Rubriche- Pagina 42

Attenti al sole!

Un torinese (acquisito) a Finale Ligure/Pillole di spiaggia

 

Di Gianni Milani

Tre giorni che sono qui. Vigilia di Ferragosto. Sempre bella Finale e il suo nucleo medievale di Finalborgo. Fra i “Borghi più belli d’Italia”. E sempre simpatici e cortesi i Finalesi o Finarini, come un tempo erano chiamati. Almeno quelli che conosco io. Confortanti e piacevoli anche i Bagni, a un centinaio di metri dallo storico Hotel dove ho preso stanza. Tanta opulenza femminea esposta al sole. E tanti corpi palestrati e “tartaruga ti” che sfilano, portandosi dietro e addosso una sfilza incredibile di tattoo cui s’è ormai concessa ogni parte del corpo e di accessori corporali vari. Su e giù, sulla passerella in plastica. Dalle docce a riva mare o al lettino in totale area sole. Il bagno in mare? É un optional. L’importante é esibirsi. Fare bella mostra di sé. Ma in tutto questo “circolo” muscolare, ci sono anche – e per fortuna – le eccezioni. Ecco, sotto l’ombrellone davanti a me, un tale non più giovanissimo. Neppure giovane. Capelli grigi. I pochi rimasti. Pelle candida, che non denuncia sintomi tartarugali, anzi. In lui mi vedo, come riflesso in uno specchio. Mi sembra pure di avergli complicemente sorriso. Parola d’ordine “dove c’è il sole non ci siamo noi”. Ombra, ombra, ombra. Ombrellone e teli appesi, per impedire il passo al più tenue guizzo solare. Ma ecco. Inizia il rituale. Crema protezione 50. É perfino poco! Io oserei di più. Piano, piano. Un quarto d’ora, minimo, a spalmarsela su ogni lembo di corpo. Fin quasi su quello dei vicini. Estenuante. Che faticata! “Bè – penso – adesso con tutta quella crema addosso si concederà anima e corpo ai benefici raggi solari”. Niente di più sbagliato. Illuso. Perché, il mio “riflesso” umano si infila rapido la maglietta ( sarà di lana?), si cala in testa un grigiastro cappello da boyscout a larghe falde e si rifugia come un bolide sotto l’ombrellone, terga e natiche sulla sdraio, giornale libro in mano. E allora? A cosa mai é servito tutto il precedente rituale? A nulla. Solo ad avvertire il sole. ” Fai pure il tuo lavoro, ma stai lontano da me!”. Boh… Davanti ci passa una fata. Ragazza bellissima. Di una bellezza rinascimentale. Un corpo che non concede un lembo ad ogni pur accettabile imperfezione. Scatta il peso della memoria. Uno schiaffo sonoro per me e fors’anche per il mio “alter ego” allo specchio. Lo sguardo mi ricade sulla pagina de La Stampa: “Durigon, caso sospeso sfiducia più lontana”. Che tristezza!

 

“L’orto fascista” Romanzo / 11

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

 

XLIII

Alle undici meno un quarto uno sbraitante Sturmbannführer entrò nella casa – prigione, accolto dalle due SS che erano di guardia. Le sue urla svegliarono anche gli altri quattro militari che stavano dormendo al piano superiore e che, dopo qualche minuto, giunsero, rivestiti in qualche modo, davanti al loro Comandante. Questi continuava, urlando, ad impartire ordini. La porta della cantina fu spalancata e tutte le sei SS si precipitarono, urlando a loro volta, nello scantinato. I poveri prigionieri furono fatti alzare, spintonati su per le scale e, quindi, fuori dalla porta che dava sulla strada: terrorizzati e certi di essere condotti al luogo ove sarebbero stati fucilati.
Ma la porta si chiuse alle loro spalle senza che nessuna delle SS fosse uscita. Dopo qualche momento di intontimento capirono di essere in strada tremanti, al freddo, affamati, assetati, ma liberi. Quando furono sicuri che le SS non avrebbero sparato su di loro, si diressero verso il centro del paese. I più giovani si misero a correre, urlando, lungo il corso principale. Le prime finestre si aprirono, nelle stanze le luci si accesero e, pian piano, tutto il paese si accorse della loro liberazione.
Solo don Pompeo, che si era avviato con gli altri, ritornò sui suoi passi ed andò a battere, con violenza, al portoncino della casa. Gli aprì lo Sturmbannfürher in persona, con occhi spiritati mentre un filo di bava gli scendeva dalle labbra. Il Parroco, in modo concitato ma comprensibile, spiegò che il Fausto, rimasto nella cantina, doveva essere prelevato e portato in ospedale. Quattro SS scesero e ritornarono trasportandolo a braccia. Stavano per adagiarlo sul piano della strada quando il Parroco si avvicinò alla vettura, con la quale era giunto lo Sturmbannfürher, aprì la portiera posteriore ed indicò il sedile sul quale il ferito, che continuava a lamentarsi ed a piagnucolare, venne disteso. Salì anche don Pompeo e, rivoltosi all’ufficiale tedesco, gli urlò: “Ospedale. Subito!”
L’autista si rivolse al suo Comandante e, avuta tacita approvazione, si mise al volante e partì alla volta del- l’ospedale.
Il Silestrini, il sagrestano, stava facendo all’amore con la moglie, come tutti i sabati sera con la data dispari. Un tacito accordo che andava bene a lei perché non la impegnava troppo di frequente, ma che serviva ad alimentar- le ancora la speranza di conoscere cosa potesse essere un orgasmo – “una cosa meravigliosa” le aveva detto la sua migliore amica con la quale era in confidenza – che non aveva mai raggiunto. Bene per lui che, a 62 anni, desiderava, per piacere e per curiosità questa pratica. La curi sità di verificare le sue capacità sessuali bimensilmente: era per lui come timbrare il cartellino.Incuriosito dalle urla che arrivavano dal Crusal sino a casa sua, interruppe il rapporto. Si rivestì velocemente, raggiunse il luogo da dove provenivano gli schiamazzi e, avuta la buona notizia, si precipitò al campanile della chiesa ove iniziò un vero concerto di campane.

 

Intanto quasi tutte le case si erano svuotate; uomini, donne e bambini correvano vociando da una parte all’al- tra attorno ai liberati. Nella piazzetta davanti al municipio fu acceso un grande falò. Il Ducoli aprì il bar, offrendo a chi entrava nel locale bicchierini di grappa, versandone abbondantemente anche per sé. Le sedie del bar furono portate intorno al fuoco ed offerte agli ex detenuti.
Persino il Podestà, dopo aver mandato a verificare che non vi fossero in giro tedeschi e militi della Muti, venne a congratularsi per lo scampato pericolo. Qualcuno portò bottiglie e bicchieri, pane e salame che vennero offerti agli affamati. Ristorati, questi cominciarono a raccontare quanto avevano sopportato in quasi 24 ore di prigionia, soffermandosi, con particolari agghiaccianti, su quanto era toccato al Fausto, solo dopo che i genitori del loro collega di sofferenze avevano lasciato i festeggia- menti per correre in ospedale.
Arrivato al nosocomio il Parroco aveva chiamato due infermieri che erano corsi con una barella dove avevano adagiato il povero Fausto portandolo in infermeria. Il giovane medico di turno, che mai aveva visto nulla di così raccapricciante, non sapeva bene cosa fare. Fausto perdeva ancora sangue dalle ferite al viso ed alle gambe e sembra- va privo di conoscenza. Don Pompeo ordinò che venisse immediatamente chiamato il professor Parola, il primario chirurgo dell’ospedale che abitava in una bella villa vicina. Nel frattempo medico e infermieri avevano denudato il corpo del ferito tagliando a pezzi i vestiti che indossava, onde evitare pericolose torsioni a gambe e braccia. Il Fausto aveva, per fortuna solo nella parte anteriore del corpo, lesioni ed ecchimosi che interessavano praticamente tutta la superficie della pelle. Il volto, alla luce delle lampade, apparve a don Pompeo ancora più deva- stato di quanto sembrasse nella penombra dello scanti- nato ove erano stati tenuti. Le ossa e le cartilagini delle ginocchia sembravano distrutte ed i tendini strappati. Il professore, arrivato in pochi minuti, si chinò sul povero corpo e lo esaminò a lungo e con scrupolo. Non mosse gli arti inferiori in attesa di una radiografia, auscultò cuore e polmoni e si assicurò che non vi fossero fratture al cranio. Con aria grave si avvicinò al prete e ai genitori di Fausto e, con quella sua voce calda e col tono rassicurante che per tanti malati valeva più di una medicina, disse: “Intervenire chirurgicamente ora è impossibile. Secondo me il paziente non potrebbe sopportare un’anestesia. Rischiamo di farcelo morire sotto i ferri. Ha perso molto sangue ed è in un gravissimo stato di shock. Procediamo con delle trasfusioni e rimandiamo l’intervento a doma- ni. Cerchiamo di tenerlo sedato. Ce la farà!” Poi, rivolto ai soli genitori continuò: “Vi sconsiglio di vederlo questa sera. Non è un bello spettacolo: con il viso così gonfio e con le ferite che sanguinano sembra molto più grave di quello che in effetti è. Fatevi coraggio e pazientate sino a domani mattina.”

Si iniziò a disinfettare le ferite ed a lavare il sangue coagulato. La pulizia rivelò altre macchie bluastre dove i violenti colpi non erano riusciti a lacerare la pelle. Sem- brava che nessuna parte del corpo fosse stata risparmiata da un’azione di precisa e sistematica violenza. Chi l’ave- va eseguita era sicuramente un allenato professionista.
In paese erano arrivati anche molti abitanti delle frazioni vicine attirati dal suono festante delle campane e dalla luce del falò che illuminava l’oscurità della notte. Qua cuno, che non era a conoscenza dell’arresto dei 18, pensava che fosse finita la guerra ed i tedeschi se ne fosse- ro andati. Altri che fosse scoppiata la rivoluzione e che la popolazione avesse avuto la meglio sui crucchi. Tutti, comunque, furono felici per lo scampato pericolo ed approfittarono dell’assenza dei tedeschi, che erano rimasti chiusi o nell’albergo Fumo o nella casa del Salvetti, intonarono chi “Bandiera Rossa”, chi il “Va’ pensiero”, chi, chissà perché, il “Garibaldi fu ferito”. La gran festa finì solo all’alba con il Ducoli che contava 18 bottiglie di grappa vuote, decine di bottiglie di vino, altrettanto vuote, agli angoli delle strade e almeno cin- quanta ubriachi che dormivano, russando beatamente, appoggiati ai muri delle case.
Alle sette del mattino successivo il prof. Parola entrando in ospedale fu bloccato dalla Cia “Pastera”.

La Cia era una donna di poco più di quarant’anni, magra scheletrica che viveva con due sorelle minori, una delle quali afflitta da un grosso gozzo – cosa abituale in quei tempi e in quelle zone ove l’alimentazione era priva di sufficienti valori nutrizionali – nella vecchia casa di fami- glia. Il soprannome derivava dal fatto che i suoi genitori, dopo una breve parentesi passata da emigranti in America, ove avevano fatto una discreta fortuna, rientra- ti in paese avevano aperto un piccolo laboratorio ove producevano pasta fresca e, soprattutto, dei “casunsei” che erano conosciuti in tutta la valle per la loro bontà. Una specie di ravioli il cui contenuto è fatto da un elaborato miscuglio di erbe alpine e carne di maiale. Veramente si sussurrava che la carne usata per i ripieni fosse quella dei gatti che loro allevavano in grande quantità o che catturavano, con spiccata abilità, tra quelli dei vicini.
Era una donna dal carattere di ferro. Come si diceva allo- ra: una donna con gli attributi. Dopo aver frequentato le prime tre classi elementari era stata mandata dai genito- ri, che non avevano tempo e voglia di occuparsi di lei, presso le suore del paese ove la bambina era stata avvia- ta, con grandi risultati, all’arte del ricamo. A diciotto anni era riuscita, nonostante la giovane età e la totale inesperienza, a lavorare presso un ospedale da campo nelle retrovie del fronte della Grande Guerra.
Rifiutata dai medici per la giovane età li aveva, dopo lunghe insistenze, convinti dicendo che se al fronte andava- no i “ragazzi del 99”, lei, che aveva la stessa età, poteva essere impiegata ad assisterli. Senza preamboli disse al Parola: “So che il Fausto Domeneghini ha riportato delle brutte ferite che potrebbero lasciargli il viso devastato. La prego, signor professore, lasci che sia io a ricucirlo per tentare di salvare il salvabile.” Il professore rimase basito a tale proposta.
Conosceva la Cia per fama sapendo che la moglie le aveva affidato il restauro di vecchi arazzi che, dopo il suo intervento, erano ritornati come nuovi. Sapeva anche della sua esperienza fatta nell’ospedale militare, ma come pensare che la donna potesse entrare, come un normale medico o un infermiere specializzato, in sala operatoria? D’altra par- te, il suo staff di chirurghi era limato all’osso e l’interven- to al viso, per non prolungare troppo l’anestesia al Do- meneghini, avrebbe dovuto essere compiuto mentre lui operava i ginocchi. Si consigliò con i suoi colleghi, chiese l’autorizzazione ai genitori di Fabio e, dopo lunga medita- zione, diede l’autorizzazione all’intervento di Cia. Quando le ferite furono rimarginate e il gonfiore spari- to, il Parola si compiacque con sé stesso per aver accetta- to la collaborazione della donna. Il risultato era inimmaginabile tanto che il Fausto, quando ritornò guarito a casa, fu battezzato “Il merletto”.

 

XLIV

La giornata successiva fu ricca di avvenimenti significativi. L’operazione alle ginocchia di Fausto, che dopo le nume- rose trasfusioni praticategli aveva dato segni di una notevole ripresa, era stata più semplice del previsto. I lega- menti non erano stati offesi in modo serio. Rimosso un menisco ridotto a pezzettini e ricostruita la parte molle, l’intervento era terminato in modo soddisfacente.
Tutta l’equipe medica aveva avuto agio di seguire il la- voro della Cia. Con una pazienza da certosino e con una perizia incredibile aveva preso con una pinzetta le parti di carne lacerate, le aveva rimesse nella primitiva posizione e quindi le aveva cucite l’una all’altra con microscopica precisione. Mai un tentennamento, mai una necessità di rivedere l’operato. Ma soprattutto mai un momento di nervosismo e di repulsione verso la terribile visione del viso di Fausto.
Don Mandelli era giunto a Breno con il treno delle 8,20. Si era recato direttamente alla casa del Parroco ed aveva trovato don Pompeo che si era alzato da poco, dopo la interminabile nottata, e stava facendo colazione. Il Parroco aveva intenzione di recarsi in ospedale ma l’ar- rivo del Segretario del Vescovo lo bloccò. Incaricò l’Elvira di andare a raccogliere notizie, pregandola di fargliele avere al più presto: “Che siano buone, mi raccomando!”

 

Versò una tazza di quello che ci si ostinava a chiamare caffè al collega di Brescia e, il più sbrigativamente possibile, gli raccontò quanto era avvenuto la sera precedente. Non accennò al suo intervento né a quanto aveva raccontato ai tedeschi: lo avrebbe fatto direttamente al Vescovo. Intanto don Arlocchi aveva organizzato tutto perché la messa delle 10 fosse solenne, con la presenza del coro e delle associazioni cattoliche. Don Pompeo offrì al Mandelli di celebrarla quale rappresentante del Vescovo, ma il sacerdote rifiutò dicendosi comunque felice se avesse potuto concelebrarla. La chiesa era stracolma. In prima fila i 17 prigionieri con le loro famiglie e, circondati affettuosamente da tutti, i genitori del Fausto finalmente sorridenti dopo le buone notizie che il Parola aveva loro comunicato personalmente. Giunti all’omelia, don Pompeo salì sul pulpito e guardò il suo gregge, visibilmente commosso.
“Il nostro primo atto doveroso” iniziò, “è di rivolgere a Dio una preghiera di ringraziamento. Diciotto di noi erano in pericolo di vita e lui li ha salvati. Diciotto innocenti che non avevano commesso alcun atto riprovevole stavano per essere puniti duramente. Dio, che sempre dall’alto sorveglia il suo popolo non lo ha permesso. Sia gloria a Dio! Lui ha guidato la mente di qualcuno che, indegnamente, ha portato la sua parola a chi aveva in mano la sorte dei nostri compaesani e li ha fatti ragiona- re. Solo il nostro caro Fausto ha conosciuto la durezza degli aguzzini. Preghiamo perché possa rimettersi al più presto. Ai suoi genitori, che sono un poco più sereni dopo le buone notizie che giungono dall’ospedale, l’ab- braccio di tutta la comunità ed il mio personale. Voglio pubblicamente ringraziare il nostro caro coadiutore don Arlocchi che, con presenza di spirito e con la grande fede che è in lui, ha immediatamente reagito al mio arresto compiendo l’atto che doveva essere compiuto. Informare immediatamente il nostro amato Vescovo che oggi ha voluto partecipare alla nostra gioia inviandoci il suo Segretario particolare. Ed a lui, perché lo porti a sua Eminenza, il nostro grazie. Grazie don Mandelli!
Abbiamo un grande Vescovo. Un uomo che non ha esitato a mettersi in gioco, con grande coraggio e abnega- zione, per salvare le sue pecorelle. Il coraggio di affronta- re il Comando tedesco esigendo grazia per chi era stato derubato della propria libertà e della propria dignità di uomo. Fra pochi giorni festeggeremo Santa Lucia. Preghiamola perché possa aprire gli occhi a tutti i governanti del mondo, affinché cessino le guerre, le lotte tra un popolo e l’altro, tra un gruppo di uomini e un altro che magari parlano la stessa lingua.
Ed ora lasciatemi ringraziare personalmente Dio. In que- ste ultime terribili ore mi sono accorto di non essere sta- to un buon pastore per voi. Ho trascurato di lenire le vostre sofferenze, le vostre solitudini. Di ascoltare, come dovrebbe fare un padre, le vostre parole, le vostre richie- ste. Rispondere ai vostri dubbi con l’esempio che, sempre, un buon pastore dovrebbe dare. Non ne ero capace. Non ne avevo la forza. Ve ne chiedo perdono. Ma vi assi- curo che quanto ho vissuto mi ha rafforzato. Nonostante quello a cui sono stato costretto ad assistere ho riscoperto, al di là del male, l’umanità degli uomini, la gioia del perdono che è l’unica strada che ci può condurre a Dio. Vi prego di aiutarmi e di sorreggermi nel cammino che sto per intraprendere. Avrò bisogno del vostro aiuto e della vostra comprensione perché anch’io sono solo un pover’uomo. Sia lodato Gesù Cristo”.Vi fu un lungo minuto di silenzio. Poi, forse per la prima volta in una chiesa, scoppiò un lungo e caloroso applauso.

 

 

XLV

L o Sturmbannführer, più imbestialito che mai, era partito, insieme al suo autista, per Brescia. Le sei SS, che
si era portato a Breno, vennero sistemate su uno di quei carrelli usati per le verifiche delle rotaie. Agganciato a un treno merci, che portava materiale delle ferriere Tassara, il carrello con il suo carico erano partiti per Brescia. Giunto nei pressi di Costa Volpino il capotreno, che si era segretamente accordato con un gruppo di partigiani, fermò il convoglio simulando un guasto.
Presi alla sprovvista, i militi vennero disarmati dai parti- giani che li avevano accerchiati. Sei mitra, sei machine- pistole, due mitragliatrici leggere ed una valanga di proiettili cambiarono proprietario. Fu identificata la SS che aveva torturato Fausto e che aveva ancora nella tasca dei pantaloni il tirapugni sporco del suo sangue, che l’uomo conservava quasi come un trofeo. Fu fatto spogliare rimanendo in mutande e maglietta. Gli fu legata una corda in vita e l’altro capo agganciato al carrello. Il treno fu rifatto partire ad andatura lenta e l’SS fu costretta a correre, a piedi scalzi, sulle appuntite pietre della massicciata. Quando i piedi diventarono delle masse informi e sanguinolente e l’uomo stava per svenire, il treno si fermò, permettendo ai suoi compagni di riprenderlo a bordo. Lo Sturmbannführer, giunto a Brescia, si recò direttamente al suo comando ove gli fu comunicata la revoca di tutti gli incarichi che gli erano stati affidati e l’ordine di prepararsi a partire per la sua nuova destinazione: il fronte nord-occidentale.“Uomini indegni come Lei” furono le ultime parole che udì dal suo superiore diretto, “sono il grande problema per l’invincibile Armata tedesca! Spero che al fronte si potrà riscattare con una morte onorevole”. Il superiore non fu buon profeta. Un’ora dopo lo Sturmbannführer fu trovato nella sua stanza impiccato.

 

XLVI

Fausto si svegliò dall’anestesia nel tardo pomeriggio. Aveva una forte nausea e si sentiva a pezzi. Le facce sorridenti dei suoi genitori e di don Pompeo gli portarono un po’ di sollievo. Con la bocca ancora impastata e con la pelle del viso che gli tirava tutta, farfugliò un “Salve” chiedendo poi cosa gli fosse capitato. Evidentemente, e per fortuna, lo shock gli aveva cancellato, almeno momentaneamente, i ricordi. Don Pompeo fu poco preciso per non disturbare il feri- to. Gli parlò dell’arresto, di qualche pugno che gli era stato somministrato e, soprattutto, della liberazione e dello smacco che i tedeschi avevano subito. Gli racco- mandò di stare calmo e di riposare. “Ci sarà tutto il tempo per raccontarci nei particolari quello che è successo” disse – e qualcuno dovrà anche parlarti della tua faccia – pensò.

(continua…)

 

E’ morto Gino Strada, generoso e visionario “santo laico”

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

E’ morto Gino Strada, medico fondatore di Emergency,a soli 73 anni. E’ una notizia che colpisce tutti perché Strada è stato un generoso, direi quasi un visionario, potremmo anche definirlo un santo laico che ha gettato la sua vita  al servizio degli altri  con furore (la parola non è fuori posto), come solo i santi, e neppure tutti, sanno fare.

Il prof. Pier Franco Quaglieni

Ha praticato la medicina non per affermarsi professionalmente, ma per dedicarsi a chi si trova in difficoltà. Pochi medici hanno fatto la sua scelta che merita ammirazione e rispetto  non solo perché ogni morto e’  “bello“ come diceva Tolstoj. Strada ha scelto sempre di soccorrere gente disperata , soprattutto vittime di guerra. Il suo era un impegno umanitario e politico che si è realizzato a livello mondiale. Chi scrive è anni luce da molte delle sue idee che non ha mai ritenuto di poter condividere. La stessa idea di Ong  in generale mi suscita riserve e spesso dissento  per ciò che riguarda  in particolare gli sbarchi in Italia. Ma non posso non rispettare un uomo generoso che si è speso con passione per gli altri. Gli sarebbe spettato il Nobel. Se consideriamo che lo ebbe un giullare come Dario Fo che fu anche repubblichino di Salo’ oltre che sostenitore dei terroristi rossi, il Nobel per la pace lo avrebbe meritato a pieno titolo un uomo serio e concreto (la concretezza tipicamente lombarda di chi era nato a Sesto San Giovanni) che non ha fatto ridere il pubblico, ma si è impegnato a salvare  seriamente vite umane. E’ morto proprio quando il suo immenso lavoro in Afghanistan sta per essere distrutto dai talebani . Uno sfregio alla sua memoria. Nessuno – al di là delle divisioni politiche – può non inginocchiarsi di fronte alla sua salma . Mi

irritava  quando lo ascoltavo ospite di Fazio (che non tollero), ma la sua opera umanitaria parla per Lui e dice che è stato un grande. Con linguaggio antico lo definirei un benefattore dell’umanità. Mi infastidiscono gli elogi dei politici nei suoi confronti a partire dal sindaco di Milano. Credo che Strada meriti la sobrietà che ha sempre saputo  dimostrare. La strumentalizzazione politica della sua vita appare fuori posto. Strada ha costruito ospedali, chi parla di lui e si gloria della sua amicizia, sa quasi soltanto fare delle chiacchiere  spesso inutili e quasi sempre inconcludenti.

Il Muro della vergogna 1961/1989

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni 

Il Muro di Berlino incominciò ad essere costruito tra il 12 e il 13 agosto 1961 ed oggi resta una pagina di storia dimenticata perché il crollo del comunismo sovietico portò nel 1989 all’abbattimento del muro della vergogna, com’era definito dai democratici.

Io ricordo quell’estate, non avevo ancora quattordici anni e non dimentico le parole severe di condanna di mio padre che per la prima volta mi parlò di comunismo, descrivendomi- avendola visitata di persona – cosa fosse l’URSS e la RDT. Avevo fatto l’ esame di terza media nel giugno 1961 e avevo per conto mio studiato anche la storia contemporanea che non c’era nel libro che finiva con il fascismo e conoscevo le conseguenze devastanti della seconda guerra mondiale che portò la Germania ad essere divisa in due, certo non senza fondate motivazioni perché il mostro del Nazismo avevano sconvolto l’Europa e minacciato da vicino il mondo libero ,per non parlare dello sterminio di 6 milioni di ebrei. Ma i cittadini tedeschi dell’Est non meritavano di passare dalla dittatura hitleriana a quella staliniana. Per impedire il libero passaggio tra le due Germanie, quella comunista e quella democratica, la prima eresse un muro di 156 chilometri alto 3,6 metri. Secondo i comunisti tedeschi che beffardamente definirono la loro repubblica “democratica“  il Muro era in funzione “antifascista “ per impedire alle spie occidentali di entrare a Berlino Est. In effetti venne costruito per inibire il libero passaggio tra le due Germanie e la fuga da una condizione di vita intollerabile ,se paragonata a quella dei tedeschi dell’Ovest malgrado le conseguenze della guerra perduta. La Germania dell’Est era uno Stato satellite dell’URSS, governata con sistemi dispotici, come tutti i Paesi oltre la Cortina di ferro. Il Muro divise per 28 anni le due Berlino e provocò disastri. Più di centomila berlinesi cercarono la fuga nella vera Germania democratica, quella che aveva per capitale Bonn. Furono molte centinaia i morti durante il tentativo di fuga, uccisi dalla polizia, affogati o caduti in incidenti mortali, come, rara avis, ci ricorda oggi il socialista Ugo Finetti.

Ci fu anche gente che si suicidò quando venne scoperta perché la Polizia della RDT era particolarmente efferata. Un vero stato di polizia nel cuore dell’Europa. La devastazione economica della Germania dell’Est creò gravi problemi anche per la riunificazione tedesca dopo il 1989.Va ricordato che il presidente americano Kennedy che non va affatto mitizzato perché commise tanti errori, andò nel 1963 in visita in Germania e disse la celebre frase : ”Io sono berlinese“, solidarizzando con i cittadini dell’Est che si vedevano violati i diritti più elementari. L’Occidente non si mosse come non si era mosso per l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956. Gli equilibri internazionali erano più importanti della libertà dei Berlinesi. Vale però la pena di sottolineare la follia di costruire un muro per impedire la fuga dall’inferno comunista. Di fronte ad essa il PCI di Togliatti tacque ,anzi fu solidale con la RDT .Basta rileggere i titoli e gli articoli dell’ “Unità“ di quei giorni di Ferragosto in cui quasi tutti pensavano a divertirsi in vacanza. Io ero a Bordighera e in Corso Italia vidi alcuni giovani che distribuivano dei volantini di condanna.

Mi venne spontaneo dar loro una mano : fu il mio battesimo alla politica. Nel 2019 andai a Berlino per ricevere un riconoscimento e ricordo la tristezza di quella città che aveva aggiunto alla tragedia nazista quella comunista e non si era ancora ripresa .La grande Berlino prussiana era stata cancellata e la Porta di Brandeburgo appariva un reperto archeologico. Inutilmente pensai alla Germania di Kant  di Ficthe, di Hegel, di Nietzsche, di Beethoven, dei grandi storici e filologi. Restava solo il fantasma di un Marx che mi appariva il primo tradito. La sua utopia libertaria ed egualitaria diventò un regime sanguinario in cui veniva calpestata la dignità stessa delle persone. Non furono giorni piacevoli di vacanza. Ma vidi in ogni dove i fantasmi delle due dittature, nazista e comunista, che dominarono il ‘900. Una tragedia agghiacciante di cui il muro resta una delle testimonianze più ignobili e intollerabili.

I teatri torinesi: Teatro Colosseo

Torino e i suoi teatri

1 Storia del Teatro: il mondo antico
2 Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti
3 Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri
4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti
5 I teatri torinesi :Teatro Carignano
6 I teatri torinesi :Teatro Colosseo
7 I teatri torinesi :Teatro Alfieri
8 I teatri torinesi :Teatro Macario
9 Il fascino dell’Opera lirica
10 Il Teatro Regio.

6 I teatri torinesi: Teatro Colosseo

Come si suol dire “c’è sempre una prima volta”, e in genere è vero, quello specifico momento non si scorda mai.
Questo articolo inizia così, con il felicissimo ricordo del primo concerto a cui sono andata.
Erano i tempi delle scuole medie, quando i papà devono accompagnarti in giro e poi venire a riprenderti, quando le amiche e compagne di banco condividono con noi emozioni, sogni ed esperienze, quando la possibilità di conquistare il ragazzo di terza – o addirittura delle superiori – è la stessa che uscire con la propria “star” del cuore: nulla.
Chissà se la mia amichetta dell’epoca lo rammenta ancora? Il fragore della folla, la felicità di cercare i posti a sedere, le luci che si spengono, gli occhi azzurri di Nek che lampeggiano nel buio come i fari dietro le quinte.
Le canzoni gridate a squarciagola sono ancora oggi fotografie stampate e gelosamente conservate nel mio album dei ricordi, testimonianze di vita, rimembranze dal sapore “vintage”, prova dell’esistenza di un’epoca priva di “social network”, quando stampare era un rito importante e costoso, non solo una moda lanciata dalle “app” più in voga del momento.
Utilizzando l’ “escamotage” stilistico della metafora, la vicenda del Teatro Colosseo è paragonabile ad una raccolta in nuce di stati d’animo, meraviglie, applausi, flash e luci dei cellulari, una specie di collezione appena iniziata che si spera possa ampliarsi ancora per moltissimo tempo.

Il Colosseo è infatti uno dei teatri più recenti del capoluogo piemontese; esso sorge nel rumoroso quartiere di San Salvario, vicino al rigoglioso Parco del Valentino. La struttura, risalente alla fine degli anni Sessanta, è compresa in un signorile palazzo decorato di via Madama Cristina 71, mentre l’accesso tondeggiante fa angolo con via Bidone.
Eppure, nonostante la giovane età, il Colosseo è annoverato tra i più importanti teatri torinesi, questo perché chi si è occcupato di gestire il teatro ha sempre dimostrato grande abilità nell’organizzare non solo spettacoli di prosa, ma anche “performance” di personaggi di fama, conferenze e concerti di artisti italiani ed internazionali.
Conosciuto soprattutto nel frangente musicale, il Colosseo è una sorta di tappa obbligata di varie “tournée” di cantanti contemporanei e tutt’oggi si conferma come uno dei palchi maggiormente frequentati da personalità assai note.
Quando viene edificata, la struttura è pensata per ospitare una palestra di pelota, dopo qualche tempo però la sua funzione muta e diviene sala cinematografica; è tuttavia necessario attendere gli anni Ottanta affinché gli spazi siano definitivamente adibiti ad ospitare rappresentazioni teatrali.
Questo ultimo cambiamento si deve al siciliano Francesco Spoto, fondatore, proprietario dello stabile, ed effettivo “papà” del teatro.
Francesco è originario di Lentini, a sedici anni giunge a Torino e da quel momento in poi dedica anima e corpo alla città sabauda. Nel 1981 compra l’edificio che avrebbe preso il nome di “Colosseo”, pian piano, grazie al suo atteggiamento sicuro e forte, l’imprenditore rende la struttura un punto nevralgico dell’intrattenimento torinese, dando vita ad un vero e proprio teatro moderno.

Egli finanzia, sul finire degli anni Ottanta, il primo spettacolo teatrale del celebre trio Lopez Solenghi Marchesini. In tale occasione, Spoto, dotato di evidente acume imprenditoriale, paga in anticipo i tre artisti con ben tre settimane di tutto esaurito, ancora prima che questi finissero di scrivere la sceneggiatura dell’esibizione. La buona fede e il fiuto di Francesco risultano ben riposti, il successo dello “show” supera di gran lunga le aspettative, tanto da vincere il Biglietto d’Oro (1987) per il maggior incasso teatrale dell’anno.
Ad oggi il teatro rimarca la sua importanza con una capienza decisamente notevole, di circa 1.503 persone; all’interno la struttura presenta un’ampia sala, adibita a contenere il pubblico, puntellata di poltroncine in velluto rosso e suddivisa in due settori, Platea e Galleria.
L’esterno è altresì al passo con i tempi: impattanti murales colpiscono lo sguardo e testimoniano la realtà della “street art” torinese.
Per sottolineare la centralità del teatro nella scena della città subalpina, non posso a questo punto esimermi dall’accennare a qualche nome di alcuni degli artisti più illustri che si sono esibiti proprio su questo palco.
Per quel che riguarda il contesto musicale, è giusto ricordare Domenico Modugno, Lucio Dalla, Angelo Branduardi e Gianna Nannini. Non meno importanti sono gli artisti internazionali passati di qui, tra cui lo statunitense Barry White, che si esibisce a Torino nel 1990, o ancora, sempre nello stesso periodo, Joen Baez e Gloria Gaynor.
In tempi decisamente più recenti il teatro ospita l’italo-albanese Ermal Meta, che nel 2018 decide di chiudere proprio qui, davanti al pubblico del Colosseo, il suo tour “Vietato Morire” basato sulla omonima canzone con cui ha vinto il “Premio della Critica Mia Martini 2017”.

Per quel che riguarda la recitazione, il 2013 è un anno particolarmente fortunato, poiché due figure emblematiche della scena italiana riempiono con i loro monologhi la sala del teatro e il cuore degli spettatori. Nell’aprile di quell’anno Gigi Proietti propone “C’è gente stasera?”, titolazione che prende ironicamente spunto dalla più tipica e temuta domanda di ogni teatrante; nel dicembre sempre 2013 il premio Nobel Dario Fo debutta con “In fuga dal Senato”, spettacolo attraverso cui porta avanti le battaglie sociali della moglie Franca Rame.
Permettetemi ora una minuscola divagazione proprio su quest’ultimo aspetto.
Ho già avuto modo di esporre il mio personale punto di vista sul mondo dell’arte e dello spettacolo, credo fermamente che queste dimensioni debbano sopravvire al tempo, alle mode e alle abitudini, a tutti i costi, poiché “L’arte è una bugia che ci fa realizzare la verità” (Picasso).
Scopo del teatro non è solamente quello di intrattenere, al contrario ciò a cui assistiamo deve portarci a pensare, ragionare, deve scuoterci dentro e renderci ancora più attenti alle complessità del mondo in cui viviamo.
Lo spettacolo è di certo anche critica, statira, denuncia.
Dario Fo, in quell’occasione in particolare, propone una “performance” complessa, una miscela di letture, idealismo e voglia di rivincita sociale, tutto basato sull’omonimo testo autobiografico della moglie, che racconta in quelle pagine la sua breve ma sentita esperienza come senatrice tra il 2006 e il 2008.
Si ride e si scherza, con le parole di Fo, ancora udibili da qualche parte su youtube, ma si riflette anche, allora forse più facilmente di oggi, poichè con la scusa del “politicamente corretto” la censura dilaga, zittendo anche chi ha fatto della parola il suo mestiere.
Per fortuna, ora non rimane in silenzio il Colosseo, che riparte dopo il traumatico periodo di chiusura pandemica, con un calendario ricco di appuntamenti, di ospiti e celebrità.
“Largo ai giovani” dunque, che questa esortazione valga in senso lato, per persone, edifici e gestioni; va da sé, il confronto con le esperienze dei colossi storici è assai difficoltoso, ma tra un Regio e un Carignano, ricordiamoci di far qualche volta visita anche al moderno e “sbarbato” Colosseo.

Alessia Cagnotto

 

Un libro di poesie-preghiere dedicate all’amata nonna

LIBRI / “Nei cinque sensi e nell’alloro”, il libro di Strinati dedicato all’amata nonna, passando per i luoghi spirituali della città di Torino, a cui è strettamente legato tanto da dedicarle numerose poesie.

Dopo un lungo viaggio intrapreso nella regione Piemonte, Fabio Strinati sceglie la spiritualità come sentiero da percorrere, e lo fa, partendo da alcuni luoghi spirituali della città di Torino, come la Chiesa di Santa Barbara, la Chiesa di Sant’Agostino e la Chiesa della Salute.

Parole essenziali ma dai tratti suggestivi. Poesie spirituali che narrano una vicenda intima e profonda. Nei cinque sensi e nell’alloro è una raccolta poetica che nasce da un bisogno irrefrenabile di raccontare un dolore forte vissuto con il cuore in mano e la penna come compagna di un viaggio, a tratti sterminato; brevi poesie-preghiere che portano in superficie il dono della parola come testimonianza rara di una storia eterna.

Strinati, disegna versi partendo da un pensiero colto e raffinato; spontaneità e naturalezza, fanno da cornice a un grido che parte da lontano, portando in dono una dedica toccante, che recita: “Dedico alla mia amata nonna questa raccolta che tanto assomiglia al suo volto luminoso; al suo cuore rosso, radioso, riposto nel fiore profumato d’una culla, lassù nel Paradiso che porta il nome di Teresa”. Parole pregne di significato. Versi che portano il peso di un dolore interminabile. Come fosse un lungo percorso illuminato dai fari d’una rinascita figlia della Vita, ogni poesia è pregna d’una Fede rara, che si manifesta con sincerità assoluta.

“Si tratta del libro più giusto che io abbia mai fatto: poter donare a mia nonna un’eternità più longeva ed ampia attraverso un percorso poetico e spirituale che tanto mi riempie il cuore”.

 

Saviano, le mafie, la distruzione della famiglia

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Mi è apparsa  fin da subito una forzatura demagogica la pubblicazione sul “Corriere della Sera” di un’intera pagina affidata alla penna di Roberto Saviano. Essendo lontano mille anni luce da Saviano e non ritenendolo un interlocutore con cui discutere, non leggo mai la sua pagina.

Ma l’ultima di domenica 8 agosto non ho potuto non leggerla dopo quanto mi è stato segnalato. Scrive il noto scrittore ipercelebrato che “se non esistesse il concetto di famiglia, non esisterebbero le organizzazioni criminali“, con un’affermazione apodittica senza la benché minima dimostrazione storica. La famiglia come male da estirpare, lanciando  i nuovi “patti d’affetto“ che sanno tanto di ddl Zan. Egli rimette in discussione il ruolo della famiglia nella nostra società, sostenendo che le mafie finiranno con la fine delle famiglie . “Quando l’umanità troverà nuove forme d’organizzazione sociale, nuovi patti di affetto, nuove dinamiche in cui crescere vite”, la mafia verrà sconfitta  il che equivale a dire che l’idea di famiglia è un’espressione di comunità contigua alla mafia. Un’affermazione paradossale, anzi aberrante e soprattutto non fondata storicamente. Le analisi sulla famiglia borghese di Marx e di Hengel erano più problematiche e meno settarie. Anche il “libero amore“ nella Russia sovietica fu per il popolo uno slogan propagandistico e un’opportunità concessa solo alla nomenclatura. Ma in effetti nell’URSS liberticida le affermazioni di Saviano sarebbero costate al suo autore il gulag o il manicomio. Forse Saviano è anche nostalgico delle fallimentari “comuni” sessantottine che coniugavano nudismo, droga e promiscuità, anche se parla di nuovi patti senza  però darne una definizione. Sarebbe interessante capire a cosa si riferisca di preciso. Il Nostro precisa che questi giudizi vanno estensivamente  applicati anche  alle famiglie non criminali borghesi perché il vero bubbone è il capitalismo. Come si faccia a dire che la famiglia sia un male da estirpare, non è chiaro. Solo un vetero  -marxista -leninista che non conosce la storia  reale dell’URSS ,può giungere a certe affermazioni. Temo che non si tratti di paradossi, ma di convinzioni reali. Io sono abituato a rispettare tutte le idee, soprattutto  quelle più intollerabili: così si comportano i liberali che non possono tuttavia essere indifferenti ad alcuni principi etici irrinunciabili. Resto infatti tenacemente fermo all’articolo 29 della Costituzione che parla della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. La cellula fondamentale di qualunque società è la famiglia e la sua disgregazione equivale al nichilismo più assoluto che genera dei veri e propri mostri.
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scrivere a quaglieni@gmail.com

La quadratura dei cerchi

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Economia / IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

In questo periodo siamo tutti piacevolmente coinvolti nel celebrare le “nostre” vittorie sportive ai giochi olimpici di Tokyo.

Ne va dell’orgoglio nazionale ed anche, più prosaicamente, dell’ indotto economico che ha preceduto ed accompagnerà in futuro gli allori olimpici.

Sorprende sempre, purtroppo, come quando si parla di cultura in Italia (le immagini sono tratte da un articolo del Sole 24 Ore e da un rapporto di Unioncamere e Fondazione Symbola) lo sport non sia minimamente menzionato.

Eppure l’attività sportiva è senza dubbio parte integrante del nostro patrimonio culturale e contribuisce in modo importante alla formazione dell’individuo ed alla sua salute fisica e psicologica.

Dal punto di vista economico le attività sportive ed il loro indotto pesano già intorno al 4% del PIL arrotondando così al 10% quello della cultura “allargata”.

 

Il rapporto “Io sono cultura” evidenzia, inoltre, come un euro investito nel settore generi un beneficio pressochè doppio, innescando e attirando altre attività economiche, al Paese.

 

Si parla quindi, complessivamente, di circa un quinto del Pil nazionale legato, direttamente o indirettamente, alla cultura ed alla creatività.

 

Torino con la sua provincia è al terzo posto (e non troppo distante dalle capolista Milano e Roma) come peso di questo comparto sul totale dell’economia locale e la sua grande tradizione sportiva ed olimpica (rinvigorita dall’ultima nata all’ombra della mole: la federazione internazionale di arrampicata) rappresenta una ulteriore ottima potenzialità da valorizzare, dando un seguito concreto ed organico (non solo episodico) ai prossimi ATP di tennis.

Sarebbe veramente la quadratura del cerchio/cerchi olimpici se cogliessimo l’occasione per fare un salto culturale (appunto…) ed includessimo lo sport tra i settori da valorizzare del nostro Paese.

Solo allora potremo aspirare a salire, come ci compete, sul gradino più alto del podio della cultura.

I falsi liberali improvvisati

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Chi si oppone alla vaccinazione di massa e al green pass invoca spesso argomentazioni apparentemente liberali. Si tratta di una mistificazione ambigua e falsa perché questi signori (sia i politici e che i manifestanti in piazza  sono persone senza la benché minima qualità intellettuale

Gente senza qualità, come diceva Musil. E’ gente che non ha mai letto seriamente un libro in vita sua. Alcuni hanno evidenti  ascendenze neo-fasciste, velocemente e solo  provvisoriamente occultate. Non sanno che la libertà per i liberali è sempre e soltanto libertà responsabile  e che la libertà si è fusa, a partire dal secolo scorso, in modo indissolubile con la democrazia. Non a caso,  nella loro confusione mentale, sostengono  la democrazia illiberale di Orban e di fronte alla pandemia invocano invece in Italia atteggiamenti che ammantano di  un liberalismo di facciata appreso in un corso accelerato al Cepu. Mettersi nelle condizioni di infettare il prossimo è un atteggiamento barbaro, anzi da cavernicoli. Il liberalismo nacque molto dopo e fu una grande conquista civile e culturale sia nella versione inglese, sia nella versione  francese. Anche la versione italiana ha  avuto esponenti del calibro di Croce e di Einaudi che furono  sempre uomini di cultura eticamente responsabili. Oltre ai neofascisti a dare lezioni di liberalismo si aggiunge l’ex comunista Cacciari, del tutto estraneo alla cultura liberale. Da liberale da oltre cinquant’anni, appartenente ad una famiglia liberale che può vantare il nome di Marcello Soleri, sento il dovere di denunciare l’appropriazione indebita di una concezione etico-politica che è del tutto estranea a chi crea confusione e proteste ingiustificate , dicendo di voler difendere la libertà. Lo scrivo a nome di tutti i liberali:  da Cavour a Giolitti, da Croce a Einaudi, da Pannunzio a Malagodi, da Badini Confalonieri a Zanone, da Altissimo a Biondi. I liberali che hanno avuto come simbolo la bandiera tricolore, hanno sempre avuto il senso dello Stato che hanno fondato nel 1861 come stato  liberale di diritto. E hanno avuto sempre la capacità di essere patrioti soprattutto nei momenti più drammatici della storia italiana ed europea. E in momenti tragici  come questi  i patrioti stanno dalla parte di chi vuole una libertà solidale senza ambiguità che si ponga l’obiettivo di salvare vite umane. Che la mia ex allieva Laura Marruccelli nipote dell’eroico generale Giuseppe Perotti capo del comitato militare del CLN piemontese fucilato al Martinetto, abbia fatta la scelta di difendere le ragioni della tutela della salute pubblica è un fatto che mi conforta e mi riempie di orgoglio.
(Immagine tratta da nicolaporro.it)