Rubriche- Pagina 2

La forza del silenzio / 1

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Per molti, soprattutto in questi nostri tempi nei quali la “cultura” imperante ci vuole aggressivi e pronti a intervenire in ogni occasione e su qualsiasi argomento, saper stare in silenzio è un segno di debolezza o di mancanza di argomenti.

La persona che sa quello che vuole, a detta dei più, deve saper reagire in ogni situazione, rispondere a tono, reagire verbalmente se attaccata o provocata. Quanto più si parla, quante più parole si dicono, più ci si afferma.

E si dà l’impressione di essere forti, in grado di padroneggiare le situazioni. Anche molti di noi si sentono a disagio nel restare in silenzio, e pensano che stare zitti faccia si che il mondo li consideri deboli e fragili. Ma è davvero così?

La capacità di saper tacere quando riteniamo che sia il caso di farlo è una forza che in pochi sono in grado di avere. A ben pensarci il silenzio si rivela una dimostrazione di forza, di solidità, di controllo di se stessi e delle proprie emozioni.

Molte, troppe volte, si viene presi da una irrefrenabile voglia di dire la propria. Alimentando in tal modo l’ego, il bisogno spesso poco controllabile di sentirsi importanti per chi sta attorno, di evitare di essere giudicati poco intelligenti, poco preparati, poco attenti.

Quante volte taluni parlano solo perché sembra loro negativo stare zitti… In questi casi continuare a non dire nulla fa sentire profondamente a disagio. Per assurdo anche quando non si sa cosa dire, quando non si é così sicuri delle conseguenze del parlare, si é spesso spinti a parlare pur di dire comunque qualcosa…

Roberto Tentoni
Coach AICP e Counsellor formatore e supervisore CNCP.
www.tentoni.it
Autore della rubrica settimanale de Il Torinese “STARE BENE CON NOI STESSI”.

(Fine della prima parte)

Potete trovare questi e altri argomenti dello stesso autore legati al benessere personale sulla Pagina Facebook Consapevolezza e Valore.

Penne integrali in crema di zucchine: salutari e nutrienti

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Eccovi un primo piatto ricco di sapore, sfizioso ed invitante, perfetto per ogni occasione.

Ingredienti :

380gr. di penne integrali
400gr. di zucchine
80gr. di grana grattugiato
120gr. di dadini di Speck
1/2 spicchio d’aglio
1 cucchiaio di prezzemolo grattugiato
3 foglie di basilico
Olio evo, sale, pepe.

Dorare i dadini di Speck in padella, tenere da parte.
Lavare e tagliare a metà le zucchine, scavare un poco la polpa e lessare al dente in acqua salata. Raffreddare e conservare l’acqua di cottura nella quale cuocerete poi la pasta.
Frullare grossolanamente le zucchine con olio, aglio, prezzemolo, basilico, grana, sale e pepe. Cuocere la pasta, unire lo speck alla crema di zucchine e servire subito. Se risultasse poco cremosa, aggiungere un mestolino d’acqua di cottura.
Buon appetito.

Paperitapatty

Rock Jazz e dintorni a Torino: Zucchero e Flowers Festival

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Lunedì. Allo Ziggy suonano gli Earth Crisis+ Caged.

Martedì. Per San Giovanni Santo Patrono di Torino dalle 21 in Piazza Vittorio, “Torino is Fantastic”, kermesse con : Mahmood, Tananai, Alessandra Amoroso, Annalisa, Noemi, Antonello Venditti, Gianna Nannini, Il Volo e i finalisti di Amici. Ospite Shaggy. A seguire il consueto spettacolo pirotecnico alle 23.30. Presenta la serata Gerry Scotti. All’ OST Barriera suona Chiara Ariagno Quartet.

Mercoledì. Inizia la decima edizione del Flowers Festival nel parco della Certosa di Collegno con l’esibizione di Willie Peyote preceduto da Anna Castiglia. Al Blah Blah si esibiscono i Rondò della Forca. All’Osteria Rabezzana suona il trio di Federico Bratovich. Al One Torino è di scena rap al femminile con Anna Pepe.

Giovedì. Allo Stadio Olimpico arriva Zucchero. Per Flowers Festival si esibiscono gli Eugenio In Via Di Gioia. Al Blah Blah suonano gli Exira + Tuan Davi.

Venerdì. Al Blah Blah è di scena Daniele Guerini. Per Flowers Festival suonano Franco 126 + Joan Thiele. Per Evergreenfest al parco della Tesoriera si esibiscono Mael e Casadilego. Al Circolino suonano i Bongclouds.

Sabato. Per Flowers Festival a Collegno sono di scena Bandabardò + I Patagarri. Al Blah Blah si esibisce Margarita Witch Cult.

Pier Luigi Fuggetta

Molto più di una insalata di patate

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Un secondo fresco e sempre adatto

 Una preparazione semplice e sfiziosa che potete personalizzare secondo i vostri gusti per un piatto sempre diverso.
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Ingredienti:
3 grosse patate
1 scatoletta di tonno sott’olio
4 cucchiai di maionese
1 limone
1 pizzico di curcuma (facoltativo)
1 fetta spessa di prosciutto di Praga
Sale, pepe, prezzemolo o basilico
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Pelare le patate, tagliarle a bastoncini e cuocerle a vapore.
Frullare il tonno, mescolare alla maionese, aggiungere il succo del limone, il sale, il pepe, e la curcuma. Tagliare a listarelle il prosciutto privato dell’eventuale grasso, unirlo alle patate, aggiungere la salsa tonnata ed il prezzemolo. Mescolare con cura. Servire freddo guarnito con fette di limone.

Paperita Patty

La Torino delle due ruote: viaggio fra Vespa, moto e paesaggi

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SCOPRI – TO ALLA SCOPERTA DI TORINO
La Vespa, un’icona intramontabile
A Torino, la Vespa è molto più di un semplice scooter: è un simbolo di italianità, di eleganza senza tempo e di un modo di vivere il viaggio che sa di libertà, leggerezza e storia. Da generazioni accompagna i torinesi nelle loro avventure estive, nelle commissioni quotidiane e nei momenti di svago. In città si vedono ancora modelli d’epoca splendidamente conservati, affiancati alle versioni più moderne, ma sempre con quell’inconfondibile fascino che solo la Vespa sa evocare. Basta un casco, un paio di occhiali da sole e si è pronti per partire, senza fretta, per godersi le strade della città o dirigersi verso i paesaggi collinari appena fuori porta. La Vespa è compagna perfetta per attraversare il centro storico, per arrampicarsi su verso la collina torinese, o per costeggiare il Po in una calda sera d’estate. Le sue linee morbide e il ronzio del motore diventano quasi poesia in movimento, un modo romantico e personale per vivere la mobilità urbana e oltre. Con l’arrivo dell’estate, moltissimi torinesi tirano fuori dal box la loro Vespa, la lucidano e la rimettono in strada per piccoli viaggi, escursioni e fughe improvvisate verso il verde della Val di Susa o i borghi incastonati tra le colline del Canavese. La Vespa non è solo un mezzo: è uno stile di vita, una filosofia del viaggio lento, che mette al centro il piacere di guardarsi intorno, di sentire l’aria calda sul viso e di godersi ogni chilometro.
Il Vespa Club Torino, passione e comunità
C’è chi ama la Vespa in solitaria e chi invece ha trovato nella passione per questo scooter leggendario un’occasione per condividere emozioni, esperienze e percorsi. Il Vespa Club Torino rappresenta da anni un punto fermo per centinaia di appassionati, una vera e propria comunità in cui la Vespa è il trait d’union tra persone di età, background e storie diverse. Il club non è solo un’associazione: è un luogo dell’anima dove si respira amicizia, appartenenza e desiderio di scoperta. Organizzano raduni, viaggi di gruppo, eventi tematici e tour che toccano luoghi suggestivi del Piemonte, dalle risaie del vercellese ai laghi alpini, dai castelli nascosti ai panorami mozzafiato delle Alpi Cozie. Le uscite collettive del club trasformano la strada in una piccola festa itinerante, fatta di Vespa colorate, bandiere, saluti ai passanti e soste gastronomiche nei posti più autentici. Ma dietro ogni viaggio c’è anche una cura maniacale per i dettagli, una passione che si vede nei restauri minuziosi, nei racconti tramandati tra i soci e nell’amore per la tradizione. Il Vespa Club Torino rappresenta un pezzo importante del tessuto sociale cittadino, un esempio di come la mobilità su due ruote possa anche diventare cultura e aggregazione. Partecipare a una loro uscita significa non solo guidare, ma anche ascoltare storie, stringere nuove amicizie, sentirsi parte di qualcosa di più grande. E non mancano i momenti di solidarietà, con eventi organizzati per beneficenza o per promuovere la sicurezza stradale, a dimostrazione che dietro un casco e una marmitta c’è spesso un cuore che batte forte.
Le moto, adrenalina e libertà nei paesaggi piemontesi
Accanto alla Vespa, i torinesi nutrono da sempre una grande passione per le moto. Che siano naked, sportive, custom o touring, le due ruote a motore rappresentano una vera valvola di sfogo per molti cittadini, un modo per fuggire dal traffico, per esplorare nuove strade e per ritrovare il senso più puro della libertà. L’estate è il momento in cui i motociclisti torinesi si rimettono in sella con maggiore frequenza, approfittando delle giornate lunghe e del clima favorevole per organizzare giri spettacolari nei dintorni. Le strade del Piemonte offrono scenari mozzafiato: curve sinuose che attraversano i vigneti delle Langhe, salite panoramiche che portano al Colle della Maddalena, sentieri d’asfalto che costeggiano i laghi di Avigliana o si inoltrano nelle valli meno battute del biellese. La moto diventa il mezzo ideale per esplorare in profondità il territorio, per raggiungere luoghi lontani dal turismo di massa, dove la natura è ancora autentica e il tempo sembra rallentare. I motociclisti torinesi si danno appuntamento in piazze, benzinai e locali storici, pronti a partire all’alba per un giro di centinaia di chilometri, spinti solo dalla voglia di guidare e di scoprire. C’è chi cerca l’adrenalina pura, affrontando i tornanti come in una sfida personale, e chi invece preferisce la dimensione contemplativa del viaggio, quella in cui il paesaggio è parte integrante dell’esperienza. Le moto, a Torino, non sono solo un hobby, ma un vero stile di vita. E in estate, quando la città si svuota e il richiamo delle montagne si fa più forte, non c’è niente di meglio che allacciare il casco, avviare il motore e lasciarsi portare dove porta la strada.
NOEMI GARIANO

Pasta risottata alla mediterranea

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Avete letto bene, e’ una pasta ma… cuoce come un risotto, provatela: e’ proprio appetitosa!

 

Ingredienti (per 4 persone):

320gr. di pasta corta tipo penne

15/20 pomodorini tipo Pachino

1 cucchiaio di capperi dissalati

3 cucchiai di olive taggiasche denocciolate sott’olio

1 piccola cipolla

1 spicchio di aglio

3 cucchiai di olio evo

1 bicchierino di vino bianco secco

3 cucchiai di pecorino grattuggiato

acqua per cottura

basilico e  prezzemolo freschi

Sale q.b.

 

In una larga padella mettere a dorare la cipolla,  l’aglio e i capperi tritati, aggiungere poi  le olive e i pomodorini tagliati a meta’, insaporire per qualche minuto poi unire la pasta cruda e rimestare. A questo punto, salare, sfumare con il vino bianco e poi coprire completamente gli ingredienti con acqua calda e rigirare, proprio come… un risotto. Lasciar cuocere per 10 minuti (dipende dal tempo di cottura della pasta) rimestando di tanto in tanto aggiungendo, se occorre, poca acqua. Quando pronta, spolverizzare con basilico, prezzemolo fresco tritati e pecorino grattuggiato. Servire subito. Potete sostituire gli ingredienti secondo i vostri gusti, magari aggiungendo 2 filetti di acciuga… La pasta cotta in questo modo risultera’ molto piu’ gustosa e avvolta da una cremina che vi conquistera’.

Buon appetito.

Paperita Patty

 

I torinesi e la moda intellettuale

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SCOPRITO   ALLA SCOPERTA DI TORINO

La moda italiana nacque a Torino nel 1911 quando per la prima volta una donna indossò un paio di pantaloni di un sarto francese, subito suscitò incredulità e stupore ma con il tempo le persone iniziarono a prenderla d’esempio creandone nuovi modelli. Poco per volta nacque a Torino l’industria dell’abbigliamento. Dagli anni Trenta agli anni Sessanta Torino fu il polo industriale principale italiano per la produzione del tessile. Solo dagli anni Novanta in poi Milano diventò capitale della moda italiana.
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I BRAND INDIPENDENTI CHE SALVAGUARDANO IL PIANETA

Secondo numerose ricerche i torinesi si ispirano molto alle mode del momento e numerosi sono i brand indipendenti che sono nati proprio in questa città. Tra di essi il brand “Nasco Unico” di Andrea Francardo, un laboratorio artigianale dove le clienti possono scegliere come realizzare il loro capo direttamente nel laboratorio evitando così sprechi di produzione.
Un altro marchio è “Amma” di Luisella Zeppa che produce borse eco-sostenibili, con materiali naturali e lavorate con cura e maestria da tantissime generazioni.
Per chi ama invece i gioielli vi è il marchio “Raduni Ovali” realizzati con pietre preziose, ognuno unico nel suo genere grazie alle attente rifiniture a mano.
Moltissime sono le scelte dei brand e dei negozi, spesso le piccole realtà sono poco conosciute rispetto ai grandi marchi ma possono essere un’ottima occasione per indossare capi unici e con una particolare attenzione verso l’ambiente.
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COSA INDOSSARE IN BASE ALLE OCCASIONI

I grandi marchi di moda influenzano ogni anno il mercato con tessuti e colori diversi, ma per ottenere esattamente il risultato che si vuole ottenere quando indossiamo un capo non dobbiamo solo basarci sulla moda ma anche su delle precise regole di psicologia!
Secondo la scienza infatti indossare degli abiti rossi accellera il battito cardiaco di chi li porta e anche del suo interlocutore, che potrà tradurre quella sensazione in “voglia di fuggire” o “eccitazione”, questo vale soprattutto se la persona che indossa l’indumento è donna. Quindi se ad un primo appuntamento vogliamo fare colpo vestirci di rosso potrebbe essere una buona idea.
Se invece abbiamo un’occasione più formale, ad esempio lavorativa, il colore ideale è spesso il blu perché abbassa il battito cardiaco, rilassa e fa si che l’interlocutore si fidi maggiormente di noi. I politici sono spesso vestiti di blu proprio per questo motivo, Donald Trump per esempio ha il completo blu, la cravatta rossa che indica grinta e lotta e la camicia bianca che suggerisce chiarezza.
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COSA INDOSSARE CON PARSIMONIA

Vi sono poi dei colori che potrebbero non aiutarci a raggiungere il risultato sperato come il nero che suscita l’idea dell’oscuro, velato, misterioso e al contempo lussuoso.
Il bianco stimola in noi l’idea della pulizia ecco perché è molto usato nei camici da lavoro, è però un colore che non suscita emozioni, non è quindi adatto quando vogliamo creare un legame con l’altra persona.

Si occupa di colori anche l’armocromia ma in un accezione puramente estetica e non scientifica, molto utile quando il nostro obiettivo è quello di valorizzarci esteticamente.

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NOEMI GARIANO

 

 

Fiorenzo, l’operaio che faceva “i baffi alle mosche”

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Quando ho conosciuto Fiorenzo – detto anche “stravacà-rundell” – era ormai in pensione ma il mio collega Rinaldo, più giovane di me, l’aveva avuto come “maestro” in fabbrica

Finita la scuola dell’obbligo, nonostante i buoni voti, Rinaldo aveva scelto – contro il parere dei genitori – di andare a lavorare in fabbrica. “Per studiare c’è sempre tempo“, si era detto. Un errore bello e buono che lui stesso, con il tempo, aveva ammesso. Sì, perché, come spesso accade, “ogni lasciata è persa“, e ciò che non si fa all’età giusta è ben difficile che si possa recuperare più avanti. Per sua fortuna Rinaldo aveva, come dire, “recuperato” ai tempi supplementari, da privatista, studiando di sera e lavorando di giorno. Era approdato alla Banca quando stava per festeggiare il suo venticinquesimo compleanno. Il signor Bruno, che aveva una fabbrichetta proprio sotto casa mia, lo diceva sempre anche a me: “Studia. Fat mia mangià i libar da la vaca“. Farsi mangiare i libri dalla vacca equivaleva, un tempo, a smettere di studiare per fare il contadino, imbracciando vanga, rastrello e falce al posto di penna, libro e quaderno. Quando non ce n’era necessità assoluta, era un peccato non “andare avanti” a scuola. Comunque, tornando a Rinaldo, non si mise certo a piangere sul latte versato. La fabbrica, un’azienda meccanica con una trentina di dipendenti, era poco distante da casa sua e venne assegnato come “bocia“, come apprendista,  alle “cure” di Fiorenzo. 

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“ Dovevi conoscerlo a quel tempo, amico mio. Era un operaio provetto, in grado di fare “i baffi alle mosche”. Tirava di fino con la lima, maneggiava con abilità il truschino per tracciare e il calibro per le misurazioni. Era un ottimo attrezzista, in grado di preparare uno stampo per la pressa ma s’intendeva bene anche di macchine come le fresatrici e i torni. Per non parlare poi della rettifica”. Con quella macchina utensile, si lavora sui millesimi, togliendoli dal pezzo in lavorazione con precisione chirurgica, grazie alla mola a grana fine e durissima che garantisce un alto grado di finitura. “ Sotto la sua guida ho imparato, in quegli anni, a lavorare sulle rettificatrici in tondo, senza centro e su quella tangenziale, per le superfici piane. A volte bisognava mettersi la mascherina, soprattutto quando si lavoravano i pezzi cromati: quelle nuvole di acqua e olio emulsionabile che abbattevano le polveri  e raffreddavano il “pezzo”, non erano per niente salubri”.  Nell’officina, a lavorare con Riccardo e Fiorenzo, erano in diversi. C’era un capo operaio che veniva dalla provincia di Varese, soprannominato “lampadina“, con la sua crapa pelata e la palandrana blu dalle tasche sfondate a forza s’infilarci gli attrezzi; Antonio, tornitore dall’aria austera che al solo guardarlo metteva in soggezione; Luìsin, una specie di factotum che s’occupava principalmente del magazzino; Silverio, abile e scaltro saldatore che si esprimeva per metafore mutuate dalle pubblicità di “Carosello“; Ansaldi, addetto ai trapani, compreso quello radiale che sembrava davvero un mostro con il suo pesante mandrino che stringeva ragguardevoli punte adatte a forare le lastre più grandi.

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Dal racconto di Riccardo pare proprio che si respirasse un clima di grande umanità in quei capannoni. Anche gli scherzi che toccavano alle “matricole“, non erano mai troppo pesanti. Se mandavano a prendere la “punta scarpina del 43“, il calcio nel sedere veniva quasi appoggiato alle chiappe, senza foga. Un “ricalchin“, niente di più. Chiedere al fresatore di poter ottenere un po’ “d’acqua d’os“, comportava una annaffiatura appena accennata con lo spruzzino a mano. In caso di necessità, richiesto con i dovuti modi, non mancava mai l’aiuto dei più esperti, segno di una disponibilità al giorno d’oggi quanto mai rara. “Un giorno Fiorenzo, soddisfacendo la mia  curiosità – racconta Riccardo   mi spiegò l’origine di quel soprannome  che s’era “guadagnato” da giovane, lavorando in una fabbrica un po’ più grande. Portando una cassa di rondelle di ferro verso il magazzino non aveva visto in tempo un buco nel pavimento ed il carrellino si era ribaltato, rovesciando sul pavimento l’intero contenuto”. Aveva impiegato una mezza giornata a scovarle, quelle maledette rondelle. Erano finite dappertutto: sotto le macchine e i banchi, nei cumuli di trucioli di ferro e tra la segatura che avevano buttato per terra sotto l’alesatrice per asciugare l’acqua che colava giù. “Da quel momento sono diventato lo “stravacà-rundell”. Poco importa se quella è stata l’unica volta che mi è capitato”, ammetteva, sorridendo, Fiorenzo. Personalmente l’ho conosciuto al circolo, una dozzina d’anni fa. Da quando gli era morta l’Adalgisa, sua moglie, veniva più spesso a fare quattro chiacchiere e una partita a carte insieme a noi. Raccontando degli episodi della fabbrica – che trovavano conferma nelle parole di Riccardo – emergevano altre figure, alcune esilaranti come nel caso di Igino e di Fedele. Entrambi avevano l’abitudine del bere che consideravano tale, rifiutando categoricamente che fosse “un vizio“. Igino lo conosco e me ho avuto prova quando,  insieme, siamo andati, una mattina di primavera, a pescare nel Selvaspessa, il torrente che dal Mottarone scende giù fino al lago Maggiore. Prima di raggiungermi sul greto del torrente, aveva fatto colazione “alla montanara“: pane, formaggio e una grossa tazza di caffè e grappa, dove la grappa prevaleva e di molto sul caffè. Dopo un’ora che si pescava, chiamandolo e non ricevendo risposta, lo trovai sdraiato su di un sasso, con i pantaloni arrotolati sopra il ginocchio e i piedi nudi nell’acqua corrente del fiume.

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L’acqua era gelata ma lui, sbadigliando sonoramente dopo le mie scrollate, mi disse che “aveva caldo ai piedi e un po’ di sonno“, e così ne aveva approfittato. Roba da matti, penserete ma vi assicuro che per Igino era la normalità. Aveva un fisico bestiale. Quando la domenica, indossata la maglia azzurra del Baveno, giocava a pallone, correva sulla fascia come una locomotiva per l’intera durata della partita, mostrando una riserva inesauribile di fiato. E a caccia di camosci era capace di stare delle ore immobile, nella neve, per mimetizzarsi. Fedele, invece, era più indolente e si muoveva sempre e solo sulla sua “Teresina”, una Vespa 125 del 1953, che teneva lustra e curata nemmeno fosse la sua morosa. Fiorenzo e Riccardo ricordavano il giorno in cui l’autista dell’azienda, con la sua “Bianchina“, stava tornando da una commissione. Lo videro in fondo al viale alberato, con la freccia pulsante a sinistra. Alle sue spalle c’era Fedele, sulla sua Vespa. L’auto procedeva a passo d’uomo ma non svoltò a sinistra al primo incrocio. Fedele gli stava dietro, tradendo una certa impazienza. La “Bianchina“, nonostante la freccia sempre inserita, non svoltò nemmeno in procinto delle altre due strade che gli avrebbero consentito la deviazione annunciata dall’indicatore luminoso . Ormai persuaso che la freccia era rimasta inserita per una dimenticanza dell’autista, Fedele accelerò per il sorpasso. Fu in quel momento che, giunta in prossimità del cancello della fabbrica, l’auto svoltò repentinamente e Fedele, con una sterzata disperata, evitò di un soffio la collisione , infilandosi nel bel mezzo di una siepe di rovi. “ Non ti dico in che stato era quando riuscì a liberarsi dalla morsa dei rami spinosi”, confessò Riccardo.

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Era uno strazio, con i vestiti strappati e il corpo coperto di graffi. Anche la sua  “125” era un graffio unico e soltanto la velocità, inaspettata quanto provvidenziale, del vecchio autista nel mettersi al riparo dalla sua furia – barricandosi nel gabinetto alla turca – impedì al motociclista di strozzarlo”. Quegli anni, certamente duri e non facili, venivano raccontati sia dall’anziano Fiorenzo che dal più giovane Riccardo come una specie di “formazione alla vita”.  “ Mi hanno aiutato a farmi la “scorza”, a capire come girano le cose e ad avere grande rispetto per il lavoro e per quelli che – quando hanno un impegno – non si tirano indietro, senza dimenticare che non costa nulla dare una mano a chi è in difficoltà e fatica a tenere il passo“, diceva Riccardo. Confidava di essere in debito con i suoi compagni di allora per tutte le cose che aveva appreso, “anche per quelle meno belle che- comunque – servono a volte più di quelle piacevoli”. Li aveva conosciuto Marcello, che voleva andare dal ginecologo perché “ghò mal ad un ginocc’.. ” e  De Maria, che conosceva a memoria la Divina Commedia; aveva lavorato gomito a gomito con Carmelo, una “testa fina” in grado di leggere i disegni tecnici più sofisticati che nemmeno un ingegnere avrebbe potuto “bagnargli il naso” e Morlacchini che, un giorno, si costruì una padella per le caldarroste talmente pesante che bisognava essere in due per far “ballare” le castagne sul fuoco. Tutti erano un po’ speciali e molto, molto umani. Forse – ne sono convinto anch’io che pure ho percorso una strada diversa – si dovrebbe andar tutti, anche per poco, a lavorare in fabbrica, in cava o in ambienti simili. Si capirebbero tante cose e si direbbero tante stupidaggini in meno.

 

Marco Travaglini

 

“La maledizione di Joshua” un noir intenso che intreccia memoria, vendetta e mistero

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TORINO TRA LE RIGHE

Per gli amanti del noir e delle atmosfere torbide, oggi vi porto nel cuore del nuovo romanzo di Patrizia Valpiani, La maledizione di Joshua (Edizioni Pedrini): una storia avvincente che mescola passato e presente, colpi di scena e riflessioni profonde sull’animo umano.
Originaria di Pietrasanta, ma ormai torinese d’adozione, Valpiani ha saputo fare della nostra città non solo lo sfondo, ma il respiro stesso della sua narrativa. Alternando poesia e romanzo noir, ha affinato negli anni una scrittura attenta all’introspezione psicologica e alla costruzione di atmosfere dense e inquietanti. Il suo noir non urla, sussurra. Non ostenta la violenza, la lascia emergere lentamente, dalle crepe dell’anima.
Protagonista ricorrente delle sue opere è Pietro Jackson, pittore e musicista dalla sensibilità straordinaria, capace di cogliere le vibrazioni più oscure della realtà. Nato con Ascoltando Coltrane (Neos Edizioni, 2009), Jackson si muove in una Torino meticolosamente descritta nei suoi dettagli urbani, sociali e culturali: una città che, nei romanzi di Valpiani, è presenza viva e pulsante.
Dopo una pausa narrativa, l’autrice è tornata a raccontare le vicende di Jackson in collaborazione con il medico legale Gianfranco Brini, sotto lo pseudonimo di Tosca Brizio. Da questa sinergia sono nati Chiaroscuro (2017) e L’ombra cupa degli ippocastani (2019), pubblicati da Golem Edizioni. Alla scomparsa di Brini, Valpiani ha continuato da sola il cammino del suo protagonista, portandolo avanti fino al recente Pietro J (2022).
Con La maledizione di Joshua, ci troviamo di fronte a un nuovo capitolo, denso di tensione e mistero. La storia prende avvio a Santa Fé, in Argentina, dove incontriamo Joshua, un uomo di origini ebraiche la cui vita è stata devastata dall’antisemitismo degli anni Quaranta. Ormai anziano e gravemente malato, Joshua decide di tornare in Italia per chiudere i conti con il passato e reclamare giustizia. O forse vendetta.
Il romanzo si sposta poi a Torino, dove le ombre di Joshua si intrecciano con quelle di Pietro e Matteo, un giornalista deciso a far luce su una serie di eventi oscuri che coinvolgono una famiglia italiana. In questo mosaico di personaggi e destini, Valpiani intreccia con maestria la memoria storica e la tensione narrativa, regalando al lettore un noir che è anche un viaggio nell’inconscio.
La maledizione di Joshua conferma la capacità dell’autrice di tenere il lettore con il fiato sospeso fino all’ultima pagina, dimostrando che il noir può essere non solo intrattenimento, ma anche strumento di riflessione.
Un romanzo da non perdere, perché dietro ogni pagina si cela una verità inattesa. E, come sempre nei libri di Patrizia Valpiani, niente è mai come sembra.
MARZIA ESTINI

Le ciliegie “salate”

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Stavamo bevendo un bicchiere in compagnia quando Giorgio mi rivolse – all’improvviso – una domanda: “Ti ricordi quando andavamo per ciliegie?”.  Ci misi un attimo, giusto il tempo di mettere le mani nel cassetto dei ricordi e – trovato il filo giusto – mi vennero in mente, nitidamente, quei tempi

A Giorgio erano state le amarene rosso scuro che la Maria aveva sistemato nel cestino della frutta ad accendere la “lampadina“. In quell’istante, la nipotina della Maria, ne prese due coppie, tenute insieme dai gambi, e se le appese come fossero orecchini. Ridemmo, entrambi, di quel gesto che, tanti anni fa, avevamo fatto anche noi, scherzando tra ragazzini. All’epoca si andava in “banda” per i poderi a far razzia. Tra la fine di giugno ed i primi di luglio, nei tardi pomeriggi di quelle calde giornate d’estate, si cercavano gli alberi più carichi di ciliegie. Era una “caccia” troppo invitante. Le ciliegie sono frutti allegri, dissetanti. Ci sono quelle dolci, zuccherose, a polpa tenera ( le tenerine) e a polpa più carnosa (i duroni). E poi, le amarene e le marasche. Con gli anni ho imparato altre cose: oltre ad essere buone fanno pure bene. Sono indicate  nella cura di artriti, arteriosclerosi, disturbi renali. Contengono  buone quantità di fibre, potassio, calcio, fosforo e vitamine. Ci si possono produrre sciroppi, marmellate e liquori come maraschino, cherry e ratafià. Insomma, c’è tutto un elenco di cose positive che fanno rima con ciliegia. Ma noi, all’epoca in cui eravamo ragazzi, piacevano soprattutto perché erano il frutto di un piccolo furto e questo fatto, accompagnato dall’avventura, dai rischi e dalla voglia di trasgredire, rendeva le ciliegie il “frutto proibito” per eccellenza. Mario era arrivato al punto di sostenere una tesi tutta sua: Adamo ed Eva erano stati cacciati dal Paradiso non per colpa di una mela colta senza permesso ma di un cestino di ciliegie rosse e carnose. Il rischio più grande era quello di trovarle “salate“.

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Infatti, capitava che i contadini di un tempo, poco inclini a tollerare le nostre scorribande, ci accoglievano con una doppietta caricata a sale grosso, determinati a scoraggiarci con la minaccia di  piantarci due schioppettate nel sedere. All’arrivo dell’estate, immancabilmente, sembravamo due eserciti in assetto di guerra. “Noi“, a gruppi di 4 o 5, lesti a salire sull’albero, cogliere le ciliegie al volo, riempire il sacco di tela o il cestino, cercando di fare il più in fretta possibile. “Loro“, i proprietari dei ciliegi dove cresceva quel ben di Dio, confezionavano cartucce di diverso calibro con sale grosso, in sostituzione dei pallini di piombo. Rinforzavano anche le linee difensive lungo i confini dei frutteti: reti metalliche orlate di filo spinato, staccionate, siepi irte di spine. Era la “guerra delle ciliegie” che, in altre località, si trasformava in una vera e propria “guerra della frutta”. Se i contadini erano i difensori del loro diritto alla proprietà privata noi, gli incursori che negavano questo diritto, sostenendo che la natura non aveva padroni, colpivamo senza pietà, svanendo subito dopo nei boschi e nella campagna circostante, a volte trascinandoci appresso i compagni feriti. “Lo si faceva per fame e per gioco. Per molti di noi era l’unico modo per mettere sotto i denti quella frutta che non potevamo comprare. Ed era una cuccagna perché a casa il cibo era scarso“, rammentava Giorgio. E, come un rosario, sgranavamo i  nomi dei nostri compagni di quella guerriglia senz’armi: io e Giorgio, Mario, Luigino “Trota” – abilissimo nel pescare nei ruscelli e nel fiume -, Remo, Marco ed anche Marina. Era, quest’ultima, una ragazzina sveglia che dava dei punti a tutti noi. Ed era golosissima di ciliegie. Il campo di battaglia più duro era il frutteto del vecchio Roger Zuffoli, detto “il marsigliese“. Aveva un paio d’ettari piantati a frutta dove si trovava di tutto: susine, albicocche, pesche, mele, pere ed ovviamente ciliegie ed amarene. Verso il limite del bosco aveva anche noci e nocciole. Roger, piccolo e secco, vestiva i pantaloni alla zuava e camicie a quadrettoni mentre in testa teneva sempre il suo basco calato sulle “ventitré“. All’epoca poteva avere si e no una settantina d’anni, gran parte dei quali passati a scaricare merci nei porti di Marsiglia e di Tolone. Era tornato a Baveno già anziano perché, diceva, ” dopo tanta acqua salata ho sentito la nostalgia dell’acqua dolce del Maggiore“. In ricordo di quegli anni, al circolo comandava sempre un bicchiere di  “pastis“,  liquore profumato all’anice, tipicamente francese, che allungava con l’acqua di una caraffa dove galleggiavano dei grossi pezzi di ghiaccio. Attaccare le sue piante era molto ma molto rischioso. Raramente riuscimmo a farla franca ed una volta, quasi, ci lasciammo le penne. Quell’episodio, ancor meglio di me se lo ricorda Mario. Stranamente silenzioso, il frutteto pareva incustodito quella sera. Saranno state le diciannove o poco meno. Roger mangiava presto e quindi pensavamo fosse quello il momento giusto per compiere l’incursione. Invece il perfido vecchietto, mangiata la foglia, si era appostato dietro al piccolo fienile con la doppietta in mano.

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Non facemmo in tempo a renderci conto di quanto stava accadendo che l’eco dello sparo risuonò secco, costringendoci a tappare le orecchie. Colpito al sedere dalla fucilata di sale grosso, Mario cadde dal ramo. Dolorante si rialzò e tutti insieme corremmo a più non posso verso il bosco per far perdere le tracce. Mentre fuggiva a gambe levate, Mario sentiva il dolore delle ferite, poi il bruciore dei grani di sale che si scioglievano nella carne viva. Appena avvistò il ruscello, vinto dal bruciore, si gettò nell’acqua per calmare il fuoco che gli stava divorando il fondoschiena. Ma il rimedio si rivelò peggiore del male: l’acqua , accelerando lo scioglimento del sale, rese insopportabile il bruciore. Remo, appassionato collezionista di francobolli, portava sempre con se una pinzetta e con quella, tra le grida ed i lamenti di Mario, estraemmo i grani di sale, pulendo alla meglio le ferite. Per un po’, da quella sera, gli assalti vennero sospesi per poi, calmate le acque, proseguire per la disperazione dei contadini della zona, compreso Roger. Quella volta però, la “missione” si era conclusa senza il “bottino“. Mario , d’allora, non volle più prendere parte alle nostre imprese. L’invitavamo, lo pregavamo ma lui diceva sempre di no,  opponendo resistenza. Diceva che lui, ormai, non aveva più “il sedere di una volta“. In cuor nostro non ce la sentivamo di dargli torto.

Marco Travaglini