LIFESTYLE- Pagina 57

La tirlindana

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Sono ormai in pochi, sui laghi, a praticare la pesca a traino dalla barca con la tirlindana. Eppure questo semplice attrezzo ha un suo fascino e una storia. Immaginatevi una lenza in filo di rame o, in versione più moderna, in monofilo di nàilon, lunga da un minimo di 30 a oltre 60 – 70 metri, recante un finale di nàilon a cui è assicurata l’esca, il tutto avvolto su uno speciale telaietto girevole dalla sagoma molto nota detto aspo

Ci siete? Bene. L’aspo, un tempo, veniva costruito dallo stesso pescatore, artigianalmente. Oggi come oggi quest’attrezzo si trova già pronto in commercio, spesso in alluminio leggero e lucente: non vi resta che applicare il terminale con l’esca ritenuta più idonea e, sul piano teorico, siete a posto. Perché solo in teoria? Perché la chiave del successo nella pesca a tirlindana dipende dalla mano di chi la manovra. A prima vista parrebbe tutto semplice e facile come bere un bicchier d’acqua  ma non bisogna farsi ingannare dalle apparenze: occorre un certo tirocinio per impadronirsi al meglio di questa tecnica, in grado di riservare delle gran belle soddisfazioni. Intanto, occorre una buona conoscenza del fondale da battere e saper valutare con esattezza la profondità di pescaggio dell’attrezzo. Mai lasciare le cose al caso, quando si pesca con la tirlindana: sarebbe un errore imperdonabile. Ho conosciuto un “lupo di lago”, il vecchio Giuanin, in grado di valutare fondali e correnti, neanche avesse una carta nautica ficcata dentro la sua testa pelata. Per non parlare poi dei movimenti: sia lui che il suo “socio” Faustino erano dei maghi nell’accompagnare la lenza , imprimendole i movimenti giusti, manovrando la barca con misura e mestiere. Di norma i “professionisti” della pesca su lago fanno tutto da soli, usando piccole barche leggere, dei veri gusci di noce che manovrano con un solo remo, essendo l’altro braccio impegnato con la lenza.

 

Taluni ricorrono al motore di potenza fra 2 e 3,5 HP, ma è ovvio che, per quanto condotto al minimo, quest’ultimo provoca un fastidioso rumore specialmente nei fondali bassi. Un’alternativa ci sarebbe, a dire il vero: un motore elettrico, silenzioso, facile da gestire e con una velocità giusta. La tradizione però conta; e la tradizione suggerisce  che l’ideale consiste nell’ agire in due, uno in gamba nel manovrare i remi, l’altro con il tocco giusto per far andare la tirlindana. La lenza tradizionale è in rame, quella moderna – come si è detto – in nàilon. Il tipo classico, in rame cotto,  e si trova in due diametri: lo 0,30 per la pesca leggera a mezz’acqua, lo 0,50 per andare più a fondo, puntando al luccio. Un materiale flessibile ed elastico, preferibile a quello attorcigliato a treccia che risulta meno malleabile. Il nàilon, occorre ammetterlo, offre maggiori vantaggi, con un però: richiede una piombatura distribuita o raggruppata, per consentirne il corretto e rapido affondamento. Cosa che, con il filo di rame, avviene spontaneamente grazie al suo peso specifico. Il nailon non richiede una particolare manutenzione, ha un carico di rottura e di resistenza decisamente elevato, le lenze sono vendute già zavorrate e, cosa non secondaria,  costano meno. “La zavorra è il cuore di tutto!”, dice Giuanin, quando all’osteria, tra un mezzino e l’altro, molla il freno e sale in cattedra. “ Una volta si lavorava con il rame piombato alla fine, facendoci i muscoli nell’accompagnare il peso in acqua. Adesso, cari miei, si va avanti a filo di nailon  e allora non resta che applicare delle olivette di piombo lunghe di un paio di centimetri e di peso attorno  ai a due o tre grammi, distribuendole in modo regolare fino a raggiungere un peso di quasi mezzo chilo. Così, se zavorri bene, la lenza va giù che è un piacere e non corri il rischio che ti resti troppo in superficie,trascinandotela a pelo d’acqua, o di farla affondare fino a raschiare i sassi del fondo”.

 

Il “prof” Giuanin accompagna le parole con gesti decisi, caparbi quel tanto da sconsigliare il contraddittorio. La sua esperienza non ammette repliche. “ E’ molto importante anche la velocità con cui avanza la barca. Se si è in due la cosa migliore è procedere a remi, come abbiamo sempre fatto io e Faustino”, confida il vecchio pescatore.  “ Uno tiene in mano la tirlindana e l’altro rema facendo ogni tanto delle piccole pause. Occhio, però:  chi tiene la tirlindana non deve star lì come un cucù ma imprimere al filo dei piccoli, leggeri strappi per simulare una veloce fuga del pesciolino finto”. Questo genere di movimento, visto dalle parte dei predatori, equivale allo squillo di tromba della carica, scatenandone l’istinto di predatori.“Qui viene il bello. Avvertita la mangiata non perder tempo: uno strappo per ferrare il pesce e avvia lentamente il recupero. La barca non deve arrestare il suo movimento, capito? Se lo fai, se ti fermi, la preda ti frega, soprattutto se è di una certa dimensione. I pesci non sono fessi, e non ti saltano a bordo di spontanea volontà. La preda, se riesce ad avvicinarsi troppo, tenterà come ultima fuga di inabissarsi sotto la barca. Quando accade, sono cavoli amari: il rischio di perderla è alto perché, puoi esserne certo,  il filo andrà sicuramente ad impigliarsi in qualche sporgenza con tutte le conseguenze del caso”. Mai dimenticarsi il guadino: se non lo si trova a portata di mano, al momento giusto, tirare in secco la preda è un problema. Questa è la lezione di Giuanin. Applicandola per filo e per segno porterà alla tirlindana un tributo certo di prede, dai persici ai lucci, dai cavedani alle trote.

Marco Travaglini

 

(Foto: molagnacavedanera.it)

 

Guido Gobino: la miglior pralina del mondo

SCOPRI -TO  Alla scoperta di Torino
Nel 1964 dopo anni di esperienza nella raffinazione del cacao Giuseppe Gobino diventa direttore di produzione dell’Azienda Maras, ama così tanto il cioccolato e l’azienda da diventarne il proprietario nel 1980. Qualche anno dopo suo figlio Guido Gobino porterà avanti la tradizione di famiglia rinnovando anche il marchio e puntando principalmente sul giandujotto, tipico cioccolatino torinese a forma di prisma a base di cioccolato nocciole piemontesi, zucchero e in alcuni casi latte, prodotto per la prima volta dall’azienda torinese Caffarel nel 1865 e divenuto poi famoso in tutto il mondo.
Nel 1995 Guido Gobino inventa il Tourinot un mini-Giandujotto realizzato utilizzando tutte materie prime di grande eccellenza e con la tecnica dell’estrusione, tecnica nata per velocizzare il processo manuale di taglio e mantenere la massima qualità del prodotto.
Guido Gobino valorizza anche il prodotto del territorio piemontese scegliendo di acquistare gran parte delle sue materie prime da contadini e agricoltori delle zone limitrofe, come la nocciola tonda delle Langhe.
Negli anni nasce anche Tourinot Maximo, un giandujotto di soli 5 grammi realizzato con la ricetta originale storica,  senza latte e sempre con il metodo dell’estrusione.
Dagli anni 2000 Gobino si espande, nascono altre boutique nel centro di Torino e nasce anche il loro uovo di Pasqua “N’uovo”, un uovo allungato molto originale ed elegante. Molto famoso è anche il loro cioccolatino al rhum il “Vernuij” ricoperto con cioccolato fondente al 75%.
L’Accademia del cioccolato di Londra nel 2008 premia il “Cremino al sale” di Gobino come miglior pralina del mondo. Qualche anno dopo Guido Gobino viene nominato Ambasciatore della Nocciola Tonda e Gentile delle Langhe nel mondo e inizia a collaborare con la casa di moda di Giorgio Armani.
Una delle particolarità di quest’azienda è senz’altro la perseveranza, visto che per realizzare il Tourinot fondente provarono ben diciotto volte rimanendo sempre delusi e ritentando ogni volta per la difficoltà di raggiungere l’equilibrio giusto tra sapore e consistenza.  Dopo il successo dei cioccolatini Guido Gobino crea i gelati a stecco con il latte fresco ricoperti dal loro inconfondibile cioccolato e i sorbetti con la frutta fresca.
Nel 2021 entra in azienda il figlio di Guido, Pietro Gobino che pone la sua attenzione all’ambiente cercando di migliorare ancor di più tutta la loro produzione in termini di ecosostenibilità. Pietro crea il “Tourinot Bianco”, un cioccolatino dai profumi siciliani con mandorle d’Avola arance di Noto e sale.
Attualmente le botteghe di degustazione dei prodotti Gobino sono sei; la sede storica dove vengono prodotti i cioccolatini è in via Cagliari, per le degustazioni invece ci si può recare in via Lagrange o Corso Vittorio Emanuele a Torino oppure all’aeroporto di Caselle e inoltre altre due boutique del gusto a Milano.
In ogni periodo dell’anno Gobino propone specialità dedicate ad eventi differenti, per esempio in occasione della Festa della Donna l’8 marzo su ogni scatola di cioccolatini venduta 2 euro andranno in beneficenza ad una associazione contro la violenza sulle donne. A Pasqua a fare da protagoniste non saranno solo le uova, ma anche tante varietà di tavole di cioccolata colorate interamente dipinte a mano e nel periodo invernale propongono cioccolate calde con percentuali diverse di latte da accompagnare ai cioccolatini o alle loro monoporzioni. Per gli amanti del caffè Gobino ne propone una vasta degustazione sempre accompagnata da alcuni mignon al cioccolato.
Tanti auguri per i sui 60’anni all’azienda Guido Gobino,  un’eccellenza tutta torinese un esempio di grande sinergia tra le generazioni e anche di grande perseveranza per essere riusciti non solo ad ottenere grandi riconoscimenti anche mondiali, ma per non essersi mai arresi di fronte a tantissime difficoltà mantenendo sempre alta la qualità e la bontà del loro prodotto con amore e passione.
NOEMI GARIANO

Ikigai

Non soltanto chi si interessa alle discipline orientali, ma anche chi si occupa di spiritualità ha sentito parlare di ikigai.

Questo termine giapponese, che letteralmente significa “lo scopo nella vita”, è formato da iki, “vita”, e gai, “valore”; in pratica è il motivo per cui ci si alza (o ci si dovrebbe alzare) ogni giorno con la felicità di fare una cosa che piace, che ci permette di vivere, che è utile alla società.

Secondo questa pratica, ognuno di noi possiede un proprio ikigai; per essere felici è necessario e sufficiente trovarlo e farne uno stile di vita.

Ma cos’è l’ikigai?

Come mostra lo schema seguente per raggiungere l’ikigai dobbiamo:

1) Svolgere un’attività nella quale siamo abili
2) L’attività che svolgiamo deve permetterci di vivere
3) Dev’essere un’attività di cui il mondo ha bisogno
4) L’attività che svolgiamo deve piacerci

Com’è intuibile, è difficile far coincidere tutte e quattro le condizioni: spesso ciò che ci piace fare e che rendeeconomicamente è perfettamente inutile, oppure ciò che serve e ci piace non ci viene retribuito, per cui chi trova la combinazione di tutte le quattro condizioni può davvero definirsi felice.

Come si articola la strada per l’ikigai? Solitamente ci accorgiamo che ci piace fare qualcosa, magari fin da bambini, e cominciamo a provare piacere, soddisfazione nello svolgere quell’attività. Se qualcuno ne ha bisogno, saremo invogliati a continuare, perfezionarci, affinare le tecniche fino ad offrire un servizio o un prodotto migliore, in tempi minori, riducendo i costi anche acquistando le materie prime o gli utensili in quantità maggiori per risparmiare.

Il problema nasce quando non osiamo chiedere un corrispettivo per il nostro lavoro. Temendo di non essere adeguati, di non aver svolto un buon servizio o di venir considerati esosi, ecco che il lavoro lo regaliamo o ci accontentiamo di una cifra simbolica: in questo modo il nostro ikigai si è già allontanato e ci guarda con disperazione.

Uno dei requisiti è, infatti, che ci permetta di vivere evitando, ça va sans dire, secondi lavori, straordinari, ecc.

Poi, fattore altrettanto importante, è che sia richiesto dal mondo, dalla società: se io produco attrezzi ginnici per pidocchi del cane probabilmente potrò anche diventare il maggior esperto del settore, magari mi diverto pure a creare ma non penso proprio che le persone litighino per accaparrarsi il primo esemplare prodotto per ogni modello, e neppure il secondo o terzo.

Evidente, dunque, come le quattro qualità del nostro lavoro debbano coesistere, almeno nel luogo in cui vivo e lavoro (un tritaghiaccio nell’Africa sahariana non ha lo stesso significato che assume al Circolo polare artico), nell’epoca in cui vivo e debba procurarmi introiti sufficienti per vivere nel mio luogo di dimora abituale: se penso di trasferirmi negli Emirati Arabi dove la vita costa molto più che in Italia dovrò essere sicuro di poter guadagnare a sufficienza, o dalla mia vita devo togliere il concetto di ikigai.

Troppo spesso vedo giovani (ma anche meno giovani) inventarsi lavori creando nella mente delle persone una necessità inesistente unicamente per giustificare il loro operato; immaginate uno che inventi un prodotto per disinfettare le piastre rompifiamma della cucina a gas prima del loro utilizzo: non si sterilizzano da sole quando accendiamo il gas? Ecco, la nostra società è permeata di individui che convincono i poveri di animo che ciò che loro producono sia la panacea contro i moderni nemici invisibili.

Il risultato? I primi hanno preso in giro gli sprovveduti che hanno creduto in loro, e questi ultimi si ritrovano, più poveri e frustrati, a non aver risolto un problema semplicemente perché quel problema non esisteva.

La ricerca della felicità è un tema quanto mai attuale e dibattuto, al punto che qualche genio aveva proposto di inserire il diritto alla felicità nella nostra Costituzione: per fortuna l’hanno fermato in tempo; la felicità è un concetto quanto mai soggettivo, che cambia anche nello stesso soggetto al passare del tempo, all’aumentare dell’età e per effetto di esperienze, delusioni, conoscenze e riflessioni.

Una cosa però è sicura: occorre diffidare dai falsi profeti, da chi ha la ricetta per la crescita personale con magici seminari online o assemblee in stile bulgaro dove il guru viene osannato da una folla composta per un quarto da allocchi paganti e per tre quarti da complici del guru. Volete trovare la felicità che, come ho detto più volte, non è una meta ma uno stato d’animo che vi accompagna mentre raggiungete i vostri obiettivi? Cercatela in voi stessi: eliminate ciò che vi disturba, fate ciò che vi piace e vi fa stare bene, allontanate i ladri di tempo ed i vampiri energetici e la felicità comincerà a percorrere la strada di casa vostra.

Provate: cosa avete da perdere, visto che ora felici non lo siete? Ecominciate a costruire il vostro ikigai.

Sergio Motta

Le zucchine in carpione, gustosa tradizione

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Le zucchine, quelle verdi chiare, tenere e dolci, ricche di acqua e vitamine ideali per reintegrare i sali minerali

 

Le ricette devono essere veloci, facili da preparare, leggere ma allo stesso tempo saporite. E le zucchine, quelle verdi chiare, tenere e dolci, ricche di acqua e vitamine sono  ideali per reintegrare i sali minerali persi con la sudorazione, molto gradevoli nel gusto e versatili nelle diverse preparazioni. Un modo goloso per cucinarle e’ con una gustosissima marinatura.

Ingredienti:

 

1 kg.di zucchinette

1 cipolla bianca

2 spicchi di aglio

1 rametto di salvia

6 foglie di basilico

origano fresco

½ bicchiere di aceto di mele

½ bicchiere di olio evo

sale q.b.

Lavare le zucchine, spuntarle e tagliarle a tronchetti. In una larga padella soffriggere la cipolla e l’aglio affettati, aggiungere le zucchine e rosolare mescolando ripetutamente a fuoco vivace per 10 minuti, aggiungere gli aromi, salare e sfumare con l’aceto, proseguire la cottura per altri 2 minuti. Lasciar marinare in frigo per almeno un giorno. Servire freddo. Croccanti e gustose.

Paperita Patty

Mariolino e la guida dell’uomo col cappello

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Da qualche anno possiedo una barca. E’ la Lampreda, cedutami a poco prezzo dal vecchio Lino Sgambarolli, costretto a buttar l’ancora sulla terraferma a causa dei reumatismi e della sciatica che l’hanno piegato in due.

La “sua” Lampreda era la terza di una serie. Diventata mia, riverniciata di bianco e d’azzurro, si è guadagnata il titolo di quarta. Lino mi aveva lasciato piena libertà. “Il nome deve essere quello che più ti piace. Non c’è l’obbligo di tener lo stesso e lo puoi cambiare, tanto lei – che la si chiami per nome o no –  volterà la prua dove decidi tu, manovrando il timone o il colpo di remi. Ma se ti garba chiamarla come l’ho chiamata io, fai una cosa: ribattezzala “quarta”, così la storia va avanti”. Mi raccontò che prima di lei c’erano state altre due Lamprede. La prima, messa in acqua, sul finire degli anni trenta s’inabissò nell’agosto del 1944 davanti alla Punta di Crabbia, dov’era ormeggiata. Un aereo tedesco, volando sul lago in appoggio a un rastrellamento contro i partigiani del Mottarone, tanto per sfogare la sua rabbia impotente visto che i partigiani se ne stavano nascosti nei boschi, la  colpì a morte con una raffica di mitraglia , sventrandole entrambe le fiancate. La seconda barca era stata bagnata nel maggio del 1947, dopo quasi tre anni durante i quali Lino fu costretto ad una lontananza forzata dal lago, minatore prima e scalpellino poi in terra di Francia, dalle parti di Lione. I magri guadagni lasciavano ben poco alla speranza di metter qualcosa da parte ma quei quattro franchi in croce e qualche lira racimolata vendendo un boschetto di castagni dalle parti di Brolo gli bastarono per l’acquisto di una modesta ma robusta lancia da lago. Per trent’anni Lino e la sua barca hanno attraversato in lungo e in largo il Cusio, pescando in ogni dove, con ogni tempo e in tutte le stagioni dell’anno. Fatto salvi, ovviamente, i periodi di ferma. Dalle rive lo salutavano, nei mercati si vendevano i suoi pesci ( almeno finché l’ammoniaca, il cromo e gli altri veleni non trasformarono, a poco a poco, l’acqua in aceto), nelle osterie capitava di ascoltare le sue storie al modico prezzo di un quartino di barbera del Monferrato. A metà degli anni ’80, una massiccia immissione di carbonato di calcio,  riportò l’acqua ad un valore accettabile di acidità. Quella grande pastigliona di bicarbonato fece digerire il lago, tanto che i pesci – dopo tanto boccheggiare – tornarono a respirare e Lino si rimise a pescarli con la sua Lampreda ( la seconda, appunto). Giunta alle soglie del pensionamento forzoso, dopo più di trent’anni di onesta navigazione, figli e nipoti gli fecero una grande sorpresa, regalandogli un gioiello di barca, uscita fresca, fresca  dai cantieri navali di Solcio, sul lago Maggiore. La forma aguzza, slanciata; il fasciame di legno liscio e brillante, gli scalmi d’acciaio inossidabile, lucidi come i pomelli della stufa dell’osteria dove andava a far bisboccia. Un bijoux che si è goduto per poco. Lino è stato un gran vogatore che solo negli ultimi anni si è arreso al motore. Io non ho la sua tempra e seppur non disdegnando d’infilare i remi negli scalmi e darci dentro a bracciate regolari, uso frequentemente il motore. Al calare della sera, tiro in secca la barca nei pressi dell’ex Canottieri, dalle parti dell’Ospedale della Madonna del Popolo. A volte la ricovero da Mariolino, alla Bagnera di Orta. Una soluzione abbastanza comoda, dato che possiede uno sgabbiotto, chiuso con catena e lucchetto, dove si possono ritirare remi e motore. A far la guardia c’è Lupo, il cane di Mariolino: un bastardino bianco e nero che tira fuori i denti e ringhia proprio come un lupo quando s’avvicina un estraneo. “ Il tuo motore è come in banca, lì dentro”, rassicura Mariolino. Non ne dubito affatto. Lupo  esegue l’incarico come un mastino. E se il suo padrone gli dice di star di sentinella ( proprio così..”di sentinella” ) si può scommettere che lui ci mette una grinta sufficiente a scoraggiare i malintenzionati. Mariolino è fortunato ad avere, come “migliore amico dell’uomo” quel cagnetto. Sono sempre insieme, anche quando Mariolino guida la sua vecchia NSU Prinz. Lupo guarda fuori dal finestrino laterale, ringhia alle auto, abbaia alle luci colorate del semaforo, scodinzola quando si passa davanti all’osteria dove la signora Maria spesso gli “allunga” un cartoccio d’avanzi. Il problema è che  Mariolino, con la sua guida da “uomo col cappello”,  fa venire i brividi gelati lungo la schiena. Avete presente quella categoria di automobilisti che, con il loro stile di guida, fanno dannare l’anima? Se si ha la sventura di incontrarne uno così, magari su una strada stretta e tutta curve, o – peggio – essere costretti a stargli dietro mentre arranca sui tornanti, non ci sarà alcun bisogno di usare la tenaglia per strapparvi dalla gola il peggior campionario di accidenti, riversandoglielo addosso. Perché quando si mette al volante un “uomo col cappello” sono guai seri. Non superano mai i trenta all’ora, viaggiano a centro strada, frenano in continuazione, pigiano continuamente il clacson. Impermeabili a tutto: impettiti, con gli avambracci tesi e le mani intente a strangolare il volante. In più, come un distintivo, l’immancabile copricapo ben calcato sulla nuca. In casi come questi il vero malcapitato sei tu, povero diavolo, costretto a guidare a passo d’uomo, alternando il piede da un pedale all’altro: acceleratore ,freno, frizione. Cambio. Freno, acceleratore. Attento a non tamponarlo,  roso dall’indecisione sull’eventuale sorpasso. Manovra, quest’ultima, caldamente sconsigliata: l’uomo col cappello può decidere di svoltare da un momento all’altro, senza preavviso e, dunque, senza mettere la freccia. L’assoluta certezza che lo anima è proporzionale all’incapacità che manifesta impugnando il volante. Dunque, mai sottovalutare chi guida con il cappello. Non conviene contraddirlo. Non mettetegli fretta, armatevi di pazienza e fatevene una ragione. Ecco, Mariolino è uno di questi. L’ esatto contrario del mito futurista della velocità. Più lento della lentezza ma senza alternativa: prendere o lasciare. Si vede proprio che chi nasce uomo d’acqua fa fatica a muoversi con quattro ruote sulla terraferma.

Marco Travaglini

Sfoglia caramellata alla crema, trionfo di dolcezza

Una croccante sfoglia caramellata che racchiude una deliziosa crema pasticcera aromatizzata al limone.

Un perfetto connubio di morbidezza e friabilita’, semplice e irresistibile.

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Ingredienti

 

1 confezione di pasta sfoglia pronta quadrata

500ml. di latte fresco intero

4tuorli

100gr. di zucchero

40gr. di maizena

1 bustina di vanillina

1 limone

Zucchero a velo

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Preparare la crema pasticcera. Portare ad ebollizione il latte aromatizzato con la buccia di limone grattugiata, lasciar intiepidire e filtrare. Lavorare i tuorli con lo zucchero, unire la vanillina, versare il latte a filo sempre mescolando. Cuocere la crema a bagnomaria per circa 10 minuti. Lasciar raffreddare, aggiungere il succo di  ½ limone senza mai smettere di mescolare. Disporre una base di sfoglia su un piatto da portata, coprire con la crema pasticcera, mettere la seconda sfoglia, ricoprire con la crema. Disporre l’ultima sfoglia, spolverizzare di zucchero a velo, guarnire a piacere. Servire fresca.

 

Paperita Patty

In 14 “piole” torinesi si va “a Merenda Sinoira” e “a tutta Barbera” in attesa del via al “Salone del Vino”

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“Notte Rossa Barbera”

Venerdì 1° marzo

E’ proprio l’ultimo invitante anticipo all’apertura del tanto atteso “Salone del Vino” (che partirà sabato 2 per arrivare a lunedì 4 marzo alle “OGR” e al “Museo Nazionale del Risorgimento”): parliamo dell’ottava edizione della “Notte Rossa Barbera”, la sagra diffusa del buon vino e della cucina a prezzi “giusti” e popolari che si terrà, in 14 “piole”, luogo simbolo della tradizione sabauda, con interventi musicali ad hoc di 14 musicisti (piemontesi e non) e di 14 produttori di “Barbera”, la “madre dei vini piemontesi – ha scritto qualcuno – accanto al padre, il ‘Nebbiolo’”.

Scriveva Padre Enzo Bianchi“Nel Monferrato un tempo ai bambini battezzati il prete metteva il sale in bocca e il padre un cucchiaino di Barbera”. Forse allora si esagerava un po’. Certo è che, a iniziare dalla giusta età ovviamente e con la giusta misura, un buon bicchiere di “Barbera” (in versione “giovane e vivace” o “invecchiata e robusta”) bevuta in buona compagnia può aiutare non dico a risolvere i quotidiani sagrin, ma per lo meno a darti un po’ di spinta ad affrontarli in altra e meno stressante maniera. Chissa!?  Fatto sta che forse anche con questo lodevole intento, va in scena, venerdì 1° marzo, l’ottava edizione della “Notte Rossa Barbera”, organizzata dall’Associazione Culturale “F.E.A.”, all’interno dell’ampio palinsesto “OFF” del “Salone del Vino di Torino 2024”, in un intrigante e suggestivo mix di musica ed enogastronomia. Accompagnata al “Barbera”, sarà sua maestà la “Merenda Sinoira”, base indimenticata ed indimenticabile dell’antica ristorazione popolare piemontese. Una maratona di note e sapori tra i tavoli, in cui la musica sarà protagonista insieme alla cucina.

Questo, in sintesi, il programma: il “Barbagusto” ospiterà il cantautore Filippo D’Erasmo, da “Il Camaleonte Piola” si esibirà Enrico Esma, sul palco del “Circolo Arci Cricca” suonerà Salvario, al “Ratatui” serata con “Alberodicarta”, da “Enoteca Ostu” il cantautore Eugenio Rodondi, a “OFF TOPIC” i “Bonsai Bonsai”. E ancora: Annibale alla “Bocciofila Vanchiglietta”, da “Qucina San Salvario” la musica di “La Cricca dij mes-cià”, in “Via Baltea” il live di Diletta Semboloni, Andrea Ciucchetti ai “Bagni Pubblici” di via Aglié, il Conte Biagio al “Capodoglio Murazzi”, l’eclettico pianista Protto accompagnato da una violoncellista al “Comala”, Dionysian al “Kontiki e Pedar al “Circolo Risorgimento”.

Per info e programma dettagliatowww.salonedelvinotorino.it o www.sottoilcielodifred.it/notte-rossa-barbera/

L’iniziativa darà il via al lungo week-end di esposizione del “Salone del Vino” e intende essere un’esperienza immersiva – dicono i responsabili – legata all’autenticità del territorio piemontese , un inno alla rusticità e alla memoria, senza cadere in polverose nostalgie ma rivivendo con eleganza e modernità un pezzo di storia della città. Un’occasione per far scoprire luoghi, sapori e usanze del Piemonte a un pubblico di ogni età, a cominciare dai giovani”.

g.m.

Nelle foto: immagini delle precedenti edizioni

Grande successo per il Salone del Vermouth e Torino già lavora al salone del Vino

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5.000 ingressi registrati al Museo Nazionale del Risorgimento, 24 produttori coinvolti, 40.000 degustazioni di vermouth, e oltre 500 bottiglie acquistate al termine della rassegna. I numeri confermano il successo della prima edizione del Salone del Vermouth che tornerà nel 2025.

Il Vermouth, base per la maggior parte dei cocktail più rinomati, si sa, nasce a Torino a fine Settecento, cavalca un periodo d’oro tra Ottocento e Novecento e poi, per questioni di marketing, viene quasi relegato sul ripiano meno visibile dello scaffale di vini e liquori. O meglio, tutti lo usano ma nessuno lo nomina. Potenza dei brand che hanno imposto il loro nome e che alla parola Vermouth hanno sostituito il nome del cocktail o della bevanda imbottigliata nell’immaginario comune.

 Cosa succede però se la città decide di dedicare una kermesse a un vino liquoroso esportato in tutto il mondo e di cui vanta illustri produttori? Dev’esser stata questa la domanda che si è posta Laura Carello, ideatrice e curatrice del Salone del Vermouth e dei progetti in ambito mixology MT Magazine e Mix Contest Italy Tour.  “Abbiamo registrato un’affluenza importante da parte dei torinesi” ha dichiarato Carello. “L’evento ha superato le aspettative che avevamo, in termini sia di produttori che di pubblico, e sarà replicato nel 2025, nello stesso periodo. Al Museo del Risorgimento abbiamo avuto i grandi nomi, che hanno contribuito a scrivere la storia del vermouth in tutto il mondo, come anche le giovani aziende che muovono i primi passi nel mercato. Sorprendente vedere così tanti ragazzi interessati tra i visitatori, questo mi ha entusiasmato molto”.

Oltre 5.000 sono gli ingressi registrati al Museo Nazionale del Risorgimento, sede della due giorni di degustazioni e talk ospitate sabato 24 e domenica 25 febbraio; 24 sono stati i produttori coinvolti nella manifestazione, tra cui i giovani che hanno interpretato il vermouth in una maniera completamente nuova e innovativa, seppur nel rispetto del disciplinare di produzione. Oltre 40.000 sono state le degustazioni di vermouth, che hanno aiutato il pubblico a conoscere ogni singola azienda, ad apprezzare le differenze stilistiche e di prodotto, e scegliere quale vermouth portare a casa, facendo registrare un totale di oltre 500 bottiglie acquistate al termine della rassegna.

Grande è stato anche il successo nella sala talk, nella quale si sono tenuti sette appuntamenti tutti sold-out, per un totale di 500 ingressi e di 20 professionisti coinvolti, tra produttori, esperti del settore, brand Ambassador, bartender e chef.

Più di 30 partner hanno confidato nel successo dell’evento ben prima dei numeri di pubblico e di stampa, che ne ha scritto in oltre 150 articoli a livello nazionale, trasmettendo l’evento su 4 network televisivi locali e nazionali. Insomma, grazie al Vermouth Torino è tornata protagonista per una settimana a livello nazionale.

Anche il Fuori Salone del Vermouth è andato oltre le aspettative. Nei cinque giorni che hanno anticipato l’evento al Museo Nazionale del Risorgimento, da lunedì 19 a venerdì 25 febbraio, sono stati coinvolti 19 cocktail bar, che hanno proposto drink list dedicate, di cui 14 hanno partecipato al Vermouth Contest Special Edition di martedì 20 febbraio; 10 sono stati i ristoranti coinvolti, 9 dei quali hanno ospitato cene a tema, tutte sold out, con una partecipazione media di 50 persone. Oltre 3.000 sono stati i cocktail consumati a base vermouth, 10 le masterclass e le guest dedicate nei cocktail bar e 2 le location coinvolte a Torino, il Museo Carpano e il Museo Lavazza, con visite dedicate e proposte di degustazioni e miscelazione con il vermouth.

Le cene gourmet con piatti abbinati al Vermouth hanno portato a tavola ospiti paganti e produttori che han raccontato come un’eccellenza tutta Piemontese ha varcato l’oceano e vanta appassionati in tutto il mondo. Grande affabulatore e commensale, al Ristorante Opera di Via sant’Antonio da Padova 3, Franco Cavallero, produttore di Ruchè e vini liquorosi, ha presentato, insieme al sommelier Carlo Salino, la sua produzione di Vermouth abbinata ai piatti dell’executive chef Stefano Sforza.  Con un menu degustazione il Vermouth ha incontrato tradizione e innovazione, con un brasato cotto nel vermouth o olive intrappolate nel cioccolato bianco.

“Il vermouth non è una bevanda qualsiasi. È il simbolo di una città. O meglio, di un intero territorio – quello piemontese – che, se da una parte è fortemente radicato alla sua storia e alle sue tradizioni, dall’altra è in continua evoluzione” ha commentato lo chef Stefano Sforza. “Per questo motivo, quando mi hanno proposto di partecipare alla prima edizione di questa rassegna, ho accettato subito. Il mio obiettivo? Servire dei piatti raffinati e innovativi che sappiano dialogare con la drink list pensata dal nostro sommelier Carlo”. “Usato nella realizzazione di molti cocktail internazionali, ma bevuto anche in purezza, per lo più a fine pasto, il vermouth è uno di quei prodotti capaci di assumere mille sfumature gustative” ha aggiunto il sommelier Carlo Salino. “Abbinarlo ai piatti dello chef Sforza, sia come co-protagonista nei drink miscelati che come attore principale sulla tavola, sarà una sfida interessante”.

Con il salone del Vermouth ci diamo appuntamento al prossimo anno, anche se ristoranti e cocktail bar proseguiranno con le loro proposte in degustazione o alla carta. Noi possiamo invece passare al Salone del Vino che approda in città dal 2 al 4 marzo al Museo del Risorgimento e alle OGR.

LOREDANA BAROZZINO

 

Le foto:

1 e 2. Il salone del Vermouth al Museo del Risorgimento

3. La proposta di Opera

4. il produttore Franco Cavallero e lo chef di Opera Stefano Sforza
5. Talk al Piano35 del Grattacielo San Paolo

 

 

 

Il Salone del Vino a Eataly Torino Lingotto

20 cantine da tutta Italia e i loro vini, per una serata unica il 29 febbraio

Dal 2 al 4 marzo ritorna per la sua seconda edizione il Salone del Vino di Torino. E da martedì 27 febbraio si terrà una settimana di eventi diffusi in tutta la città, nel programma OFF del Salone.

In occasione di questo ricco palinsesto, giovedì 29 febbraio Eataly Lingotto ospita una serata unica: protagoniste 20 cantine da tutta Italia, con più di 100 vini in degustazione, tanta musica e le tapas della Chef Giorgia Serrani. L’appuntamento è in sala dei Duecento, al primo piano di Eataly, dalle ore 18.30 per “Cantine d’Italia 2024. Più di 100 vini in festa!”. Sarà l’occasione per vivere uno spaccato dell’Italia del vino e scoprire la nuova edizione della guida GoWine, dedicata a oltre 750 cantine italiane che valgono il viaggio.

Le cantine ospiti e al centro delle degustazioni arrivano da tutto lo Stivale. Si parte dalle eccellenze locali piemontesi, per compiere un vero e proprio tour tra le regioni, raccontarne le tipicità, le tradizioni e i gusti del territorio. Ed ecco allora le aziende vitivinicole nell’Alessandrino, l’Astigiano e il Cuneese, passando per quelle di Valle d’Aosta, Lombardia, Veneto e poi Lazio, Campania, fino alla Puglia. Per assaggiare tutti i vini sono in vendita carnet speciali, con pacchetti di degustazione da 5 o 10 calici. E per i soci GoWine, è previsto un esclusivo carnet per degustazioni illimitate.

Per maggiori informazioni e per prenotare il proprio carnet: www.torino.eataly.it

  • Degustazione 5 calici | 20 €
  • Degustazione 10 calici | 30 €
  • Degustazione illimitata riservata ai soci Go Wine | 28 €

Cantine ospiti:

Silvano Bolmida – Monforte d’Alba (Cn)

Cantina d’Isera – Isera (Tn)

Cantina La Spina – Marsciano (Pg)

Cantina Oriolo – Montelupo Albese (Cn)

Cantine del Notaio – Rionero in Vulture (Pz)

Cascina Mucci – Roddino (Cn)

Castello di Luzzano Fugazza – Rovescala (Pv)

Castello di Tagliolo – Tagliolo Monferrato (Al)

Cascina Castlet – Costigliole d’Asti (At)

Castello di Gabiano – Gabiano (Al)

Conte Collalto – Susegana (Tv)

Marisa Cuomo – Furore (Sa)

Fattoria San Lorenzo – Montecarotto (An)

La Source – Saint Pierre (Ao)

Leone de Castris – Salice Salentino (Le)

Mancinelli – Morro d’Alba (An)

Mottura Sergio – Civitella d’Agliano (Vt)

Poderi Moretti – Monteu Roero (Cn)

Tenuta Maffone – Pieve di Teco (Im)

Villa Franciacorta – Monticelli Brusati (Bs)