornata, qualsiasi lavoro facesse, cantando inni sacri, la messa solenne in un approssimativo latino – che nessuno comunque sapeva correggere – a volte avventurandosi in qualche Canto Gregoriano. Aveva una discreta voce baritonale che contrastava con il suo fisico minuto, che però era provvisto di una gabbia toracica davvero abnorme. Diceva di aver imparato tutta quella roba di chiesa quando faceva il giardiniere presso il seminario di Bergamo dove aveva studiato don Pompeo. Del Parroco però, inspiegabilmente, non voleva parlare, lasciando capire di aver ricevuto dal
giovane seminarista qualche ingiustizia. Viveva poveramente traendo qualche frutto da un orto nel quale curava una serra. Lì coltivava poche piante da fiore che vendeva, più che altro in occasione delle festività. Lavorava anche a giornata presso alcuni possidenti quando era il periodo della potatura delle viti e degli alberi da frutta.
In questo era molto bravo e quindi ricercato. Ma vigne- ti e broli non erano così tanti da procuragli soldi sufficienti a una esistenza decente. Arrotondava con la raccolta delle castagne, dei funghi e con la vendemmia. Un giorno che stava camminando verso casa, incontrò Ernesto, lo fermò e gli chiese: “Sei tu il responsabile dell’orto dei bambini?” Avutane risposta positiva continuò: “Quest’anno non piove e non ha voglia di nevicare. Il grano è spuntato ma se non lo bagnate finisce che secca e muore”.
Era uno che se ne intendeva, lo riconoscevano tutti e il bambino, che ne aveva sentito parlare dagli adulti, tenne in grande considerazione il consiglio. Sorrise al vecchio, ringraziandolo, e la mattina successiva chiese alla maestra il permesso di recarsi, insieme al fido amico Bertolasi, a bagnare l’Orto Fascista. Gli era stato consigliato dal Cantamessa e quindi era sicuramente cosa da fare. Entrambi i ragazzi avevano una preparazione superiore alla media della classe: nulla in contrario, da parte della maestra, se saltavano qualche ora di lezione.
Fu così che i due bambini uscirono da scuola. Avevano bisogno di un innaffiatoio e Ernesto sapeva dove trovarlo. Tornò a casa e raggiunse il fondaco ove la vecchia zia Erminia, sorella del nonno e vedova da anni, teneva i suoi attrezzi. L’Erminia aveva tre grandi amori: il Padreterno, che onorava assistendo ogni giorno alla Santa Messa con Comunione, i suoi sette gatti per i quali si sarebbe sottratta, se necessario, il cibo di bocca, e i suoi gerani. Questi erano, tutti gli anni, i più belli del paese e lei ne riempi- va i davanzali delle finestre e le ringhiere dell’ampio ter- razzo che dava sulla piazza Mercato. Si diceva che riuscisse ad ottenere foglie verdissime e fiori dai colori brillanti bagnandoli con acqua mista alla sua urina.
Chi però, in paese, aveva provato questa forma di “concimazione” ne aveva ottenuto risultati opposti. Le pian- te avevano, in breve tempo, perso le foglie e i fiori appassivano. Forse sbagliavano il dosaggio o forse la loro urina non aveva la qualità di quella dell’Erminia.

Lei era gelosissima dei suoi attrezzi e quindi bisognava prendere quello che ai ragazzi serviva senza farsi vedere. Chiedere il permesso sarebbe stato inutile. La vecchia zia avrebbe trovato di sicuro una scusa per non affidare qualcosa a Ernesto del quale, data la sua giovane età, non si fidava. Vi erano diversi tipi di innaffiatoi e i ragazzi ne scelsero uno, non troppo grande da essere per loro troppo pesante né troppo piccolo che obbligasse loro a fare, troppo spesso, avanti indietro tra l’orto e la fontana. Sgusciarono fuori dal cortile tenendosi rasenti al muro di casa per non farsi vedere; fecero mezzo giro della piazza per allontanarsi dalla vista dell’Erminia, si accostarono alla fontana e riempirono il contenitore. Dopo due ore di duro lavoro i ragazzi, nonostante la giornata fredda dei primi di dicembre, erano sudati e stanchi morti. Decisero di interrompere il lavoro per riprenderlo, se avessero avuto il permesso della maestra, l’indomani.
Pensarono di non riportare l’innaffiatoio a casa: correva- no il rischio di essere scoperti o subito o l’indomani mattina quando lo avrebbero dovuto nuovamente prelevare. Che si scoprisse l’ammanco era praticamente impossibile, non era tempo di gerani e la vecchia zia non aveva alcuna ragione di andare nel fondaco a controllare.
Avrebbero ricoverato l’innaffiatoio nel gabbiotto degli attrezzi. Chi avrebbe potuto rubarlo?

 

Il Mario andò dal bidello della scuola per farsi dare la chiave del lucchetto. Al suo ritorno aprirono il portoncino e Ernesto cercò, spostando gli attrezzi che erano al- l’interno, di fare spazio. Muovendo il sacchetto di se- menti avanzate alla semina autunnale, nel semibuio del piccolo locale, improvvisamente gli apparve una cosa strana: una specie di candela grigia con una corda che usciva da uno dei capi. Allungò una mano e la prese portandola all’esterno. Sia lui che il Bertolasi esclamarono all’unisono “Ma questo è un candelotto di dinamite!” Cosa farne? Portarlo ai Carabinieri o nasconderlo in qualche posto? Entrambi capirono che doveva far parte dell’esplosivo che era stato usato per far saltare in alto la vettura e uccidere il soldato tedesco. Era qualcosa che scottava. Ernesto era il responsabile dell’orto. Non è che potessero incolparlo di qualche cosa?
“Facciamolo sparire, dai! Poi ci penseremo” concordarono. Vuotarono il sacchetto delle sementi, ci misero il candelotto e chiusero il gabbiotto.

 

XLIX

Per tutti i bambini della bergamasca e del bresciano il giorno più felice dell’anno è il 13 di Dicembre. Nel giorno in cui si festeggia Santa Lucia non vi è bambino, anche se di famiglia poverissima, che non riceva qualche dono. Santa Lucia, di origine siracusana, protettrice dei ciechi, è ricordata anche perché elargì il suo immenso patrimonio ai poveri. Da tempo immemorabile in quelle zone ha preso il posto di Gesù Bambino e di Babbo Natale. E’ giorno feriale ma le scuole rimangono chiuse per per- mettere, a chi li riceve, di giocare con i regali portati
dalla Santa. Anche in tempo di guerra, quando la povertà dilagava, quasi nessun bambino rimaneva senza un regalo, anche solo una fionda, fatta da un ramo biforcuto di nocciolo con due pezzi di camera d’aria di bicicletta, o una palla di pezza. Quell’anno Ernesto quando si alzò, dopo una notte quasi insonne per l’attesa, trovò un regalo magnifico che lo fece impazzire di gioia. Un pallone di vero cuoio! Una cosa difficilmente trovabile in un periodo di autarchia, frutto, forse, di una ricerca fatta da suo padre.
Il pallone mandava un profumo del quale Ernesto si riempì i polmoni. Gridando “Grazie, grazie, grazie!” scese precipitosamente le scale in cerca degli amici con i quali voleva condividere la sua gioia. Li trovò tutti con in mano il loro regalo che presto dimenticarono attratti da quella splendida sfera di cuoio che prometteva, final- mente, di giocare veramente “al calcio” e non, come erano abituati, con delle palle di stracci.
Si riunirono subito in piazza Mercato, fissarono dei segni per stabilire i margini delle porte e poi cominciarono a formare le squadre.
Grandi discussioni: coppie che avevano giocato per tanto tempo insieme che non si volevano dividere ma che erano costrette a farlo per equilibrare le forze in campo; nessuno che voleva fare il portiere che è sempre destina- to a toccare pochi palloni e che, se si deve “tuffare” per parare, nel caso specifico lo doveva fare su un terreno ricoperto di sassi; il solito primo della classe che voleva essere l’arbitro e giudice unico per punire, a suo piaci- mento, i ragazzi che gli stavano antipatici; nessuno che voleva in squadra il Bertolasi che era considerato un veneziano perché non passava mai la palla; ecc. ecc.

Finalmente fu tutto stabilito. Si stava per dare inizio alla partita quando, rombante, arrivò il sidecar dei tedeschi. Il pilota andò a posizionarlo a dieci metri dall’albergo Fumo, quasi al centro del campo ove si sarebbe giocata la partita. I ragazzi protestarono rumorosamente ma il tedesco non capì cosa volessero o, molto più probabil- mente, fece finta di non capire ed entrò nell’albergo.
Ci fu un veloce conciliabolo ma la frenesia nei ragazzi era tanta e la partita ebbe inizio.
Quando la squadra di Ernesto vinceva per 2 a 0, ed il nervosismo già dilagava nella formazione avversaria, il Giacomino, terrore di tutti i portieri per le “staffilate” che riusciva a far partire da due piedoni sistemati al termine di gambe possenti, si accinse a tirare una punizione. L’intervento dell’arbitro e la punizione contro la squadra di Ernesto era stata lungamente contestata ma, alla fine, correttamente accettata. Il Giacomino intende- va tirare direttamente nella porta che distava almeno 30 metri, prese una lunga rincorsa e fece partire un tiro vio- lento. Il pallone, colpito con troppa foga e non con la punta della scarpa, non seguì la traiettoria sperata ma andò a colpire violentemente il fanale anteriore del motociclo tedesco, facendolo andare in mille pezzi.
Il silenzio che cadde in piazza fu interrotto dalle urla del pilota del mezzo che, avendo assistito all’accaduto dalla finestra della sua stanza al secondo piano, si era precipitato giù dalle scale. Appena uscito il militare si fermò, mettendosi le mani nei capelli, nel vedere il disastro che si presentava ai suoi occhi. Si avvicinò lentamente al motociclo, lo guardò con nello sguardo la stessa apprensione con la quale un padre può guardare un figlio gravemente ammalato. Fu uno sguardo lungo, profondo, doloroso.
“Ciapal nel cul” disse sottovoce il Bettino che non perde- va occasione per mettere in luce le sue doti di scurrilità. Poi il tedesco si abbassò, prese il pallone che era rimasto incastrato, non si sa come, tra la ruota anteriore ed il telaio del sidecar. Con il braccio quasi lo circondò tenendolo all’altezza della vita. Lentamente tolse il pugnale dal fodero che aveva legato alla cintura. Alzò il braccio e fece calare con violenza il pugnale sul pallone mentre un coro di “NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO” si
levava dai bambini.

Buttò il pallone, squarciato e ormai inservibile, per terra e guardò con aria di sfida i ragazzi che erano rimasti impietriti. Ernesto si fece avanti mentre i suoi amici lo guardavano con amicizia e compassione. Arrivato all’altezza del tede- sco raccolse il pallone, o meglio quello che era rimasto del pallone. Non disse neppure una parola ma lasciò an- dare un violento calcio alla gamba dell’uomo che, però, non subì alcun danno essendo riparata dai pesanti stiva- li. Anzi, la cosa divertì molto il militare che se ne andò ridendo scompostamente mentre il bambino, che regge- va il pallone tra le braccia quasi fosse un essere vivente, raggiunse il cancello della casa dei nonni e singhiozzan-do si lasciò cadere a sedere per terra.
“Questa me la paga, giuro che me la paga”.

 

L

“Ci vediamo questo pomeriggio alle due al covo” aveva detto l’Ernesto prima di raccogliere quello che era stato un pallone e tornarsene, tristemente, a casa. Adesso erano lì tutti in quel piccolo locale in pietra semi- diroccato, sulla stradina che portava al Castello. Era abbandonato da anni e nessuno più ricordava chi fosse il proprietario e perché fosse stato costruito. Conservava ancora una porta che si apriva con difficoltà ostacolata dal terriccio che si andava accumulando all’interno del locale. Le due finestrelle erano prive di una qualsiasi chiusura. Per i ragazzi era comunque il “covo”, il posto ideale, cari- co di mistero, dove amavano trovarsi per organizzare qualche avventura. Erano tutti eccitati perché, di sicuro, come aveva preannunciato Ernesto si sarebbe presa una decisione per vendicarsi del danno subito. Il pallone, an- che se aveva, o meglio aveva avuto, un unico proprieta- rio era come se fosse, o fosse stato, un po’ di tutti.
Fu eseguito il solito rito di introduzione. Tutti giurarono solennemente, incrociando gli indici più volte sulle lab- bra, che quanto detto o ascoltato non sarebbe stato riferito, mai e per nessuna ragione, ad alcuno. Tutti sputarono al centro del cerchio che avevano formato con i loro corpi: era ritenuto un gesto scaramantico.
Poi iniziò la discussione. C’era chi suggeriva di fare una dimostrazione sotto le finestre delle camere dei tedeschi con cartelli pieni di offese; chi voleva pisciare all’interno del vano del sidecar dove si ospita il passeggero; chi ne voleva bucare le ruote; chi, ancora, molto più semplicemente, voleva scrivere una lettera al Comando Tedesco di Brescia chiedendo un nuovo pallone. Il Bettino, che desiderava sempre esibirsi in volgarità, pro- pose che sulla carrozzeria del sidecar venisse scritto: “Chi guida è una testa di cazzo”.
Alla fine prese la parola, nel silenzio generale, Ernesto. Fu lapidario:
“Il sidecar? Glielo facciamo saltare in aria!”.

Tutti pensarono a una battuta. Tutti tranne il Mario che capì subito che l’amico si riferiva all’impiego del candelotto di dinamite trovato nel gabbiotto dell’Orto Fascista. Ernesto, troppo emozionato dalla decisione presa, disse al Mario di raccontare a tutti come poteva essere fatta la cosa.
Un brivido di eccitazione corse nelle vene dei ragazzi. Si stava affrontando una storia vera, una storia che sarebbe passata ai posteri per la sua importanza. Fu deciso di attendere che il motociclo venisse riparato. Poi, di notte, lo avrebbero fatto saltare in aria.
Si accettavano volontari per compiere la vendetta. E’ inutile dire che tutti si candidarono, ma dovevano essere al massimo tre o quattro i ragazzi coinvolti per non dare troppo nell’occhio.
Il piano fu proposto da Ernesto. Ci aveva pensato e aveva deciso che sarebbe stato il più semplice possibile: da por- tarsi a termine nel giro di pochi minuti per non correre il rischio di essere scoperti. Venne scartato il Mario che abitava molto lontano e avrebbe impiegato troppo tempo per raggiungere, dopo il fatto, casa sua. Ernesto aveva pensato di usare la collaborazione attiva del Giacomino, che abitava nella parte ovest della vecchia villa dove anche lui abitava, e del Giovanni Pivetti. Questo, anche se chiamato Cagasotto, per non aver mai dimostrato molto coraggio quando c’era da compiere qualcosa di pericoloso, era una ragazzo sveglio, preciso e affidabile.
Per non demoralizzare nessuno Ernesto distribuì un in- carico, che lui definiva “speciale” a quasi tutti, in modo che tutti si sentissero veramente partecipi al grande evento.
Lui e il Giacomino, verso le ventitré del giorno stabilito, avrebbero raggiunto il motociclo e messo sotto il telaio il candelotto di dinamite. Accesa la miccia, se la sarebbero data a gambe per il vicolo dei Broli, quello che passa dietro l’albergo Fumo. All’altezza del muro del cortile del Giacomino, il Pivetti avrebbe fatto trovare una scala già posizionata per poter raggiungere la cima del muro e calarsi dall’altra parte. Dopo essere stata usata, la scala sarebbe stata riportata nel fienile dei Pivetti e rimessa al suo posto. Raggiunto il cortile, Giacomino sarebbe rientrato a casa attraverso una finestra, lasciata appositamente aperta, mentre Ernesto avrebbe raggiunto l’orto dei nonni, scavalcando il muretto di divisione, e quindi an- che lui rientrato in casa sua.
Lo scoppio, che sicuramente sarebbe stato sentito da tut- ti gli abitanti della piazza, avrebbe creato molta confusione e paura e la presenza in giro dei bambini sarebbe rimasta inosservata.

 

 

LI

Passò una lunga settimana prima che i pezzi di ricambio giungessero, probabilmente dalla Germania, maalla fine il nuovo fanale del motomezzo fu montato. “Dobbiamo farlo questa sera” sussurrò Ernesto, che era arrivato tardi a scuola e non ne aveva potuto parlare prima con il Mario. “Passa parola, poi ti spiego. Tutti al covo alle due”.
In breve tutti i ragazzi coinvolti furono avvisati e presi da una grande euforia giustificabile dall’incoscienza della giovane età. All’ora prestabilita erano presenti tutti. Furono ripassate le parti ed apparve, tra l’emozione di tutti, il famoso candelotto. Ernesto spiegò che non vi era più tempo, perché sua mamma sperava che il papà potesse venire a Breno per passare con loro, in occasione del Natale, qualche gior- no di riposo. Lui, con in giro suo padre, non se la sentiva di agire.
Purtroppo nessuno ancora possedeva un orologio da polso e quindi ci si doveva attenere agli orari dettati dal campanile.
Ernesto e Giacomino si erano organizzati per incontrar- si, sempre nascostamente, la sera e tenersi compagnia ma soprattutto tenersi svegli. Ma del Pivetti ci si poteva fida- re? Suo padre faceva il turno di notte presso la Ferriera e usciva di casa alle 21. La madre, dopo una giornata di lavoro, che iniziava alle cinque e mezza come addetta alle pulizie nel locale ospedale, alla sera alle otto crollava per la stanchezza e se ne andava a dormire. Addormentata la mamma ed uscito il padre, il Pivetti avrebbe raggiunto Ernesto e Giacomino, e insieme avrebbero atteso l’ora per agire. E così si fece.

All’albergo Fumo l’Hauptmann Reserve Franz non riusciva a dormire. Negli ultimi tempi, con l’avvicinarsi del Natale, aveva sempre più nostalgia della sua famiglia e soprattutto della moglie. Sarebbe stato il secondo Natale consecutivo che passava lontano da casa per combattere una guerra che riteneva sempre più ingiusta e ormai definitivamente persa. Non ce la faceva più a sopportare quegli sguardi di odio che gli giungevano dagli italiani quando girava per Breno o nei paesi vicini.
Superato il trauma per la morte di Berndt e per l’arrivo dello Sturmbannführer, si era anche rammaricato di aver trattato, la sera dell’attentato, in quel modo violento la povera Benedetta che, sicuramente, non poteva aver partecipato all’organizzazione dell’attentato. Con il suo modo di fare aveva perso anche lei. Poter fare all’amore con una donna che tanto gli ricordava sua moglie sarebbe stato sicuramente un palliativo per la sua solitudine, ma, comunque, un bel palliativo. Almeno dieci volte aveva avuto la tentazione di avvicinarla e di scusarsi, ma il suo “onore” di soldato aveva avuto sempre il sopravvento e glielo aveva impedito. Continuò a rigirarsi nel letto sino a quando gli venne voglia di mangiare un po’ di cioccolata.
– Allora è vero – pensò – che la cioccolata è un aiuto alla mancanza di affetto. Sono veramente messo male, alla mia età. –
Si alzò, prese una delle tavolette che ogni tanto gli arrivavano dal Comando di Brescia e si mise a mangiarla avvicinandosi alla finestra.
Era una triste nottata, come tante altre con le luci spente ed il silenzio assoluto del paese che dormiva.
Da tempo non pioveva, quell’anno non aveva neppure nevicato e le strade del paese erano sporche, le case gri- gie. Nel buio sembravano ancora più scure. Ah che bello il suo paese in mezzo alle montagne della Baviera quando la neve scendendo rendeva tutto candido e pulito. – Che desiderio ho, che grande desiderio di pace! – pensò. Quando il campanile cominciò a suonare gli undici colpi, dal cancello di casa Ronchi uscirono tre bambini. Due proseguirono tagliando diagonalmente la piazza in direzione dell’Albergo; il terzo si diresse a destra raggiungendo il vicolo dei Broli.
Franz, fermo davanti alla finestra, vide qualcosa muoversi in piazza ma, al momento non vi fece caso, così perso nei suoi nostalgici pensieri. Poi vide chiaramente due bambini che si avvicinavano, con qualche cautela, al sidecar.

– Due bambini? A quest’ora? Cosa ci fanno in giro due bambini? Qualcosa di veramente strano. – Cercò di capire se e come doveva agire. Probabilmente i ragazzi volevano fare solo uno scherzo: magari sgonfiare una delle ruote del motociclo. Ciò avrebbe mandato su tutte le furie, la mattina dopo Sebastian, il conducente. Se avesse aperto la finestra e si fosse messo ad urlare, o, peggio ancora, avesse esploso un colpo di pistola in aria, i ragazzi avrebbero desistito dal loro intento e sarebbero scappati. Ma alle sue urla, o al colpo di pistola, tutta la piazza si sarebbe svegliata, i ragazzi sarebbe nel frattempo spariti, e lui alla vista dei brenesi sarebbe apparso co- me un pazzo urlante, o peggio come un pazzo armato, alla finestra davanti ad una piazza deserta.
Aprì comunque la finestra ma decise di attendere. I ragazzi erano ormai arrivati al sidecar. Improvvisamente vide una fiammella, poi sentì lo sfrigolio caratteristico di una miccia che brucia.
E allora capì, ma era troppo tardi. Quando la deflagra- zione avvenne, lui era fermo, impalato davanti alla finestra, incapace di muoversi.
Lo scoppio, pochi secondi di silenzio e poi il rumore dei pezzi del motociclo che, dopo essere stati proiettati in aria, ricadevano sull’acciottolato.
Fu questo rumore che lo richiamò alla realtà. Alla triste realtà. L’Hauptmann Reserve Franz si sentiva svuotato dall’onore di soldato che lo aveva sostenuto per tanto tempo nelle avversità. Il suo onore era stato disintegrato insieme al sidecar.
Cadde in ginocchio davanti alla finestra e si mise a piangere, a piangere per quanto aveva perduto; per la guerra che odiava e che non avrebbe mai voluto combattere; per quel pazzo del Führer che voleva continuarla; per quello che sarebbe stato il suo futuro, ora che per incapacità non aveva saputo evitare l’attentato compiuto nientemeno che da due bambini; per la prima linea, al fronte, alla quale sarebbe stato inviato per punizione; per i grandi e sodi seni di sua moglie che chissà per quanto tempo ancora non avrebbe potuto baciare; per i biondi capelli dei sui figli, che non vedeva da tanto, troppo tempo, e che aveva tanto desiderio di accarezzare; per il suo bel paese che gli man- cava immensamente e che in quei giorni si apprestava a festeggiare un Natale forse imbiancato dalla neve. Un tri- ste Natale, ma comunque sempre un giorno che è festa solo in presenza di bambini e persone care.
Allungò una mano e prese da sopra il cassettone la pistola di ordinanza. Pensò intensamente ai propri genitori morti da poco, ai figli tanto amati, alla sua dolce moglie. Poi ebbe una visione: sua mamma gli si avvicinava, gli scompigliava affettuosamente i capelli come faceva spesso quando lui era bambino, lo prendeva per mano e lo portava con sé.
Ma questo avvenne prima o dopo che ebbe tirato il gri letto?

 

 

LII

Icinque militari tedeschi, svegliati dall’esplosione, si precipitarono fuori dall’albergo e rimasero in silenzio,
scioccati dallo spettacolo che era davanti ai loro occhi. Il terreno stava ancora fumando e piccoli pezzi di quello che era stato un sidecar erano sparsi dappertutto.
Nessun rumore proveniva dal paese; nessuna persiana si era aperta anche se, sicuramente, gli abitanti della piazza guardavano tra una stecca e l’altra il teatro dell’attentato. Il pilota del sidecar si era chinato a raccogliere la sella del posto di guida che era rimasta stranamente intatta. La stringeva a sé guardandola intensamente, come se tra le mani reggesse un figlio.
Dopo qualche minuto i militari si accorsero che in piazza non vi era il loro comandante. Il soldato che aveva preso il posto di Bernd come aiutante dell’Hauptmann Reserve, si precipitò su per le scale per raggiungere la sua stanza. La trovò chiusa a chiave. Bussò violentemente senza ricevere alcuna risposta. Allora si precipitò alla finestra del corridoio chiamando i suoi commilitoni che lo raggiunsero di corsa. Il più gros- so dei cinque si buttò, di peso, contro la porta che si staccò dai cardini cadendo rumorosamente a terra.
Sul pavimento giaceva il grosso corpo del loro comandante, con il cranio sfondato dal colpo della pistola che era ancora nella sua mano. Gli uomini rimasero come paralizzati, mentre il senso di rabbia che si era scatenato dopo quanto visto nella piazza lasciava ora il posto allo sgomento e alla paura.
Sollevarono il corpo dell’Hauptmann Reserve e lo trasportarono adagiandolo sul letto. Su quello che rimaneva del viso appoggiarono il suo cappello per impedirne la vista. Avvisarono di quanto era avvenuto nella stanza di Franz il proprietario dell’albergo che, ancora in pigiama, si trovava come inebetito sulla porta che dava sulla piazza sen- za riuscire a pensare cosa sarebbe stato più logico fare. Tramite la radio da campo informarono il comando di Brescia dell’attentato e del suicidio del loro comandante. Poi, in attesa di ordini, sempre più impauriti, si chiuse- ro in una stanza con le armi pronte a sparare. Verso l’alba cominciò a nevicare. Ai radi fiocchi iniziali fece seguito quasi una tempesta di neve che imbiancò in breve tempo le strade, i grigi tetti di beole e i balconi delle case. Con un passa parola, sempre a persiane chiuse, tutto il paese venne informato di quanto accaduto in piazza Mercato e del suicidio dell’ufficiale.
Nessuno aveva il coraggio di uscire di casa temendo una violenta reazione dei tedeschi.
Solo i bambini che, essendo le scuole chiuse si erano tro- vati un insperato giorno di vacanza, cercavano di convincere i genitori a lasciarli uscire, pregustando veloci discese con lo scargiulì, la caratteristica povera slitta della Val- camonica, sfruttando la prima neve dell’anno.
Dei soldati tedeschi nulla si sapeva. Rientrati in albergo, dopo il sopralluogo in piazza, erano spariti e non si conosceva quale decisione avessero preso.

 

 

In una calma apparente, verso le dieci il Podestà, accompagnato dal comandante della Muti, si era recato all’albergo Fumo per incontrare i tedeschi e mettersi a loro disposizione. Ma non erano stati ricevuti. Solo più tardi si decisero ad accettare la presenza del Par- roco che, dimostrando ancora una volta grande coraggio, aveva raggiunto l’albergo per amministrare una tardiva estrema unzione al morto. Don Cappelletti si era fermato a lungo raccolto in pre- ghiera ai piedi del letto dove giaceva Franz.
Si riteneva in parte colpevole per l’accaduto, pensando che l’espediente che aveva usato per evitare ritorsioni dei tedeschi dopo il primo attentato avesse spianato la via al secondo gesto dinamitardo. Tutti in paese si domandavano chi avesse avuto il corag- gio di compiere questo atto, ben sapendo quali potesse- ro essere le reazioni degli occupanti sulla popolazione.
La neve continuava a cadere abbondante quando, verso mezzogiorno, arrivò a Breno un autocarro Opel Blitz 6700 mandato da Brescia, con notevoli sforzi non essendo attrezzato a percorrere strade innevate. Il Comando tedesco di Brescia aveva infatti deciso di recuperare il corpo dell’ufficiale e di far rientrare i solda- ti rimasti, eliminando il presidio di Breno.
L’autocarro entrò nel cortile interno dell’albergo nel più assoluto silenzio e con la piazza completamente deserta. Il corpo di Franz fu sistemato in una bara inviata da Brescia sul camion e sui sedili, ai lati del cassone, prese- ro posto i soldati con i loro zaini e i loro armamenti.
Quando l’autocarro ritornò sulla piazza, l’autista la trovò occupata da centinaia di persone. Uomini e donne di tutte le età, immobili, in silenzio.
Non erano venuti ad assistere alla partenza del nemico sconfitto, ma per un atto di pietà verso il suicida. Rispetto che forse solo gli italiani hanno verso la morte, chiunque essa abbia colpito.
Il camion sparì agli occhi dei presenti nel turbinio di neve, portandosi via i resti di un’avventura crudele, drammatica. Ma solo un atto di quella tragedia più complessa che è la guerra.

 

LIII

E ra quasi l’ora dei Vespri. Don Arlocchi stava leggendo il breviario seduto in cucina, davanti al camino della povera casa dove abitava. La legna si era completamente
consumata e le braci mandavano sempre meno calore. Comunque il vecchio prete godeva ancora di quel tiepido che rimaneva nella piccola cucina. Fra poco sarebbe andato a pregare nella chiesa parrocchiale al gelo di quella sera di dicembre. Probabilmente sarebbe stato solo con il sagrestano: le vecchiette non si sarebbero fidate ad uscire nelle buie strade innevate e sdrucciolevoli.
– Potrei recitarli qui, i Vespri, magari invitando il Sile- strini – ma sapeva che non era possibile.
Il freddo gli acuiva i dolori alle giunture e gli complica- va la già precaria respirazione. Ma il sant’uomo offriva tutte le sue sofferenze al buon Dio, con la speranza di poter un giorno essere ammesso in Paradiso. Tutta l’eternità in Paradiso! Nella più completa beatitudine.
A volte questo pensiero lo spaventava. La sua era stata una vita di sofferenze, anche se per rispetto al Creatore non voleva ammetterlo. Non era preparato alla gioia, al benessere, alla beatitudine, appunto. E se Dio si fosse indignato con lui nell’accorgersi che non riusciva ad apprezzare appieno il dono che gli veni- va offerto?

 

Quasi quasi mi converrebbe un passaggio dal Purgatorio – aveva qualche volta pensato. Un modo per pregustare quanto avrebbe raggiunto e per allenarsi a goderne appieno.
Si alzò dalla sedia e stava per portarsi alle spalle il pesante tabarro che lo avrebbe riparato nel tragitto sino alla chiesa, quando sentì bussare.
Speriamo non sia un seccatore, se no finisce che arrivo tardi in chiesa – pensò. Aperta la porta si trovò davanti tre bambini che parve riconoscere.
“Cosa volete bambini? E cosa fate in giro a quest’ora al buio? Dunque, vediamo se ricordo bene. Tu sei l’Ernesto, il nipote del Generale, tu… aspetta, aspetta, sei il Giacomino e tu il figlio del Pivetti. Ma non mi ricordo il nome.” “Sia lodato Gesù Cristo, padre. Sì sono il Giovanni Pivetti.”
“Cosa volete da me? Ditemi in fretta che devo andare in chiesa a recitare i Vespri e magari qualcuno mi aspetta. Mi sa che non ci sarà nessuno ma ci devo andare lo stes- so. Forza, chi parla per primo?” I tre si guardarono brevemente tra loro e poi, come d’accordo, fu l’Ernesto a parlare.
“Don Arlocchi, volevamo sapere se è peccato far saltare in aria un sidecar. Soprattutto se è un peccato mortale.” Il prete rivide davanti ai suoi occhi la scena dell’incontro con il Russì e con il farmacista e la loro confessione.

Ma questi sono tre bambini! Cosa si stavano inventando? Saranno mica stati loro a provocare lo sconquasso della notte precedente? Probabilmente vogliono coprire il vero colpevole. Ma perché queste cose sempre a me capitano? Quando succedono fatti strani e violenti sempre da me vengono. Oltre al dolore alle giunture, al freddo della casa, alle strade innevate, che a percorrerle ho sempre il terrore di cadere, adesso mi arriva tra capo e collo anche questa grana – questi pensieri gli affollarono la mente mentre si sentiva venir meno.
– Cosa rispondere a questi bambini? Sì, certo, far “salta- re in aria” un sidecar, come loro avevano detto, non era certo un’opera buona. Era sicuramente far del male al prossimo perché il sidecar un proprietario ce lo aveva di sicuro. Quindi c’era di mezzo il secondo comandamento dei cristiani. Ama il prossimo tuo e quindi non fargli del male. Oppure il settimo. Non rubare! Distruggere una cosa d’altri è un po’come rubargliela. Ma… come affrontare l’argomento? Con dei bambini, poi. – “Sentite ragazzi, questa è una cosa un po’ complicata. Una cosa da grandi. Mica si può risolverla così sui due piedi. Chi ha fatto qualcosa di male venga a confessarsi. A tempo debito e nel posto giusto. Io non ho capito be- ne cosa avete tentato di dirmi. Comunque, a scanso di equivoci, pregate, pregate la Madonna che fa sempre be- ne. E adesso scusatemi ma io devo andare. Filate a casa che i vostri genitori vi staranno aspettando e magari sono in pensiero. Sia lodato Gesù Cristo” e chiuse la porta. I ragazzi corsero giù dalle scale e, appena in strada, si fermarono. La neve continuava a cadere e ormai aveva superato i trenta centimetri.
Rimasero un attimo in silenzio e poi il Giacomino disse: “Ve l’avevo detto io che non avevamo fatto nessun peccato. Se no il don Arlocchi ce lo avrebbe detto e avrebbe preteso che ci confessassimo subito. Ciao ragazzi, ci vediamo domani!” e se ne andò correndo. “Penso proprio che abbia ragione lui. Ciao” disse Gio- vanni e anche lui si allontanò di corsa.
Meno male! – si disse l’Ernesto e, rinfrancato, si avviò verso casa.

FINE

Dal virus di Whuan al virus Taleban

A cura di LINEAITALIAPIEMONTE.IT

Di Riccardo Ruggeri*

Dopo il Virus di Wuhan, e il suo pendant il Vaccino, inizierà una nuova pandemia di chiacchiere? Impossibile pretendere “cambiamenti” sulla base di teorie non supportate da una determinazione feroce di execution. Gli afgani l’execution l’hanno nel sangue, noi europei l’abbiamo persa settant’anni fa.

L’Europa ha rinunciato a essere una grande potenza, diventando un grande discount e una ONG moralizzante. Questo stravagante modo di ragionare “radical chic” sta portando l’Occidente alla sconfitta in ogni campo. Non ci resta che inginocchiarci anche ai taleban

Affrontare il problema Afghanistan in termini di analisi è, almeno per me, opera velleitaria e inutile, per cui me ne guarderò bene. Trovo ridicolo sputare sentenze su un Paese che dai tempi di Alessandro Magno ha respinto qualsiasi invasore, seppur dotato di eserciti potenti e in possesso di armi via via più moderne e sofisticate…

… continua a leggere: VIRUS TALEBAN

 

*Riccardo Ruggeri operaio Fiat per 40 anni poi Ceo di New Hollande, manager, imprenditore, giornalista, editore, scrittore.

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A passi andanti. In viaggio con Matteo Vinzoni, cartografo della Serenissima Repubblica di Genova

LIBRI/ A passi andanti (Sagep Editori,2021) è il titolo del libro bello e importante che Clara Cipollina – scrittice nata a Gavi e residente a Novara – ha dedicato a Matteo Vinzoni, cartografo della Serenissima Repubblica di Genova.

Il volume è la realizzazione di un progetto che l’autrice coltivava da tempo, riprendendo il filo delle ricerche negli archivi storici e gli incontri con il geografo Massimo Quaini che fu suo professore all’Università di Genova. Scorrendo le pagine del libro si ripercorre la storia di questo ligure – nato a Montaretto, frazione di Bonassola (La Spezia) il 6 dicembre 1690 e deceduto a Levanto nel 1773 – che rivoluzionò la storia della cartografia, rendendola meno arida e asettica. Lo studio dell’attività di Matteo Vinzoni cartografo proposta da Clara Cipollina si intreccia alla riflessione sulla sua esperienza del mondo e della vita come uomo del suo tempo, si focalizza sui percorsi del viaggiatore impegnato a mappare i territori della Serenissima, percorrendo nel corso della sua lunga vita, con la minuziosità di un agrimensore, il dominio genovese, prendendo misure di notte, in incognito, per anticipare le mosse avversarie, spostandosi tra terra e mare, interfacciandosi con una folla di personaggi minori e con gli abitanti dei territori stessi, validissimi confidenti. Cartografo ufficiale della Repubblica di Genova il Vinzoni realizzò non solo carte geografiche dello stato ligure (che comprendeva parte del basso Piemonte e altri possedimenti) ma anche cartine di molte città. Un attività minuziosa, incredibilmente precisa e sorprendente per la qualità delle raffigurazioni considerando i pochissimi mezzi di cui poteva disporre a quell’epoca. La repubblica della Lanterna contando sulle sue innate qualità, gli affidò gli incarichi più svariati: dirimere controversie sui confini di Stato, come quello con il Regno di Sardegna, o interni con i Feudi Imperiali, progettare i restauri delle fortezze, individuare percorsi di strade senza dazi, predisporre i lavori per l’arginamento dei corsi d’acqua, controllare mulini e un’infinità di altre missioni che lo tennero sempre lontano dalla sua casa di Levanto. Matteo Vinzoni, con le sue innovative riproduzioni, influenzò le basi della cartografia moderna, utilizzando anche gli acquarelli per colorare le sue precise  e artistiche mappe. Nell’introduzione a A passi andanti la geografa spezzina Luisa Rossi scrive che quella di Clara Cipollina non è solo interessante sotto i profilo scientifico-culturale ma ripropone in chiave odierna lo studio su Vinzoni che significa “offrire la possibilità di scoprire il legame diretto fra paesaggi del passato e paesaggi contemporanei”.  Un testo quindi molto importante per riscoprire l’enorme contributo del grande cartografo nel quale Massimo Quaini vedeva incarnati” aspetti del Barone rampante di Calvino”: come quel personaggio, pur partecipando agli avvenimenti e alle criticità della collettività, sapeva vedere la realtà dall’alto, operando scelte audaci, fuori dagli schemi e dalle consuetudini nelle quali era spesso obbligato a rientrare, con il vantaggio di aver scelto autonomamente le procedure e con il rischio di vivere momenti di separatezza e persino di isolamento. Clara Cipollina, con una scrittura al tempo stesso lieve e profonda, ha idealmente percorso a passi andanti con il Vinzoni molta strada, concentrandosi soprattutto sui territori interni, su di un paesaggio, quello ligure, in cui è ancora facile ravvisare l’armonia cromatica delle tavole dell’Atlante dei Domini della Serenissima Repubblica di Genova e Terraferma, forse il più importante lavoro che Vinzoni approntò con il figlio Panfilo.

Marco Travaglini

“L’ultimo lenzuolo bianco”, viaggio interiore in Afghanistan

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Vi riproponiamo questa recensione che torna di stretta attualità per le drammatiche vicende afghane

LIBRI / L’AFGHANISTAN E IL VIAGGIO INTERIORE DI FARHAD BITANI

Dice di non essere uno scrittore Farhad Bitani, ma un militare che la vissuto la paura, un essere umano che porta i segni indelebili della guerra, visibili e invisibili, che hanno condizionato, facendolo tuttora,  il suo modo di guardare la vita. Figlio di un generale e mujaheddin, appartenente ad una delle famiglie più ricche e fortunate dell’Afghanistan, Bitani ha vissuto nella guerra, assuefatto dalla normalità del conflitto, proprio come, purtroppo, tutte le ultime generazioni della popolazione afghana.

Da vincitore prima, il padre contribuì alla sconfitta del potere sovietico,  e da perseguitato in un secondo momento, a causa della presa di potere da parte dei talebani, ha egli stesso partecipato alla guerra che ha significato assisterne agli orrori, vivendoinevitabilmente una vita che non ha mai conosciuto la pace.

Nel 2011, durante una vacanza che lo riporta dall’Italia, dove studiava presso l’Accademia Militare,  al suo paese d’origine  accade un terribile episodio, un attentato, che cambia la sua esistenza per sempre: “la strada era piena di dossi, ho rallentato, dai boschi arriva uno sparo, poi una grandinata di colpi, cinque o sei sparano coi kalasnikov, corriamo come pazzi in mezzo ai colpi”. Bitani si salva, ma rimane ferito. “Non sono morto, ci ripenso e non so spiegarmi perché”.

Il libro racconta la vita dell’autore, un afghano di Kabul, ci porta in un disperato scenario di guerra cronica, in una realtà scandita da un indottrinamento radicato contro l’occidente, da una cultura opprimente. Si narra di una quotidianità che cambia drammaticamente sotto il potere talebano, vessazioni giornaliere, interrogazioni sulla dottrina seguite da terribili punizioni, burqa per le donne e barba per gli uomini con obbligo inappellabile di osservanza.

Quella di Bitani è una testimonianza importante, una critica robusta ai fondamentalismi, una presa di consapevolezza sulle falsità raccontate a proposito della “guerra santa”,  complice il ruolo dell’ignoranza, che ha portato ad utilizzare “il nome dell’Islam per il potere”.

Il lavoro dello scrittore è un racconto consapevole, vissuto sulla propria pelle, del dramma di tutte quelle persone che fuggono dalla guerra con una speranza, carichi di una tragedia inimmaginabile, avvolti da quella disperazione a volte incompresa.

 

Maria La Barbera