Torino tra le righe

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“Ragioniere, buongiorno. Anche oggi, il solito?”. Così lo salutava ogni mattina, dal lunedì al sabato, il signor Alfredo. All’anagrafe Alfredo Tichetti, di professione bigliettaio addetto allo scalo della Navigazione Lago Maggiore, in servizio all’imbarcadero di Baveno.
E il “solito” non era una consumazione al bar ma semplicemente il biglietto del battello che da Baveno lo portava in giro per il lago. A volte verso Intra dove, dopo gli scali all’Isola Madre, a Pallanza e a Villa Taranto ( ma solo d’estate), aveva a disposizione un quarto d’ora scarso per imbarcarsi sul traghetto che faceva la spola con Laveno, sulla sponda lombarda del Verbano. A volte verso le isole Pescatori e Bella, Stresa, Santa Caterina del Sasso e la parte bassa del Maggiore, verso Angera e Arona. Il ragioniere era Teobaldo Lucciconi di anni sessantasei, celibe. Per quelli che lo conoscevano era semplicemente “il ragioniere”, tant’è che il suo nome non lo usava più nessuno e, se non fosse scritto sui registri del municipio, avrebbe potuto anche pensare di cancellarlo. Lucciconi era stato ragioniere contabile, impiegato alla filiale bavenese della Banca d’Intra al n. 5 di corso Giuseppe Garibaldi, a pochi passi dal piazzale dell’imbarcadero e dei moli d’attracco dei battelli e dei motoscafi. Aveva passato più di trent’anni dietro a quello sportello, intento a contare i soldi degli altri, a darne e riceverne. In tutto quel tempo gli sono passati davanti agli occhi i fatti privati e pubblici, le gioie e le tristezze di diverse generazioni. Altro che il confessionale del prete, su alla parrocchiale! Era in banca che ci si scambiava un saluto e si ricevevano confidenze, dovendo anche dare – se richiesto – qualche utile consiglio. Ma giunto al tempo della pensione, non ci pensò un minuto di troppo. Si levò le mezze maniche e, sempre con garbo (il che non guasta mai), salutò tutti e se ne andò senza rimorsi. Non che stesse male, anzi: aveva degli amici sinceri lì, e in fondo era stata la sua famiglia per tanto tempo. Vivendo da solo si era affezionato a quell’ambiente ma, come in tutte le cose, cercava di non vivere di ricordi e malinconie. Così aveva pensato che, dopo tanti anni passati tra casa e ufficio, ufficio e casa, era venuto il momento di prendere un poco d’aria fresca, guardandosi intorno. E sul lago di cose da vedere ce n’erano davvero tante. Così, a volte a piedi e altre utilizzando i mezzi pubblici (dal treno alla corriera passando, ovviamente, dal battello), iniziò a girare i paesi del lago su entrambe le sponde, la piemontese e la lombarda senza tralasciare la parte più a nord, in territorio elvetico, dedicandosi a frequentare le amicizie e a ripercorrere, con la memoria, le tante storie dei tipi originali con cui ha avuto a che fare. E vi possiamo assicurare che sono tanti che nemmeno vi immaginate. Ma soprattutto ebbe occasione e tempo per riscorire Baveno e le sue frazioni. ” Ma guarda tu”, pensava “E chi l’avrebbe mai detto che vivevo in un posto così bello e non ci avevo quasi mai fatto caso”. Era una delle sue riflessioni ricorrenti da quando era andato in pensione. Per tanti, troppi anni era stato “preso” dal lavoro e non alzava quasi mai lo sguardo sopra lo sportello. Arrivava in banca al mattino presto, portandosi da casa la “schisceta”. Eh, sì. Voi come la chiamate? Baracchino, pietanziera, gamelin, gavetta, gamella? Da noi quella pentolina di metallo a strati, con un coperchio ben chiuso per evitare perdite, indispensabile per scaldare su un termosifone un poco di pasta avanzata del giorno prima, una minestra di verdura o una fetta di carne, era la schisceta. Del resto da single, come si usa dire al giorno d’oggi, cosa andava a casa a fare? Non aveva nessuno ad aspettarlo o che cucinasse per lui e allora gli avanzi della sera prima erano più che sufficienti per mettere insieme un pasto economico da consumare sul posto di lavoro. Usciva di casa che era buio e ritornava a sera inoltrata perché spesso si fermava a dare una mano al direttore nel disbrigo dei conti e delle chiusure di cassa. Eh, un tempo non si guardava mica l’orologio. Prima il lavoro, poi il lavoro e poi ancora la famiglia. E lui che era praticamente tutta la sua famiglia quando andava a casa si fermava qualche minuto ad accarezzare il gatto della signora Maria, la vecchia lavandaia che abitava in cima a quel rione che chiamavano “il baeton”. Si faceva accarezzare perché gli dava sempre qualche pelle di salame, crosta di formaggio e cotiche avanzate. Il Tigre (si chiamava così per il pelo rosso striato di grigio e non certo per il carattere intraprendente visto che stava sempre sdraiato al sole, sullo zerbino di casa, a ronfare) manifestava la sua riconoscenza sfregandosi alle gambe con un sonoro ron-ron. Le giornate del ragioniere scorrevano così, senza troppe emozioni e senza andar di fretta. Poteva permetterselo, facendo una vita tanto regolare da far invidia a un orologiaio svizzero. Ogni giorno gli capitava di veder gente correre qua e là, sempre indaffarata, quasi avessero addosso tutti l’argento vivo. E lui? Niente. Si era guadagnato il diritto alla flemma. Gli capitava, come accade a tutti, qualche episodio dove la frenesia prendeva il sopravvento e bisognava darsi da fare ma erano, per fortuna, momenti piuttosto rari. Così, pur non mancando ai suoi doveri, cercava di tenere un passo che fosse, come dire, il più lento e ragionato possibile. E, bene o male, ci riusciva. Al Circolo Operaio bavenese ci andava soprattutto il lunedì mattina, giorno di mercato, dopo aver bighellonato tra le bancarelle. Gli piaceva quel brulicare di persone che chiacchieravano e contrattavano le merci esposte con un vociare che metteva allegria. Quando c’erano i turisti, dalla tarda primavera alla fine dell’estate, era una vera e propria babele di lingue. Sarà stato perché pativa la solitudine o perché gli piaceva iniziare una nuova settimana con un poco di movimento dopo l’ozio domenicale, ma far due passi al mercato era proprio divertente. Non che ci andasse per comprare qualcosa. Gli capitava raramente e solo per alcuni capi di vestiario. Per i generi alimentari andava in uno dei due piccoli supermercati.
Anzi, per non far torto a nessuno, stava ben attento a fare la spesa sia in uno che nell’altro. Così, pensava, nessuno ne avrà a male. Tanto più che al giorno d’oggi i prezzi sono più o meno uguali e anche la qualità non si discosta di molto. Ma, compere a parte, il mercato lo metteva di buon umore. Confessava che rimpiangeva quando era in centro, occupando la piazzetta tra le scuole elementari, il retro del municipio e pure la via principale che costeggiava la scalinata della chiesa. In seguito, per non intralciare il traffico e agevolare la viabilità, venne spostato sul viale del ponte che attraversava il torrente Selvaspessa tra Baveno e Oltrefiume, piò meno all’altezza del punto dove in passato c’era la vecchia passerella. Era sì più funzionale al traffico ma anche più decentrato e, quindi, un po’ più scomodo. Comunque, ora che era in pensione, quella passeggiata era piacevole e, terminato il giro verso le dieci e mezza, si avviava pigramente alla volta del Circolo. Passava sotto il ponte della ferrovia, svoltando a destra sul viale alberato e scendeva a fianco della stazione ferroviaria proprio davanti all’entrata dell’imponente Casa del Popolo. Fuori, nella bella stagione, c’era sempre qualcuno che si sfidava sui campi da bocce, mentre gli altri avventori si dividevano tra coloro che sbirciavano la partita, leggevano il giornale commentando i fatti del paese o si lasciavano prendere la mano dal turbinio delle carte da ramino o da scopa. E lui, il ragioniere, dopo aver chiesto un bicchiere di spuma o, più raramente, una cedrata, rispondeva di buon grado ai quesiti di natura finanziaria che gli venivano posti. Del resto, come gli aveva detto il cavalier Borloni dandogli una pacca sulla schiena, anche se a riposo “si è sempre ragionieri, no?”.
Marco Travaglini
RUBRICA SETTIMANALE A CURA DI LAURA GORIA
Colm Tóibín “Long Island” -Einaudi- euro 20,00
Il grande scrittore irlandese 69enne ci affascina con questo romanzo dal finale incerto; sequel del precedente successo “Brooklyn” (2009), che aveva ispirato l’omonimo film adattato da Nick Hornby, interpretato da John Crowley e Saoirse Ronan.
Durante la pandemia Tóibín ha fantasticato su un possibile seguito, al quale ha lavorato al ritmo di 10 ore al giorno. Ed ecco questo bellissimo testo scritto con il suo rigoroso stile letterario. “Brooklyn” si era concluso con il ritorno in America della protagonista, Eilis Lacey, che si era recata nella natia Irlanda per la morte della sorella.
Ora sono trascorsi 20 anni, Eilis vive a Long Island con il marito Tony, i figli Larry e Rossella, ad un passo dalle villette di suoceri e cognati italoamericani; una piccola enclave fondata su legami di sangue e reciproco aiuto.
Il suo rassicurante ritmo di vita quotidiano viene infranto da uno sconosciuto che bussa alla porta e le ringhia contro. E’ il marito “cornuto” a casa del quale Tony aveva fatto dei lavori; poi però si era anche sollazzato con la padrona di casa e l’aveva pure messa incinta. L’uomo le annuncia che non ha nessuna intenzione di tenere il figlio del peccato e che lo scaricherà davanti alla porta di Eilis.
E’ la bomba che fa esplodere l’esistenza della protagonista e scava un baratro con il marito fedifrago e la famiglia di lui. Eilis è determinata a non voler crescere il futuro nascituro e non accetterà nemmeno che ad occuparsene sia la suocera. L’ultimatum è chiaro e inappellabile: se il bastardino entrerà in famiglia, lei ne uscirà definitivamente.
E, giusto perché l’aut aut sia ancora più esplicito, decide di partire per l’Irlanda portando con sé i figli; adduce come scusa il compleanno dell’ottuagenaria madre, ma ovviamente dietro c’è molto di più.
Il seguito narra il suo ritorno a Enniscorthy, dove l’ultima volta aveva avuto una relazione con Jim. Poi era ripartita senza dare spiegazioni per tornare dal marito.
Jim però non l’ha dimenticata; è rimasto single, dedito solo al suo pub. Solo ultimamente frequenta di nascosto Nancy (amica di Eilis); vedova e madre di due figli, che manda avanti una friggitoria, barcamenandosi tra mille difficoltà.
Un legame che viene messo in pericolo dal ritorno di Eilis….
Ursula Parrott “Ex wife” -Gramma Feltrinelli- euro 18,00
Ursula Parrot è lo pseudonimo della giornalista, scrittrice e sceneggiatrice Katherine Ursula Towle, (nata nel 1899, morta nel 1957). Ebbe una vita movimentata, con 4 matrimoni e svariate relazioni con personaggi di spicco dell’epoca, tra cui Francis Scott Fitzgerald. Morì stroncata da un tumore a 58 anni, in povertà e dimenticata da tutti.
Pubblicò questo romanzo nel 1929 riscuotendo notevole successo; ma anche suscitando un certo scandalo perché metteva in scena la storia di una difficile emancipazione femminile.
E’ ambientato a Manhattan negli Anni ’20, era del jazz e delle trasgressioni. Patricia e Peter si sposano nel 1924 e incarnano una giovane coppia che trascorre le serate tra balli, feste e alto tasso etilico. I due pattuiscono di dirsi sempre tutto.
5 anni dopo lei confessa la sbandata di una notte e Peter non la prende affatto bene. Nonostante lui abbia un’amante da anni, decide di mettere una pietra tombale sul matrimonio. Verdetto inappellabile che relega Patricia al triste ruolo di ex moglie.
L’autrice racconta con spietato acume i vari stati d’animo in cui sprofonda la donna, nello snervante turbinio tra speranza e disillusione; avviluppata dai consigli delle amiche, e pure da perfide pseudo-amiche che sputano veleno a palate e finiscono per confonderla. Ma è anche la difficile rimonta di una nuova Patricia che si mantiene da sola con il lavoro di copywriter e festeggia la ritrovata libertà e l’indipendenza.
Giorgio Biferali “A New York con Paul Auster” -Giulio Perrone Editore- euro 16,00
Prima di tutto un plauso all’editore Perrone per l’idea della collana “Passaggi di dogana” dedicata alle città viste attraverso gli occhi e le opere di grandi scrittori. I lettori vengono trascinati tra le vie e i punti di riferimento letterari scoprendo: Lisbona con Tabucchi, Buenos Aires con Borges e, ancora, tra le molte altre mete, la Costa Azzurra con Fitzgerald e l’Oriente con Terzani. Insomma una preziosa manna per i bibliofili.
Giorgio Biferali, nato a Roma nel 1988, scrittore e docente dell’Accademia Molly Bloom, ci accompagna nelle strade della Big Apple attraverso i libri di Auster. E rimpiange di essere arrivato a New York 10 giorni dopo la morte dello scrittore (nell’aprile dell’anno scorso); così il libro è anche la nostalgica storia di un appuntamento mancato.
Il volume dedicato alla New York di Auster non è un romanzo, non è un saggio e neppure una guida in senso classico; piuttosto è una piacevolissima traccia narrativa.
Ci avventuriamo tra citazioni, riferimenti culturali e passi dei romanzi del grande autore, immenso cantore della città unica al mondo. Da nord verso sud attraversiamo una New York inedita: di quartiere in quartiere, passando per parchi, strade e ponti, da scoprire con occhi nuovi.
Attraverso la letteratura, il cinema e le serie tv, avrete uno speciale ritratto della Big Apple.
Dalla Columbia nell’Upper West Side (dove Auster alloggiò nel dormitorio dell’Università), alla nuova Harlem, Manhattan, Soho e Queens; fino alla zona che forse gli somiglia più di tutte, Brooklyn, spesso tanto presente nelle sue opere.
Una New York meditata e svelata nelle sue molteplici sfaccettature: frenetica, rumorosa, umorale, affollata, emotiva, gentile, ma anche pericolosa. Questo è uno dei libri da mettere in valigia per il vostro prossimo viaggio nella città dalle mille luci e che non dorme mai.
A.K. Blakemore “L’insaziabile” -Fazi Editore- euro 18,50
L’autrice inglese, che aveva esordito con “Le streghe di Manningtree” (sulla caccia alle streghe nell’Inghilterra del XVII secolo), ora torna in libreria con questo secondo romanzo che narra l’avventura picaresca e grottesca di Tarare, ragazzo perennemente affamato.
Blakemore ha traslato in forma romanzesca una vicenda realmente accaduta nella Francia di fine Settecento. Quella del giovane diventato famoso per la sua sorprendente capacità di ingurgitare qualsiasi cosa, oggetti compresi.
E’ la storia di Tarare, ed è documentata. L’autrice ama scavare in epoche tramontate; poi mette in campo l’immaginazione e narra con la sua consueta scrittura elegante. Qui ricostruisce la breve, incredibile e dannata vita di Tarare, che lui stesso racconta alla giovane suora Perpetuè, rimasta al suo capezzale fino alla fine. Attratta -ma anche pervasa da repulsione- di fronte all’uomo-mostro.
Tarare, orfano di padre già alla nascita, vive un’infanzia derelitta con la madre prostituta (che l’ha addirittura costretto a seppellire la sorellina morta) e il patrigno contrabbandiere che tenta di ucciderlo con un’accetta. Il ragazzino riesce a fuggire e si unisce a un gruppo di girovaghi sbandati, che lo trasformano in fenomeno da baraccone.
Tarare diventa una sorta di essere ripugnante, malfatto e in preda a una fame smisurata, che è potente metafora della mancanza di amore. La sua è una spasmodica ricerca che ne determina la vita.
Si ingozza di qualsiasi cosa e in continuazione: tappi di sughero, cibo marcescente, frattaglie immonde e decomposte, animali vivi e carcasse di quelli morti, per toccare il fondo cibandosi del cadaverino di una bimba.
GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA
Martedì. Alla Suoneria di Settimo suonano gli Almamegretta. Al Blah Blah si esibisce John Lee Bird & Fabrizio Modenese Palumbo.
Mercoledì. Al teatro Colosseo è di scena Naska. Al Blah Blah suonano i Nightstalker.
Giovedì. Al Magazzino di Gilgamesh si esibisce Tad Robinson & The Ozdemirs feat Alberto Marsico. Allo Ziggy suonano i The Cloverheads+ Dirty Artichokes. Al Blah Blah sono di scena gli Helen Burns. Alla Divina Commedia suonano i Revenge. All’Osteria Rabezzana si esibisce il trio di Michael Rosen.
Venerdì. Al teatro Colosseo recital di Elio. Al Folk Club suona Fabio Treves & Alex Kid Gariazzo. Al Magazzino di Gilgamesh si esibisce The Mama Bluegrass Band. Allo Ziggy è di scena Sant’Elia. Allo Spazio 211 suonano i Clan Of Xymox+ Newdress. Al Blah Blah si esibiscono gli October Tide. Alla Divina Commedia sono di scena i Sucker Punch.
Sabato. Al Blah Blah suonano i Radar Men From The Moon. Allo Spazio 211 si esibisce Marta Del Grandi+ Giulia Impache. Alla Divina Commedia suonano i Momenti di Gloria.
Domenica. Al Blah Blah sono di scena i TH Da Freak + Corvida. Alla Divina Commedia suonano gli In The name of Blues.
Pier Luigi Fuggetta
Terza parte
Accettare e accettarci dunque, non come resa, ma come accoglienza profonda e consapevole di ciò che è successo e di ciò che siamo. Accogliere significa anche andare oltre il dolore, oltre il rammarico, oltre il rimpianto, oltre la rabbia e la tristezza per ciò che non è , che non è stato o che non è stato come avremmo voluto.
Significa trovare in noi, spesso con fatica, un perché, un motivo, una spiegazione agli accadimenti spiacevoli e dolorosi, e prendere da essi quanto di positivo ci sia possibile trovare: una lezione, un’esperienza, o la sensazione profonda del nostro valore di persone.
Se non riusciamo ad accettare e ad accettarci non ci sarà possibile utilizzare in qualche modo l’esperienza vissuta. Per quanto dolorosa essa possa essere stata, se saremo in grado di accoglierla avremo la straordinaria occasione di farne tesoro per il resto dei nostri giorni.
Molte sono state, sono e saranno le cose che nella nostra vita ci è stato, ci è e ci sarà impossibile cambiare. Molti gli aspetti che non ci piacciono in noi. Ci ostiniamo spesso, con una fatica degna del mitologico personaggio Sisifo, a cercare di modificarli, nell’impossibilità di accettarli.
Vogliamo inutilmente cambiare il nostro passato, le persone che stanno intorno a noi, soprattutto quelle che amiamo di più, o che pensiamo di amare. Vogliamo cambiare aspetti di noi e del nostro presente che in fondo sappiamo essere immodificabili.
Ci costringiamo talvolta a voler credere che tutto possa essere cambiato, sprecando enormi quantità di tempo e di energie, procurandoci un sacco di fastidi e di sofferenze, semplicemente perché non riusciamo a farcene una ragione e a prendere le cose così come sono e come vengono. Accettandole, appunto.
Roberto Tentoni
Coach AICP e Counsellor formatore e supervisore CNCP.
www.tentoni.it
Autore della rubrica settimanale de Il Torinese “STARE BENE CON NOI STESSI”.
(Fine della terza e ultima parte)
Potete trovare questi e altri argomenti dello stesso autore legati al benessere personale sulla Pagina Facebook Consapevolezza e Valore.
Fragole che passione! Offriamo a fine pasto ai nostri ospiti questo scenografico dolce delizioso e di semplice realizzazione
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Dosi per 4 persone:
½ Kg.di fragole
1 Banana
4/5 biscotti savoiardi
2 bicchierini di limoncello
200 ml di panna da montare
Crema pasticcera
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Sul fondo di una coppa in vetro trasparente mettere i savoiardi spezzettati bagnati con 1 bicchierino di limoncello (allungato con un bicchierino di acqua). Preparare una crema pasticcera con 3 tuorli, ½ litro di latte, 1 bustina di vanillina, 20gr. di farina, 60 gr.di zucchero e 1 bicchierino di limoncello. Lasciar raffreddare.
Tagliare le fragole ben pulite e la banana a fettine. Iniziare a decorare la circonferenza della coppa con le fette di fragole, quando terminato mettere le restanti fragole nella coppa livellando la superficie e procedere nello stesso modo con la banana.
Montare la panna con un poco di zucchero a velo.
Stendere sullo strato di banane la crema pasticcera raffreddata e completare con uno strato di panna montata. Decorare a piacere.
PaperitaPatty
La signora Erminia, un tempo, doveva esser stata senz’altro una gran bella donna. Si capiva dai lineamenti, fini e delicati, e da quegli occhi verdi-azzurri come l’acqua del lago in primavera: chissà quante teste avevano fatto girare e quanti cuori palpitarono per lei.
I capelli, bianchi come la neve e raccolti sulla nuca, le incorniciano l’ovale del volto. Com’era arrivata fin qua, sulle sponde del lago? Da quanto tempo viveva, sola con i suoi gatti, in questa bella casa di pietra a Ronco, all’ombra del campanile della chiesa di San Defendente? A queste nostre curiosità, espresse con il timore d’apparire indiscreti , una volta rispose, sorridendo: “Le domande non sono mai indiscrete. Talvolta possono esserle le risposte”. Da quel giorno non vi furono più domande e crebbe ancor più il rispetto per quella donna così gentile e ospitale. Ogni qualvolta si attraccava con la barca al molo di Ronco venivamo invitati a casa sua per una merenda con pane e formaggio, accompagnando il cibo con un buon bicchiere di vino rosso. D’inverno, dalla casseruola che teneva sulla stufa a legna, versava delle generose porzioni di brodo caldo nelle scodelle di ceramica, unendo dei crostini di pane raffermo sui quali aveva passato una testa d’aglio o spalmato ricotta fresca. Quella ricotta che, insieme al burro, la vecchia Onorina portava di casa in casa con la sua piccola gerla dopo aver percorso il ripido sentiero che dall’alpeggio scendeva fino alle case del paese. Una tradizione d’ospitalità che si stava perdendo. Solo qualche anziano manifestava, nei confronti dei viandanti del lago, gesti amichevoli e di conforto. Eppure, un tempo, s’usava offrire il brodo e il vino, quello aspro delle piccole vigne abbarbicate sul fianco delle colline, e anche l’aceto, versato generosamente nell’acqua fredda, in cui intingere una crosta di pane raffermo, duro come un sasso. A pochi passi dalla chiesa di San Defendente, un tempo invocato contro i flagelli dei lupi e gli incendi, abitava anche Libero Frezzini, meglio conosciuto come “lifroch”, cioè fannullone, una persona a detta di tutti ben poco seria. Frezzini, tra l’altro, non ci stava proprio con la testa. Alto,magro e dinoccolato era proprio un po’ tocco. Si vestiva sempre alla stessa maniera, estate e inverno, quasi non sentisse né il caldo né il freddo: giacca di fustagno marrone, ormai lisa sul bavero e sui gomiti; pantaloni scuri di velluto e una camicia a quadrettoni rossi e bianchi. Giovannino lo prendeva in giro: “ Libero, ma come ti sei vestito? Sembri una tovaglia ambulante, unta e bisunta. Dove l’hai fregata, quella camicia lì? Dalla cesta dei panni da lavare dell’osteria?”. Frezzini, carpentiere in una piccola impresa del posto,portava rispetto all’anziano pescatore. Anch’esso, e a modo suo, amava la pesca. Il più delle volte, raccontando le sue imprese, esagerava sulle misure e sul peso delle catture. Giovannino quando lo sentiva sproloquiare, indulgendo nelle sue vanterie impossibili, lo rimproverava: “Cala,cala Trinchetto. Non contar balle, Libero, che al massimo hai tirato fuori dall’acqua un paio di cavedani lunghi una spanna”. Lifroch a volte esagerava davvero, alzando la voce e Giovannino , guardandolo storto, doveva minacciarlo: “A ta dò un sgiafun che ta sbiruli la salamangè“. Che, tradotto da quel dialetto mezzo lombardo, equivaleva ad un “ti dò uno schiaffo da piegarti la mascella”. Un giorno l’aveva preso a calci nel sedere dopo aver scoperto, per caso, che quel balordo era andato a pescar persici nel periodo più proibito che ci sia: il tempo della riproduzione, tra aprile e maggio, quando i pesci depongono le uova. Evitando accuratamente di menzionare il fatto al Conegrina e al Carabiniere, cioè alla coppia di arcigni guardapesca, evitò al Frezzini la poco allegra prospettiva di finire al fresco, costretto a guardare il sole a quadretti , dietro alle sbarre del carcere più vicino. Era un reato, a quei tempi, che non si sanava solo con una multa in denaro ma anche con qualche giorno in gattabuia. Libero, tanto per accentuare la sua stranezza, si esprimeva anche a proverbi. Ne aveva per tutte le situazioni. S’era ingozzato come un maiale all’osteria, al punto da sentirsi male? Alle critiche rispondeva così: “ E’ meglio morire a pancia piena che a pancia vuota”. Aveva bevuto più del solito, alzando un po’ troppo il gomito e camminava sbandando? Si giustificava: “E’ sempre l’ultimo bicchiere a far male”. Teoria alquanto bislacca, a dire il vero. Ricordo di averlo incontrato mentre si recava al lavoro in vespa. C’era un buco nell’asfalto. Non lo vide in tempo, finendoci dentro con la ruota davanti, rischiando di capottarsi. Si rialzò tutto scorticato e dolorante. Prontamente accorso in suo soccorso capii immediatamente che era ubriaco. Evidentemente la sera prima doveva aver fatto bisboccia e si portava addosso una “scimmia” da far paura. Rialzatosi, intontito e acciaccato, mi ringraziò, confidandomi il suo malessere: “Ma sai che ieri sera ho bevuto un bicchiere di acqua tonica che mi è restata sullo stomaco? Non l’ho proprio digerita!”. L’acqua tonica, capito? Non i due o tre litri di rosso che si era scolato e per gli altri comuni mortali rappresentavano una dose da schiantare chiunque. Un altro bel personaggio era Mario Martellanti, detto “cavedano”. Non ricordo dove fosse nato ma era certo che dimorasse sul lago. Mario non amava sentire la terraferma sotto i piedi e, dunque, viveva in barca gran parte del tempo, stagioni permettendo. A fine primavera, durante l’estate e nella prima metà dell’autunno, praticamente non lasciava mai lo scafo della sua “Stella dell’onda”, imbarcazione che lo accompagnava da più di trent’anni nelle sue peregrinazioni lacustri. Quando le foglie ingiallite abbandonavano gli alberi , spargendosi a terra e l’inverno con il suo alito gelido prendeva il sopravvento, cercava di tener duro il più possibile, cedendo solo alla tormenta che scendeva dai contrafforti montuosi, sbarcando proprio a Ronco per cercare riparo nel cascinale dove teneva le sue magre cose. Se l’aria s’infreddoliva, non disperava. Teneva sempre a portata di mano, accanto alla tela cerata indispensabile per ripararsi dagli scrosci di pioggia, una ormai logora trapunta di lana. Non troppo ingombrante ma abbastanza grande da potervi avvolgere l’intero corpo, riparandosi dal freddo e dall’umidità. Sosteneva d’esserci nato, in barca. I genitori, entrambi defunti, avevano passato tutta l’intera vita sull’Isola di San Giulio. Il padre Giovanni, nativo di Ronco, era custode della Villa dei Glicini. La madre Elsa, si era rotta la schiena nel far le pulizie in uno dei più antichi alberghi del posto, la “Locanda del Drago”. Mario, scapolo impenitente, sosteneva d’essersi sposato con il lago. “Sono più di sessant’anni che ho preso in moglie quest’acqua cangiante;ci conosciamo e rispettiamo, e non ci lamentiamo mai, sopportando a vicenda i nostri sbalzi d’umore”, confidava agli amici più stretti. Ormai anziano, continuava a vogare da una sponda all’altra o, più semplicemente, seguendo il margine delle rive nel suo perenne cabotaggio. Anche se, in cuor suo, custodiva un segreto che talvolta lasciava intuire. La luce di quegli occhi verdi-azzurri della signora Erminia l’avevano stregato. Non l’avrebbe mai ammesso, e nemmeno confidato alla bella donna dai capelli bianchi. Era il piccolo suo segreto. Quei mazzetti di primule e viole lasciati vicino all’uscio o i funghi e la frutta appena raccolti, i persici pescati e già puliti che Erminia trovava sul davanzale di pietra della finestra, erano doni che non lasciavano troppi dubbi sul misterioso benefattore. Eminia intuiva e apprezzava, elargendo sorrisi, cibo e buon vino anche a Mario. In fondo affetto e gratitudine si possono esprimere in tanti modi e le parole, a volte, sono davvero superflue.
Marco Travaglini