Rubriche- Pagina 2

Un delicato e classico risotto ai quattro formaggi

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Un primo piatto ricco, perfetto per chi ama i formaggi, cremoso, nutriente, saporito e avvolgente. Semplicemente delizioso

Ingredienti

350gr. di riso per risotti
1 piccola cipolla bianca
1 bicchierino di vino bianco secco
1 litro di brodo vegetale
50gr. di Taleggio
50gr. di Gorgonzola dolce
60gr. di ricotta
50gr. di Parmigiano
Burro, sale e pepe q.b.

Tritare la cipolla e lasciarla imbiondire in una padella con una noce di burro. Versare il riso, tostare per pochi minuti, sfumare con il vino bianco, lasciare evaporare ed iniziare ad aggiungere il brodo caldo. Lasciar cuocere il tempo necessario poi, togliere dal fuoco e aggiungere i formaggi, tranne il parmigiano, mescolare bene fino a quando saranno ben sciolti, infine mantecare con una noce di burro ed il Parmigiano. Servire caldo e a piacere, spolverare con pepe macinato al momento.

Paperita Patty

Erminia, Mario, Libero e le acque del lago a Ronco

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La signora Erminia, un tempo, doveva esser stata senz’altro una gran bella donna. Si capiva dai lineamenti, fini e delicati, e da quegli occhi verdi-azzurri come l’acqua del lago in primavera: chissà quante teste avevano fatto girare e quanti cuori palpitarono per lei.

I capelli, bianchi come la neve e raccolti sulla nuca, le incorniciano l’ovale del volto. Com’era arrivata fin qua, sulle sponde del lago? Da quanto tempo viveva, sola con i suoi  gatti, in questa bella casa di pietra a Ronco, all’ombra del campanile della chiesa di San Defendente? A queste nostre curiosità, espresse con il timore d’apparire indiscreti , una volta rispose, sorridendo: “Ldomande non sono mai indiscrete. Talvolta possono esserle le risposte”. Da quel giorno non vi furono più domande e crebbe ancor più il rispetto per quella donna così gentile e ospitale. Ogni  qualvolta si attraccava con la barca al molo di Ronco venivamo  invitati a casa sua  per una merenda con pane e formaggio, accompagnando il cibo con un buon bicchiere di vino rosso.  D’inverno, dalla casseruola che teneva sulla stufa a legna, versava delle generose porzioni di brodo caldo nelle scodelle di ceramica, unendo dei crostini di pane raffermo sui quali aveva passato una testa d’aglio o spalmato ricotta fresca. Quella ricotta che, insieme al burro, la vecchia Onorina portava di casa in casa con la sua piccola gerla dopo aver percorso il ripido sentiero che dall’alpeggio scendeva fino alle case del paese. Una tradizione d’ospitalità che si stava perdendo. Solo qualche anziano manifestava, nei confronti dei viandanti del lago, gesti amichevoli e di conforto. Eppure, un tempo, s’usava offrire il brodo e il vino, quello aspro delle piccole vigne abbarbicate sul fianco delle colline, e anche l’aceto, versato generosamente nell’acqua fredda, in cui intingere una crosta di pane raffermoduro come un sasso. A pochi passi dalla chiesa di San Defendente, un tempo invocato contro i flagelli dei lupi e gli incendi, abitava anche Libero Frezzini, meglio conosciuto come “lifroch”, cioè fannullone, una persona a detta di tutti ben poco seria. Frezzini, tra l’altro, non ci stava proprio con la testa. Alto,magro e dinoccolato era proprio un po’ tocco. Si vestiva sempre alla stessa maniera, estate e inverno, quasi non sentisse né il caldo né il freddo: giacca di fustagno marrone, ormai lisa sul bavero e sui gomiti; pantaloni scuri di velluto  e una camicia a quadrettoni rossi e bianchi. Giovannino lo prendeva in giro: “ Libero, ma come ti sei vestito? Sembri una tovaglia ambulante, unta e bisunta. Dove l’hai fregata, quella camicia lì? Dalla cesta dei panni da lavare dell’osteria?”. Frezzini, carpentiere in una piccola impresa del posto,portava rispetto all’anziano pescatore. Anch’esso, e a modo suo, amava la pesca. Il più delle volte, raccontando le sue imprese, esagerava sulle misure e sul peso delle catture. Giovannino quando lo sentiva sproloquiare, indulgendo nelle sue vanterie impossibili, lo rimproverava: “Cala,cala Trinchetto. Non contar balle, Libero, che al massimo hai tirato fuori dall’acqua un paio di cavedani lunghi una spanna”. Lifroch a volte esagerava davvero, alzando la voce e Giovannino , guardandolo storto, doveva minacciarlo: “A ta dò un sgiafun che ta sbiruli la salamangè“. Che, tradotto da quel dialetto mezzo lombardo, equivaleva ad un “ti dò uno schiaffo da piegarti la mascella”. Un giorno l’aveva preso a calci nel sedere dopo aver scoperto, per caso, che quel balordo era andato a pescar persici nel periodo più proibito che ci sia: il tempo della riproduzione, tra aprile e maggio, quando i pesci depongono le uova. Evitando accuratamente di menzionare il fatto al Conegrina e al Carabiniere, cioè alla coppia di arcigni guardapesca, evitò al Frezzini la poco allegra prospettiva di finire al fresco, costretto a guardare il sole a quadretti , dietro alle sbarre del carcere più vicino. Era un reato, a quei tempi, che non si sanava solo con una multa in denaro ma anche con qualche giorno in gattabuia. Libero, tanto per accentuare la sua stranezza, si esprimeva anche a proverbi. Ne aveva per tutte le situazioni. S’era ingozzato come un maiale all’osteria, al punto da sentirsi male? Alle critiche rispondeva così: “ E’ meglio morire a pancia piena che a pancia vuota”. Aveva bevuto più del solito, alzando un po’ troppo il gomito e camminava sbandando? Si giustificava: “E’ sempre l’ultimo bicchiere a far male”. Teoria alquanto bislacca, a dire il vero. Ricordo di averlo incontrato mentre si recava al lavoro in vespa. C’era un buco nell’asfalto. Non lo vide in tempo, finendoci dentro con la ruota davanti, rischiando di capottarsi. Si rialzò tutto scorticato e dolorante. Prontamente accorso in suo soccorso capii immediatamente che era ubriaco. Evidentemente la sera prima doveva aver fatto bisboccia  e si portava addosso una “scimmia” da far paura. Rialzatosi, intontito e acciaccato, mi ringraziò, confidandomi il suo malessere: “Ma sai che ieri sera ho bevuto un bicchiere di acqua tonica che mi è restata sullo stomaco? Non l’ho proprio digerita!”. L’acqua tonica, capito? Non i due o tre litri di rosso che si era scolato e per gli altri comuni mortali rappresentavano una dose da schiantare chiunque. Un altro bel personaggio era Mario Martellanti, detto “cavedano”. Non ricordo dove fosse nato ma era certo che dimorasse sul lago. Mario non amava sentire la terraferma sotto i piedi e, dunque, viveva in barca gran parte del tempo, stagioni permettendo. A fine primavera, durante l’estate e nella prima metà dell’autunno, praticamente non lasciava mai lo scafo della sua “Stella dell’onda”, imbarcazione che lo accompagnava da più di trent’anni nelle sue peregrinazioni lacustri. Quando le foglie ingiallite abbandonavano gli alberi , spargendosi a terra e l’inverno con il suo alito gelido prendeva il sopravvento, cercava di tener duro il più possibile, cedendo solo alla tormenta che scendeva dai contrafforti montuosi, sbarcando proprio a Ronco per cercare riparo nel cascinale dove teneva le sue magre cose. Se l’aria s’infreddoliva, non disperava. Teneva sempre a portata di mano, accanto  alla tela cerata indispensabile per ripararsi dagli scrosci di pioggia, una ormai logora trapunta di lana. Non troppo ingombrante ma abbastanza grande da potervi avvolgere l’intero corpo, riparandosi dal freddo e dall’umidità. Sosteneva d’esserci nato, in barca. I genitori, entrambi defunti, avevano passato tutta l’intera vita sull’Isola di San Giulio. Il padre Giovanni, nativo di Ronco, era custode della Villa dei Glicini. La madre Elsa, si era rotta la schiena nel far le pulizie in uno dei più antichi alberghi del posto, la “Locanda del Drago”. Mario, scapolo impenitente, sosteneva d’essersi sposato con il lago. “Sono più di sessant’anni che ho preso in moglie quest’acqua cangiante;ci conosciamo e rispettiamo, e non ci lamentiamo mai, sopportando a vicenda i nostri sbalzi d’umore”, confidava agli amici più stretti. Ormai anziano, continuava a vogare da una sponda all’altra o, più semplicemente, seguendo il margine delle rive nel suo perenne cabotaggio. Anche se, in cuor suo, custodiva un segreto che talvolta lasciava intuire. La luce di quegli occhi verdi-azzurri della signora Erminia l’avevano stregato. Non l’avrebbe mai ammesso, e nemmeno confidato alla bella donna dai capelli bianchi. Era il piccolo suo segreto. Quei mazzetti di primule e viole lasciati vicino all’uscio o i funghi e la frutta appena raccolti, i persici pescati e già puliti che Erminia trovava sul davanzale di pietra della finestra, erano doni che non lasciavano troppi dubbi sul misterioso benefattore. Eminia intuiva e apprezzava, elargendo sorrisi, cibo e buon vino anche a Mario. In fondo affetto e gratitudine si possono esprimere in tanti modi e le parole, a volte, sono davvero superflue.

Marco Travaglini

Il Natale degli spazzacamini

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Anche a Santa Maria Maggiore, il più esteso dei sette comuni della Valle Vigezzo, altipiano incastonato tra le alpi Lepontine all’estremo nord del Piemonte e a ridosso della Svizzera, si stava avvicinando il Natale. Le strade del paese erano addobbate con luci scintillanti e le finestre delle case erano adornate da ghirlande e festoni.

L’aria pungente preannunciava un’altra nevicata dopo quella che aveva già imbiancato il paese. Al calare della sera, allo scoccare delle 17.00, il suono delle campane della chiesa parrocchiale annunciava il vespro per indicare, mezz’ora prima, l’inizio della messa serale e la tradizionale fine della giornata lavorativa e quei rintocchi diffusi nell’aria, creavano un’atmosfera magica. Tra i vari preparativi alla festa che commemora la nascita di Gesù c’era una tradizione che gli abitanti di quella località attendevano con trepidazione: l’arrivo degli spazzacamini. Erano tra gli ultimi a praticare quell’antico mestiere. In passato partivano in autunno, scendendo in gruppo dalle valli più povere com’era a quei tempi la Vigezzo e andavano ad avvitarsi su e giù per i camini dei paesi della bassa padana e delle città, spingendosi fin nel cuore dell’Italia centrale e anche all’estero, soprattutto in Francia e Svizzera, passando talvolta le frontiere di notte per eludere i controlli di gendarmi e doganieri. Giravano per le strade lanciando il loro richiamo e facendo risuonare per le strade gli zoccoli chiodati, vestiti du fustagno con cuoio e toppe di rinforzo nel basso schiena e ai gomiti, le corde per issarsi sui tetti, la raspa alla cintura, il riccio di lamelle a raggiera per scrostare la fuliggine e il sacco di iuta per raccoglierla e poi rivenderla come concime. Da generazioni la loro abilità nel mantenere puliti i camini delle case era risaputa così come le tante storie, miti e leggende che li accompagnavano.  E così, in occasione delle feste di fine anno, il vecchio Gianbattista radunava gli ultimi spazzacamini per una missione speciale. Tempo fa Gianbattista aveva sentito parlare di un’antica e quasi dimenticata leggenda nella quale si narrava che durante la notte di Natale gli spazzacamini avrebbero potuto raccogliere la polvere magica che si accumulava sotto i comignoli e nelle canne fumarie, festeggiando così l’arrivo del nuovo anno che avrebbe portato a tutti fortuna e prosperità. Motivato dalla volontà di portare un poco di quella magia al suo paese che era stato la culla dei rusca, come venivano chiamati in valle, convinse i suoi amici a unirsi in quell’avventura. La notte del 24 dicembre le stelle brillavano alte nel cielo e la luna illuminava le strade del paese. Gli spazzacamini, vestiti di nero e con i volti sporchi di fuliggine, si arrampicarono sui tetti delle case muovendosi silenziosi e agili come gatti. Ogni volta che entravano in un camino e prelevavano la polvere avvertivano come un senso di calore e di serenità diffondersi nell’aria. Lavorando allegramente si raccontavano storie sulla leggenda di San Nicola dalla quale nacque quella di Santa Claus, ovvero Babbo Natale, sulle peripezie degli elfi, antiche magie o straordinari dolci natalizi. Ma Gianbattista aveva una storia molto speciale da raccontare. “Sapete,” cominciò, “c’era una volta un bambino di nome Poldino che, pur vivendo in estrema povertà, credeva fermamente nello spirito del Natale. Ogni anno scriveva una lettera a Santa Claus chiedendo come unico regalo un sorriso per la sua famiglia”. Gli spazzacamini si fermarono ad ascoltare, incuriositi.  “Un anno,” continuò lui, “decise di lasciare la sua lettera sul camino, sperando che il vento la portasse a destinazione. Quella notte una stella cadente attraversò il cielo e per magia la lettera di Poldino arrivò a Santa Claus che la lesse e si intenerì. La mattina del 25 dicembre un pacchetto pieno di doni apparve nel suo camino, e Poldino capì che il vero spirito del Natale era rappresentato dall’amore e dalla speranza”. Mentre il suono della voce di Gianbattista si diffondeva nell’aria fresca della notte, gli spazzacamini avvertirono un caloroso senso di beatitudine e gioia. Così decisero che, oltre a raccogliere la polvere magica, avrebbero lasciato dei piccoli regali nelle case di Santa Maria Maggiore come piccolo gesto per far rimanere vivo lo spirito della festa più importante dell’anno. La mattina di Natale gli abitanti si svegliarono meravigliati trovando regali e dolciumi appoggiati accanto ai camini. I bambini con gli occhi pieni di stupore iniziarono a saltare dalla gioia, mentre gli adulti sorridevano commossi. Da quel giorno la tradizione degli spazzacamini di Santa Maria Maggiore divenne simbolo di speranza, magia e solidarietà. Da allora, all’approssimarsi del giorno di festa, i giovani del paese si unirono seguendo l’esempio di Gianbattista e dei suoi amici, determinati a difendere e a diffondere il vero significato del Natale: offrire e condividere con gli altri, portando gioia a tutti. Ed è così che, sotto l’incanto della neve e delle stelle, quei ragazzi e quegli uomini vestiti di scuro e dai volti anneriti sono diventati i custodi di uno dei più bei miracoli natalizi, scrivendo un nuovo capitolo della loro leggenda.

Marco Travaglini

Le supposte di glicerina

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Andreino è un tipo piuttosto strano. Non tanto per l’aspetto fisico – mingherlino, calvo, con due gambette corte e secche come manici di scopa – quanto per il carattere, diciamo chiuso, che dimostra di avere. Andreino è un burbero solitario. Uno di quelli  che dormono con il sedere scoperto , sempre di cattivo umore. Vive da solo, lavora da solo ( è un artigiano del ferro che non conta le ore e si tira “piat cumè ‘n dés ghèi”, piatto come una moneta da dieci centesimi, vale a dire stanco morto ), mangia da solo davanti alla tv accesa, va a cercar funghi da solo e non pesca mai dove ci sono altri. Ha le sue idee fisse sulla salute ( “l’infragiùur, se t’al cùrat, al dura sèt dì, se t’al cùrat mìa, al pòl durà anca na ‘smana”, che – tradotto –significa che il raffreddore, se lo curi, dura sette giorni, se non lo curi può durare anche una settimana).

A dimostrazione della scarsa considerazione che ha, in genere, dei dottori. L’unico per cui ha rispetto è il dottor Rossini. Da quella volta che gli curò una fastidiosissima sciatalgia, per Andreino è “un gatto”, il migliore, l’unico vero medico in circolazione. Se lo dice lui che si vanta di aver consumato più scarpe che lenzuola, dichiarando la buona salute e una certa avversione per quei signori che avevano contratto il giuramento di Ippocrate, c’é da credergli. Il problema è che il dottor Mauro Rossini, quelle rare volte che lo ha incontrato nella veste di paziente nel suo studio medico, non è quasi mai riuscito a spiegargli le cure che servivano poiché Andreino lo interrompeva,  annuendo vigorosamente e ripetendo come un mantra: “ho capito…certo…chiaro… grazie, grazie, dottore”. Un comportamento a dir poco imbarazzante, con tutti i rischi che poteva generare, tra i quali l’incomprensione. Tant’è che un giorno, recatosi dal medico perché sofferente da tempo di stitichezza e senza che nessun tipo di cura gli avesse fatto effetto, mentre il dottore stava illustrando diagnosi e rimedio, si alzò di scatto, lo ringraziò con tutto il cuore e si precipitò nella farmacia davanti al municipio. “Si ricorda la posologia?”, chiese il farmacista, consegnandogli le supposte di glicerina. Lui disse di sì e,  a scanso di equivoci, se ne fece dare due scatole. Passati una decina di giorni si presentò dal suo medico che gli domandò come stesse e se le supposte avessero fatto il loro dovere. Andreino, tenendo gli occhi bassi, temendo di fare una critica all’uomo che tanto stimava, rispose: “Caro dottore, per andar di corpo ci sono andato e son più libero ma mi è venuto un gran mal di stomaco. Quelle supposte “in pròpi gram”, sono cattive. Ogni volta che ne mettevo in bocca una e la masticavo mi veniva da vomitare”. Cos’era mai stato, direte voi? Ha poi solo sbagliato la parte, in fondo. Invece di farsele salire, le supposte le fece scendere. Comunque , l’effetto per esserci stato c’è stato. Alla spiegazione del medico, una volta tanto, prestò ascolto e compreso l’errore, si affannò con le scuse e i buoni proponimenti. Da quel giorno Andreino sta ancora da solo come un eremita ma ha imparato, se non ad ascoltare chi gli parla per il suo bene ( è più forte di lui..) almeno a leggere i bugiardini delle medicine. Così, per evitare fastidi e un po’ , come gli disse Giuanin, battendogli una gran pacca sulle spalle, per “tègn da cùunt la candéla che la prucisìon l’è lunga”. Un modo come un altro per dire al burbero ometto di aver cura di sé. Con il dubbio che le parole gli entrino da un orecchio per uscire immediatamente dall’altro.

Marco Travaglini

L’ombrello e l’anguilla

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Non tanto alto, uno sguardo furbo e due gote belle rosse,Faustino non possiede “quarti di nobiltà”. Anche di sangue blu, nelle sue vene, non c’era traccia. Ma il suo doppio cognome – Giulini-Nobiletti – con quel trattino nobiliare può trarre in inganno. Quel trattino non era altro che un aggiunta posticcia, frutto di un errore dell’impiegato dell’anagrafe che aveva registrato l’atto di nascita aggiungendo al cognome paterno anche quello materno, separando l’uno dall’altro con un tratto di penna. Così, negli atti ufficiali e col tempo, la svista si affermò come la più reale delle realtà, con buona pace di tutti e di Fausto Giulini-Nobiletti per primo. L’errore non poteva però esser definito tale al cospetto del signor Francazzali, impiegato comunale con trent’anni e più di onorato servizio sulle spalle. Di fronte alla segnalazione del refuso, senz’altro frutto di una svista, s’irrigidì come uno stoccafisso: “Qui di errori non se ne fanno e non se ne sono mai fatti, chiaro?”. Non ammettendo, Eugenio Francazzali, alcuna possibilità di replica, la cosa finì lì. Di tempo,da allora, ne è trascorso tanto, praticamente una vita intera, e a parte l’essere riconosciuto come uno dei più accaniti giocatori di scopa d’assi della zona, il buon Giulini-Nobiletti, da tempo in pensione, è noto anche come il più formidabile pescatore d’anguille che si sia mai visto all’opera sul lago Maggiore. La zona dove “praticava” si estendeva lungo quel tratto di costa della sponda piemontese del Verbano che va tra la foce del Toce e il “molino di Ripa”, a Baveno. Nella pesca all’anguilla era facilitato, per così dire,  da un problema che da oltre vent’anni lo tormentava: l’insonnia. Dato che l’anguilla si pesca di notte, affondando la lenza nell’acqua scura come la pece, Faustino era avvantaggiato da quell’assenza di sonno nelle ore dedicate al riposo. Così, vigile e attento, per far passare le ore, pescava. A volte senza successo,  tornando a casa a mani vuote, lamentandosi con quelli che incontrava. La “solfa” era sempre la stessa. “L’Anguilla è in calo, vacca boia. E’ un po’ di  tempo che le cose vanno in malora. Tutte le anguille sono nate nel Mar dei Sargassi, l’unico posto dove si riproducono. Devono migrare, capito? Và di qui e và di là, l’anguilla. Un viaggio da Marco Polo. E, mondo ladro, adesso ci sono quelle dighe che regolano i livelli dell’acqua lungo il Ticino a rompergli le scatole, in particolare quella di Porto della Torre, tra Somma Lombardo e Varallo Pombia. Ecco, quella lì è diventata la linea del Piave per le anguille: da lì se pasà no! E se non si riproducono, io cosa pesco? Le scarpe vecchie e i barattoli arrugginiti?”.

 

Tra l’altro non è una pesca facile. Essendo l’anguilla un pesce potente e lottatore, occorre attrezzarsi a dovere. La canna? Con il cimino rigido, robusto e un mulinello in grado di ospitare una bobina di nylon di grosso spessore. La montatura dov’essere resistente, da combattimento: lenza dello 0,30 ,  amo del sette a gambo corto o del sei, forgiato storto, e un bel piombo a pera da 20 grammi. La ferrata non può essere incerta, balbettante. Non s’indugia, con l’anguilla: occorrono decisione e rapidità. Anche il recupero dovrà essere fatto nel modo più veloce possibile per evitare che l’anguilla riesca ad afferrarsi con la coda a qualche ostacolo sott’acqua, ancorandosi. A quel punto, ciao bambina: non la tiri fuori più neanche con il crick. Faustino é coscienzioso, attento, quasi uno svizzero. In quanto a precisione e professionalità pare la copia esatta del dottor Rossigni, quando visita con scrupolo i suoi pazienti. Faustino, la sua “visita”, la fa all’attrezzatura, ogni qualvolta – calate le prime ore della sera -parte per il lago. Oltre a canna, cassetta degli attrezzi ( ami,piombi, galleggianti, bave e così via), esche e guadino, non si scordava mai dell’ombrello. Sì, perché l’ombrello, come vedremo, è indispensabile. Quello che il buon Giulini-Nobiletti è solito usare l’ha acquistato da uno degli ultimi ombrellai della zona. Nella bottega di mastro Luciano il tempo si è fermato: vecchi mobili di legno con le vetrine piene di ombrelli artigianali di tutte le fogge. Erano amici e di lui Faustino parlava con entusiasmo. “ E’ lì, in quella bottega, che Luciano ripara ancora gli ombrelli, come faceva suo padre e prima di loro il nonno e lo zio. E’ uno come me, di quelli di una volta. Ormai quel mestiere, in giro per l’Italia,chi volete che lo faccia? Non lo fa quasi più nessuno ma lui resiste, tiene duro, altro che storie. Ho comprato due ombrelli fatti da lui, quello di tela pesante e con asta, manico e stecche in bambù e il puntale di ferro, e un altro di seta grezza. Una meraviglia! Il primo lo uso per ripararmi dalla pioggia, l’altro è il mio porta-anguille”. Il porta-anguille? Quando l’interlocutore sente questa storia per la prima volta, sgrana gli occhi. Ma cos’è? E lui, per tutta risposta, con quel suo sguardo malandrino, sfoderando uno dei suoi sorrisi più larghi, si mette a  parlare della pesca con il “mazzetto” e con l’ombrello. Lo fa pacatamente, con pazienza, senza “mettersi in cattedra”. Dice che si pesca sotto riva, con la canna fissa di bambù. Senz’amo, perché non serve. Stupiti? Tutti, la prima volta che hanno udito il racconto. Eppure si pesca così, sostiene Faustino, usando una lenza speciale: uno di quei normalissimi cordini di canapa per l’imballaggio e un sottilissimo filo di ferro cotto, morbido e pieghevole, della lunghezza di un metro. Quest’ultimo serve a legare “a mazzetto” una manciata di lombrichi. Prima di iniziare la pesca, occorre disporre l’ombrello aperto e capovolto, con la punta fissata per bene nel terreno. L’interno di questa  grande “scodella” va bagnato, così da renderne scivolose le pareti. Appena l’anguilla addenta il “mazzetto” si avvertono dei piccoli strappi che si alternano a tirate più decise e brevi pause. E’ l’anguilla che, con voracità, sta ingoiando l’esca. “ Qui non bisogna aver fretta”,spiega Faustino. “Occorre dar tempo, all’ingorda. I movimenti bruschi la insospettirebbero. La canna va alzata prima con lentezza e poi più in fretta , fino a portare la preda a pelo d’acqua. L’ultima fase, sempre senza strappi, è la prova del nove di abilità: si solleva l’anguilla per calarla nell’ombrello. Colta di sorpresa cercherà di riparare al suo errore e lo farà tentando di sputare l’esca.  Ma ormai è tardi,  per sua sfortuna:  non potendo sputare tutto il groviglio di vermi, si accorgerà che questi istanti saranno fatali. Cadendo nell’ombrello non avrà scampo: dal fondo, viscida com’è, non potrà risalire. Se però  ricade in terra, non resta che salutarla: sveltissima, al buio, riguadagnerà l’acqua”. Ride sornione, Faustino. E, visto che ormai il sole è in procinto di scomparire dietro al monte, con la canna e l’ombrello s’avvia verso il lago.

 

Marco Travaglini

La crosta di mandorle rende il pollo prelibato

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Un secondo prelibato, particolarmente invitante, il petto di pollo intero reso appetitoso da una croccante crosta di frutta secca, mandorle, nocciole o pistacchi, a voi la scelta. Cotto in forno con pochissimi grassi risultera’ leggero e tenerissimo, da servire caldo o freddo, perfetto accompagnato da una fresca insalatina.

 

Ingredienti

1 Petto di pollo intero

1 uovo intero

80gr. di mandorle

1 rametto di rosmarino

Scorza di limone grattugiata

Sale, pepe, olio q.b.

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Nel mixer tritare finemente le madorle con gli aghi di rosmarino, sale e pepe. Sbattere leggermente l’uovo. Passare il petto di pollo prima nell’uovo e poi nel trito di mandorle al quale avrete aggiunto la scorza del limone grattugiata. Preriscaldare il forno a 200 gradi, sistemare il petto di pollo in una teglia foderata con carta forno, irrorare con un filo d’olio, cuocere per 15 minuti poi, abbassare la temperatura a 180 gradi e proseguire la cottura per altri 10 minuti. Buon appetito !

Paperita Patty

Prendiamoci cura del nostro “bambino interiore”

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Parte 1

Il Bambino Libero, o bambino interiore, è una parte della nostra personalità che resta sempre bambina e che quindi mantiene in sé le caratteristiche legate al mondo dell’infanzia. È l’aspetto di noi che porta nella nostra vita la giocosità, la creatività, lo stupore.

E il contatto con lo spirito, ma anche il bisogno, la vulnerabilità. Spesso da adulti tendiamo a soffocare la parte che in noi è l’espressione di quel bambino libero, rischiando di renderla inaccessibile, perché non la percepiamo più.

Anche per sentirci adeguati nei confronti del mondo, siamo ormai identificati quel mondo, quello dei “grandi”, e siamo solo adulti, siamo seri, siamo responsabili. Cosa in sé corretta e funzionale. Ma per il nostro benessere ed equilibrio é necessario anche restare in parte bambini.

Pur essendo divenuti adulti. E recuperare quindi la spontaneità, la creatività e la fantasia, per equilibrare un atteggiamento adulto talvolta rigido, in cui viene a mancare l’entusiasmo, in cui non si sa godere del qui e ora.

In cui ci vergogniamo ad esprimere le nostre emozioni, e a domandare. Eppure, dentro di noi, quel bambino interiore esiste ancora, e ci chiede di essere amato, confortato e affettivamente nutrito. Impariamo quindi a conoscere e riconoscere il bambino dentro di noi.

A trattarlo come un bravo genitore farebbe con il suo amato figlio. Ascoltiamo le sue esigenze. Accettiamo questo bambino interiore, che talvolta è stato emotivamente un po’ schiacciato, e ha dovuto far finta che le sue emozioni non esistessero.

(Fine della prima parte)

Potete trovare questi e altri argomenti legati al benessere personale sulla Pagina Facebook Consapevolezza e Valore.

Roberto Tentoni
Coach AICP e Counsellor formatore e supervisore CNCP.
www.tentoni.it

Autore della rubrica settimanale de Il Torinese “STARE BENE CON NOI STESSI”

Gancia: una tradizione che continua a La Torre di Viatosto

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PENSIERI SPARSI  di Didia Bargnani

Era il 1865 quando il trisavolo di Massimiliano Vallarino Gancia, Carlo Gancia, imprenditore piemontese, crea uno champagne nostrano che chiama Spumante Italiano, da allora per l’azienda vinicola si contano solo successi, fino ad arrivare alla quarta generazione con Vittorio e Lorenzo Vallarino Gancia e poi alla vendita dello storico marchio, una parte nel 2011 e la restante nel 2014, ad un gruppo russo.
Oggi, in continuità con i desideri di papà Vittorio, Massimiliano Vallarino Gancia, in qualità di Brand Ambassador insieme a Rosalba Borello Vallarino Gancia, addetta alle P.R., portano avanti l’attività iniziata da Vittorio nella tenuta La Torre di Viatosto, azienda vitivinicola a pochi chilometri da Asti, alle spalle della suggestiva chiesa romanica in località Viatosto.
“Negli anni mio marito Vittorio – mi racconta Rosalba- aveva maturato un legame fortissimo con il mondo dell’agricoltura, desiderava che le sue vigne fossero coltivate con metodi biologici nel più totale rispetto dell’ambiente e della natura. Oggi abbiamo sei ettari di vigne con la possibilità di arrivare a nove, con uve nebbiolo, merlot e moscato”.
“ Oggi La Torre di Viatosto produce 10.000 bottiglie all’anno – spiega Massimiliano-  ma contiamo di arrivare a 50.000 bottiglie fra quattro o cinque anni, con la guida di un enologo esperto e con la supervisione di mio fratello Lamberto; desideriamo un prodotto di altissima qualità affinché mio padre, anche da lassù, possa esserne fiero”.
Siamo nel cuore del Monferrato, terra di ottimi vini già nell’800, La Torre di Viatosto è l’unico vigneto in questa località, qui sono state piantate uve Nebbiolo all’80% che si produce come Monferrato Nebbiolo DOC anche se Massimiliano e Rosalba preferiscono vinificarlo come metodo classico Rose’ extra brut ( Cuve’ Vittorio) che viene prodotto con Nebbiolo in purezza.
Chi sono i vostri clienti?
“ Ristoratori, enoteche e poi tanti visitatori che vengono qui in cascina dove organizziamo degustazioni ; è importante – sottolinea Rosalba- conoscere da vicino, di persona, la realtà da cui arriva il nostro vino”.
Se volete degustare i vini di Massimiliano e Rosalba potete prenotare una degustazione proprio a casa loro, davanti alle vigne, vi aspetta uno splendido panorama e l’accoglienza calorosa di una grande famiglia unita.
Ad maiora Rosalba e Massimiliano!  Vittorio è sicuramente fiero del vostro impegno e dei vostri risultati.