Rubriche

Frittelle golose con salsa allo yogurt

/

Sempre appaganti e golose le frittelle, a chi non piacciono ?

Sono perfette per ogni occasione, saporite e croccanti stuzzicano l’appetito di tutti. Provatele con la salsina allo yogurt per rinfrescare la vostra cena.

Ingredienti

4 zucchine chiare medie
1 cipolla bianca piccola
3 uova
50gr. Parmigiano grattugiato
poca farina, sale,pepe, prezzemolo
1 vasetto di yogurt naturale
erba cipollina
Olio per friggere

Grattugiare le zucchine e lasciarle scolare per una mezz’ora. Affettare sottilmente le cipolle.
In una terrina sbattere le uova intere con il parmigiano, il sale, il pepe, il prezzemolo tritato, qualche cucchiaio di farina, poco latte. Mescolare bene e aggiungere le zucchine e le cipolle. In una larga padella scaldare l’olio e versare a cucchiaiate l’impasto. Lasciar cuocere e rosolare bene da ambo le parti. Preparare la salsina mescolando lo yogurt con erba cipollina, sale, pepe e poco olio
Servire caldo o tiepido.

Paperita Patty

Torino e i suoi teatri. Il fascino dell’Opera lirica

/

Torino e i suoi teatri


1 Storia del Teatro: il mondo antico
2 Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti
3 Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri
4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti
5 I teatri torinesi :Teatro Carignano
6 I teatri torinesi :Teatro Colosseo
7 I teatri torinesi :Teatro Alfieri
8 I teatri torinesi :Teatro Macario
9 Il fascino dellOpera lirica
10 Il Teatro Regio.

 

9 Il fascino dellOpera lirica

 

Cari lettori, eccoci quasi arrivati al termine di questo ciclo di articoli dedicati ai maggiori teatri di Torino.
Manca tuttavia uno dei fiori allocchiello della nostra città, il più che famoso Teatro Regio, importante centro nevralgico per lintrattenimento culturale torinese, un cuore che pulsa al suono dellorchestra e dei cantanti lirici che lì si esibiscono.
Così come vi ho proposto una breve Storia del Teatro prima di affrontare nello specifico le vicende del Gobetti, del Carignano, del Colosseo, dellAlfieri e dellormai abbandonata Bombonieradi Macario, ora mi accingo a presentarvi un sunto – ridotto ma esaustivo al meglio delle mie capacità –  della storia dellopera lirica, che precede il prossimo ed ultimo pezzo dedicato al Regio.
Le informazioni che vorrei fornirvi sono tante, è quindi il caso di smettere di cincischiaree avviare il nostro percorso.
Con il termine operasi indica un peculiare genere teatrale e musicale, in cui lazione scenica si abbina alla musica e al canto.


Il vocabolo, di uso internazionale, come ci dimostra ad esempio la titolazione delliconico album dei Queen A Night at the Opera(1975), è la forma abbreviata di opera lirica; vi sono diverse parole o locuzioni che possono essere adoperate come sinonimi, tra le quali melodramma, opera in musicao teatro musicale, espressioni largamente utilizzate nel linguaggio comune o mediatico.
Mi preme altresì sottolineare che, a partire dal 2013, l’Associazione Cantori Professionisti d’Italia ha depositato presso il MIBACT il dossier per la Candidatura UNESCO per l’opera italiana, con l’intento di iscrivere l’opera all’interno del Patrimonio dell’Umanità protetto da UNESCO.
Possiamo inorgoglirci un po, dato che la vera patria dellopera è proprio la nostra bella Italia. Tale forma artistica si sviluppa nella penisola a forma di stivale in tempi assai lontani; solo a partire dal Seicento il gusto per il melodramma si espande nel resto dellEuropa, consolidandosi con caratteristiche proprie nei vari Stati.
Nel corso del tempo si sono formati diversi generi di opera lirica, tutti in continua contaminazione reciproca e sempre sottoposti a modifiche, per accontentare i gusti scostanti del pubblico e lego smisurato degli artisti. Fanno parte di tali tipologie: l’“opera seria, una rappresentazione incentrata sui drammi e sulle passioni delluomo; l’ “opera buffa, che nasce a Napoli verso la metà del XVIII secolo, ma presto si diffonde anche a Roma e nel nord della penisola; diversi compositori famosi, come Mozart, Rossini o Donizetti, contribuiscono al diffondersi di questa modalità operistica. Vi è poi il melodramma giocoso, un intreccio sentimentale che si conclude con un lieto fine, lespressione è utilizzata per la prima volta da Cosimo Villafranchi (1646-1699) nella prefazione del suo Lipocondriacoe diventa in seguito di largo uso grazie a Carlo Goldoni, che inizia a impiegarla regolarmente a partire dal 1748. Vi è poi la farsa, che piace soprattutto a Venezia e a Napoli, e si presenta come unopera di carattere buffo con un solo atto, a volte rappresentata insieme a dei balletti.
Tipiche della Francia sono invece l’ “Opéra-comiquee la Grand opéra. La prima è un genere operistico che deriva dal vaudevilledei Theatres di St Germain e St Laurent; la seconda domina la scena dagli anni Venti agli Ottanta dellOttocento, sostituendosi alla tragédie lyrique; grandi esempi inscrivibili in questa categoria sonoLa muette de Porticidi Auber (1828) e Guillaume Telldi Rossini (1929).

Nellarea tedesco-austriaca troviamo il Singspiel, letteralmente recita cantata, diffusosi tra il XVIII e il XIX secolo e costituito dallalternanza di parti cantate e recitate; la peculiarità del Singspiel” è luso della lingua tedesca al posto di quella italiana durante i recitativi. Ancora nel valchirico nord si diffonde anche il Musikdrama, termine tedesco che definisce lunità di prosa e musica; a coniare lespressione è Theodor Mundt, nel 1833, in seguito sarà poi il compositore Richard Wagner (1813-1883) ad utilizzare questa stessa terminologia per identificare le proprie opere, come L’olandese volante, Tristano e Isotta,  o il Parsifal.
Risulta difficoltoso indicare quale sia lorigine esatta del genere operistico.
Alcuni studiosi riconducono le radici della lirica alla tradizione del teatro medievale e fanno riferimento ad autori quali Guido dArezzo o alla religiosa  Ildegarda di Bingen, autrice del dramma Ordo Virtutum(1151). Non di meno va ricordato che nel Cinquecento luso delle canzoni è presente nella Commedia dellarte, nel ballet de courtfrancese o nella masqueinglese, mentre per quel che riguarda  limportanza dellimpiego degli spazi musicali è opportuno menzionare i drammi pastorali.


Tuttavia è di comune avviso far risalire la nascita dellopera a cavallo tra i secoli XVI e XVII, quando la Camerata deBardi, un gruppo di intellettuali fiorentini, dediti in principal modo allo studio della civiltà classica, vuole realizzare spettacoli similari alle antiche tragedie greche.
I componenti del gruppo in realtà non dispongono di sufficiente materiale storiografico per comprendere come effettivamente venissero inscenate le tragedie nellantica Grecia, né conoscono appieno la musica ellenistica. Ad oggi, lunico esempio di dramma greco pervenutoci è un brevissimo frammento incompleto appartenente ad un coro dell’ “Orestedi Euripide (408 a.C.).
Se con la datazione rimaniamo possibilisti, è pur certo che le rappresentazioni risalenti al periodo rinascimentale avvengono nei palazzi privati, edifici spesso dotati al loro interno di piccoli teatri, utilizzati esclusivamente dalle famiglie reali e dalla nobiltà. Inizialmente dunque assistere ad uno spettacolo lirico è un privilegio del tutto aristocratico.
La questione muta durante lepoca barocca, momento di grande espansione per la lirica, quando vengono inaugurati a Venezia due teatri pubblici, il Teatro San Cassiano (1637) e il Teatro Santi Giovanni e Paolo (1639). Il grande pubblico può ora partecipare a tali tipologie di intrattenimento e gli autori devono dallaltra parte adeguarsi alle esigenze della nuova platea; gli scrittori scelgono di mettere in scena trame vicine alla quotidianità, compongono melodie  più orecchiabili e arie che permettono ai cantanti di dimostrare il proprio talento canoro.
Da questo momento in poi lopera riscuote sempre più successo, si diffonde in Europa, a partire dalla Francia e dalla Germania fino alla Russia, con modalità e caratteristiche specifiche che si rifanno alle tradizioni locali.
In epoca seicentesca i soggetti prediletti sono i poemi omerici, gli scritti virgiliani e le vicende cavalleresche, con una predilezione per Ariosto e Tasso; gli spettacoli sono impreziositi da spunti comici e fantasiosi e caratterizzati musicalmente da un basso continuoaccompagnato da strumenti a fiato e ad arco.
In Italia, a segnare leffettivo stacco dal gusto rinascimentale è Claudio Monteverdi (1567-1643), che propone opere definite da espressioni alte e colte, varietà di musiche e intrecci inaspettati. Con il compositore cremonese le arie, che si fanno accattivanti esibizioni canore, rubano sempre più spazio al recitativo; con Monteverdi infatti laspetto letterario perde dimportanza, mentre diviene centrale lelemento del canto.
In Francia, più o meno nello stesso periodo, è Jean Baptiste Lully(1632-1687)) a dominare la scena. Dopo uninfanzia difficile, Lully emerge dai problemi dovuti alla povertà e grazie al proprio talento e alla buona sorte, riesce a farsi apprezzare dal re in persona. È proprio Luigi XIV che lo vuole prima direttore dellorchestra reale poi sovrintendente della musica di corte e infine direttore del primo  teatro dopera fondato a Parigi. Lully, consapevole del fatto che il pubblico francese non ama la lirica italiana poiché non riesce a comprenderne i dialoghi, si adopera per comporre opere basate su libretti francesi, dando così vita ad un nuovo genere: la tragédie-lyrique. Tali spettacoli presentano uno struttura a cinque atti preceduti da un prologo, inframmezzati da balletti e caratterizzati da canti più vicini alla prosa che al bel cantodellopera italiana. Le rappresentazioni hanno come soggetti prediletti il mito o le gesta di personaggi storici del passato.
In generale possiamo dire che per la prima metà del Seicento è l’ “opera seriaa farla da padrone: gli argomenti sono storici o mitologici, le vicende sono ambientate in epoche indefinite e il vero protagonista dellesibizione è il cantante. Succede spesso che gli artisti, durante lesecuzione dello spettacolo, si cimentino nei propri cavalli di battaglia, proponendo al pubblico spezzonidi altre opere, estranee alla narrazione. Sono le arie da baule, così definite perché gli attori se le portavano dietro in ogni teatro, come una sorta di valigia, da cui di volta in volta estraevano occasioni per mandare in visibilio il pubblico. Tipiche di questo periodo sono anche le cosiddette arie da sorbetto: le arie sono esibizioni canore in cui il cantante dimostra le sue qualità tecniche, ma durante le quali sulla scena non accade nulla, succedeva dunque che i nobili, che avevano già udito numerose volte quei passi, ne approfittassero per farsi servire dai lacchè sontuose coppe di gelato.
A inizio Settecento, in Italia, incontriamo un altro grande nome che ha segnato la storia dellopera lirica: Pietro Metastasio (1698-1782), nominato poeta di corte a Vienna e autore di più di centocinquanta libretti, da cui i compositori suoi contemporanei hanno redatto quasi settecento versioni operistiche.


A metà Settecento inizia a delinearsi il genere buffo, con vicende che si ispirano alla quotidianità, e  melodie specifiche per i diversi personaggi, la trama è zeppa di equivoci da cui si delineano situazioni divertenti, quasi sempre a lieto fine. Farà in seguito parte di questo genere il Barbiere di Sivigliadi Gioachino Rossini (1792-1868).
Non si può proseguire oltre senza chiamare in causa Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), ragazzo prodigio nato a Salisburgo, autore di opere immortali tra cui Le Nozze di Figaro, Così fan tuttee Don Giovanni. Mi preme ricordare che lartista austriaco era così appassionato alla musicalità della lingua italiana da comporre alcune delle sue opere più celebri proprio nel nostro idioma. Sempre a lui si deve la stesura della coinvolgente fiaba musicale Die Zauberflöte, ossia Il Flauto magico.
Il melodramma raggiunge il massimo splendore nellOttocento, con autori come Gioachino Rossini, Vincenzo Bellini, Gaetano Donizetti e Giuseppe Verdi.
Così come si sono dette due parole su Mozart, credo sia doveroso ricordare qualche breve nozione su questi colossi della lirica mondiale.
Rossini (1792-1868), originario di Pesaro, caratterizza le sue opere con una frizzante vena comica, come si evince dal sovra-citato Figaro qua, Figaro là”, da Il Turco in Italiao dalla fiaba Cenerentola.
Il catanese Bellini (1801-1835) si cimenta invece in opere tragiche, ed è con lui che trionfa quello che viene definito il bel canto; i suoi lavori più noti sono sicuramente La Normae La Sonnambula.
Donizetti (1797-1848) è un instancabile musicista bergamasco, nonché – pare un affascinante conquistatore. Tra i suoi capolavori:Don Pasquale, Lelisir damoree La Fille du Régiment.
Verdi (1813-1901) nato a Roncole di Busseto irrompe nella scena con un folle spirito rivoluzionario e patriottico, a lui si deve il celebre brindisi de La Traviata, e il meraviglioso coro Vapensiero sullali doratede Il Nabuccoo ancora i famosi spettacoli Aidae Rigoletto.
La Francia dellOttocento invece è positivamente segnata dal diffondersi della Grand opéra. Parigi si dimostra una capitale vivacissima sotto il profilo creativo e culturale, tant’è che molti artisti si stabiliscono lì a vivere.
Caratteristica prima della Grand opéra” è lessere grandiosa: tutto è spropositato e sfarzoso, lo spettacolo ha il preciso intento di suscitare stupore e meraviglia in chi guarda il palco. Le scenografie sono imponenti e complesse, le coreografie presentano scene di massa, a cui partecipano anche il coro e numerosi ballerini, lorchestra stessa è costituita da numerosi musicisti, così che il suono risulti per il pubblico ancora più coinvolgente.
Il modello francese ottocentesco ha un impatto decisivo sulla produzione operistica successiva, detta di transizione. Nelle opere che vanno sotto tale definizione decadono le antiche convenzioni che confluiscono nella Grande opera, rivisitazione italiana della Grand opérafrancese.
Musicisti di transizionesono Amilcare Ponchielli, Arrigo Boito e Alfredo Catalani, nonché il francese Georges Bizet (1838-1875), il quale con la sua Carmenapre nuove strade alla lirica europea del tempo.


In questa fase gli operisti italiani accantonano i soggetti storici e si dedicano alla creazione di drammaturgie di tipo realista o verista.
Nominando importanti autori ed elencando insostituibili opere, siamo arrivati agli inizi del Novecento. È Giacomo Puccini (1858-1924) a segnare questi anni, con le sue indimenticabili eroine tragiche, e con i suoi inestimabili componimenti, tra cui Turandot, Tosca, Bohèmeo ancora la delicata Madama Butterfly” – che è anche la mia opera preferita .
Cari lettori, eccoci dunque arrivati al termine di questo mio breve excursussullopera lirica, volutamente incentrato su alcuni autori ed epoche, prima di arrivare al nostro regale Teatro Regio.
Meritano ancora un cenno le zone dellEst, dove prende forma uno stile musicale che racconta la storia del paese, traendo i suoi elementi dalla tradizione popolare, come danze e melodie. Tra i più noti compositori russi va almeno  citato Rimskij-Korsakov (1844-1908), che, insieme a Glinka (1804-1857), fa parte del famoso Gruppo dei Cinque, grandi compositori classici i quali, a far data dal 1856, a San Pietroburgo danno vita a un filone musicale tipicamente russo.
Sarebbe però imperdonabile non riprendere almeno in chiusura Richard Wagner (1813-1883), il rivoluzionario artista tedesco originario di Lipsia, uno dei più importanti musicisti di ogni epoca. Il compositore introduce il Wort-Ton-Drama, (Parola-Suono-Dramma), un genere musicale in cui si fondono insieme tutte le forme darte, dalla pittura alla recitazione, dallarchitettura alla musica al canto. Il suo amore per la mitologia germanica medievale è evidente nelle trame delle sue opere, dominate da personaggi come valchirie, principesse nordiche, filtri magici e valorosi guerrieri.
I tempi cambiano, i gusti si modificano e anche le forme di spettacolo devono adeguarsi allincombere del tempo che fugge.
La storia dellopera si affievolisce a partire dal XX secolo, quando la produzione di nuovi melodrammi si riduce sensibilmente.
Il pubblico è volubile e subito si appassiona ad altre forme di intrattenimento, quali la cinematografia, la radiofonia e, in tempi più recenti, la televisione, ma è anche vero che alcune cose non temono confronti, e ciò che si prova a teatro lo si sente solo lì.
I secoli si susseguono, la tecnologia avanza, dal bianco e nero si arriva agli schermi al plasma, eppure il teatro e lopera non smettono di incantare.

Alessia Cagnotto 

Torino e i suoi teatri: il Medioevo e i teatri itineranti

/

Torino e i suoi teatri

1 Storia del Teatro: il mondo antico
2 Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti
3 Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri
4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti
5 I teatri torinesi :Teatro Carignano
6 I teatri torinesi :Teatro Colosseo
7 I teatri torinesi :Teatro Alfieri
8 I teatri torinesi :Teatro Macario
9 Il fascino dell’Opera lirica
10 Il Teatro Regio.

 

2  Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti

Cari lettori, il caldo e l’afa di questi giorni hanno notevolmente limitato le mie energie, di conseguenza non ho “escamotage” letterari da proporvi per l’abituale introduzione discorsiva che è solita precedere l’argomentazione vera e propria dei miei pezzi. Non mi attarderò dunque oltre, al contrario vi propongo di entrare subito “in medias res”, nel vivo del nostro discorso sulla storia del teatro, iniziato la settimana scorsa con una premessa sulle radici antiche di tale fenomeno rappresentativo.
L’unico augurio che mi preme rivolgervi è che possiate leggere questo mio scritto in un luogo strategico, magari su una panchina ombrosa e leggermente ventilata, oppure a casa, seduti sulla vostra poltroncina preferita, mentre il ventilatore vi fa roteare i pensieri estivi.
Lo ribadisco, la materia che mi sono proposta di trattare è pressoché infinita e alquanto complessa, ma vedrò di proseguire per sommi capi, proponendovi un racconto organico ma non eccessivamente specifico, tale da rispecchiare le caratteristiche delle letture che solitamente si fanno sotto l’ombrellone.
Oggi ci occupiamo delle forme teatrali tipiche dell’epoca medievale, uno dei momenti storici maggiormente estesi e variegati che compongono le vicende dell’Europa.
Solo per rispolverare nozioni che sicuramente già avete e per rendere accetta quell’attitudine da docente che ormai è parte integrante del mio essere, vi ricordo che stiamo prendendo in considerazione quell’esteso periodo di circa mille anni che va dal 476 d.C. (caduta dell’Impero Romano d’Occidente), al 1492 (scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo).
Il termine Medio Evo deriva dal latino “media aetas” o “media tempestas”. Per lungo tempo i dotti hanno considerato tale periodo come un’ epoca “buia”, priva di quegli ideali alti e luminosi tipici dell’Umanesimo e del Rinascimento. Bisognerà attendere l’Ottocento affinché l’atteggiamento degli studiosi cambi, e si inizi a considerare con attenzione i molteplici avvenimenti importanti che si susseguono a partire dalla caduta dell’Impero Romano fino all’inizio dell’epoca moderna.


Lungi da me propinarvi in questa sede una lezione di storia, sarebbe davvero troppo complesso e non opportuno, quello che posso invece fare è – per semplificare la questione- proporvi di richiamare alla mente immagini simboliche e, se vogliamo, stereotipate, di quei secoli, in modo da immedesimarci il più semplicemente e velocemente possibile in quel “guazzabuglio medievale”.
Vi invito dunque a pensare al capolavoro bergmaniano de “Il settimo sigillo” (1958), in cui il contrastato bianco e nero avvolge le melanconiche vicende dei personaggi, primo fra tutti Antonius Block (Max von Sydow), cavaliere di ritorno dalla Crociate, accompagnato dal fedele servo Jöns. Il film incarna con magistrale maestria la comune visione che si ha dell’epoca medievale: impregnata di religiosità opprimente, in cui la fede nella magia e nell’ultraterreno prendono il sopravvento sul raziocinio e in cui la violenza delle guerre si affianca alla povertà dilagante.
Iconiche e indimenticabili sono le emblematiche scene della processione dei guitti e dei flagellanti e quella finale, in cui le sagome dei protagonisti “danzano solenni allontanandosi dal chiarore dell’alba verso un altro mondo ignoto”. Ed ora che siamo pronti per proseguire, ormai pienamente contestualizzati in questi secoli lontani ma pur sempre affascinanti, prima di tutto occorre dimenticarci del concetto di teatro greco e latino. Con il crollo dell’Impero Romano l’antica istituzione teatrale viene surclassata da un’idea di teatro imprecisa e nebulosa e dai confini decisamente più labili rispetto all’antico. Rientrano infatti nel generale concetto di spettacolo teatrale svariati fenomeni, dai riti liturgici alle feste popolari, dall’esibizione di giullari e saltimbanchi, alle sacre rappresentazioni.
La memoria del teatro classico sopravvive grazie agli amanuensi, come testimonia la monaca Hroswita (935-973), la quale riporta che nei monasteri autori come Terenzio vengono ancora letti e trascritti, tuttavia si tratta appunto di semplici letture e non di rappresentazioni a tutti gli effetti.
In epoca medievale si parla di “teatralità diffusa”, espressione che si riferisce alla nascita e alla diffusione di diverse figure che differenziano i numerosi professionisti dello spettacolo, comunemente chiamati “histriones”. Accanto agli attori comuni, troviamo “joculatores”, “mimi”, “scurrae”, “menestriers” o “troubadours”; tra questi il ruolo più diffuso è sicuramente quello dello “joculator”, ossia “colui che si dedica al gioco”, ma lo “joculator” è anche – in senso lato- il chierico o il monaco incline al vagabondare, – il “gyrovagus”- che è senza fissa dimora e conseguentemente privo di un ruolo stabile all’interno della società.

La figura del teatrante, sia esso un “histrione” o un giullare, è da subito considerata negativamente, tant’è che la storia degli attori può considerarsi parimenti come la storia della loro condanna.
Certo, anche nell’antichità gli attori non godevano di particolari riconoscimenti, ma è proprio in epoca medievale che la situazione si inasprisce.
Se tra voi lettori vi è qualche disneyano convinto, avrà sicuramente presente, ne “Il gobbo di Notre Dame”, il disprezzo che prova il malvagio giudice Frollo nei confronti non solo del popolo gitano, ma degli umili parigini che partecipano alla “Festa dei Folli”. Il cartone del 1996 altro non fa che sottolineare quel lunghissimo conflitto che nasce proprio in epoca medioevale, tra il mondo ecclesiastico e i teatranti. Di tale dissidio oggi chiaramente non si percepisce più nulla, ma fateci caso: quanti tendoni viola avete visto ancora adesso all’interno dei teatri? (il viola è il colore dei paramenti liturgici usati in Quaresima). Per comprendere appieno questo contrasto è opportuno pensare alla rivoluzione culturale attuata dal Cristianesimo, i cui primi scrittori, gli apologisti, pur accogliendo la tecnica letteraria e la retorica della civiltà classica, rifiutano la società pagana e la sua concezione della vita. Della cultura classica in genere il teatro era considerato l’espressione più terrena e diabolica. I giullari e i teatranti sono visti come “instrumenta damnationis” e condannati senza pietà per le turpitudini a loro attribuite. Moltissimi sono i documenti che attestano le accuse mosse contro gli uomini di spettacolo, ma sono proprio tali condanne a essere le migliori fonti a cui attingere per studiare l’attività giullaresca di tale periodo.
Le motivazioni di biasimo sono riducibili a tre termini specifici: l’attore è “gyrovagus”, “turpis” e “vanus”. Con il primo termine si sottolinea il “porsi ai margini” e lo stare al di fuori dell’organizzazione sociale; in seconda istanza l’arte del giullare è priva di contenuto, cioè “vana”, ma ciò che è vano è mondano e ciò che è mondano è diabolico; infine, l’attore è “turpis”, perché è colui che stravolge (“torpet”) l’immagine naturale delle cose, intervenendo e modificando la natura, così come Dio l’ha creata, sublime e perfetta.

Tale condanna riguarda tutti i tipi di travestimenti, attività specifiche anche di altri contesti, quali la festa popolare e la grande festa carnevalesca.
Non di meno i giullari sono un elemento costante della vita quotidiana, come ben dimostrano le arti figurative: essi compaiono numerosi, raffigurati con sembianze animalesche e bestiali in particolar modo nei codici miniati e nei capitelli delle chiese. La figura del giullare è tuttavia molto complessa e ricopre diversi ruoli. Uno degli incarichi a lui affidabili, ad esempio, è quello di diffamare determinati individui, di qui la “satira contro il villano”, – il contadino è sempre il bersaglio più gettonato – particolarmente diffusa dall’anno Mille nelle “chouches” aristocratiche e borghesi. Egli è però anche un narratore, un cantastorie, autore sia delle amate “Chansons de geste”, sia di favolette o “fabliaux”, brevi storie in cui i protagonisti si muovono nella sfera del quotidiano, avvicinandosi alla “farsa”. L’acerrimo dissidio tra Chiesa e Teatro non si esaurisce nel solo svilire e condannare la figura dell’attore, vi è anche un altro aspetto da tenere in considerazione: il rito purificatore e spirituale che si contrappone alla festa mondana.
Il rito cattolico è in effetti ricco di elementi spettacolari e trova il suo culmine nella Santa Messa, in quanto rappresentazione simbolica di un avvenimento: “Fate questo in memoria di me”. Nell’assistere al rito, inoltre, il fedele non si limita alla mera contemplazione del mistero che lo trascende ma partecipa attivamente al rituale che lo coinvolge.
Rimanendo in ambito religioso, si diffonde nel Medioevo il “tropo”, una particolare cerimonia ottimamente esemplificata dal “Quem quaeritis?”, le cui battute sono tratte direttamente dai testi evangelici. In questo caso specifico la vicenda rappresentata descrive la visita delle pie donne al sepolcro di Gesù, esse lo trovano vuoto e subito assistono alla discesa di un angelo che annuncia loro l’avvenuta resurrezione.

Dal “tropo” si sviluppa il dramma liturgico, che può svolgersi in una piccola parte della chiesa o investirla totalmente, avvalendosi in questa circostanza di allestimenti scenici ben determinati e con precisi valori simbolici. Nel dramma liturgico troviamo per la prima volta l’idea della scena “simultanea”, caratteristica prima dei “misteri”. Si tratta di particolari sacre rappresentazioni allestite fuori dalle mura delle chiese e prive di connessioni con il cerimoniale liturgico ma dirette da chierici o preti, la rappresentazione era solitamente accompagnata da didascalie in latino, vero e proprio elemento che fa da “trait d’union” con il recinto sacrale. Uno dei “misteri” più tipici e apprezzati è lo “Jeu d’Adam” – spettacolo composto da un autore normanno, e particolarmente diffuso nel XII – secolo in cui per la prima volta vengono allestiti dei “luoghi deputati”, atti a rappresentare la globalità dell’Universo, costituito da Terra, Paradiso e Inferno.
I luoghi deputati, anche chiamati “mansiones” (case), sono costruzioni in legno e tela che delimitano zone circoscritte in cui avviene una determinata azione.
Tali spettacoli – dramma liturgico e “misteri”- vengono realizzati e allestiti da laici, ma appartengono nondimeno alle diverse forme di teatro cristiano, poiché il tutto è incentrato sulla visione, semplificata e drammatizzata, delle Sacre Scritture e della vita dei Santi, o in altre parole, sull’eterna lotta tra Bene e Male.
Vi sono poi i “grandi misteri”, che si svolgono in più giornate ma che non differiscono di molto dalle rappresentazioni più semplici.
Queste manifestazioni sono essenziali per il credente, poiché rappresentano e sintetizzano con semplicità tutto ciò che il buon cristiano deve sapere, la funzione culturale dei “misteri” non differisce poi molto da quella della “Biblia pauperum”, ossia la “Bibbia dei poveri”, una raccolta di immagini che rappresentano scene della vita di Gesù e le figure e le vicende dell’antica storia di Israele.

Siamo dunque arrivati al termine, vi ho grossomodo raccontato delle principali manifestazioni teatrali che fioriscono in epoca medioevale; esse nascono in quei secoli lontani ma perdurano nel tempo, soprattutto laddove gli spettacoli assumono cadenza annuale e finiscono per tramutarsi in ricorrenze tradizionali.
Sottolineo ancora che gli spettacoli religiosi non sono altro che il rovescio cristiano degli antichi riti carnevaleschi e pagani della fecondità, tanto che a volte si fondono con essi.
Ancora una volta spero di avervi invogliato ad approfondire l’argomento, magari cercando qualche festività o ricorrenza tradizionale a cui partecipare. Il teatro ha molti volti, dall’aspetto tradizionale dello spettacolo in prosa fino alla festa popolare, tale sua peculiare natura ci offre l’opportunità di scegliere quale tipologia di stupore vogliamo vivere, qualcosa di più intimo o un’esperienza condivisa con la comunità, sta a noi decidere che maschera indossare.

Alessia Cagnotto

Di motori non ne capisce niente…

/

Armando Belletti, per ragioni di lavoro, si trovò costretto a vivere in città per buona parte della settimana.

Non che Pavia fosse una gran metropoli ma era ben altra cosa dalla quieta e sonnecchiosa Borgolavezzaro.

Smog, traffico, ritmi caotici e stressanti lo inducevano quanto prima a fuggir via lontano da quel trambusto. Con la sua utilitaria, sbrigati gli impegni, s’avviava verso la periferia e, in breve, si trovava in aperta campagna. La Lomellina con i suoi campi geometrici, le risaie, i prati, le boschine, l’aria finalmente pulita e l’unico rumore – oltre al ronfare del motore dell’auto – non era tale ma un delicato e allegro cinguettare degli uccelli.Armando rallentava la corsa e si godeva la vista di quell’ambiente naturale salvaguardato da eccessi edilizi, punteggiato da cascine e campanili, immaginando cosa l’aspettava a tavola: il risotto, il salame d’oca di Mortara, le cipolle di Breme, gli asparagi di Cilavegna e, come dolce, le offelle di Parona. Questi pensieri gli mettevano quasi commozione. “Cavolo, quando torno al mio paese mi pare di rinascere. Qui sì che la vita ha i tempi giusti. Stare in città sarà anche necessario ma mi pesa troppo”. Un giorno, imboccata una strada non asfaltata che tagliava in due una collinetta, l’auto si mise a fare le bizze. Il motore tossiva, ingolfato. Perdeva colpi e si fermò. Armando, pronunciando termini sui quali – per rispetto del lettore – si ritiene più utile sorvolare –   provò a rimetterla in moto, girando con foga la chiave d’accensione. Ma non c’era nulla da fare. Il motorino – grrr, grrr – girava   vuoto. L’auto restava lì, immobile, senza dar segni di vita, nel bel mezzo della stradina di campagna. Belletti scese, sollevò il cofano, guardò perplesso e sconsolato il motore senza avere la minima idea di dove mettere le mani. Mentre rimuginava sull’incidente che gli era capitato, avvertì un rumore alle sue spalle. Si girò e vide   un bellissimo ed elegante cavallo dal manto lucido e nero. L’animale lo guardava e si mise a girare attorno al veicolo. S’avvicinò e, con sguardo indagatore, scrutando il motore disse , con voce grave :“ Un bel guaio, sa? Per me è partito lo spinterogeno”. Armando, attonito e ammutolito lo guardò incredulo mentre l’animale, trotterellando se ne andò via per la sua strada. Di lì a pochi minuti sopraggiunse un contadino, con un forcone in spalla. Si conoscevano. Bernardo Trefossi era noto nei dintorni per la sua eccentricità. Vide il Belletti stranito, con la bocca aperta, e chiese cosa mai gli fosse capitato. Armando, balbettando, raccontò l’episodio del cavallo e il contadino, incuriosito, domandò: “ Mi dica. Il cavallo era forse nero?”. Alla risposta affermativa del Belletti, il contadino, battendogli la mano sulla spalle, lo rassicurò: “Mi dia retta. Non creda ad una parola di quanto le ha detto quel cavallo. Di motori non ne capisce niente”.

E se ne andò, fischiettando per la sua strada. Quando Armando, chiamato il soccorso stradale, riuscì ad arrivare a Borgolavezzaro era omai sera inoltrata. Ancora scosso per l’avventura del pomeriggio, raccontò il fatto agli amici del Bar “Al cervo d’oro”. Nessuno lo contraddisse ma Vittorio Scalmanati, detto “incudine”, fabbro di mestiere, all’insaputa del vicesindaco e guardando gli altri avventori,   si portò l’indice alla tempia. Dalla smorfia e dal gesto tutti intesero ciò che andava inteso: il Belletti era un po’ “tocco” ma non era il caso di contraddirlo. In fondo, come diceva lui stesso, “cavolo, quelli lì un po’ balordi non fanno poi del male a nessuno”. Appunto!

Marco Travaglini

UniTo: quando interrogavano Calvino

/

Torino e la Scuola

“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
Le riforme e la scuola: strade parallele
Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata dalla Rai
Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino
Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour
UniTo: quando interrogavano Calvino
Anche gli artisti studiano: l’equipollenza Albertina

 

9 UniTo: quando interrogavano Calvino

Lo dico subito: tengo molto al tema di questo articolo e non medierò in nulla la mia passione per l’autore che andrò ad affrontare quest’oggi per la mia rubrica sugli studenti torinesi. Si tratta di uno scrittore che purtroppo a scuola non viene approfondito e che rischia, a mio parere, di non essere sufficientemente conosciuto.
Sto parlando di Italo Calvino, nato nel 1923 a Santiago de Las Vegas, (Cuba), da genitori italiani, entrambi docenti universitari di materie scientifiche. In seguito, nel 1925, la famiglia si trasferisce a Sanremo, dove Italo trascorre l’adolescenza e compie il primo ciclo di studi, infine, nel 1941, si trasferisce a Torino per frequentare l’Università di Agraria. Nel 1943 entra nella brigata comunista Garibaldi. Dopo la guerra, nel ’45, Calvino lascia la Facoltà di Agraria e si iscrive a Lettere e nello stesso anno aderisce al PCI. Alla Facoltà di Lettere di Torino si laurea nel 1947 con una tesi su Joseph Conrad. A Torino entra in rapporto con Natalia Ginzburg e Cesare Pavese a cui sottopone i suoi racconti. Inizia a collaborare con il quotidiano “l’Unità” e con la rivista “Il Politecnico” di Elio Vittorini. Nel frattempo si afferma la celebre casa editrice torinese Einaudi (fondata nel ‘33 da Giulio Einaudi), all’interno della quale collaborano Pavese e Vittorini, di cui Calvino è diventato ormai grande amico. Grazie a Pavese viene pubblicato nel 1947 il primo romanzo di Italo “Il Sentiero dei nidi di ragno”. Le sue doti di scrittore non possono passare inosservate, così due anni più tardi esce una prima raccolta di racconti “In ultimo viene il corvo” (1949), seguito da una moltitudine di altri successi. Nel ‘57 lascia il PCI, e nello stesso periodo collabora con diversi giornali, tra cui “Officina”, rivista fondata da Pier Paolo Pasolini, e dirige con Vittorini la rivista “Menabò”.

Dopo i successi lavorativi, nel 1962, Calvino incontra l’amore, conosce infatti Esther Judith Singer, una traduttrice argentina con cui si sposa – a Parigi- nel 1964. Italo rimane con la compagna nella capitale francese fino al 1980, anno in cui si trasferisce a Roma e pubblica “Palomar”. Nel 1984 lascia Einaudi e passa a Garzanti. Nel 1985 riceve il riconoscente invito da parte dell’Università di Harvard a tenere una serie di conferenze. Italo accetta e inizia a preparare le sue lezioni, ma, purtroppo, viene colto da un ictus improvviso nella sua casa a Roccamare, presso Castiglione della Pescaia. Muore pochi giorni dopo a Siena, nella notte tra il 18 e il 19 settembre. I testi tuttavia vengono pubblicati postumi nel 1988 con il titolo “Lezioni americane: sei proposte per il prossimo millennio.” Per quel che mi riguarda, Calvino l’ho scoperto per caso, curiosando tra i molti libri che a casa ci sono sempre stati, giocando a leggere titoli che mi suggerivano storie elaborate e fantasiose. Ricordo una copertina sul verde, leggermente consunta, avvolgeva delle pagine ingiallite: era la trilogia de “I nostri antenati”. È stata una delle prime opere che ho letto con attenzione e totale trasporto, ho da subito amato lo stile lineare e lucidissimo dell’autore, il suo modo semplice di raccontare con misurato rigore, le parole fluide che si dispongono quasi in automatico a comporre le frasi, come pezzi di un puzzle che per forza così si devono incastrare.

Leggere Calvino è bello. Lasciarsi trasportare dalle trame dei suoi racconti è un’esperienza avvolgente, completa, rilassante, ma anche occasione di riflessione, perché Italo non è solo maestro della narrazione, ma anche uomo di grande cultura e forbito pensatore. Calvino tuttavia, prima di diventare un grande fra i grandi, fu uno studente fra gli studenti, e viene un po’ da sorridere all’idea di immaginarselo di fronte all’Università, intento a rivedere gli appunti e a ripassare per gli esami, mentre sfoglia velocemente i propri libri. E fa ancora più meraviglia immaginarselo lì, forse lievemente impaurito, in attesa di essere interrogato da qualche professore per cui provava magari timore reverenziale. Certamente di professori che incutevano, diciamolo pure, “paura” all’Università di Torino ne sono passati molti, e la storia dell’istituzione è decisamente antica. Le origini dell’Università degli Studi Torino risalgono ai primi anni del XV secolo. Dopo la morte improvvisa di Gian Galeazzo Visconti alcuni docenti delle Università di Pavia e Piacenza proposero a Ludovico di Savoia-Acaia la creazione dello “Studium Generale” di Torino, in quanto sede vescovile e crocevia della rete di collegamenti tra la Francia, la Liguria e la Lombardia. La nuova Università nacque ufficialmente nel 1404 con la bolla di Benedetto XIII, papa di Avignone.
Dal 1443 fino all’inaugurazione del prestigioso palazzo di via Po vicino a Piazza Castello nel 1720, l’Università ebbe sede nel modesto edificio acquistato e ristrutturato appositamente dal Comune all’angolo tra via Dora Grossa, l’attuale via Garibaldi, e via dello Studio (poi via San Francesco d’Assisi).

L’Università torinese, pur non competitiva rispetto alle altre grandi Università italiane, era comunque di grande rilievo, non dimentichiamo che Erasmo da Rotterdam vi conseguì la laurea in Teologia nel 1506. Particolarmente floridi per l’Università furono gli anni delle riforme di Carlo Alberto (1831-1849). Il periodo albertino è caratterizzato dallo sviluppo di alcuni istituti, dalla creazione di nuovi e dalla presenza sul territorio di docenti di prestigio, quali ad esempio Augustin Cauchy, matematico e ingegnere francese, o Pier Alessandro Paravia, letterato e mecenate italiano di grande fama. Nel corso degli anni molte furono le innovazioni e le modifiche che i vari corsi subirono, per esempio, nel 1844 le Facoltà di Medicina e di Chirurgia furono nuovamente riunite e riformate, mentre nel triennio 1846-48 si provvide, tra forti contrasti e resistenze, a riformare la Facoltà di Scienze e Lettere che il 9 ottobre 1848 cessò di esistere. Si istituirono due Facoltà separate, una di “Belle Lettere e Filosofia” e l’altra di “Scienze Fisiche e Matematiche”, quest’ultima tra l’altro poteva vantare nomi di docenti illustri quali Avogadro, Bidone, Plana, Giulio, De Filippi, Sobrero, e Menabrea. Continuando per una più che rapida carrellata storica, è necessario ricordare un altro momento storico cruciale, non solo per la storia della Scuola, ma per la Storia con la “S” maiuscola. La riforma Gentile, varata nella prima metà del 1923, che riconobbe 21 Università e inserì quella di Torino tra le dieci a carico dello Stato. Siamo durante il ventennio fascista, periodo in cui l’Ateneo torinese cercò di mantenere la massima autonomia didattico-scientifica. Quando il regio decreto del 28 agosto 1931 stabilì che i docenti avrebbero dovuto giurare di essere fedeli non solo alla monarchia, ma anche al regime fascista, in tutta Italia solo 12 insegnanti su oltre milleduecento rifiutarono di prestare il giuramento, perdendo così la cattedra. Tre di questi erano membri del corpo docente dell’Università di Torino: Mario Carrara, Francesco Ruffini e Lionello Venturi. Nell’ultimo secolo la Facoltà di Lettere ebbe insegnanti come Luigi Pareyson, Nicola Abbagnano, Massimo Mila. A Giurisprudenza insegnarono Luigi Einaudi e Norberto Bobbio. Molti tra i protagonisti della vita politica italiana del Novecento si formarono all’Università di Torino, come Gramsci e Gobetti, Togliatti e Bontempelli.

Alla fine degli anni Sessanta la nuova (e attuale) sede del “Palazzo delle Facoltà Umanistiche”, noto anche oggi come “Palazzo Nuovo”, trovò spazio nella moderna costruzione di Via Verdi. Nel 1998 è stata fondata l’Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”. Nel 2012 è stato inaugurato il “Campus Luigi Einaudi”, nuovo polo accademico con funzione di sede unica per i corsi di studio nell’ambito delle Scienze giuridiche, politiche ed economico-sociali. L’identità dell’Università degli Studi di Torino è costituita dal sigillo, il cui primo esemplare risale al 1615. Vi è rappresentato un toro, che indica lo stretto legame dell’Ateneo con la città di Torino, adagiato su tre libri, che alludono alle prime tre Facoltà dello “Studium” torinese: Teologia, Leggi, Arti e Medicina. Il toro ha la testa volta all’indietro verso un’aquila ad ali aperte che poggia sulla groppa dell’animale. L’aquila fissa il sole, simbolo della sapienza, ed è coronata, perché è il re degli uccelli ed è anche insegna dell’imperatore che, con diploma del 1412, aveva confermato la bolla papale di fondazione, risalente al 1404. Sui tre libri sono incise una crocetta, un fermaglio e un altro segno indistinto. Questa la legenda: “SIGILL(um) UNIVERS (itatis) AUGUSTAE TAURINORUM”. Il logo divenne emblema dell’Università dal 1925.

Dopo questo breve “excursus” possiamo focalizzarci nuovamente sul nostro studente per oggi prediletto.
“Gli artisti usano le bugie per dire la verità” dice V, personaggio mascherato da Grey Fox, disegnato da David Loiyd, protagonista di “V per Vendetta”, una serie di fumetti scritti da Alan Moore, allo stesso modo – se mi è permesso l’ardito accostamento tra l’autore italiano e il mondo fumettistico inglese- Calvino usa le sue narrazioni favolistiche come spunto per un’ardita riflessione sull’esistenza e sulla condizione dell’uomo contemporaneo.  L’autore occupa un posto di primo piano non solo nella storia della narrativa ma anche nel nostro panorama culturale italiano, sia per i suoi lucidi interventi di critico militante, sia per la centralità del suo ruolo di collaboratore nella politica editoriale della casa editrice “Einaudi”, dove ha lavorato per trent’anni.
Calvino sostiene una concezione impegnata del lavoro intellettuale e della letteratura, tanto che nel 1955 scrive nel suo saggio “Il midollo del leone”: “Noi pure siamo tra quelli che credono in una letteratura come educazione di grado e di qualità insostituibile”.

La produzione di Calvino, per la varietà di innovazioni fantastiche e per le diverse modalità narrative, non trova eguali in nessun altro autore del Novecento. Il tema costante della sua produzione è la condizione storica dell’uomo, il suo stare al mondo, argomentazione a lui cara sia nei primi scritti, fino al suo ultimo libro “Palomar” (1983) in cui porta avanti una lucida e disincantata analisi della condizione dell’essere umano, che si interroga e che vuole capire se stesso e l’universo in cui vive.
La multiforme produzione calviniana è solitamente divisa in “fasi”: “neorealistica”, “allegorico-fiabesca” e “fantascientifica”. È utile però ribadire che tali classificazioni, che sono elastiche e strumentali, non vanno intese come un’ordinata successione cronologica, con modalità narrative specifiche che si concludono definitivamente una dopo l’altra; è infatti caratteristica preminente in Calvino la coesistenza, spesso anche all’interno dello stesso testo, di atteggiamenti contrastanti, che però egli riesce sapientemente a mediare.

Il suo essere narratore peculiare è evidente già dal suo primo romanzo, edito nel 1947, titolato “Il sentiero dei nidi di ragno”, un testo inseribile all’interno del filone neorealistico. Il libro affronta la tematica della Resistenza, argomento caro a molti altri suoi contemporanei, ma che Calvino espone secondo la sua ottica innovativa e inaspettata, così il lettore si trova catapultato non in un “semplice” romanzo storico, ma in una sorta di “favola a lieto fine”. Protagonista del romanzo è Pin, un bambino maturato velocemente, costretto a conoscere la violenza e la durezza della vita per strada. La vicenda ci è raccontata attraverso il suo sguardo di fanciullo cresciuto, che certo si inserisce nelle vicende degli adulti, ma che comunque non riesce a comprendere del tutto.
La dimensione favolosa e fantastica è di certo la più autentica per Calvino, come dimostrano i romanzi “Il visconte dimezzato” (1952), “Il barone rampante” (1957) e “Il cavaliere inesistente” (1959). Tali opere, conosciute come la trilogia de “I nostri antenati”, fanno capo al genere del racconto filosofico, filone letterario che in Italia non ha mai conosciuto particolari apprezzamenti. Va però detto che, se nel racconto filosofico l’intento è dimostrativo e raziocinante, in Calvino dominano il gusto per l’invenzione e il fantastico. In questi testi favolistici vi è però una sorta di “doppio fondo”, un messaggio nascosto, che il lettore accorto scova se si sofferma a pensare tra un capoverso e l’altro. Si tratta di tre romanzi allegorici sulla condizione dell’uomo contemporaneo, “alienato”, impossibilitato a raggiungere la completezza (come dichiara l’autore stesso nella presentazione editoriale de “Il visconte dimezzato”). Oltrepassiamo la gradevolezza della “fabula” e soffermiamoci dunque sul motivo di fondo del racconto di colui che è “dimidiamento dell’uomo contemporaneo, mutilato, incompleto, nemico a se steso”, o sul principio enunciato dal Barone: “chi vuol guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria” oppure sulla vicenda di Agilulfu, che è solamente un’armatura vuota, metafora dell’essere umano deprivato della sua irripetibile individualità, ridotto a “funzione”, usato come mezzo e non pensato come fine. Favole certo, ma con un “Ὁ μῦθος δηλοῖ ὅτι” (o mythos deloi oti: “la favola insegna che”, di esopica memoria) da non sottovalutare.

L’interesse per la condizione umana è altresì evidente ne “Le Cosmicomiche” e in “Ti con zero” (1967). Si tratta di opere inscrivibili alla fase “fantascientifica”, in cui l’autore attinge alla fisica quantistica, alla genetica e alla biochimica per sottoporre a discussione una moltitudine di problematiche scientifiche. Qfwfq è l’impronunciabile nome dell’entità protagonista, vecchia quanto il mondo e con la stessa memoria del mondo. È proprio tale improbabile personaggio ad analizzare un microcosmo lontano dal nostro, esistente prima della nascita del concetto di spazio e di tempo, nel quale però sono già presentati i conflitti, le tensioni e le dinamiche interpersonali che si incontrano nel mondo di oggi. Anche in questo romanzo psichedelico vi è una riflessione celata all’interno del tessuto narrativo, e l’interrogativo costante è “L’uomo non cambia e i suoi problemi sono immutabili e insolubili”? Al lettore l’ardua sentenza.
L’autore ci coinvolge continuamente e ci esorta a rimuginare, a trarre le giuste conclusioni, ma da sommo Maestro com’è, intanto che aspetta ne approfitta per darci ancora una lezione, che forse ci spiazza e ci costringe ad ingoiare quella minuscola frase che stavamo faticosamente formulando. Nell’opera “Le città invisibili” egli scrive: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abbiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce fatale a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio”. E la domanda rimane aperta: “la favola insegna che?”

Alessia Cagnotto

Le ciliegie “salate”

/

Stavamo bevendo un bicchiere in compagnia quando Giorgio mi rivolse – all’improvviso – una domanda: “Ti ricordi quando andavamo per ciliegie?”.  Ci misi un attimo, giusto il tempo di mettere le mani nel cassetto dei ricordi e – trovato il filo giusto – mi vennero in mente, nitidamente, quei tempi

A Giorgio erano state le amarene rosso scuro che la Maria aveva sistemato nel cestino della frutta ad accendere la “lampadina“. In quell’istante, la nipotina della Maria, ne prese due coppie, tenute insieme dai gambi, e se le appese come fossero orecchini. Ridemmo, entrambi, di quel gesto che, tanti anni fa, avevamo fatto anche noi, scherzando tra ragazzini. All’epoca si andava in “banda” per i poderi a far razzia. Tra la fine di giugno ed i primi di luglio, nei tardi pomeriggi di quelle calde giornate d’estate, si cercavano gli alberi più carichi di ciliegie. Era una “caccia” troppo invitante. Le ciliegie sono frutti allegri, dissetanti. Ci sono quelle dolci, zuccherose, a polpa tenera ( le tenerine) e a polpa più carnosa (i duroni). E poi, le amarene e le marasche. Con gli anni ho imparato altre cose: oltre ad essere buone fanno pure bene. Sono indicate  nella cura di artriti, arteriosclerosi, disturbi renali. Contengono  buone quantità di fibre, potassio, calcio, fosforo e vitamine. Ci si possono produrre sciroppi, marmellate e liquori come maraschino, cherry e ratafià. Insomma, c’è tutto un elenco di cose positive che fanno rima con ciliegia. Ma noi, all’epoca in cui eravamo ragazzi, piacevano soprattutto perché erano il frutto di un piccolo furto e questo fatto, accompagnato dall’avventura, dai rischi e dalla voglia di trasgredire, rendeva le ciliegie il “frutto proibito” per eccellenza. Mario era arrivato al punto di sostenere una tesi tutta sua: Adamo ed Eva erano stati cacciati dal Paradiso non per colpa di una mela colta senza permesso ma di un cestino di ciliegie rosse e carnose. Il rischio più grande era quello di trovarle “salate“.

***

Infatti, capitava che i contadini di un tempo, poco inclini a tollerare le nostre scorribande, ci accoglievano con una doppietta caricata a sale grosso, determinati a scoraggiarci con la minaccia di  piantarci due schioppettate nel sedere. All’arrivo dell’estate, immancabilmente, sembravamo due eserciti in assetto di guerra. “Noi“, a gruppi di 4 o 5, lesti a salire sull’albero, cogliere le ciliegie al volo, riempire il sacco di tela o il cestino, cercando di fare il più in fretta possibile. “Loro“, i proprietari dei ciliegi dove cresceva quel ben di Dio, confezionavano cartucce di diverso calibro con sale grosso, in sostituzione dei pallini di piombo. Rinforzavano anche le linee difensive lungo i confini dei frutteti: reti metalliche orlate di filo spinato, staccionate, siepi irte di spine. Era la “guerra delle ciliegie” che, in altre località, si trasformava in una vera e propria “guerra della frutta”. Se i contadini erano i difensori del loro diritto alla proprietà privata noi, gli incursori che negavano questo diritto, sostenendo che la natura non aveva padroni, colpivamo senza pietà, svanendo subito dopo nei boschi e nella campagna circostante, a volte trascinandoci appresso i compagni feriti. “Lo si faceva per fame e per gioco. Per molti di noi era l’unico modo per mettere sotto i denti quella frutta che non potevamo comprare. Ed era una cuccagna perché a casa il cibo era scarso“, rammentava Giorgio. E, come un rosario, sgranavamo i  nomi dei nostri compagni di quella guerriglia senz’armi: io e Giorgio, Mario, Luigino “Trota” – abilissimo nel pescare nei ruscelli e nel fiume -, Remo, Marco ed anche Marina. Era, quest’ultima, una ragazzina sveglia che dava dei punti a tutti noi. Ed era golosissima di ciliegie. Il campo di battaglia più duro era il frutteto del vecchio Roger Zuffoli, detto “il marsigliese“. Aveva un paio d’ettari piantati a frutta dove si trovava di tutto: susine, albicocche, pesche, mele, pere ed ovviamente ciliegie ed amarene. Verso il limite del bosco aveva anche noci e nocciole. Roger, piccolo e secco, vestiva i pantaloni alla zuava e camicie a quadrettoni mentre in testa teneva sempre il suo basco calato sulle “ventitré“. All’epoca poteva avere si e no una settantina d’anni, gran parte dei quali passati a scaricare merci nei porti di Marsiglia e di Tolone. Era tornato a Baveno già anziano perché, diceva, ” dopo tanta acqua salata ho sentito la nostalgia dell’acqua dolce del Maggiore“. In ricordo di quegli anni, al circolo comandava sempre un bicchiere di  “pastis“,  liquore profumato all’anice, tipicamente francese, che allungava con l’acqua di una caraffa dove galleggiavano dei grossi pezzi di ghiaccio. Attaccare le sue piante era molto ma molto rischioso. Raramente riuscimmo a farla franca ed una volta, quasi, ci lasciammo le penne. Quell’episodio, ancor meglio di me se lo ricorda Mario. Stranamente silenzioso, il frutteto pareva incustodito quella sera. Saranno state le diciannove o poco meno. Roger mangiava presto e quindi pensavamo fosse quello il momento giusto per compiere l’incursione. Invece il perfido vecchietto, mangiata la foglia, si era appostato dietro al piccolo fienile con la doppietta in mano.

***

Non facemmo in tempo a renderci conto di quanto stava accadendo che l’eco dello sparo risuonò secco, costringendoci a tappare le orecchie. Colpito al sedere dalla fucilata di sale grosso, Mario cadde dal ramo. Dolorante si rialzò e tutti insieme corremmo a più non posso verso il bosco per far perdere le tracce. Mentre fuggiva a gambe levate, Mario sentiva il dolore delle ferite, poi il bruciore dei grani di sale che si scioglievano nella carne viva. Appena avvistò il ruscello, vinto dal bruciore, si gettò nell’acqua per calmare il fuoco che gli stava divorando il fondoschiena. Ma il rimedio si rivelò peggiore del male: l’acqua , accelerando lo scioglimento del sale, rese insopportabile il bruciore. Remo, appassionato collezionista di francobolli, portava sempre con se una pinzetta e con quella, tra le grida ed i lamenti di Mario, estraemmo i grani di sale, pulendo alla meglio le ferite. Per un po’, da quella sera, gli assalti vennero sospesi per poi, calmate le acque, proseguire per la disperazione dei contadini della zona, compreso Roger. Quella volta però, la “missione” si era conclusa senza il “bottino“. Mario , d’allora, non volle più prendere parte alle nostre imprese. L’invitavamo, lo pregavamo ma lui diceva sempre di no,  opponendo resistenza. Diceva che lui, ormai, non aveva più “il sedere di una volta“. In cuor nostro non ce la sentivamo di dargli torto.

Marco Travaglini

Duecentomila Lire per Alfonso Ferrero della Marmora in piazza Bodoni

/

Alla scoperta dei monumenti di Torino / Il monumento equestre si erge fiero ed imponente nel centro della piazza. Il generale Alfonso Ferrero della Marmora viene rappresentato con indosso la sua divisa militare, il mantello sulle spalle ed il capo calzato di feluca voltato verso sinistra, mentre è in sella ad un elegante cavallo con la zampa sinistra sollevata in segno di forza ed autorevolezza

Eccoci di nuovo pronti ad accompagnare i nostri lettori alla scoperta delle meravigliose opere d’arte presenti a Torino. Oggi vogliamo soffermarci sulle maestosità equestri, prendendo come soggetto della nostra usuale passeggiata “con il naso all’insù”, il monumento dedicato ad Alfonso Ferrero della Marmora. (Essepiesse)

***

Il monumento equestre si erge fiero ed imponente nel centro di Piazza Bodoni. Il generale Alfonso Ferrero della Marmora viene rappresentato con indosso la sua divisa militare, il mantello sulle spalle ed il capo calzato di feluca voltato verso sinistra, mentre è in sella ad un elegante cavallo con la zampa sinistra sollevata in segno di forza ed autorevolezza. Il generale ha gli stivali infilati nelle staffe e mentre con la mano sinistra stringe le briglie, con la destra impugna la spada puntandola in avanti, di fianco alla gamba. La statua poggia su un piedistallo lapideo quadrangolare arricchito da importanti volute angolari e ornato con elementi in bronzo, foglie d’acanto e teste di leone. Nel gennaio 1878 morì a Firenze Alfonso Ferrero della Marmora, tenente generale e comandante dell’esercito, ministro della Guerra nei governi Pinelli, Gioberti, D’Azeglio e Cavour, governatore di Milano, prefetto di Napoli nel 1861 e primo ministro a Torino dal 1864 al 1866. Due giorni dopo la città di Torino, con una delibera della Giunta, decise di rendere onore alla memoria del generale erigendogli un monumento pubblico, mettendo a disposizione 20.000 lire e aprendo una sottoscrizione di ampiezza nazionale. 

***

Il proposito era quello di realizzare un’opera di particolare rilevanza sia dal punto di vista artistico che dimensionale, un “Monumento Nazionale” per l’appunto, il cui costo fu stimato intorno alle 200.000 lire. Al finanziamento dell’opera partecipò anche il capitano Luigi Chiala, deputato al Parlamento e amico intimo di La Marmora, che inviò le 9.011 lire ricavate dalla vendita delle sue memorie, intitolate “Ricordi della giovinezza di Alfonso La Marmora” e “Commemorazione di Alfonso La Marmora”. La raccolta di fondi, nonostante la notevole partecipazione, riscontrò una notevole difficoltà nel raggiungere la cifra necessaria, tanto che il Municipio di Torino dovette mantenere aperta la sottoscrizione per ben dodici anni. Visto l’evolversi della situazione il marchese Tommaso della Marmora, nipote del generale e suo erede, preoccupato per il protrarsi dei tempi e per l’insufficienza dei fondi fino ad allora disponibili (nel 1890, anno della chiusura della sottoscrizione, si era raccolta la cifra di 73.639 lire) propose alla città di occuparsi direttamente della realizzazione dell’opera, integrando la somma raccolta con capitali propri. Tale proposito, che evidentemente aveva in mente da qualche tempo, l’aveva portato ad affidare il disegno del bozzetto di “una statua equestre in bronzo, grande circa due volte il vero, con proporzionato piedistallo” al conte Stanislao Grimaldi, aiutante in campo del generale e Regio disegnatore del re Vittorio Emanuele II che, si presume, portò a compimento l’opera senza ricevere alcun compenso. Nell’ottobre del 1886 Tommaso della Marmora, in accordo con lo scultore Grimaldi, propose al Municipio di collocare la statua al centro della nuova piazza Bodoni. Su richiesta del Sindaco di Torino, nel 1889 il Ministero della Guerra venne coinvolto nella realizzazione dell’opera equestre, rendendosi disponibile a fornire il bronzo necessario; la fusione del monumento venne eseguita nel 1891 nel Regio Arsenale di Torino, a spese del Ministero.Per la protezione del monumento si ebbe l’idea di realizzare una cancellata su disegno dell’Ing. Lorenzo Rivetti, già ideatore dell’elegante piedistallo su cui poggia la statua, ma fotografie di Mario Gabinio del 1924, testimoniano invece la presenza di una delimitazione costituita da catene poggianti su pilastrini in pietra, che venne in seguito rimossa. 

***

Finalmente il 25 ottobre 1891, alla presenza di numerose autorità politiche, civili e militari, venne inaugurata l’opera dedicata a Alfonso Ferrero della Marmora; per l’occasione il Municipio di Torino “vestì a festa” piazza Bodoni addobbando i balconi delle case, allestendo alcuni palchi e studiando una “illuminazione straordinaria”.Va ricordato e fatto notare che il monumento a La Marmora è l’unico monumento equestre, presente a Torino, dedicato ad un militare e uomo politico. Per quanto riguarda un piccolo accenno alla piazza che ospita l’opera, va ricordato che Piazza Bodoni (inserita nel cosiddetto Borgo Nuovo), ha origini ottocentesche ed è stata realizzata frammentariamente nel corso di oltre un secolo. Il primo intervento edilizio risale al primo decennio dell’Ottocento ma, per giungere alla conformazione attuale della piazza, bisognerà attendere fino al 1928, anno nel quale venne realizzato l’edificio che accoglie l’Istituto Musicale Giuseppe Verdi, diventato dal 1936 Conservatorio di Stato.Nel 2002 piazza Bodoni è stata interessata da un intervento di riqualificazione: è stata pedonalizzata e ripavimentata con lastre in pietra poste secondo un disegno a cerchi concentrici che hanno come fulcro il monumento a Alfonso Ferrero della Marmora.

 

 

Simona Pili Stella

(Foto: www.museotorino.it)