Magnifica Torino / L’arco olimpico visto dal tetto del Lingotto
Nel 1863, dopo un primo e vano tentativo di fusione della statua, il fonditore francese Pietro Couturier portò a termine l’incarico assegnatogli; il Consiglio Comunale scelse quindi di innalzare la statua poco lontano dal luogo stesso dove un secolo e mezzo prima era successo il fatto, cioè di fronte al Mastio della Cittadella il quale, in onore dell’evento, venne opportunamente restaurato a carico del Ministero della Guerra
Il monumento è collocato all’angolo tra via Cernaia e corso Galileo Ferraris, nel giardino dedicato ad Andrea Guglielminetti. La statua ritrae Pietro Micca, posto sulla sommità di un alto basamento modanato, in posizione eretta con la divisa degli artiglieri presumibilmente nell’atto fiero e consapevole che precede lo scoppio delle polveri. Infatti, mentre nella mano destra tiene la miccia, la sinistra è serrata a pugno quasi a voler enfatizzare, unitamente alla tensione della leggera torsione, il momento decisivo che precede l’innesco delle polveri (in riferimento all’episodio eroico che lo rese celebre).
Pietro Micca nacque a Sagliano il 6 marzo 1677 da una famiglia dalle origini modeste. Arruolato come soldato-minatore nell’esercito del Ducato di Savoia, è storicamente ricordato per l’episodio di eroismo durante il quale perse la vita al fine di permettere alla città di Torino di resistere all’assedio del 1706, durante la guerra di successione spagnola.La tradizione narra che la notte tra il 29 ed il 30 agosto 1706 (e cioè durante il pieno assedio di Torino da pare dell’esercito francese) alcune forze nemiche entrarono in una delle gallerie sotterranee della Cittadella, uccidendo le sentinelle e cercando di sfondare una delle porte che conducevano all’interno. Pietro Micca, che era conosciuto con il soprannome di passepartout, decise (una volta capito che lui ed il suo commilitone non avrebbero resistito per molto) di far scoppiare della polvere da sparo allo scopo di provocare il crollo della galleria e non consentire il passaggio alle truppe nemiche. Non potendo utilizzare una miccia lunga perché avrebbe impiegato troppo tempo per far esplodere le polveri, Micca decise di impiegare una miccia corta, conscio del rischio che avrebbe corso. Fece allontanare il suo compagno con una frase che sarebbe diventata storica “Alzati, che sei più lungo d’una giornata senza pane” e senza esitare diede fuoco alle polveri.
Morì travolto dall’esplosione mentre cercava di mettersi in salvo correndo lungo la scala che portava al cunicolo sottostante; era il 30 agosto del 1706.Il gesto eroico del minatore-soldato sarà riconosciuto in seguito durante tutto il Risorgimento come autentico simbolo di patriottismo popolare, sino ad essere ricordato ai giorni nostri.L’idea di celebrare con un monumento l’eroe popolare, nacque già nel 1837 dal Re Carlo Alberto alla morte dell’ultimo discendente maschile del soldato ‘salvatore’ della Città. Modellato dallo scultore Giuseppe Bogliani, il busto di Pietro Micca (rigorosamente in bronzo) ritraeva l’eroe con il capo coronato di gramigna con accanto una Minerva-guerriera seduta con una corona di quercia. Il monumento però non sembrava rispondere completamente al concetto di popolare riconoscenza con cui si sarebbe voluto ricordare Pietro Micca e così venne per così dire abbandonato all’interno dell’ Arsenale di Torino. Dopo circa vent’anni, nel 1857, da parte di uno scultore dell’Accademia Albertina di Belle Arti, Giuseppe Cassano, venne ripresa l’idea di ritrarre Pietro Micca.
Il Consiglio comunale, in seduta del 29 maggio 1858, approvò l’iniziativa ed il Re Vittorio Emanuele II espresse il desiderio che la statua del Micca venisse realizzata in bronzo ed eseguita nelle fonderie dell’Arsenale. In momenti differenti il Parlamento stanziò per il monumento L. 15.000 con le quali vennero pagate le sole spese di fusione; unitamente la sottoscrizione pubblica stanziò L. 2.200 (appena utili al rimborso dello scultore Cassano), L. 7.700 a Pietro Giani per la realizzazione del piedistallo e L. 2.000 per la posa in opera, arrivando così ad un costo totale di L. 26.900.
Nel 1863, dopo un primo e vano tentativo di fusione della statua, il fonditore francese Pietro Couturier portò a termine l’incarico assegnatogli; il Consiglio Comunale scelse quindi di innalzare la statua poco lontano dal luogo stesso dove un secolo e mezzo prima era successo il fatto, cioè di fronte al Mastio della Cittadella il quale, in onore dell’evento, venne opportunamente restaurato a carico del Ministero della Guerra. La sera del 4 giugno 1864 venne finalmente inaugurato il monumento ad onorare il gesto eroico del soldato-minatore di Sagliano.L’importanza dell’impresa di Pietro Micca è celebrata anche nel Museo che porta il suo nome, luogo dove è esposto il monumento a Pietro Micca del Bogliani del 1836.
Ed anche per questa volta la nostra “passeggiata con il naso all’insù” termina qui. Ci rivediamo per il prossimo appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere.
Simona Pili Stella
“Tutta colpa di quel francese..”. Eriberto si era espresso in modo netto,deciso. La principale responsabilità di quant’era capitato a quei due disgraziati, a suo parere, era di Jules Verne. Del resto non tutti quelli che avevano letto i romanzi del fantasioso scrittore bretone, veri e propri capolavori immortali, si erano ispirati a tal punto da cimentarsi in qualche analoga impresa per conto proprio
Eriberto era convinto che Gilberto e Roncolino erano rimasti folgorati da “Il giro del mondo in ottanta giorni” a tal punto da volersi cimentare in qualcosa di simile, seppur su scala ridotta. Così era nata quell’idea balzana che recava discutere tutto il paese. Gilberto Treossi, lungo come una pertica e magro come uno stuzzicadenti, faceva coppia fissa con Marcello Ronconi,detto “roncolino”, basso e mingherlino. I due si barcamenavano con qualche lavoretto,guadagnando quel tanto che occorreva per assicurarsi almeno un pasto al giorno e un fiasco di vino per il piacere del palato. Vivevano d’espedienti, vestendosi con quanto veniva loro offerto dalle Dame di San Vincenzo.Le notti le passavano nel fienile del geometra Baroveri che, da persona generosa qual’era, non negò mai quel povero giaciglio, consentendo ai due di dormire anche nella larga mangiatoria della stalla quando veniva la stagione più fredda. Quando non erano impegnati nelle loro piccole attività e non avevano la testa annebbiata dalle bevute, si recavano nella piccola biblioteca dell’oratorio dove, seduti sulle due sedie impagliate vicino alla finestra,leggevano i libri a disposizione.Entrambi avevano frequento la scuola fino alla quinta elementare e sapevano leggere e far di conto. La vita per loro – come diceva Don Luigi, tirando un lungo sospiro – “non era stata benevola ma nonostante tutto erano due bravi cristiani”. Fu proprio la lettura del romanzo di Verne, uno dei più famosi del narratore di Nantes, a far scattare la scintilla nella testa di Gilberto. Roncolino, messo a parte della trovata, si dichiarò immediatamente d’accordo.
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Nella storia i due protagonisti, Phileas Fogg – tipico gentlemen inglese – e Passepartout, il suo cameriere francese, si erano impegnati per scommessa a compiere il giro del globo in ottanta giorni. Un’impresa che, tra colpi di scena e vicende a volte drammatiche e spesso grottesche, giunse a buon fine. Verne, nella stesura del racconto, si era ispirato ad una storia vera, che aveva visto protagonista l’americano George Francis Train nel 1870. E perché loro non potevano fare altrettanto, impegnandosi a fare il giro d’Italia con il triciclo del panettiere Delgradi che Gilberto di tanto in tanto usava per consegnare il pane a domicilio? Non era forse quella un’impresa degna di nota? Tanto più che al panettiere quel vecchio triciclo serviva ormai poco o niente, sostituito da un più moderno e rapido motorino. Assicuratisi l’assenso del Delgradi per l’uso del mezzo a pedali al quale aggiunsero un secondo sellino, così da poter star comodi in due, utilizzando il piano di carico della parte posteriore per caricarvi i necessari vettovagliamenti, i sacchi a pelo e una cerata con la quale ripararsi in caso di maltempo, mancava solo il “capitale” per l’avvio del viaggio. Era evidente che si sarebbero arrangiati, strada facendo, e che la forza motrice delle loro gambe non necessitasse di spese per i rifornimenti come per un auto o altro mezzo di locomozione a motore. Bastavano un pasto, un poco di riposo e una dose di vinello per garantire le pedalate che avrebbero eseguito a turni intervallati. L’idea questa volta venne a Don Luigi. Il parroco, per corrispondere alle necessità della chiesa e dell’oratorio, ricorreva a delle raccolte di denaro sotto forma di libera elargizione in cambio delle immaginette raffiguranti Santa Maria Assunta. Perché non stamparne alcune raffiguranti i due in posa davanti al triciclo con la scritta “Diamo una mano a due ardimentosi cicloturisti impegnati a portare il nome della nostra città in giro per l’Italia con coraggio, fede e passione” ? L’idea piacque, la frase un po’ meno. Alla fine venne scelta, per accompagnare la foto, una più sobria “Due concittadini sulle strade d’Italia. Sostegno popolare all’impresa sportiva”. Non fu facile raggiungere una discreta somma ma con l’aiuto di tante persone di buon cuore e con la benedizione di Don Luigi, “l’ardita impresa” poté contare su quasi trecento mila lire che per l’epoca non erano tantissime ma nemmeno una cifra disprezzabile.
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Terminati gli ultimi preparativi, recuperate due tenute da ciclista d’antan che il negozio di articoli sportivi, caccia e pesca del commendator Rutigliani teneva in cantina, l’allampanato Treossi e l’esile Roncolino decisero di iniziare il viaggio con un giro tra i paesi limitrofi per far conoscere se stessi e soprattutto l’onerosa e impegnativa avventura alla quale, baldanzosamente, si apprestavano. Ne avrebbero approfittato anche per qualche bevuta d’incoraggiamento.La signora Rosa,titolare della merceria sulla piazza,ciondolò il capo con aria sconsolata:“Oh, cara Madonna; se iniziano così più che partire finiranno piegati sulle gambe, vedrete..”. Roncolino e Treossi in quanto a ciucche dure e perse erano dei veri intenditori e conoscevano bene l’ebbrezza, quella sensazione d’instabilità, di tremore alle gambe e giramento di testa che dà il vino delle osterie quando si alza troppo il gomito. Capitava abbastanza spesso di sentirli raccontare di quando, per esaudire un voto dopo un lungo ricovero in ospedale di Roncolino, erano saliti alla chiesetta della Madonna della Neve, sul sentiero che dalle ultime case del paese s’inerpica sul monte. Doveva essere una toccata e fuga, giusto il tempo di un padrenostro per poi ridiscendere in città e invece erano stati via tre giorni e due notti. Lo stesso Don Luigi, passate le prime ventiquattrore, ne aveva denunciato la scomparsa ai carabinieri, temendo il peggio. Le ricerche durarono quasi due giorni, battendo palmo a palmo i boschi della zona quando, per scrupolo, la squadra di volontari guidata dal sacrestano Sisto li aveva scovati in una cascina, ubriachi come una botte, intenti a ronfare come due locomotive a vapore. Si erano scolati tre bottiglioni di quel vinello asprigno,ottenuto dalla spremitura dell’uva americana di Costante del Brich. Quest’ultimo li teneva nascosti nel sottotetto del fienile, da anni in disuso dopo aver vendute le sue due vacche a un allevatore di un paese vicino. Limitandosi a fare la vita del pensionato, si recava di tanto in tanto a meditare nella vecchia stalla, accompagnando i pensieri con qualche bicchiere. Aver confidato quel piccolo e innocente segreto al Treossi gli costò il prosciugamento della riserva di “carburante”. A risvegliare i due, in quell’occasione ci pensò il sacrestano con un bel secchio d’acqua in testa , gelida come la mano di un morto, e una randellata ciascuno sulla schiena, di quelle che lasciano i lividi per un bel po’. Dunque, come si diceva, di stravizi e libagioni lo spilungone e il mingherlino se ne intendevano.
Caricato a dovere il triciclo, eseguiti gli scatti di rito alla partenza secondo i desideri di Franchino che teneva molto ad esibire le sue qualità nel fissare gli eventi sulla pellicola in formato 6×6 della sua fotocamera Rolleiflex, partirono. Dal piccolo pubblico formato da conoscenti e curiosi partì un applauso e i due, visibilmente commossi, ricambiarono con ampi sorrisi.
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L’accordo prevedeva che ai pedali si sarebbero alternati e il primo turno toccò a Gilberto che, in fase di spinta, mise in mostra una bella pedalata rotonda.Dopo qualche centinaio di metri, lasciatesi alle spalle le ultime case del borgo, puntarono l’erede del velocipede verso la prima osteria. La “tappa” era motivata dal bisogno di farsi, prima del viaggio, uno o due bicchieri da Gino, all’osteria dei Passeggeri. “Non si può partire a stomaco vuoto, no?!”, affermò Treossi con un’aria sorniona, aumentando il ritmo. Evidentemente i bicchieri furono ben di più di quelli pronosticati e bastò un rapido sguardo per capire in che stato erano i due all’uscita dall’osteria. Sostenendosi uno con l’altro, malfermi sulle gambe e in precario equilibrio, s’appollaiarono sul triciclo e con qualche difficoltà si rimisero in cammino. L’intenzione dei “gemelli del litro”, prima d’intraprendere la loro avventura ciclistica, era di compiere una sorta di via crucis delle osterie, con partenza da Gino per poi visitare, a seguire, tutti i ritrovi canonici. Le papille gustative e l’olfatto erano da sempre la loro bussola. Così, alternando il vino ai piatti tipici ( “se non si mette qualcosa sotto i denti, viene il brucior di stomaco”, teorizzò Roncolino) lasciarono evidenti tracce del loro passaggio alla Casa del Popolo (barbera e salame affettato), all’omonima istituzione del paese vicino (ancora barbera ma con bruschette e sottaceti), alla Società operaia( dolcetto d’Alba e trippa in umido), nei circoli del Gallo, degli Imbianchini e di San Carlo ( barbera nei primi due, Fara e un goccio di Gemme nel terzo, accompagnati da salumi e formaggi). Passato il ponte sul fiume,nei pressi della vecchia ciminiera del cotonificio, parcheggiarono il triciclo accanto al muro di cinta, entrando con passo sempre più incerto al Dopolavoro dei ferrovieri, una sorta di “cima Coppi” del loro giro alcolico. All’uscita, i due professionisti del mezzolitro, traballanti e insicuri, inforcarono il tre ruote e sbandando pericolosamente a destra e sinistra, sparirono in direzione della provinciale. Gli abitanti del paese non tardarono molto ad avere loro notizie. Per l’esattezza il giorno dopo la partenza, a meno di una decina di chilometri dall’ultima sosta al Dopolavoro, furono trovati in fondo a un fosso da un metronotte che aveva finito il suo turno di lavoro. Completamente ubriachi, erano usciti di strada e solo l’erba alta e la poca profondità della roggia in secca avevano ridotto al minimo i possibili danni della caduta. I più pensarono che comunque, nella malaugurata ipotesi che fossero finiti nel lago, non avrebbero corso il rischio di affogare per la semplice ragione che erano tanto “pieni” che nei loro corpi non ci sarebbe stato posto neppure per una goccia in più. Soprattutto se , conoscendoli bene, si fosse trattato – vade retro Satana – di quel liquido inodore, insapore e incolore chiamato acqua.Finì così l’avventura di Gilberto e Roncolino che, a parte il denaro speso in libagioni, dovettero restituire quanto avevano in tasca a Don Luigi che si affrettò a versarlo nelle esangui casse della parrocchia, accompagnando l’obolo con tre Avemarie e due Paternostri. Ripresisi dagli eccessi alcolici e dai postumi dei brutti mal di testa, Treossi e Ronconi tornarono a frequentare la biblioteca dell’oratorio ma abbandonarono la lettura dei romanzi di Verne. Avevano scoperto un altro autore interessante, un tal Emilio Salgari che narrava di corsari delle Antille e delle Bermuda, pirati della Malesia e avventure ai quattro angoli dal mondo. Chissà se ne trassero qualche spunto in seguito. Noi non lo sappiamo e a essere del tutto sinceri non lo vogliamo nemmeno sapere.
Marco Travaglini
TORINO OVER
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, 65 sono gli anni quando si diventa anziani.
Un’altra metodologia utilizzata per parlare delle diverse fasi dell’anzianità è stata la suddivisione in quattro sottogruppi, “giovani anziani” (persone tra i 64 e i 74 anni), anziani (75 – 84 anni), “grandi vecchi” (85 – 99 anni) e centenari
Ma sono convinta che siano fattori molto individuali, ci si può sentire vecchi superati i 40 anni , mentre ci sono ottantenni che
potrebbero competere con dei 30enni per energia e determinazione.
Ma per evitare queste suddivisioni più scientifiche che reali noi tratteremo tutti come over indipendentemente dallo spirito di ognuno di voi…
Ci sono però delle soglie di età per ottenere alcuni vantaggi.
Ad esempio esenzione ticket sanitario si ottiene al superamento del 65esino anno di età e un reddito familiare non superiore ai €36.151.98 annui , con una semplice autocertificazione presso l’ ASL o online sul sito Tu Salute Piemonte si può richiede il codice di esenzione E01.
Anche per ottenere vantaggi sui mezzI di trasporto con Gtt la soglia è 65 anni e quattro fascie in base al reddito
Annuale “Over A” – Gratuito (spese pratica € 3,00) in possesso di certificazione ISEE valida non superiore a € 7.000,00.
Annuale “Over B” – € 118,00
In possesso di certificazione ISEE valida compresa tra € 7.000,01 e € 12.000,00.
Annuale “Over C” – € 155,00
ISEE valida compresa tra € 12.000,01 e € 20.000,00.
Annuale “Over D” – € 188,00
in possesso di certificazione ISEE valida compresa tra € 20.000,01 e € 50.000,00
Gli abbonamenti validi sulla rete urbana di Torino per un anno dal mese di rilascio sono caricati sulla carta Bit con microchip , così come è possibile richiedere l’abbonamento Over 65 mensile al costo di € 20,00 con isee entro i € 50.000.
GABRIELLA DAGHERO
“Settembre è il mese del ripensamento sugli anni e sull’ età, dopo l’ estate porta il dono usato della perplessità, della perplessità… Ti siedi e pensi e ricominci il gioco della tua identità,
come scintille brucian nel tuo fuoco le possibilità, le possibilità…”
Così descrive Francesco Guccini il mese della ripresa della riorganizzazione… e noi non saremo da meno, pronti ad archiviare le vacanze o pausa forzata con caldo, rumore , zanzare ora il ritmo delle giornate siamo pronti a gestirlo noi con i nostri interessi e curiosità. Per i più attenti è ora di pianificare la stagione culturale andando a ricercare nei cartelloni gli spettacoli che non si vogliano perdere, prenotando per garantirsi i posti migliori.
Per chi è rientrato in città ed ha voglia di ripartire le offerte per viaggiare non mancano , così come le occasioni per inventarsi un riempitempo per rendersi utile con il volontariato, ma una cosa che certo occorre fare è una bella pulizia della dispensa e una bella spesa, a questo proposito andiamo a caccia di offerte non solo confrontando on line volantini dei negozi più comodi ma vi segnalo alcuni supermercati che praticano sconti agli over.
Tutti i giorni da Borello Supermercati uno sconto del 5% se hai superato i 65 anni sottoscrivendo una tesserina gratuita.
Mentre nei supermercati Carrefour che sia super market o express lo sconto è del 10% ma solo il mercoledì, anche qui è richiesta la tessera,ma basta aver compiuto 60 anni.
Imperdibile poi la passeggiata quotidiana al mercato rionale, che oltre alle sicure offerte di prodotti a km 0 con l’effetto camminata aiuta a combattere la sedentarietà.
GABRIELLA DAGHERO
Un secondo fresco e sempre adatto
Una preparazione semplice e sfiziosa che potete personalizzare secondo i vostri gusti per un piatto sempre diverso.
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Ingredienti:
3 grosse patate
1 scatoletta di tonno sott’olio
4 cucchiai di maionese
1 limone
1 pizzico di curcuma (facoltativo)
1 fetta spessa di prosciutto di Praga
Sale, pepe, prezzemolo o basilico
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Pelare le patate, tagliarle a bastoncini e cuocerle a vapore.
Frullare il tonno, mescolare alla maionese, aggiungere il succo del limone, il sale, il pepe, e la curcuma. Tagliare a listarelle il prosciutto privato dell’eventuale grasso, unirlo alle patate, aggiungere la salsa tonnata ed il prezzemolo. Mescolare con cura. Servire freddo guarnito con fette di limone.
Paperita Patty
Torino e la Scuola
“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
Le riforme e la scuola: strade parallele
Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata dalla Rai
Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino
Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour
UniTo: quando interrogavano Calvino
Anche gli artisti studiano: l’equipollenza Albertina
7 Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino
C’era una volta una ragazzina che aveva capito che cosa le sarebbe piaciuto fare da grande. Un giorno la piccola tornò da scuola e disse ai genitori: “io voglio andare al liceo artistico!”, ma i due adulti presero la sua affermazione come una barzelletta, si misero a ridere e replicarono: “tanto tu andrai al classico”. Una storia breve, triste e autobiografica.
Difficile, se non impossibile, per me è scrivere questo articolo mantenendomi “narratore esterno”, senza raccontare della mia personale esperienza “giobertina” e senza ricordare gli aneddoti di quegli anni che, come mi è già capitato di dire, si vuole che passino in fretta mentre li si vive e li si rimpiange quando poi sono trascorsi.
Del “mio” Gioberti (ho conseguito la maturità classica nel 2009) ricordo le aule prive di LIM, odorose di gessetto da lavagna, rammento le pareti smunte, sulle tinte dell’ocra, i banchi rettangolari dotati di sottobanco, ossia quegli spazi perennemente ricolmi di fogli piegati, di carta delle merendine, di bigliettini dimenticati che mamma mia se fossero caduti all’improvviso! E poi l’armadio di classe, strabordante dei libri che non sempre riportavamo a casa e i grandi finestroni che si affacciavano sul cortile quadrato, che dall’alto mi ricordava quello di una prigione e ancora i lunghi corridoi e i caffè presi sul suono della campanella. “E”, “e”, “e” tante congiunzioni per un’infinità di momenti che non so se posso descrivere così apertamente.
Ma continuiamo con la storia della ragazzina inascoltata. La sventurata non rispose alla replica di mamma e papà, perché a tredici anni non è facile né essere presi sul serio, né rendersi conto di quanto sia importante la scelta della scuola superiore. L’ignara ragazzina obiettò che almeno voleva scegliere in quale liceo classico si sarebbe iscritta e, dopo qualche litigata, riuscì ad avere la meglio almeno su questo punto. Dopo un’attenta analisi di mercato l’inconsapevole tredicenne si convinse che il Gioberti sarebbe stata la sua opzione definitiva: scuola “politicizzata”, di fronte all’Università e le leggende che lo definivano “il più leggero tra i classici”, in cui si facevano autogestioni e manifestazioni a non finire. Così alla domanda: “Allora hai scelto il Gioberti?”, “la sventurata rispose”, e disse “si”.
Il liceo Gioberti è una delle più antiche istituzioni scolastiche presenti a Torino, la storia della scuola si intreccia non solo con quella del capoluogo piemontese ma anche con le trasformazioni politiche, sociali e legislative del Regno d’Italia. L’istituto nasce grazie alla politica sull’istruzione pubblica che prevede l’apertura di Ginnasi e Licei “governativi” o “regi”.
Per essere più precisi è utile ricordare la Legge Casati, che, nel 1859, codifica l’educazione umanistica in due successivi e distinti corsi di studi: il Ginnasio, corso inferiore della durata di cinque anni, detto di “Grammatica”, ed il Liceo, ossia un corso superiore triennale detto di “Filosofia”. Il 4 marzo 1865, sotto il Ministero Lamarmora, viene pubblicato il Regio Decreto n°229, con tale documento vengono istituiti i primi sessantotto licei classici del Regno d’Italia e ad ognuno di essi è assegnato il nome di un grande personaggio italiano. Tra questi sessantotto istituti compaiono il Liceo Cavour e il Liceo Gioberti, la cui denominazione celebra due eminenti protagonisti della nostra storia.
Le cose non accadono mai per caso: lo “spaventoso” Liceo Cavour nasce (almeno come titolazione) in contemporanea al Liceo Gioberti, un po’ come i “Sith” di Guerre Stellari che sono sempre in due. La nascita dei Licei di Stato risponde al desiderio di favorire una convergenza di intellettuali intorno al nuovo Regno italiano; a sostegno di tale intento è anche istituita una “Festa Letteraria” da tenersi annualmente ogni 17 di marzo in tutti i Licei del Regno, con il nome di “Solennità Commemorativa degli illustri Scrittori e Pensatori Italiani.”
Una festa antica, forse col tempo caduta in disuso, almeno, da che ne so io, il 17 marzo noi “giobertini” non abbiamo mai festeggiato nulla, anzi, non ricordo che le feste fossero ammesse a scuola: comportano inutile dispersione d’energia e sottraggono tempo utile ai compiti in classe!
È opportuno precisare che le due istituzioni scolastiche prese in esame in realtà esistono già anche prima del 1865, ma sono conosciute con un altro nome. Il Liceo Gioberti è in origine il Regio Collegio di San Francesco da Paola, con sede nel complesso conventuale dei Frati Minimi, edificato a partire dal 1627 in Contrada Po, grazie alle ingenti donazioni di Maria Cristina di Borbone-Francia, (moglie di Vittorio Amedeo I di Savoia), e diretto a partire dal 1821 dai Gesuiti. Il Cavour, invece, in origine conosciuto come Collegio dei Nobili, è un’istituzione risalente al XVI secolo un tempo situato presso il convento del Carmine. Tra i licei, secondo quanto riportato nei documenti storici, il Gioberti è sempre stato l’istituto più frequentato. Chissà se tale moltitudine di scolari ha commesso un “errore di valutazione” simile a quello iniziale della ragazzina? E chissà quanti ignari studenti ancora si lasceranno ingannare dalle malelingue, iscrivendosi ad una scuola che per anni -proprio quelli in cui l’ho frequentata io- è stata considerata pari al Liceo Cavour, emblema assoluto della severità e del rigore?
Vorrei altresì ricordare, prima di proseguire con la storia della nostra fanciulla, che nel 1969, proprio il Liceo Gioberti, è stato sede della prima “Commissione Fabbriche” mai costituita in una scuola superiore italiana, anche citata nel film “Vento dell’est” di Jean-Luc Godard.
Torniamo a noi. La ragazza ben presto si rese conto che quella scuola non le calzava proprio a pennello, ma era anche evidente che non le sarebbe stato permesso cambiare corso di studi, quindi era meglio rimboccarsi le maniche e tapparsi il naso. “Tyche” venne in soccorso della studentessa e la inserì nel miglior gruppo classe che avrebbe mai avuto anche in futuro. I compagni erano proprio quelli “giusti” per affrontare quell’avventura. Con il tempo l’amicizia e la complicità limarono gli sforzi dello studio e le risate sommesse – mai durante l’ora di greco- resero la prova sopportabile. Ma voi che siete lettori curiosi vorrete sapere qualche dettaglio in più. Da narratore onnisciente posso dirvi che c’era un’insegnate temutissima, che si mostrò per la primissima volta a noi studenti durante un intervallo, asserendo che già tutti dovevano sapere chi fosse e che il giorno dopo si sarebbero corretti i compiti delle vacanze. Va da sé che in quelle ore di lezione a stento si respirava. Vi era poi un’altra docente, tanto preparata ma non sempre precisa, che alla lavagna era solita scrivere “parola importante” anziché il termine o il nome che sarebbe stato meglio ricordare. Vi posso dire che alla spocchia del primo anno corrisposero altre interrogazioni svoltesi in clima più disteso, addirittura mangiando caramelle e “chupa-chups” oppure versioni così commentate: “bella storia ma non è quella che c’è scritta qui”.
Vi posso raccontare di un “maiale volante” appeso al soffitto, comprato grazie ad una colletta di classe proprio come “mascotte” porta fortuna. E quanto ci sarebbe ancora da dire. Quanti pianti fece la mattina la ragazzina mentre andava a scuola, quante notti passò a studiare per poi prendere talvolta solo delle misere sufficienze, quante sconfitte ma anche quante vittorie. E quante rinunce: inconciliabile con l’intensità dello studio la scuola di danza, che ha dovuto lasciare proprio quando stava imparando a ballare sulle punte. Le scarpette rosa rimasero un ricordo riposto in solaio.
Ma noi abbiamo anche un altro discorso da portare avanti, quello degli storici studenti torinesi: tra i tanti coraggiosi che affrontarono i temibili professori del Gioberti (allora Ginnasio San Francesco da Paola di Torino) ci fu niente meno che Giovanni Giolitti (1842-1928), il grande politico italiano, più volte Presidente del Consiglio dei Ministri.
Nel 1901, Vittorio Emanuele III affida l’incarico di formare il governo a Giuseppe Zanardelli, uno dei principali esponenti della Sinistra; nel 1903 Zanardelli, dopo aver concesso un’amnistia ai condannati politici e aver ristabilito una libertà di associazione, seppur limitata, si ritira dall’incarico a causa di una malattia. Nello stesso anno viene chiamato a capo del governo Giovanni Giolitti, ministro dell’interno; egli tiene la carica per quasi dieci anni, periodo comunemente definito “età giolittiana”. Giolitti, liberale ed esponente della Sinistra Costituzionale, si preoccupa di unire gli interessi dei proletari con quelli dei borghesi e degli operai, a tal proposito si dimostra abilissimo nel riuscire a trovare un neutrale equilibrio tra le varie forze in gioco, infatti da una parte favorisce l’industria e dall’altra promuove la legislazione sociale. Giolitti sostiene che lo Stato deve essere “super partes” rispetto agli interessi delle varie fazioni. Non a caso si può definire la parentesi giolittiana democratica e liberale. L’intelligente perizia politica, nonché la dirittura morale, dello statista è testimoniata anche dall’ampio spazio che egli concede alla libertà di sciopero e dal modo in cui riesce a mantenere l’ordine pubblico durante le varie manifestazioni, in modo perentorio e vigilato, ma sempre evitando repressioni violente.
Nel corso del decennio dell’”età giolittiana”, egli perfeziona la legislazione in favore dei lavoratori più anziani e degli invalidi, emana nuove norme sul lavoro per le donne e per i lavoratori giovanissimi, inoltre estende l’obbligo dell’istruzione elementare fino al dodicesimo anno d’età. Giolitti favorisce poi l’attuazione di migliori retribuzioni stipendiarie, accrescendo così le possibilità di acquisto delle classi lavoratrici. Da ricordare anche gli interventi nel campo sanitario, come la distribuzione gratuita del chinino contro la malaria, e l’intenso programma di lavori pubblici, che comporta la nazionalizzazione della rete ferroviaria. Uno dei provvedimenti più importanti del governo Giolitti è l’estensione del diritto di voto: secondo la nuova legge del 1912 vengono ammessi al voto tutti i cittadini di sesso maschile purché abbiano compiuto 21 anni, se in grado di leggere e scrivere e con servizio militare svolto, o 30 anni, se analfabeti e non chiamati sotto le armi. Il numero degli elettori sale così da tre milioni e mezzo a otto milioni e mezzo su un totale di 36 milioni di persone.
Mi sento di poter dire che forse un po’ dell’integrità d’animo di Giolitti derivò sicuramente dai suoi studi liceali, anche se non fu proprio uno scolaro modello, come racconta egli stesso.
Ho voluto un po’ ironizzare in questo articolo che più di altri sento “mio”, ma ora siamo seri: la formazione che ho ricevuto è senza dubbio impareggiabile, quegli anni di duro lavoro, di sforzi e di rinunce e di crescita intellettuale mi hanno aiutato ad affrontare le prove successive e mi hanno effettivamente dato quella “formazione classica che apre tutte le porte”.
Com’è finita la storia della ragazzina? Beh ora la fanciulla (è ormai chiaro che sto parlando di me) è cresciuta, ha realizzato il suo sogno di frequentare l’Accademia di Belle Arti e ricorda un po’ in filigrana i bei momenti passati, quelli che l’hanno aiutata a superare le difficoltà che all’epoca sembravano così insormontabili. La ragazza ancora pensa a quel laboratorio liceale pomeridiano che l’ha portata a fare teatro di strada a Mentone e che in un qualche modo l’ha supportata nella scelta del percorso universitario. Pensa alla cara insegnante di educazione fisica che dirigeva il corso, che spesso sul palco la prendeva in braccio e la faceva volare come “Il Gabbiano Jonathan Livingston” di Richard Bach. Il “mio” Gioberti è sempre lì, in centro, con le pareti tappezzate di manifesti politici rattrappiti dall’umidità, e ora ammetto che l’unico modo che ho trovato per superare i miei traumi adolescenziali è stato quello di intraprendere, a mia volta, la bella carriera di insegnante.
Alessia Cagnotto
Da proporre come aperitivo chic o antipasto raffinato fresco e colorato servito in piccoli bicchieri monoporzione
Le pesche, fresche, succose e profumate possono dare origine a tante gustose preparazioni sia dolci che salate. La ricetta della settimana e’ semplicissima e velocissima, gli ingredienti sono tutti crudi, un’idea sfiziosa ed originale da proporre come aperitivo chic o antipasto raffinato fresco e colorato servito in piccoli bicchieri monoporzione.
Una valida alternativa al classico prosciutto e melone.
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Ingredienti per 8 bicchierini:
2 pesche noce
8 fette di prosciutto crudo dolce
100gr. di formaggio Feta o Quartirolo
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Lavare le pesche, asciugarle e tagliarle in 4 spicchi. Tagliare il formaggio a cubetti. Sistemare in ogni bicchierino una fetta di prosciutto crudo, guarnire con i cubetti di formaggio e lo spicchio di pesca. Detto, fatto.
Paperita Patty