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Il Corriere anticipa il governo: patrimoniale o furto nei conti correnti

Inevitabile, d’altronde, a fronte della politica del lìder minimo che vuole distruggere l’intero sistema produttivo italiano offrendo, in cambio, un po’ di elemosina a chi è costretto a restare sul divano ed a chi preferisce farlo anche se non è costretto…

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Il Corriere anticipa il governo: patrimoniale o furto nei conti correnti

L’isola del libro

Rubrica settimanale sulle novità in libreria. A cura di Laura Goria

Rowan Hisayo Buchanan  “Innocua come te”   -Codice Edizioni-  euro 19,00

E’ scritto magnificamente questo romanzo di esordio della scrittrice e saggista 30enne dalla genealogia cosmopolita (padre inglese, madre americana per metà giapponese e metà cinese) nata in America e cresciuta tra Londra e New York, dove si è laureata alla Columbia University. Un Dna decisamente interessante che traspare nel libro, che però non è autobiografico.

New York alla fine degli anni 60, protagonista è la giovanissima Yukiko (Yuki), figlia di una coppia di giapponesi (per i quali l’America è una trappola) che decidono di tornare a Tokyo, alle loro radici. Ma Yuki ha appena conosciuto la splendente e spregiudicata Odile e non vuole partire; ottiene di restare promettendo di proseguire gli studi e si trasferisce a casa dell’amica e della madre. Sono gli anni in cui la modella Twiggy impera, la Guerra del Vietnam divampa, e il mondo sta cambiando. Odile sogna una carriera come quella della top model “grissino” e va decisa in quella direzione; Yuki invece ha velleità artistiche e sperimenta -senza particolare successo- pittura e fotografia. Poi la vita accelera e Yuki passa da una relazione squilibrata e umiliante a un matrimonio sonnolento con il rassicurante Edison. Si trasferiscono in Connecticut e mettono al mondo un figlio; ma la vita da casalinga a Yuki va stretta, così li abbandona per seguire i suoi sogni.

Questo è solo uno dei due livelli della narrazione e si interseca con quello della vita del figlio Jay, andando avanti e indietro negli anni. E’ stato cresciuto dal padre amorevole che ha sopperito in parte alla lacuna della figura materna. Lo ritroviamo 35enne gallerista affermato, innamorato della moglie, ma anche padre spaesato “di una piccola sanguisuga”. Alla morte di Edison scopre che ha lasciato la casa del Connectitut a Yuki ed è così che attraversa l’oceano per cercare la madre. Il resto è la storia del tentativo di riallacciare un rapporto, suturare ferite e capire cosa conta nella vita, passando per illusioni e smentite, affetti profondi e senso di responsabilità…

 

Maxim Biller “Sei valigie”  -Sellerio –  euro 15,00

Quella che il critico letterario e scrittore tedesco Max Billier ci racconta è la tragica storia della sua famiglia di ebrei russi scappati dall’Est all’Ovest, e del mistero che aleggia intorno alla morte del nonno. Ripercorre piccoli e grandi odi, dissapori familiari vari e assortiti, e le sei valigie del titolo corrispondono ad altrettante versioni della storia.

Chi ha tradito nonno Schmil, denunciandolo al Kgb e decretandone la condanna a morte tramite impiccagione? Chi lo ha accusato di fare affari al mercato nero, alle spalle del regima sovietico? Ecco il grande segreto di questa famiglia in cui delatore potrebbe essere uno dei 4 figli di Schmil, separati dai caratteri e dalla storia: 2 all’Ovest, uno a Praga, e lo zio Dima rinchiuso per 5 anni in un carcere cecoslovacco. Oppure la spia è stata la nuora Natalia, moglie separata di Dima: bella e provocante in gioventù, ex regista, ex prigioniera in un campo di concentramento, poi donna sfiorita che va incontro a una fine che lascio a voi scoprire.

Ecco le linee della storia di Biller, nato nella Repubblica Ceca nel 1960 da genitori ebrei ucraini emigrati prima in Russia e poi a Praga, dalla quale scapparono dopo l’invasione sovietica. Una famiglia travagliata e un racconto intrigante che si interseca con la Storia, gli anni della cortina di ferro, il mito dell’Ovest e uno strisciante antisemitismo.

 

Angelo Longoni  “Modigliani il principe”  – Scrittori Giunti –  euro  19,00

Longoni -scrittore, drammaturgo e regista- in quasi 600 pagine racconta gli anni parigini del pittore livornese e imbastisce un romanzo basato su fatti e personaggi rigorosamente fedeli alla realtà. Un affresco in cui risaltano la complessità e il fascino di un artista immenso, che la vita non trattò troppo bene. Segnato a 11 anni dal primo episodio di tubercolosi, Modigliani bruciò la sua breve vita convinto di non avere abbastanza tempo per scoprire e manifestare il suo talento; e gli inizi come scultore aggravarono la sua salute con le polveri di gesso.

L’impatto con la Parigi dei primi anni del 900 è traumatico per “il principino”, così chiamato perché all’inizio (quando ancora aveva i soldi della famiglia) alloggiò in una pensione e visse come un benestante. Poi entra in contatto con altri artisti e assimila le regole che governavano l’arte parigina: libertà, bellezza, amore, scandalizzare il perbenismo borghese, avventure sessuali, droghe e alcol. Ed eccolo trasformato in bohemien, bello, talentuoso e maledetto.

Un cardine della sua esistenza furono le donne che lo amarono intensamente; a partire dalla madre, borghese colta che gli insegnò il francese e condizionò le sue scelte culturali.

Poi le amanti che furono fondamentali per comprendere la vita e sviluppare il suo gusto artistico inconfondibile. Le più importanti furono la Diva Kiki de Montparnasse; la poetessa russa Anna  Achmatova, la prima di cui Modigliani si innamorò veramente e con la quale imbastì una relazione mentre lei 19enne era a Parigi in viaggio di nozze.

Ma anche la scrittrice, poetessa e giornalista inglese Beatrice Hastings e la dolce, giovanissima Jeanne Hébuterne, ripudiata dalla famiglia, che con Amedeo dividerà miseria, stanze fredde, gli darà una figlia e alla morte di lui, di nuovo incinta, si suiciderà. Una vita da romanzo, che Longoni racconta con sensibilità e garbo, mettendo a fuoco anche l’originalità dei quadri di Modigliani, poco capiti dai suoi contemporanei. Restio ad aderire alle correnti dell’epoca, (a partire dal cubismo di Picasso, i Fauves e l’avanzare del Futurismo) non voleva essere etichettato se non  come “Modiglianista”, fedele solo a se stesso e…immortale.

Non era una stecca ma nemmeno un filotto

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PAROLE ROSSE  di Roberto Placido / Non ricordo di essere mai ritornato su una “puntata” di Parole Rosse ma questa volta non potevo proprio esimermi. Perché l’avevo promesso a diversi lavoratori del Teatro Regio che non hanno condiviso quanto raccontato in “La stecca” dello scorso 6 aprile. Hanno scritto, sul mio profilo Facebook, alcuni molto gentilmente, avendo un rapporto di stima e cordialità, altri in maniera molto risentita ma comunque civile. Ci ritorno, perché non mi sottraggo mai ad un confronto, per precisare alcune cose e per allargare la questione a tutto il settore della cultura di Torino ed in parte dell’intera regione.

 

Approfondendo l’argomento sono venute fuori cose interessanti, altre curiose ed una sensazione che ho evidenziato in quanto ho già scritto. Andando con ordine, non è vero che i lavoratori hanno rifiutato la cassa integrazione, mi scuso per l’imprecisione, quando l’ho scritto lo erano già. Non lo sapevo né lo sapevano le persone con le quali mi ero confrontato in quanto il provvedimento, le disposizioni lo permettono, è stato retroattivo dal mese di marzo.

Fatta la precisazione vengo agli altri aspetti, più che rifiutare la cassa integrazione, cosa che non è possibile da parte dei lavoratori, dopo ferie ed eventuali permessi, ed in particolare la richiesta, legittima per carità ma che non tiene conto, a mio parere, dei conti del Regio e della situazione straordinaria che stiamo vivendo e cioè di mantenere, nella sostanza, l’intero stipendio attraverso il cosiddetto “smart working”. Richiesta non accolta dal sovrintendente Sebastian Schwarz e che ha fatto risentire alcuni membri delle fondazioni bancarie, ma sulle fondazioni ci torno dopo. Altri enti lirici l’hanno fatto, come La Scala di Milano o come l’ente cagliaritano che si è inventato un corso di inglese, a casa, per gli orchestrali. Capisco che ridurre lo stipendio è sempre un problema e che per alcuni, con impegni, mutui e affitti, rischia di diventare un dramma ma , lo ripeto, non siamo in una situazione normale.

Pretendere o lamentare, in altri settori, che non si può usare la mensa e che bisogna portarsi il mangiare da casa è lo stesso atteggiamento. I lavoratori hanno lottato, per la mensa, per i diritti, per i contratti, per le garanzie ma oggi il problema è difendere il posto di lavoro, superare la drammatica situazione e proporre, con un grande sforzo collettivo, una progettualità e un’innovazione indispensabili alle quali devono dare il contributo anche i lavoratori. In discussione non c’è solo il Regio ma la sopravvivenza dell’intero settore culturale. La stragrande maggioranza delle realtà vive di entrate dagli spettacoli, che al momento si sono azzerate e di, sempre più esigui, contributi pubblici. Un settore esiste se sono presenti dalle più piccole associazioni alle medie fino alle grandi Fondazioni culturali come Regio, Cinema, Stabile. Non può esistere se rimangono in vita solo le più importanti. Allora è necessario uno sforzo collettivo, altri ne hanno già scritto e parlato, di idee, progettualità, capacità di affrontare questa grande e problematica situazione. Bisogna mettere intorno ad un tavolo, evito volutamente i termini Task Force, Cabina di Regia, Comitato di esperti vari, tuti i soggetti, istituzioni, fondazioni, e gli esponenti del mondo della cultura, per affrontare e superare la situazione.

E’ necessaria una grande visione solidaristica che riguardi non solo chi è garantito da un contratto di lavoro con o senza cassa integrazione. Ci si salva e si va avanti se si agisce insieme e non uno per uno (cit.). Chiudo, come ho iniziato, con il Teatro Regio. Dopo scambi di commenti, opinioni e lunghe telefonate con alcuni lavoratori ed i loro rappresentanti, i sindacati mi hanno fatto pervenire, li ringrazio, un documento che hanno naturalmente inviato ai vertici della Fondazione Teatro Regio. Documento condivisibile in larghissima parte ma dal quale traspare chiaramente l’assenza di dialogo tra il sovrintendente e le stesse organizzazioni sindacali e questo non va assolutamente bene. Con i lavoratori ci si confronta e ci si scontra ma non si può pensare che gli si comunica solo le intenzioni e decisioni. La situazioni del Regio era già “pandemica” ed atteggiamenti non adeguati alla situazione, da parte di tutti, possono risultare esiziale. Nelle Fondazioni bancarie molti pensano che le risorse vadano destinate per la sanità e per chi fa fatica a sopravvivere e non per quelli che loro considerano “privilegiati”.

Ecco perché bisogna lanciare dei messaggi di chiarezza, comprensione, disponibilità, pur nel sacrificio, atti a superare questo momento. Bisogna aiutare i pochi “amici” veri della cultura presenti nelle Fondazioni bancarie. Così come mi auguro e spero che i vertici del Teatro Regio, a cominciare dal Presidente del Consiglio d’Indirizzo, il Sindaco Chiara Appendino, il Sovrintendente Sebastian Schwarz abbiano presentato alle stesse, al ministero le richieste dei contributi necessari per affrontare i problemi passati e quelli più recenti. Il mondo della Cultura può dimostrare, facendo diventare questo cataclisma un’opportunità, di chiedere non solo contributi, con un atteggiamento, da parte di alcuni, questuante, ma di proporre una grande progettualità innovativa per affrontare le grandi problematiche e cambiamenti che il Covid 19 ha generato. Le associazioni si trovano di fronte al “progetto della vita” nel senso che da esso può dipendere la loro sopravvivenza.

Essere donna, avere dei figli, voler lavorare

ADESSO! di Silvia Garda / In Italia una donna che segue i suoi figli fa la mamma. In Italia un papà che segue i suoi figli, fa il mammo

In Italia una mamma che lavora, cucina, consola, parla con le maestre, mette a nanna, fa ciò che ci si aspetta da lei.

In Italia un papà che lavora, cucina, consola, parla con le maestre, mette a nanna, è tanto carino perchè aiuta la mamma.

In Italia una mamma che non lavora per stare con i suoi bambini, non è in grado di coordinare il suo lavoro con il suo ruolo genitoriale.

In Italia un papà che non lavora per stare con i suoi bambini è coraggioso e generoso perchè si sacrifica per la sua famiglia e lascia che la moglie si realizzi.

Perchè tutte queste differenze? Perchè, per quanto se ne parli, in Italia la donna è ancora prima di tutto, molto mamma. A noi ai colloqui di lavoro viene chiesto, tra le righe perchè non si potrebbe, se desideriamo dei figli, solitamente camuffando con: tra cinque anni come ti vedi? A noi viene chiesto alle cene di Natale: e un bambino? Quand’è che me lo fai un bel nipotino?

Immaginatevi se queste cose venissero chieste agli uomini. Impensabile, vero?

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Con pecore e conigli si prepara un pranzo, non la rinascita dell’Italia

COMMENTARII  Di Augusto Grandi / No, non ci sarà nessun Rinascimento, nessun Risorgimento, nessun Boom economico. Con le pecore, con i conigli si può preparare il pranzo di Pasqua, certo non si può pensare al rilancio, alla crescita.

Nei giorni di prigionia è utile scorrere le bacheche sui social. Perché offrono uno spaccato di una realtà italiana demoralizzante, se non disgustosa.

Una vittima del terrore imposto prova, timidamente, a chiedere le ragioni per le quali lei e famiglia non possono andare a respirare aria pulita nella loro casa di vacanze. E, implacabile, il coniglio di turno dispensa pillole di saggezza: “Non si deve andare nelle seconde case perché qualcuno potrebbe approfittarne per invitare 20 amici e sarebbe impossibile il controllo”. Con la stessa ferrea logica bisognerebbe vietare la circolazione stradale poiché qualcuno potrebbe provocare incidenti automobilistici. Colpire tutti per educarne uno. Non era proprio così, ma in epoca di Stato Libero di Bananas va bene tutto…

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Con pecore e conigli si prepara un pranzo, non la rinascita dell’Italia

I libri più letti e commentati nel mese di aprile

Torna, puntuale, l’appuntamento con i libri più letti e commentati nel gruppo FB Un libro tira l’altro ovvero il passaparola dei libri.

Tra i titoli più discussi del mese troviamo, al primo posto, La sedia vuota di Jeffrey Deaver, che continua a  convincere i lettori per la forza delle descrizioni e il carattere avvincente della trama; secondo posto per Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, capolavoro del compianto Luis Sepulveda, autore molto amato e sempre presente nei post del gruppo; terzo posto per La città dei ragazzi, di Eraldo Affinati, lettura “di nicchia” ma che ha saputo incuriosire i membri del nostro gruppo con un interessante scambio di opinioni sui libri destinati ai lettori più giovani.

Torna la rubrica sui consigli delle librerie: questo mese a suggerire tre imperdibili letture, tocca alla Libreria Bianca & Volta di Riccione che propone La manutenzione dei sensi, di Franco Faggiani (Fazi editore), perché con delicatezza e sensibilità racconta come sia possibile affrontare le difficoltà più grandi, lasciandoci un senso di leggerezza e amore per la vita; La tigre, di Polly Clark (Atlantide edizioni), particolare, bellissimo e intenso; infine l’albo illustrato L’anima smarrita (Topipittori), scritto da Olga Tokarczuk, Nobel per la letteratura, che con poesia ci ricorda quali sono le cose davvero fondamentali della vita.

 

Per la serie: Time’s List of the 100 Best Novels, ovvero i cento romanzi più importanti del secolo XX, scritti in inglese e selezionati dai critici letterari per la rivista Times, questo mese abbiamo preso in esame tre romanzi ambientati nelle vecchie colonie: Una casa per Mr Biswas, di V.S. Naipaul, bizzarro e divertente romanzo di formazione “al contrario” ; il profondo  “prequel” di Jane Eyre Il Grande Mare dei Sargassi, di Jean Rhys il malinconico e struggente Il Nocciolo della Questione, di Graham Greene.

Per questo mese è tutto, ci rileggeremo il mese prossimo!

 

Podio del mese

La sedia vuota, Deaver (BUR) – Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, Sepulveda (Guanda) –  La città dei ragazzi, Affinati (Mondadori)

 

Time’s List of the 100 Best Novels:

Una casa per Mr Biswas, Naipaul (Adelphi) – Il grande mare dei Sargassi (Adelphi) – Il nocciolo della questione (Fanucci)

 

Consigli della libreria

Libreria Bianca & Volta di Riccione

La manutenzione dei sensi, Faggiani (Fazi editore), – La tigre, Clark (Atlantide edizioni), L’anima smarrita, Tokarczuk (Topipittori).

 

Testi di Valentina Leoni, grafica e impaginazione di Claudio Cantini redazione@unlibrotiralaltroovveroilpassaparoladeilibri.it

Coronavirus e industrie, tra rinascita e resistenza per il presidente dei GGI Alberto Lazzaro

Rubrica a cura di ScattoTorino

Laureato in Ingegneria Biomedica al Politecnico di Torino, Alberto Lazzaro è una persona illuminata che conosce la differenza tra essere imprenditore e fare l’imprenditore. Nel 2012 ha fondato la Twocare srl, startup che operava nella progettazione e nella produzione di impianti dentali in materiale ossidico ceramico grazie alla quale ha vinto il premio Talento per le idee indetto da Unicredit. Nel 2014 ha aperto gli ambulatori mono-specialistici odontoiatrici Cliniche Dentali My Dental Family srl che gli hanno consentito di avere una visione completa del mercato, dal produttore al consumatore finale, e che gli hanno permesso di avere un osservatorio privilegiato sulle novità del settore così da poter proporre ai clienti le migliori innovazioni tecnologiche. Oltre ai due ambulatori, Alberto Lazzaro è socio della Wisildent srl dal 2010, azienda certificata che progetta, produce e commercializza componentistiche e protesi customizzate per l’odontoiatria secondo dinamiche industriali e sistemi di produzione automatizzati. Lungimirante e attento al contesto socio-economico in cui opera, questo manager dalla visione innovativa nel 2012 è entrato a far parte del Gruppo Giovani Imprenditori dell’Unione Industriale di Torino, nel 2016 ne è diventato Vice Presidente con delega all’Education e Cultura di Impresa e dal maggio dello scorso anno ne è alla guida.

Quali sono gli obiettivi del suo mandato, che terminerà nel 2021?

“Quando mi sono insediato ho fatto un discorso orientato sui temi della formazione, che per me ha quattro significati. C’è la formazione dell’imprenditore, che ha per obiettivo crescere come esperto sui temi dell’imprenditorialità, c’è la formazione per essere a disposizione del territorio, intesa come cultura di impresa per il territorio. Poi c’è la formazione imprenditoriale per i collaboratori, perché non siamo più nell’era dei dipendenti, ma abbiamo bisogno di persone che si formino e che ogni giorno siano imprenditori di loro stessi e del loro lavoro. Infine c’è la formazione legata alla parola, nel senso che forma e azione sono coerenti e fanno parte del modo di vivere e di essere di ciascuno di noi”.

Il Direttivo dei GGI

Come Presidente, in questo periodo come è vicino ai Giovani Imprenditori?

“In uno scenario come questo in cui tutti siamo fermi a casa, ho chiesto di fare il contrario e di formarsi per se stessi e per la comunità. Tutti hanno accolto la mia proposta e hanno creato la Commissione Ripresa coordinata da Roberto Rosati, in cui ci sono progetti per valorizzare le imprese del territorio che sono state ferme, o che hanno avuto un calo di fatturato notevole, in modo da rilanciarsi più velocemente nel post Covid-19. Il pool di aziende che ha aderito in questo momento lavora pro bono, ma dopo potrà sviluppare delle sinergie concrete. Tutti i partecipanti hanno messo a disposizione i propri skills, dalla comunicazione all’IT, e si incontrano una volta alla settimana, rigorosamente online, per fare il punto della situazione. Da qui è nata anche un’altra campagna che verte sul tema della responsabilità, a prescindere che l’azienda sia aperta o chiusa”.

Responsabilità significa?

“Le imprese che in questo periodo sono aperte non lo fanno per profitto, ma per un senso di responsabilità e per il bene di chi sta a casa, perché offrono prodotti o servizi fondamentali per il territorio. Quando parliamo di aziende, bisogna ricordare che senza le persone sono soggetti giuridici vuoti e mai come in questa emergenza è chiaro che non esiste più la dicotomia tra imprenditore e collaboratore, ma tra chi è responsabile e chi non lo è. Forse il periodo aiuta a capire che lavoriamo tutti per il bene della comunità alla quale apparteniamo. Spero che decada la diatriba tra io contro di te, ma che la dicotomia sia tra onesti e disonesti. In questi giorni impegnativi i fornitori e i clienti parlano di più, si raccontano le difficoltà e c’è una maggiore collaborazione dettata dal senso di responsabilità. Quando si dice che esiste il lavoro a tempo indeterminato, dobbiamo ricordarci che c’è un contratto a tempo indeterminato solo se l’azienda è a tempo indeterminato. O impariamo a prenderci cura del bene dell’impresa oppure il sistema decadrà e questo non dipenderà dall’imprenditore e neppure dal collaboratore”.

Quali skills deve avere, secondo lei, l’imprenditore di oggi?

“L’imprenditore non ha, l’imprenditore è. Per me non è colui che ha una partita iva, ma una persona che pensa e agisce. Saper trovare la soluzione è il vero skill. Nel Gruppo Giovani Imprenditori dell’Unione Industriale di Torino, come anche a livello nazionale, siamo trasversali perché non viviamo la competizione, ma la condivisione e la collaborazione che fa crescere le persone. Vincenzo Boccia diceva che chi fa parte del Gruppo Giovani lo farà per sempre e spero che questo sia un collante per tutti”.

Ci presenta il Progetto Rientro da Covid-19?

“Il Dottor Pietro Stopponi, con gli alumni della University Chicago Booth School of Business, hanno studiato un progetto di contenimento del virus sull’esempio di quanto è stato fatto in Corea del Sud in cui c’è stato un utilizzo coordinato di tecnologie informatiche, tamponi e test validati, strumenti di analisi e diagnostica clinica, protocolli di azione e normative. Il Dottor Stopponi mi ha telefonato e mi ha detto che secondo lui le aziende il 4 maggio devono riaprire, ma seguendo dei protocolli di sicurezza. Quella che mi ha proposto è una metodologia integrata per la creazione di un sistema di monitoraggio in tempo reale delle persone: faremo un test pilota su mille individui che lavorano nelle aziende. Il sistema distinguerà i soggetti contagiati, quelli potenzialmente infetti e quelli negativi, permettendo così, in abbinamento con le altre misure governative, il riavvio delle imprese e il rientro graduale e controllato alle normali attività sociali. La Regione Piemonte e la Città di Torino ci appoggiano e questo ci fa capire che non ci sono più le vecchie divergenze di un tempo, ma è arrivato il momento dell’unità. Sto dialogando anche con i sindacalisti e stiamo trasformando il periodo in un’opportunità per cercare di risolvere il problema”.

In che modo il Gruppo Giovani Imprenditori utilizza il modello coreano per l’imprenditoria?

“Faremo da test con alcune aziende non solo del territorio, ma anche a livello nazionale, per questo progetto pilota che, se porterà risultati, verrà utilizzato da molti. Al momento tutti i progetti sono validi e possono funzionare perché danno sempre maggiori indicazioni alla scienza”.

Le istituzioni quali prospettive vedono per il tessuto aziendale cittadino?

“Sia la Città che la Regione vogliono tornare velocemente ad una situazione di nuova normalità. Tutti vedono il percorso da fare insieme e stanno collaborando per venirne fuori. Non esiste la soluzione, ma c’è la volontà di essere uniti. Spero che le persone si stringano intorno alle istituzioni perché ci vuole responsabilità da parte di tutti”.

Di cosa si occupa Wisildent, l’azienda della quale è socio?

“La nostra attività consiste nella produzione e nella commercializzazione di manufatti e protesi con macchinari di ultima generazione. In questo periodo siamo aperti per la gestione delle urgenze e abbiamo aumentato il nostro senso di responsabilità in modo da fornire quanto ci viene richiesto dai dentisti e dagli odontotecnici. I collaboratori di Wisildent hanno dimostrato una grande vicinanza all’impresa. Abbiamo una chat e tutti hanno postato ciò che hanno fatto a livello di formazione personale e di gruppo. Devo ringraziare i collaboratori perché potevano essere seccati per la cassa integrazione e invece hanno colto l’opportunità per essere ancora più uniti tra loro e con noi.

In Wisildent la trasparenza è importante e ogni anno ci incontriamo per fare il punto, capire dove andremo, evidenziare le difficoltà e i punti di forza. Per noi smart working vuol dire lavorare in modo flessibile e supportarsi e in azienda lo facevamo già prima del Covid-19 perché la collaborazione per noi è un requisito fondamentale. Anche se siamo in 12, utilizziamo le dinamiche delle grandi aziende e siamo suddivisi in business unit in cui il dialogo è la base per lavorare in armonia ed evolvere insieme. In 4 anni siamo cresciuti con una media del +20% annuo e speriamo che il virus non arresti la scalata che stiamo facendo grazie ai collaboratori”.

Torino per lei è?

“I miei genitori sono di Bronte, vicino a Catania, e si sono trasferiti al Nord quando erano giovani. Per me Torino è la città della rinascita perché da sempre è risorta da ogni gigantesco problema. Quando ha perso il ruolo di capitale d’Italia si è trasformata in capitale dell’industria e quando l’industria ha avuto problemi ha puntato sulla cultura e sugli eventi. Quando c’è un problema Torino sa rinnovarsi, per cui sono certo che il Covid-19 sarà per la città un momento di cambiamento e crescita. Come Gruppo Giovani Imprenditori dell’Unione Industriale di Torino siamo a disposizione di istituzioni e aziende per mettere a fattor comune le nostre capacità”.

Un ricordo legato alla città?

“Durante le Olimpiadi ero uno dei driver, oltre che interprete per la squadra di giornalisti canadesi. Ho lavorato per la TV CBC news che si occupava degli eventi in Piemonte e, sapendo bene l’inglese, spesso parlavo io. Ero orgoglioso di poter far conoscere Torino e la nostra regione al mondo e ancora oggi sono in contatto con il direttore di CBC news in Canada”.

Coordinamento: Carole Allamandi
Intervista: Barbara Odetto
Ph: Claudio Ferrero

Cerimonie religiose vietate. Ma nei momenti bui la fede è conforto e coesione

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IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / La decisione del governo di continuare a vietare le cerimonie religiose cattoliche e, penso, tutte le cerimonie religiose in generale, ha sollevato la protesta della Conferenza episcopale italiana, sconfessata dallo stesso Papa  Francesco  che ha sostenuto che si deve obbedire alla restrizioni del governo per la pandemia

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Si tratta di scelte che meritano una riflessione. La prima riguarda più in generale il modo in cui  oggi il fatto religioso è stato relegato ad elemento marginale, a cosa considerata a priori come opzionale, dimenticando  totalmente le ragioni dei credenti. La scelta del governo sancisce questa percezione del fatto religioso  in  cui la Chiesa è messa  sullo stesso piano di un museo o di un teatro. Le chiese nella storia dei popoli e dell’italiano in modo particolare, non sono solo dei locali magari artisticamente belli e storicamente importanti. Le chiese sono luoghi  di culto di cui la Messa e l’Eucarestia sono il momento più alto e come tali vanno considerati. Quando si vedono d’estate turisti che vogliono entrare a visitare una chiesa in abbigliamento non idoneo abbiamo un’idea di come non si abbia più rispetto del luogo religioso, visto esclusivamente come uno scrigno d’arte. E’  certo indispensabile usare la mascherina e i guanti e mantenere le distanze di sicurezza  anzi ,doveva essere fatto molto prima), ma privare i fedeli del conforto dei sacramenti viola lo stesso principio costituzionale della libertà di culto in modo ingiustificato.
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Significa manifestare  un implicito e rozzo materialismo che nega ogni valore al sacro. Posso liberamente accedere in tabaccheria a rifornirsi di sigarette, ma non in chiesa,appare qualcosa che stride anche di fronte alla logica. E ciò vale per tutte le confessioni religiose, ovviamente. Il virus ha fatto venire a galla una concezione  della vita che si limita a vedere la salvezza della propria pelle come unico vero valore, magari consentendo, sul versante opposto, l’eutanasia  proprio perché la vita biologica resta l’unico metro di giudizio. Anche Machiavelli e persino Gramsci vedevano nella religione un elemento “aggregativo” per un popolo. Sarebbe importante riprendere alcune loro riflessioni in merito. In particolare nei momenti bui, ogni religione è stata motivo di conforto e di coesione sociale. E’ la storia a dimostrarlo in modo inconfutabile. Un amico sacerdote di Alassio già molti anni fa mi metteva in evidenza come la tenuta sociale dell’ Italia sia in larga misura  dovuta al mondo cattolico  e ai suoi valori che si oppongono al nichilismo cinico pervadente.
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Mi sembra naturale che la CEI non potesse tacere ulteriormente, anche se il tono usato è apparso un po’ troppo forte e risentito. Va detto che una libera Chiesa in un libero Stato debba poter esercitare, pur con tutte le cautele necessarie, la sua attività pastorale. In questo caso va detto che sorge qualche dubbio sul fatto che viviamo in un libero Stato. I troppi e pasticciati decreti del presidente del Consiglio hanno leso principi costituzionali e hanno svuotato il ruolo del Parlamento.Illustri giuristi hanno lanciato l’allarme.  La smentita del documento della CEI da parte del Papa appare abbastanza singolare. Questo Papa, fin dall’inizio, ha dimostrato di non voler essere clericale e questo è un suo merito storico. Ha voluto vedere la religione come qualcosa di molto vicino ai problemi concreti dell’ uomo e anche in questa occasione ha voluto ribadirlo. Ma sorge legittimo il dubbio se anche il Papa non dia la dovuta rilevanza al fatto religioso. Appare un paradosso incredibile, ma qualche sospetto diventa legittimo. Certo la pandemia si sta rivelando un accadimento sconvolgente non solo per la morte e le sofferenze che semina, i drammi economici e sociali che provoca, ma anche i dubbi che determina.
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Scrivere a quaglieni@gmail.com

L’isola del libro

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Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

 

Emmanuelle De Villepin  “Dall’altra riva”    -Longanesi-    euro 18,60

“Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. Questo incipit di Tolstoj ad “Anna Karenina” potrebbe applicarsi perfettamente all’ultimo bellissimo romanzo della scrittrice francese Emmanuelle De Villepin che, ancora una volta, dedica la sua sensibilità ai meandri affettivi di una famiglia che vi resterà nel cuore.

Inizia con un funerale, punto di arrivo ma anche di partenza. Siamo in Normandia e davanti al feretro del padre -che non vedeva da 40 anni- arriva Nora, la figlia che se n’era andata non sopportando più il dolore cha aveva attanagliato la sua famiglia.

Approdo che è anche l’avvio di una resa dei conti con chi non c’è più, preludio a chiarimenti e scoperte. L’autrice si addentra con la sua consueta grazia in una vicenda familiare attraversata da abbandono, lutti, amore, solitudine, inadeguatezza rispetto agli impegni affettivi, senso della vita e della morte. Convinta che la letteratura sia una grande indagine sull’animo umano, la De Villepen racconta senza mai giudicare, ed è abilissima nello scandagliare i fondali. Lo fa attraverso una sorta di gioco di specchi in cui si alternano le voci dei due personaggi femminili centrali.

Una è quella di Nadege, donna tormentata che ha lasciato senza più voltarsi indietro marito e tre figli piccoli; non tanto per seguire la passione travolgente per il figlio di amici che ha 15 anni meno di lei, quanto piuttosto per sfuggire a una vita che non sembra le appartenga e a un marito che trova noioso. Uno strappo netto e senza ritorno che lei spiegherà in un diario destinato alle figlie.

Ma non sarà l’unica disperazione che schianta questa famiglia. Un altro tipo di abbandono, irreparabile, coinvolge il figlio 12enne, Mathieu. Tragedia che finirà per dilaniare quello che resta del padre scivolato nella depressione e delle due figlie: la responsabile e matura Apolline e la sorella minore Nora. E’ sua la seconda voce narrante, con la sua versione dei fatti e il suo bagaglio di vissuto. Nora, che non aveva retto il carico di sofferenza all’interno delle pareti domestiche e se ne era andata via dopo il diploma, un taglio netto del cordone ombelicale.

Ecco la tela di questo affresco familiare che tocca corde intime e profonde, senza sdolcinature né pregiudizi. E su tutto aleggia l’opera “L’isola dei morti” del pittore svizzero Anold Böcklin, di struggente bellezza.

 

Hamilton Basso  “La vista da Pompey’s Head”  -Nutrimenti-  euro 22,00

Questo è uno dei capolavori dimenticati della letteratura americana, pubblicato nel 1954 dal giornalista del New Yorker Hamilton Basso (nato a New Orleans nel 1904, morto nel Connecticut nel 1964), finalista al National Book Award dell’epoca, e diventato un film diretto dal regista Philip Dunne nel 1955.  Davvero un peccato l’oblio per tanto tempo e un applauso all’editore Nutrimenti che ce lo  riconsegna.

E’ la bellissima storia del ritorno di un avvocato di New York al suo paese natio, nel South Carolina, per risolvere un’oscura vicenda che anticipa il tema del celebre “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee del 1960 (diventato anche un film interpretato da uno strepitoso Gregory Peck).

Anson Page è il brillante avvocato socio di uno studio newyorkese che rappresenta case editrici prestigiose, felicemente sposato e con due figli. Deve chiarire e chiudere una vertenza scottante: Lucy Wales, moglie del famoso scrittore Garvin Wales, ormai anziano e cieco, accusa  lo scomparso e stimato editore Philip Greene di aver  prelevato ingenti somme dai diritti d’autore del marito. I Wales vivono isolati dal resto del mondo su un’isola del South Carolina che Anson conosce bene perché è nato a due passi da lì. Eccolo tornare a Pompey’ Heard, in quel Sud da cui era scappato da giovane, disgustato dalla mentalità retrograda e razzista, che aveva visto cadere in disgrazia il padre per aver difeso un uomo di colore in un processo contro un illustre cittadino bianco. Deve incontrare la dispotica e diffidente Lucy Wales, strenua protettrice della privacy del marito che nessuno vede più da anni, e chiudere il caso. Sarà l’occasione per Anson di fare un complesso tuffo carpiato all’indietro, nelle amicizie e negli amori di un tempo, nelle contraddizioni di una terra bellissima, ma soffocata da pregiudizi, ottusità e pettegolezzi. Un romanzo corposo ed elegante, uno spaccato del Sud – forse più attuale di quello che pensiamo-che vi trascinerà per oltre 500 pagine fino a un epilogo emblematico.

 

Amitav Gosh  “L’isola dei fucili”  – Neri Pozza-   euro 18,00

Cambiamento climatico e migrazioni sono al centro dell’ultimo libro di uno dei più importanti  scrittori  indiani contemporanei, che veleggia tra saggio e romanzo. Narra la straordinaria avventura del commerciante di libri rari e oggetti di antiquariato Deen Datta, nato nel Bengala, che vive e lavora a Brooklyn.

Durante uno dei suoi periodici viaggi a Calcutta incontra un lontano parente che per sfidare la sua nomea di profondo conoscitore di folklore indiano, gli racconta una storia affascinante. E’ quella del ricco “mercante di fucili” Bonduky Sadagar che aveva scatenato l’ira della dea dei serpenti Manasa Devi, perché si era rifiutato di diventare un suo devoto. Per  ritrovarne traccia, Deen Datta  intraprende un avventuroso viaggio a spasso nei secoli, in miti e leggende, e attraverso vari confini, dall’India a Los Angeles fino a Venezia.

Archetipo di queste pagine è la dea dei serpenti alla quale è dedicato un tempio nelle Sundarbans, in India, tra Bangladesh e Bengala occidentale, frontiera naturale in cui si scontrano natura e profitto. La più grande foresta di mangrovie al mondo, brulicante di serpi e creature velenose, una delle aree più povere del pianeta, funestata da cicloni devastanti, cambiamenti climatici e classificata dal WWF come eco regione. E’ in questo scenario -perfetto per incarnare il disastro- che Amitav Gosh intreccia i suoi sogni, le sue ossessioni, cronaca e storia, simboli e metafore, ed incrocia vissuto personale con il futuro possibile del globo, tra cambi di scena ecologici e culturali.

Il senso della Libertà

PAROLE ROSSE  di Roberto Placido / Questo 25 aprile 2020 lo ricorderemo a lungo. La Festa nazionale della Liberazione da settantacinque anni ci ricorda da dove nasce la Repubblica Italiana e soprattutto grazie a chi il nostro paese ha riacquistato, oltre alla dignità, la libertà e la democrazia. Per troppi anni è stata relegata, oltre ad un giorno di festa da scuola e dal lavoro, a cerimonia istituzionale ristretta ai rappresentanti delle istituzioni, delle associazioni della resistenza, ai partigiani ed i loro famigliari ed a quanti, una minoranza, hanno sempre avuto una forte sensibilità democratica.

Con il passare degli anni e con la naturale e fisiologica scomparsa dei protagonisti di quello straordinario periodo è sorto il problema di tramandare la loro esperienza e valori e di coinvolgere le giovani generazioni. Periodicamente abbiamo assistito a tentativi revisionistici da parte della destra neofascista o ex fascista e da qualche storico di sinistra o presunto tale. Anche quest’anno, perdendo l’occasione di dare un segno di maturità quanto mai necessario in una situazione emergenziale da destra è arrivata la proposta di dedicare il 25 aprile alle vittime del Corona Virus. Proposta tanto irricevibile quanto idiota. L’ipocrisia porta a non avere il coraggio di chiamare le cose con il proprio nome.

Se si fosse mantenuto lo spirito e la composizione delle forze che hanno animato le formazioni partigiane il 25 aprile sarebbe stata vissuta con una partecipazione e condivisione se non unanime, impossibile, certamente in misura decisamente maggiore. Voglio ricordare che nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) e nelle formazioni partigiane c’erano rappresentanti socialisti, comunisti, cattolici democratici, liberali, repubblicani, monarchici ed azionisti. Quindi, mi riferisco specialmente ad una parte della sinistra che ha cercato di appropriarsi della “resistenza”, la Resistenza non era e non è di una parte sola, ad essa hanno partecipato, dando sostegno e copertura, operai, impiegati, contadini, civili, preti e suore e molti rappresentanti delle forze dell’ordine. Per chi fosse interessato c’è una bella pubblicazione del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri sul ruolo dei Carabinieri durante la lotta di Liberazione. Un altro elemento da confutare è quello della territorialità, si è svolta solo al nord dell’Italia. Chi lo sostiene dimentica o fa finta di dimenticare lo sbarco alleato, la “ linea gotica” e l’Italia divisa in due. Problema risolto dalla folta e numerosa, molte migliaia, presenza di meridionali nelle formazioni partigiane. Uno su tutti il comandante del CLN che liberò Torino, Pompeo Colajanni, nome di battaglia “Barbato”, siciliano, ufficiale della cavalleria. Sul ruolo e sulla partecipazione dei meridionali alla lotta di liberazione voglio ricordare il convegno organizzato dal Consiglio Regionale del Piemonte il 16 giugno 2013 al Teatro Carignano a Torino.

Per concludere su di un altro elemento, spesso riproposto, quello degli esigui numeri dei partigiani, rammento che alla lotta di Liberazione hanno contribuito sicuramente le formazioni partigiane, i molti civili, ed, non si possono dimenticare e lo sono stati per troppo tempo, i seicentomila internati militari italiani (IMI) che rifiutarono di combattere per la repubblica di Salò e preferirono i campi di concentramento pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane e privazioni. Tutto questo è la storia passata e recente ma la vera particolarità, che mi ha fatto riflettere, di questo 25 aprile è l’essere tutti “prigionieri” in casa da quasi due mesi. Festeggiare la Liberazione stando chiusi in casa, segregati quasi volontariamente, un ossimoro, per combattere un nemico invisibile e quindi più subdolo, non può che fare riflettere sul senso e sul valore della libertà. E’ proprio vero che una cosa l’apprezzi molto di più quando non ce l’hai, quasi, più o ti viene a mancare. Forse è per questo senso di privazione, di mancanza, che ci sono state un numero straordinario di manifestazioni e di iniziative con una partecipazione e condivisione che ci dà la percezione tangibile di essere liberi pur essendo “prigionieri” e segregati. La libertà e la democrazia sono, insieme alla Costituzione, i più importanti dei grandi “regali” che ci hanno portato la Resistenza e la lotta di liberazione.