Rubriche- Pagina 2

La casa come specchio di chi siamo

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ABITARE CON STILE

Rubrica settimanale a cura di Magda Jasmine Pettinà 
Uno spazio dedicato al mondo della casa in tutte le sue forme: dal mercato immobiliare al design d’interni, dall’arte di valorizzare gli spazi alle nuove tendenze dell’abitare contemporaneo. Consigli pratici, spunti estetici e riflessioni su come rendere ogni casa un luogo che rispecchi chi siamo — con uno sguardo che unisce competenza, bellezza e sensibilità.
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Dalla burocrazia al benessere, dal valore immobiliare al design d’interni: l’abitare contemporaneo è un equilibrio tra funzionalità, estetica e identità. Una riflessione sull’evoluzione dello spazio domestico, fino al concetto moderno di smart home.

Abitare non significa soltanto vivere in uno spazio, ma farne il riflesso della propria identità. La casa è il luogo in cui le nostre scelte estetiche, funzionali ed emotive si intrecciano, raccontando chi siamo molto più di quanto immaginiamo.

Nasce da questa consapevolezza “Abitare con stile”, una rubrica dedicata a chi considera la casa non solo come un bene materiale, ma come un progetto di vita in continua evoluzione.

Oggi parlare di casa significa parlare di società, di tecnologia e di benessere. L’abitare è cambiato profondamente: gli spazi non sono più soltanto contenitori di oggetti o funzioni, ma scenari del nostro quotidiano, luoghi che influenzano il nostro umore, la produttività, la qualità del tempo che trascorriamo con noi stessi e con gli altri.

Accanto agli aspetti più tecnici e burocratici — dai valori immobiliari alle normative — si è fatta strada una nuova sensibilità: quella che guarda alla qualità dell’abitare come a un equilibrio tra comfort, estetica e sostenibilità.

Progettare una casa oggi significa saper dosare funzionalità e emozione, tecnologia e calore, estetica e senso pratico. Significa scegliere materiali che dialoghino con la luce, colori che favoriscano armonia, spazi flessibili capaci di adattarsi ai nuovi ritmi della vita.

Negli ultimi decenni, l’evoluzione dell’abitare ha seguito il ritmo della società: dagli appartamenti tradizionali ai loft aperti e multifunzionali, dalle seconde case destinate al relax fino alle soluzioni di co-living e agli spazi ibridi dove casa e lavoro si fondono.

Oggi, con l’avvento della smart home, la casa diventa anche intelligente: luci, temperatura, sicurezza e consumi si gestiscono con un clic, restituendoci tempo e libertà. Ma la vera innovazione non sta solo nella tecnologia: è nel modo in cui impariamo a costruire ambienti che ci somiglino, che accolgano, rigenerino e ispirino.

Ogni casa è un racconto. E in queste pagine proveremo a esplorare, settimana dopo settimana, le infinite sfumature dell’abitare: dal valore immobiliare al fascino del design, dalle tendenze ai piccoli gesti quotidiani che trasformano uno spazio in un luogo da amare.

Perché, in fondo, abitare con stile non significa seguire le mode, ma trovare la propria armonia tra forma, funzione e anima.

Teresio e i duelli dei “cauboi”

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Passando davanti alla casa di Aristide ho ripensato ai “duelli”  che ingaggiava con Teresio. Niente di cruento, per carità, ma   il clima che si creava sembrava proprio quello della “sfida all’ O.k. Corral”. Al numero 30 di via Libertà sembrava di essere finiti a capofitto nella miglior epopea western e la porta d’entrata dell’Osteria Cooperativa sembrava uguale identica a quella di un saloon

Aristide entrava, con i pollici di entrambe le mani  infilati nella cinghia dei pantaloni. La camicia a quadretti, alla “boscaiola”, e il gilè scuro di fustagno. Lo sguardo torvo, sotto il cappellaccio nero, era tutto un programma. Si guardava attorno, neanche fosse Wild Bill Hickok alla ricerca di qualche fuorilegge a Dodge City o Abilene. Con lo sguardo passava in rassegna, lentamente, gli avventori che erano seduti ai tavoli nella larga sala  e, adocchiato  tra gli altri Teresio lo “puntava” come un pistolero. Sguardo dritto e fisso, gambe larghe e ben piantate, braccia a penzoloni lungo il corpo e mani che muovevano lentamente le dita. Teresio non era da meno. Si girava lentamente e, appoggiato di schiena al bancone della mescita, lo fissava anche lui. Poi, nel silenzio più assoluto, si avvicinavano l’uno all’altro.

I giocatori di ramino stavano lì, in surplace, con le carte in mano. I professionisti del biliardo alzavano la stecca dal tappeto verde, dimenticandosi per un attimo delle traiettorie da imprimere alle biglie colorate. I due, intanto, erano ormai uno davanti all’altro e, d’improvviso, chiamandosi per nome, si scambiavano dei gran pugni sulle spalle, simulando un incontro di boxe. Amiconi da sempre, si divertivano così. Si canzonavano e si “facevano le spalle” con delle sberle tremende. Uno, ferramenta d’ingegno e maestro di sregolatezza, l’altro carpentiere provetto e muratore “fuori orario”, avevano al posto delle mani delle vere e proprie “vanghe” e si mollavano delle pacche da far tremare denti e gengive. Ah, a proposito di denti. I colpi venivano vibrati regolarmente sulle spalle, allo scopo di far traballare l’amico-avversario. Salvo quella volta che Teresio, colto da un lampo d’ingegno, pensò di schivare l’uppercut dell’amico abbassandosi di scatto. Un gesto che, per aver successo, necessitava di una certa rapidità. Forse fu proprio la rapidità a difettare allo “stratega”, tanto da non consentirgli di schivare in tempo il colpo che arrivò, come un dritto  micidiale, tra naso e bocca, in pieno volto. Altro che traballare: Teresio finì a gambe levate, steso al tappeto.

Sanguinava da far paura e un certo numero di denti finì per sputarli sul pavimento. Aristide , terrorizzato dal colpo che aveva inferto all’amico, alla vista del sangue, stramazzò anche lui a terra svenuto .Così i due furono soccorsi dagli altri avventori con ghiaccio, sali, alcool e cerotti, prima che Teresio fosse portato al pronto soccorso più vicino in condizioni a dir poco pietose. Da quel giorno, “per non perdere le buone abitudini”, come diceva Teresio, mettendo in mostra un sorriso non proprio integro, il duello fu solo simulato. Ma se per Teresio era l’occasione per due risate con l’amico, la cosa era ben diversa per Aristide. Lui avrebbe voluto davvero essere un pistolero o uno sceriffo e sfidare a duello i malfattori. Divorava i fumetti di Pecos Bill e Tex Willer, non si perdeva un film western in Tv e quando ancora era aperta in paese la sala cinematografica, nel locale a fianco della stazione ferroviaria, s’era innamorato di Clint Eastwood. L’attore americano, interpretando  gli spaghetti-western “Per un pugno di dollari”, “Per qualche dollaro in più” e “Il buono, il brutto e il cattivo”, sotto l’accorta   regia di Sergio Leone, rappresentava esattamente il suo “modello”. “Quello sì che è un ganzo”, diceva. “ Ha un’espressione che cambia solo quando toglie il cappello, due occhi di ghiaccio e con la Colt è un fulmine. Ah,quanto mi piacerebbe essere un cauboi (parola che pronunciava e  scriveva esattamente così..), tirar fuori la rivoltella e far secchi tutti i delinquenti”.

Non è difficile, a questo punto, intuire cosa gli passò per la testa quella mattina che, rientrato a casa dopo una nottata di bisboccia in compagnia, trovò i due anziani genitori ad aspettarlo, ancora tremanti di paura. Cos’era successo? Semplicemente che un altro matto che era ancor più matto di lui, il Piero Borlotti, era passato lì davanti poco prima di mezzanotte e si era messo ad urlare come un’aquila il suo nome. Papà e mamma, che si erano coricati già da qualche ora, si svegliarono di botto a causa degli schiamazzi. “Vieni fuori, Aristide. Vieni fuori che andiamo a bere. Dai, non fare il balengo! Vieni fuori o ti faccio finire con il sedere per terra”. E si mise a sparare in aria con una scacciacani. Ogni colpo era accompagnato da un rosario di mamma Delfina che, nascosta dietro all’uscio della cucina, tremava come una foglia. Ad un certo punto, Borlotti si stufò di sparare. Forse perché aveva finito i colpi e di Aristide non si vedeva l’ombra, forse perché sentì dalle case vicine urlare “adesso chiamiamo i carabinieri!”; fatto sta che borbottando se ne andò per la sua strada. Appena gli anziani genitori finirono di raccontare la loro nottata di paura, il loro figliolo sbottò con un “Accidenti, che peccato! Se ero a casa, facevamo un bel duello”. Come non capire suo padre, l’anziano signor Carlo, il quale – sentite queste parole – lo fissò negli occhi e gli sibilò  quello che pensava di lui: “Ma va a ciapà i ratt, balordone! Altro che duello e pistole! I pistola siete voi e la prossima volta prendo io in mano la doppietta, la carico a sale grosso e vi sparo nel sedere”.

Marco Travaglini

Una lotta privata e quella di un intero paese, per una eccellente opera prima

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Sugli schermi “Anemone” di Ronan Day-Lewis

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Un attore immenso come Daniel Day-Lewis, di dura scuola britannica, che ha navigato tra teatro e cinema soprattutto, tre Oscar all’attivo più altrettante candidature, Golden Globe e Bafta a mitraglia, deciso otto anni fa a ritirarsi dallo schermo dopo la prova del “Filo nascosto” – lo aveva già fatto dopo l’insuccesso di “The Boxer”, quando si rifugiò a Firenze e si fece assumere come apprendista calzolaio, lasciando che poi fosse Scorsese a resuscitarlo come il “macellaio” Cutting in “Gangs of New York” -, torna ora tenacemente e meravigliosamente in pista per scrivere con il figlio Ronan la sceneggiatura e farsi protagonista di “Anemone”. Ronan, che ha radici ben salde nella scrittura e nel cinema, la mamma essendo Rebecca Miller regista e il nonno Arthur commediografo e la nonna quella Inge Morath, fotografa, che gli ha trasmesso la passione per la pittura e per l’immagine: e sarebbe sufficiente la bellezza della fotografia, tra interni rischiarati dal fuoco e dalle poche lampade e i paesaggi sconfinati, dipinti tra il rosso di un tramonto e il raggrupparsi grigiastro che precede una grandinata salvifica e un temporale, di Ben Fordesman, doverosamente presente nel cast e artefice di un lavoro a cui il regista non può non aver partecipato (certe macchie di boscaglia riprese dall’alto).

Tutto accade a Sheffield e nei luoghi poco lontani, il taciturno Jem vive con Nessa e con il figlio di lei, Brian, un giovanissimo irrequieto e solitario, che al momento buono sa menar le mani, che porta in sé chissà quali segreti (ha appena reso malconcio un ragazzo, quelle nocche sbucciate gliele vedremo per tutti i 120 minuti). Perché Ronan Day-Lewis inizia a raccontare la sua storia e la dilata oltre misura (certe opere prime che hanno la smania di voler dire tutto e subito), dando in gran bella veste cenni e brandelli di fatti e di ricordi allo spettatore, in un montaggio altrettanto frastagliato e scomposto, un attimo incastrato nell’altro a distante e tempi lontanissimi, offrendo indizi e frasi smozzicate, riempiendola di scene di cui a un primo sguardo ti chiedi la necessità, silenzi continui e sguardi calibrati intrecciati che valgono più di mille parole: ma palpabilmente la affascina, quella storia. Jem, che ha soltanto con sé una moto e una antica parola d’ordine con due coordinate, è andato alla ricerca di Ray, suo fratello e padre del ragazzo, un recluso dal mondo, una casa in mezzo alla foreste, con i primi piani degli alberi e dei rami che s’intersecano, in un mare di verde e di ombre che è una bellezza. Faticoso il film, cupo, raggomitolato in se stesso, angoscioso, costruito a tratti su dialoghi che sanno troppo di tavolino e di scrittura, che a poco a poco si scopre nella descrizione di una amara vicenda, i rapporti cancellati tra padri e figli in cui una madre (Samanta Morton) vorrebbe porsi ad ago della bilancia, che da ristretta, familiare, particolare angoscia si prende spazio per espandersi a una intera nazione, una guerra, il dramma delle sommosse e gli attentati che leggemmo nei pub, le bandiere in fiamme, l’Ira e la lotta, i rastrellamenti e le prigioni: si procede nella curiosità, nella sicurezza sempre più forte delle capacità di un ragazzo che con “Anemone” entra nel mondo del cinema.

Ripetiamolo, non è di facile presa “Anemone”, è un percorso accidentato, un muoversi con lentezza e con circospezione, dall’una e dall’altra parte della barricata, ci si può anche inciampare, cadere in quelle tante simbologie – soprattutto nella seconda parte – di cui il film s’arricchisce ma lasciando ancora lo spettatore nel bisogno di decifrare (la tempesta di ghiaccio che s’abbatte sulla fragilità del fiore del titolo, il grande pesce che scende la corrente del fiume). Al comando di quasi ogni inquadratura c’è la prova potente di Daniel Day-Lewis (un altrettanto ottimo Sean Bean gli fa da spalla, principalmente muta e il giovane Samuel Bottomley è sicuramente una promessa), massiccio, sguardi e movimenti in pieno calibro, primi piani pronti a confessare tutto il passato e l’incertezza del presente, ancora silenzi e le zuffe e i balli, due monologhi che dovrebbero far scuola, che danno sempre maggior spessore al personaggio, che ne delineano le sofferenze e la lotta combattuta per poterle superare, la rivincita sul prete che parecchi anni prima ha abusato di lui e l’uccisione di un ragazzo nel pieno della lotta armata, in una qualche strada di una città. La guerra di un paese e i rapporti dentro una famiglia, quegli stessi temi che più di trent’anni fa Day-Lewis aveva già affrontato come Gerry Conlon in “Nel nome del padre” di Jim Sheridan, divenendo una degli attori più prestigiosi del cinema mondiale.

Evitiamo la trappola del vittimismo / 2

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“Eh, che maniere! Qui fanno sempre così, perché loro sono grandi e io sono piccolo e nero… È un’ingiustizia però!” … Erano le parole con le quali il piccolo pulcino Calimero esprimeva il suo sconforto. In qualche modo una frase tipica anche dell’adulto che si sente vittima del mondo…

Il vittimista ha un atteggiamento immaturo nei confronti della realtà e tende a considerarsi il centro di un mondo ingiusto e ingrato mei suoi confronti. In altre parole, chi fa la vittima si ritiene speciale in modo negativo, per cui solo a lui/lei capitano cose brutte e i problemi che ha sono i peggiori e i più gravi che esistano.

Che questo atteggiamento sia frutto di una effettiva convinzione, o sia al contrario semplicemente una modalità di comportamento strumentale, in ogni caso il vittimismo è la conseguenza di una bassa (se non del tutto assente) autostima, che rende il vittimista incapace di affrontare la vita nelle sue piccole e grandi difficoltà.

E lo porta a rifugiarsi in una realtà immaginaria, dove la responsabilità di ciò che non funziona e lo rende infelice non è mai sua, ma di forze esterne imprevedibili e ingovernabili. Resta il fatto che questo comportamento permette al vittimista in qualche modo di sgravarsi della maggior parte degli oneri esistenziali e, appunto, della responsabilità individuale.

Egli spera in tal modo di ottenere indulgenza, affetto e protezione. In definitiva, chi si comporta da “Calimero” mette in pratica una distorta strategia di adattamento e sopravvivenza, che fa leva sul senso di accudimento e di colpa di chi gli sta accanto. Il vittimismo diventa così un subdolo e pericoloso tiranno.

Che tenta di costruire un mondo nel quale tutti si preoccupano (o dovrebbero preoccuparsi) per lui e agiscono nel suo interesse. Ma se, a tutta prima, queste dinamiche apparentemente sono funzionali a portare vantaggi, in realtà il modo di essere e di fare del vittimista finisce con l’avere conseguenze decisamente negative, sia su chi, in modo più o meno consapevole, lo mette in atto, sia su chi lo subisce.

(Fine della seconda parte dell’argomento).

Potete trovare questi e altri argomenti dello stesso autore legati al benessere personale sulla Pagina Facebook Consapevolezza e Valore.

Roberto Tentoni
Coach AICP e Counsellor formatore e supervisore CNCP.
www.tentoni.it
Autore della rubrica settimanale de Il Torinese “STARE BENE CON NOI STESSI”.

Da Vito Marcantonio a Zohran Mamdani

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PAROLE ROSSE di Roberto Placido

Mi manda Vito, mi manda Marcantonio

Leonard Coviello, sociologo-educatore Vito Marcantonio

Harlem Italia, Renato Cantore, Rubettino

(Venerdì 19 maggio 2023)

Zohran Mamdani eletto sindaco di New York nel nome di Vito Marcantonio

Nel maggio di due anni fa fui invitato, da Renato Cantore, ex direttore del TG3 Basilicata, al Salone del Libro per presentare il suo libro “Harlem Italia” editore Rubettino.  Leggendo il libro scoprii la storia  di due uomini  straordinari, Leonard Coviello, nato a fine ‘800 ad Avigliano (Potenza), cresciuto e naturalizzato in America e Vito Marcantonio, nato a New York da genitori di Picerno  (Potenza). Legati dalle comuni origini lucane, cresciuti nello stesso quartiere, East Harlem dove viveva la più numerosa e identitaria comunità di italo-americani di New York. Una comunità forte, dignitosa, gelosa della propria identità ma aperta al confronto  con altri popoli e altre culture,  guidata da leader illuminati e visionari. .Contrariamente a tanti italiani di successo  Leonard Coviello, storpiato dall’anagrafe statunitense in Covello, grande pedagogo  ed educatore di fama internazionale e Vito Marcantonio, avvocato e uomo politico, pur avendone la possibilità decisero di non lasciare  mai il ghetto dei migranti, di condividerne la vita e le speranze.

Il loro “sogno americano” non era quello di salvarsi da soli, ma di crescere insieme  alla comunità, verso importanti conquiste : il riconoscimento della lingua italiana, la scuola di comunità, alloggi dignitosi, i diritti di cittadinanza, una rete di protezione sociale, condizioni migliori di vita e di lavoro,  Un’amicizia per tutta la vita, due destini indissolubilmente legati a quello del popolo di Harlem , dove i  “lazzaroni indesiderabili” provarono e riuscirono a diventare  buoni cittadini americani senza rinnegare la propria identità I due amici, Coviello e Marcantonio scelsero di impegnarsi, vivere e lottare vivendo e condividendo con la gente del loro quartiere. Questa in sintesi la trama del libro, emozionante nel ripercorrere, la vita, i sacrifici, le umiliazioni di un’intera comunità e la loro lotta per il riscatto.  Non avrei mai immaginato, due anni dopo,  che la storia, esemplare, di Vito Marcantonio sarebbe diventata, attuale e, addirittura, il riferimento politico ed ideale del nuovo Sindaco di New York, Zohran Mamdani. Vito Marcantonio, fu il  braccio destro del più grande Sindaco di New York Fiorello La Guardia e ne prese il posto, essendo eletto, prendendo alla Camera dei Deputati, il Congresso americano. Per sette mandati. Per quattordici anni fu il rappresentante di East Harlem a Congresso. Candidato indipendente, lui faceva riferimento all’American Labour Party (socialista) e più precisamente alla corrente comunista, dei repubblicani ed in qualche caso dei democratici. Allora la cosa non era strana, specialmente per un personaggio “scomodo” per l’establishment politico. Per sconfiggerlo, come provano a fare di nuovo ora  inegli USA, modificarono i confini del collegio, unendo ad East Harlem un quartiere “borghese” con una forte presenza di cittadini di origine tedesca. Il tentativo fallì. Lui italo americano, votò contro il “piano Marshall” di aiuti americani all’Italia perché vedeva , come poi è stato ed è ancora, la sudditanza e la dipendenza  dell’Italia agli Stati Uniti. Sostenne l’indipendenza di Porto Rico, difendendo, come avvocato, il leader nazionalista portoricano Pedro Albizu Campos. Nel 1949 si candidò a Sindaco a Sindaco di New York per i laburisti ma non riuscì nell’impresa. Oltre i confini di Harlem era più difficile. L’anno successivo, dopo quattordici anni e sette legislature, fu sconfitto anche alle elezioni politiche per il seggio di East Harlem. Le cause furono due, la violentissima campagna mediatica che subì per essere stato l’unico parlamentare americano di tutti i tempi, fino ad i nostri tempi, a votare contro l’intervento americano in una guerra, nel caso quella di Corea (1950).

La seconda, mai successo nella storia statunitense, per sconfiggerlo , repubblicani e democratici presentarono un unico candidato. Finì 42,2$ a 57,8$ per James G. Donovan. Terminata la sua carriera politica Marcantonio continuò a vivere nel suo quartiere aiutando, italiani, portoricani, neri e chiunque ne avesse bisogno fino al 0 agosto 1954. Nel suo nome ed in suo ricordo, Zohran Mamdani, facendo riferimento al suo programma politico, da socialista come lui, con un’attenzione particolare ai poveri, ai problemi concreti e reali, ha chiuso la campagna elettorale, come si vede nel bellissimo video con il link https://www.instagram.com/reel/DQubDEtAbrL/, in strada, all’incrocio della Lexington Avenue con il Vito Marcantonio Lucky Corner. La vittoria di Mambani, candidato socialista indipendente su Andrew Cuomo, ex governatore dello Stato di New York. Parlamentare, ministro con Bill Clinton, figlio del potentissimo Mario Cuomo, sposata con una delle figlie di Robert Kennedy, appoggiato da tutto il Partito Democratico del quale è uno dei dirigenti di punta ha perso. Zohran Mamdani 51,2% , Andrew Cuomo  39,7%. E’ riuscito a realizzare il sogno di Vito Marcantonio, di diventare Sindaco in rappresentanza degli ultimi, dei più deboli. Nel video di chiusura della sua campagna elettorale ha detto praticamente : mi manda Vito, mi manda Marcantonio ed ha vinto. Ha dimostrato, al mondo intero che è possibile cambiare. Ha dimostrato che un trentaquattrenne  nato in Africa e di religione musulmana può battere l’establishment Una lezione ed una speranza per tutti e che può valere anche a Torino e sulla quale bisogna riflettere e studiare.

Rock Jazz e dintorni a Torino: Edoardo Bennato e Richard Galliano

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA

Lunedì. Al Lambic suona il fisarmonicista Richard Galliano. Al Teatro Alfieri arriva Edoardo Bennato.

Mercoledì. Al teatro Colosseo si esibisce Filippo Graziani. All’Off Topic è di scena il trio Fonema- Garau- Giachino. All’Hiroshima Mon Amour suonano i Mùm.

Giovedì. All’Hiroshima sono di scena gli Studio Murena. Al Magazzino sul Po si esibiscono gli Aldways + Dirty Noise. Al Blah Blah suonano i Fvzz Popvli + Giulia.

Venerdì . Al teatro Colosseo si esibiscono i 40 Fingers. All’Off Topic è di scena Anna And Vulkan. Al Magazzino sul Po suonano gli Earth Ball + Shizune. All’Hiroshima si esibiscono i Sarafine. Al Cap 10100 sono di scena Generic Animal and Devin YU. Al Circolino suonano gli After Dark Experience. Al Blah Blah si esibiscono I Monaci del Surf.

Sabato. Allo Spazio 211 è di scena Mille. Al Blah Blah suonano gli Scream 3 Days + Deathox.

Domenica. Alla Divina Commedia si esibiscono i Girinsoliti. Al Blah Blah suona Bob Wayne special guest Munly J Munly.

Pier Luigi Fuggetta

La premiata ditta della Rosa Scarlatta

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La signora Amelia era davvero una gran signora. Nonostante la non più giovane età era sempre, quotidianamente, in piena attività. Il portamento aveva un tratto che poteva definirsi persino nobile, se non fosse per il trucco troppo accentuato.

Non ho mai capito perché non fosse considerata per la grande disponibilità che, in tanti decenni, aveva dimostrato nel risolvere i problemi altrui. Specialmente, se non addirittura in via esclusiva, quelli di tanti uomini d’ogni età ed estrazione sociale. Forse perché svolgeva il mestiere più antico del mondo? C’era, nel non considerarne fino in fondo la delicata funzione che – senza false ipocrisie e dubbi moralismi – le avrebbe fatto meritare se non un attestato di benemerenza almeno una più generica riconoscenza, qualcosa di profondamente immorale. Sì, immorale. Come non tener conto che la signora Amelia, in arte  “Rosa Scarlatta“, aveva svolto in condizioni non propriamente agevoli e spesso senza entusiasmo, una funzione – per così dire – “sociale” a beneficio di buona parte della comunità di sesso maschile non solo bavenese ma anche stresiana e di chissà quanti altri comuni che si affacciano sulle rive del Verbano. Dopo una fase d’avvio della propria impresa, sotto “padrona”,  in una di quelle case che non andavano nominate per non inciampare nella già citata “morale”, appena superati i venticinque anni, si mise in proprio. Sì, perché la “premiata ditta della Rosa Scarlatta”, alla prova di quello che potremmo definire come “il mercato”, dimostrò competenza, professionalità e spirito d’iniziativa. Con una sorprendente dose di “savoir-faire” che, nel breve volgere di qualche anno, le fece guadagnare rispetto e simpatia.

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Ovviamente, non da parte di tutti. Le signore, anch’esse senza distinzione d’età, la guardavano in malo modo, commentando con parole poco garbate e lusinghiere le sue “gesta” e commiserando energicamente  quella sua “professione” che – detta da loro – “turbava la quiete delle famiglie e portava discredito all’intera comunità”.Non ho mai fatto caso al fatto che potessero avere torto o ragione. Forse, a ben guardare, ci stavano sia l’una che l’altra. Certo è che la signora Amelia non prestava molto orecchio alle chiacchiere, meno che meno a quelle più malevole. “Io professo e tiro dritto. Non rompo le scatole e pago le tasse. Dopotutto sono i loro uomini che mi cercano. Se non volessero basterebbe, quando gli chiedo se sono d’accordo a darmi una mano a tener aperta l’impresa, dire di no. Non li obbligo certo io a fermarsi, lungo la strada che, a volte, è persino accaduto qualche tamponamento. Una volta, tra due bei tipi, son volate persino parole grosse e qualche sberlone, per stabilire a chi toccava per primo a far la propria parte“. Eppure, come mi raccontava il Carlino di Loita, la “nostra” Amelia aveva dato fatto fare il salto tra l’adolescenza e l’età adulta ad un bel po’ di ragazzi, accompagnandoli alla scoperta di se stessi durante la loro pubertà. “ Tu, che sei ragioniere e hai studiato, dai, dimmelo un po’ tu: ti par possibile che, per aver fatto del bene, in anni in cui c’era ancora tanta ignoranza e tanto pregiudizio, si debba essere considerati come dei delinquenti, come dei poco di buono?“. Il Carlino, a differenza di me e di tanti altri, faceva parte della schiera di quelli che avevano “provato” a fare i conti con l’impresa della Rosa Scarlatta e si erano dichiarati soddisfatti. Non sopportava l’ipocrisia dei benpensanti. Gli faceva saltare la mosca al naso. “Roba da matt. In sempar lì a criticà a destra e sinistra, a cùra in gesa a confessare i peccati per poi, lasciato alle spalle il portone e svoltato l’angolo, a fare di nuovi”. E sgranava giù, come un rosario, i tanti peccati che le “signore-bene”, come le chiamava lui, erano d’uso commettere: accidia, avarizia, invidia, superbia,ira. La lussuria, invece, era – secondo lui – praticata dai loro compagni benché a loro stesse suscitasse ( senza dirlo, senza ammetterlo, per carità..) ben più che un vago interesse e ben più che un semplice desiderio. In materia, però, nessuna poteva battere l’offerta della “premiata ditta” individuale che faceva capo alla signora Amelia.

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Vera e propria artigiana del piacere, con una carriera ultra decennale sulle spalle, non temeva la concorrenza di quelle povere dilettanti. Così andò avanti e indietro, per un bel po’ d’anni, sulla litoranea del lago Maggiore. Sempre in ghingheri, sempre a testa alta, mostrando fieramente la sua “impresa” anche se il tempo l’aveva ormai irrimediabilmente consumata. Finché , da un giorno con l’altro, non si vide più. Come dire? Sparita. Volatilizzata. Puff..! Più o meno come la colomba nelle mani di un prestigiatore. Solo dopo un annetto si seppe che si era “ritirata” in una casa di riposo sulle rive del lago d’Orta. L’andirivieni l’aveva logorata e le gambe gli cedevano. Così, per non farsi commiserare del tutto e lasciare un buon ricordo di sé, se n’era andata senza neanche fare un “ciao” ai suoi vecchi amici, ai “clienti” più fidati che erano anch’essi cresciuti ed invecchiati con lei. Il Giustino propose addirittura a quel deputato che aveva potuto godere in gioventù, pure lui, dell’attività della “premiata ditta”, un intervento affinché fosse riconosciuto alla signora Amelia se non proprio la pensione almeno un piccolo vitalizio, come segno tangibile della riconoscenza nei confronti di una persona che aveva fatto molto nel campo del “sociale”. Dopotutto, diceva il Giustino, “l’Amelia di marchette ne ha messe insieme un bel po’ che bastano ed avanzano per la pensione“. Forse in altri paesi, dove la mentalità è più aperta e tollerante, la “premiata ditta” della signora Amelia sarebbe stata riconosciuta alla stregua di un servizio sociale e le prestazioni sarebbero state, con ogni probabilità, prescritte dal servizio sanitario e quindi mutuabili. Ma, per sua sfortuna, e per disappunto dei più tra i suoi “beneficiati”, questo non si rese possibile. E così non se ne fece un bel nulla. L’onorevole allargò le braccia e chiese, in relazione al suo passato, l’omissis o – quantomeno – una corretta applicazione della privacy. Le ormai vecchie iraconde, rinsecchite e acide, continuarono a pensare il peggio del peggio e, in fondo al cuor loro, a provare invidia per quella “impresaria” che si era fatta dal niente, utilizzando al meglio le doti naturali che aveva avuto in dono dalla nascita. I suoi clienti rimasero con i loro ricordi e con il rimpianto, forse, di non aver potuto approfittare più quanto non avessero fatto delle offerte di quella gran professionista del piacere altrui. Che dirvi, ancora?  La signora Amelia se n’è andata per sempre. E’ ormai da un paio d’anni che, come è d’uso dire, “ha lasciato questa valle di lacrime“. Probabilmente, essendo – a dispetto di chi la mal giudicava – credente e praticante, è salita direttamente in paradiso. Ci sarà pure un angolino anche per chi, come lei, ha operato tutta la vita per far felici gli altri rinunciando, almeno in parte, alla felicità propria. O no?

Marco Travaglini

La rubrica della domenica di Pier Franco Quaglieni

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SOMMARIO: I professori gabbati e difesi dalla CGIL – Giù le mani dalla Lancia – La vivandiera delle Br – Lettere

I professori gabbati e difesi dalla CGIL
È stato finalmente firmato il contratto collettivo di lavoro per i docenti con aumenti poco significativi e in ritardo di un triennio. Chiuso il contratto, si dovrebbero subito riaprire altre trattative. Hanno firmato tutti, salvo la CGIL. Snal e Gilda si sono allineati a UIL e CIsl, tradendo il sindacato autonomo. I professori non sono mai stati nelle corde dei sindacati confederali che sono sempre partiti dal fatto che i docenti non lavorano. Fu la CGIL a chiedere 36 ore per i docenti come per gli impiegati, senza neppure capire cosa significhi insegnare, un mestiere atipico e non confrontabile con quello di un impiegato. La CGIL volle anche la bollatrice per i professori per equipararli ai bidelli, promossi ad operatori scolastici. Ebbene, questa volta è la CGIL di Landini a non firmare il contratto che certo non è entusiasmante. I docenti sono considerati a destra degli irrecuperabili sinistroidi, una vera enclave di faziosità.
In parte è così, ma mettersi contro i docenti non è una politica giusta ,capace di guardare al futuro. Molti docenti – pensiamo ai fanatici proPal – sono intollerabili, ma non costituiscono la totalità della categoria. Solo quando i professori di rifiutarono per mesi di svolgere gli scrutini, ottennero un trattamento decoroso degno del loro ruolo professionale. Era  ministro della Funzione pubblica l’andreottiano Pomicino che dovette cedere ai docenti per una volta uniti, malgrado la fronda dei presidi della CGIL. Eravamo alla fine del secolo scorso. Poi la CGIL prese il sopravvento, avendo anche ministri alla PI  comunisti come Berlinguer  e De Mauro e  che fecero il bello e il cattivo tempo alla Minerva, esercitò un’egemonia soffocante nella e  sulla scuola di ogni ordine e grado, esclusa l’ Università di cui si occuparono  direttamente  il partito, le sue cellule, i diversi compagni professori che fecero terra bruciata del dissenso. Adesso che la CGIL  non firmi il contratto è un fatto nuovo e contraddittorio perché quel sindacato è stato la rovina della classe docente italiana.
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Giù le mani dalla Lancia
Ho letto che Stellantis cerca di mettere,  a livello museale, le mani sulle auto Lancia che non ha mai prodotto perché ai vertici  c’era il grande Vincenzo Lancia, non un battilastra qualsiasi. E’ incredibile. Aprilia, Ardea, Aurelia, Appia, Flaminia  sono auto prodotte quando la Lancia era una temibile concorrente di  Fiat che faceva  orribili Topolino e Mille cento. Mio padre, finché le Lancia non passarono nelle mani della Fiat, ebbe sempre quelle macchine che erano anche un segno di distinzione.
Quando volle portarmi a inaugurare l’Aurelia, mi portò al famoso ristorante “il Muletto “ in corso Casale. Al parco Michelotti era in corso la festa del’ “Unità “All’ uscita dal locale si trovò il cofano rigato e con una sigaretta accesa che ne compromise la vernice. Vedere auto Lancia dava fastidio anche agli operai dell’Avvocato impegnati a cuocere salamelle. Io comprai solo una Lancia  Prisma ormai costruita da Fiat. Una macchina maledetta. Dovettero sostituirgli il motore dopo due mesi perché l’olio circolava male e dopo due fermi, uno dei quali in autostrada e un altro nella salita di Superga, la vendetti. La vendetti di corsa e comprai una BMW che non mi diede mai il più piccolo problema. Stellantis non metta le mani sul passato Lancia. Persino il figlio di Vincenzo Lancia, trasferito all’estero a fare la bella vita,  fu tutto sommato meglio di certi successori dell’avvocato perché non pretese di fare l’imprenditore e non vendette a stranieri.
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La vivandiera delle Br
E ‘ morta la vivandiera delle Br che portava il cibo nel carcere di Moro e che freddò il prof. Bachelet. Non la nomino neppure, ma credo di dover dire con fermezza che i giornali non debbono dedicare una pagina intera ad una persona spregevole che non merita la minima attenzione.
Il figlio di Bachelet come il figlio del Commissario Calabresi, l’ha perdonata. Io resto dell’idea del mio amico Massimo Coco che ebbe il padre magistrato ucciso delle Br e che non ha mai perdonato agli assassini. Quello è un passato che non passa e chi scrive sui giornali dovrebbe almeno andarci più cauto.
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LETTERE scrivere a quaglieni@gmail.com
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Iniziative culturali “fuori casa”
L’assessore Purchia è un assessore alla cultura forse simile  al faziosissimo maestro elementare Balmas, che seguiva le regole di partito per sostenere solo iniziative legate ai partiti di maggioranza? Non risponde neppure alle lettere. Quasi fosse una funzionaria  di partito messa a vigilare davanti a un bidone di benzina. Adesso segnala una proposta di finanziamento della Fondazione San Paolo che riguarda “iniziative culturali  fuori casa e  fuori dai luoghi convenzionali,  diversificando la base sociale e favorendo un maggior accesso per tutte e tutti“( sic!) Cosa significa?   Ettore Vincenzi
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Cosa significhi non so.  La cosa mi puzza. Con me è in debito, dopo due colloqui, di una risposta che non è mai venuta. Silvia Croce che la conosceva al “San Carlo” di Napoli, mi mise in guardia su questa “stakanovista prestata alla cultura”.  Mi sembra una follia da parte del San Paolo finanziare chi fa iniziative fuori delle sedi deputate  e non finanziare neppure con un centesimo chi svolge con regolarità e successo manifestazioni frequentate, oggetto di facile riscontro. L’eredità del presidente – rettore e ministro e quant’altro prof.   Profumo e di certi “scagnozzi” del Polo del 900 è rimasta viva. Forse sono io che non capisco, ma in compenso ricordo la loro faziosità inutile e offensiva.
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Emanuele Filiberto e il Principe Aimone
Sono un ragazzo di 17 anni che ama profondamente la storia del proprio paese e ne vede in Casa Savoia la protagonista. Ho letto con attenzione il commento che il Professor Pier Franco Quaglieni ha rilasciato su iltorinese.it riguardo il Principe Emanuele Filiberto di Savoia e il Principe Aimone e non posso essere d’accordo con quanto ha scritto. Cosa c’è di male nell’essere cordiale con degli inviati di Striscia la Notizia? Trovo anzi che la confidenza che Emanuele Filiberto ha con le persone sia meravigliosa perché le fa sentire subito a loro agio, senza ergersi su un piedistallo solo perché portatore di un cognome importante. Dovrebbe essere diffidente? Snobbare? Anche in quel caso ci sarebbero critiche. Emanuele Filiberto guida gli Ordini Dinastici, visita ogni anno venti tra le loro delegazioni, sia italiane che estere, che, grazie alla loro associazione raccolgono ogni anno un milione di euro per progetti di beneficenza. È molto impegnato anche con i giovani, visitando scuole e parlandoci vis-à-vi per raccontare la sua storia, quella della sua famiglia e, soprattutto, avendo creato un gruppo giovanile molto affiatato all’interno dei suoi Ordini. Non scordiamoci che è anche Presidente Onorario dell’Istituto Nazionale per la Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon, partecipandovi a tutte le manifestazioni ed è considerato da tutti il Capo della Real Casa. Con tutto il rispetto per Aimone, ma sembra che pubblicamente sia poco partecipativo, se non comparendo in qualche foto ogni tanto con le forze dell’ordine. Questo certamente non è un male, ma se si vuole far conoscere la storia italiana e tramandare quella di Casa Savoia, beh, forse è la strategia sbagliata. Ciò non deve andare certamente a penalizzare Emanuele Filiberto che invece fa tutto il possibile per essere presente e tramandare la storia del suo retaggio. Emanuele Filiberto non è potuto nascere e crescere in Italia, non ha potuto neanche prestarvi il servizio militare, richiesto esplicitamente dal padre per fargli servire il proprio paese. Dunque il fatto che, invece di rimanere chiuso nella “bolla dell’alta società”, abbia scelto di stare con le persone, conoscerle, aiutarle ed essere presente quanto possibile per l’Italia, non è solo un qualcosa che reputo meraviglioso, ma anche un grande motivo d’orgoglio. Quanto al fatto dei gossip, raccontare delle proprie situazioni sentimentali non dovrebbe essere certamente motivo di vergona o imbarazzo ma anzi, rivela la propria umanità. Motivo di imbarazzo dovrebbe essere invece, a parer mio, cercare di screditare qualcuno su questo argomento in favore di qualcun altro che invece appare di rado sulla scena. Per tutte queste motivazioni rispetto le opinioni del Professor Quaglieni ma non posso condividerle.   Mattia Novelli
Quaglieni e re Umberto II
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Ringrazio il giovane Novelli di cui ammiro l’entusiasmo e la pacatezza. Io alla sua età avevo solo l’entusiasmo. Le cose che scrive sono condivisibili. Io mi sono limitato a commentare due interviste giornalistiche. Il Principe ereditario Emanuele Filiberto l’ho conosciuto sia pure superficialmente in più occasioni, il Duca d’Aosta non l’ho mai incontrato, mentre conobbi suo Padre. Resto da sempre dell’idea che il passaggio della Corona al ramo Aosta sia qualcosa di  illegittimo e  di forzato, come ho avuto in più occasioni modo di esprimere. Io che all’età di Novelli conobbi Umberto II a Cascais, non posso che essere lieto che oggi esistano dei giovani intelligenti e colti che amano la Patria. Per alcuni è retorica, per me no.
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Torino come Vienna
Ho letto che l’assessore all’Urbanistica Mazzoleni vede come città modello di riferimento di Torino, Vienna. Che senso ha questa scelta? A me sembra assurda  e del tutto infondata.  Bruna Actis
Non so il perché di questa scelta di Vienna dove sono vissuto qualche tempo nella mia giovinezza e sono tornato molte volte. E’ quindi una città che conosco bene. Non vedo dei riferimenti validi per Torino. A Vienna esiste da tempo immemorabile una metropolitana molto funzionale che Torino si sogna. Vienna capitale asburgica distacca di molto Torino capitale sabauda, ma soprattutto è molto lontana dalla Torino attuale in decrescita infelice. Questa è una città di camerieri e di osti che ha perso il valore dell’impresa. Vienna ha un’attrattiva non comparabile. Qui dobbiamo adattarci al piccolo gioco senza futuro, alla rincorsa di emigratati per rimpolpare il numero degli abitanti caduto ad 850 mila. Si è realizzato il sogno sinistro di Diego Novelli che voleva che la città andasse sotto il milione di abitanti. Tra l’altro Vienna è invece oltre i 2 milioni di abitanti.