LIFESTYLE- Pagina 49

Selfie ergo sum

Il termine selfie è ormai entrato nel linguaggio di tutti, ad indicare la fotografia fatta a sé stessi o, al più, a sé stessi con altre persone.

Sono tipiche le immagini di selfie con sullo sfondo la Torre Eiffel o il Colosseo o ciò che, nella mente di chi scatta, vale la pena di ricordare e, soprattutto, di diffondere,

Fino all’arrivo degli smartphone e, parallelamente, alla diffusione dei social il selfie era un perfetto sconosciuto: da quando ho iniziato a fotografare, e sono passati ormai 50 anni, non ricordo di aver mai visto qualcuno impugnare la fotocamera al contrario per immortalare sé stesso, sicuramente anche per difficoltà tecniche.

Ovviamente anche nei selfie il buon gusto o ce l’hai o non ce l’hai; normale, quindi, vedere alcuni selfie scattati in bagno, con vestiti da lavare in bella mostra, tavoletta del wc alzata e, magari, qualcuno che transita in desabillè proprio mentre si scatta e si invia la foto.

Alcuni psicologi attribuiscono a diffusione del selfie ad un disturbo compulsivo, al pari dello shopping, del mangiare o altro.

I selfie a “culo di gallina” poi sono il top; quando incontri di persona l’autore dello scatto, ti meravigli che abbia una bocca normale, distesa, e con abbia subìto nessun trauma riduttivo.

Io, in vita mia, avrò scattato una decina di selfie, e solo se non vi era nessuno disposto o disponibile a realizzare uno scatto “normale”, in occasione di conferenze, in presenza di persone che non avrei più incontrato.

E’ palese che dal punto di vista creativo, artistico il selfie stia alla fotografia come i mattoncini in plastica svedesi all’architettura; fermano un istante, se nel momento dello scatto transita un reo possono concorrere alla flagranza differita ma poco altro.

Sarebbe, forse, il caso di riflettere sulla differenza tra quantità e qualità, tra pratico e utile, tra fine e pacchiano: una foto che ci ridicolizzi, specie per chi abbia un’immagine pubblica, è peggio di non comparire. Uno scatto “al naturale” può danneggiare, nell’immaginario collettivo, l’idea che ci si è fatti di un personaggio.

In una società dove apparire conta molto più che essere, dove la parvenza è più importante della realtà ogni icona si può trasformare in bersaglio, ogni bersaglio può diventare icona.

Sta a noi affinare i gusti, percepire il momento corretto per ogni cosa: decontestualizzata, ogni immagine può significare tutto ed il contrario di tutto. Se durante una campagna elettorale pubblico il selfie fatto con un candidato distrutto dalla stanchezza, dal caldo o dalle seccature non gli renderò certo un favore.

Pensiamo, quindi, prima di pigiare il ditino sullo smartphone o, peggio, di inviare sui social quell’immagine se alla nostra soddisfazione corrisponda anche quella degli altri soggetti fotografati.

Se non si tratti di un puro gesto egoistico (come è nel 99% dei casi) finalizzato alla gratificazione del nostro ego ipertroficoanziché di un servizio reso alla comunità.

Sono certo, dopo una semplice, rapida, riflessione che il numero dei selfie potrebbe ridursi drasticamente.

Sergio Motta

Croccante focaccia simil-Recco

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Croccante al punto giusto, ha un gusto delicato. Che dirvi di piu’…. vi chiederanno il bis!

Certo, la focaccia di Recco e’ tutta un’altra storia… sono d’accordo con voi, questa e’ senza pretese ma vi piacera’, e’ croccante al punto giusto, ha un gusto delicato…che dirvi di piu’…. vi chiederanno il bis!

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Dose per 2 teglie rettangolari:

500gr.di farina 00

2 cucchiaini di zucchero

1 cucchiaino di sale

1 bustina di lievito secco

5 cucchiai di olio evo

275ml di acqua tiepida

500gr. di stracchino/crescenza

sale q.b

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Mettere la farina, lo zucchero, il sale nel mixer e miscelare, aggiungere poi la bustina di lievito e sempre miscelando l’olio. Aggiungere poco alla volta l’acqua e lasciar impastare per qualche minuto. Versare l’impasto sul piano del tavolo infarinato e iniziare ad impastare con energia sbattendo la pasta sul tavolo ripetutamente. Mettere l’impasto in una capiente ciotola, coprire con un tovagliolo e lasciar lievitare in luogo tiepido per 4 ore.

L’impasto raddoppiera’ di volume. A questo punto, stendere la pasta con il mattarello e sistemarla nella teglia rivestita di carta forno. Ungere leggermente l’impasto con olio miscelato a qualche goccia di acqua e coprire con pezzi di stracchino, salare, condire con un filo di olio e infornare a 250* per 15 minuti o fino a quando il formaggio inizia a dorare .

Servire subito aggiungendo, a piacere, rucola fresca. Se non avete tempo, o voglia, acquistare la pasta per pizza dal fornaio.

Buon appetito.

 

Paperita Patty

L’”invenzione” del Sax, per creare musica e atmosfere

Accadde oggi

Passando per il centro di Torino verso Piazza Bodoni capita quotidianamente di ascoltare musica proveniente dalle sale studio del Conservatorio Giuseppe Verdi con tanti strumenti differenti che ingentiliscono l’aria creando un clima di bellezza nella bellezza tra palazzi, piazze, antichi portoni, monumenti che fanno del centro di Torino un luogo di storia e di fascino unico.Tra i tanti strumenti musicali che rendono possibile l’espressione dell’armonia, ben 540, interessante è dare uno sguardo alla carta che li contiene tutti e tra gli aerofoni ad ancia semplice incontriamo il sassofono o sax, di cui oggi ricorre la data della sua invenzione avvenuta ben 174 anni fa per opera di un geniale musicista inventore artigiano belga, Adolphe Sax,(1814 – 1894 ) nel suo studio parigino ! Presso il Conservatorio torinese esiste un corso biennale per chi vuole suonare il sax, con attenti studi che lo valorizzano creando professionisti qualificati. Si può ben pensare che l’essere umano e la musica stiano tra loro come il giorno sta alla luce, tanto sono inscindibili e correlati nel tempo e nella storia.

I tanti strumenti musicali, con la loro unicità, per dar forma e colore alle emozioni di note e di armonie, sono la dimostrazione tangibile che l’uomo ha sempre voluto creare nuovi mezzi per esprimere la musica pienamente in tutti i suoi tanti toni e colori ! Così quel 28 Giugno 1846 Monsieur Sax brevettò il nuovo strumento che porta il suo nome e che ebbe grande fortuna in tutta Europa, tanto che venne ampiamente perseguitato e vessato dagli altri costruttori di strumenti musicali. Fu lui ovviamente il primo insegnante della sua creatura presso il Conservatorio Superiore di Parigi mentre in Italia fu il grande Rossini a suggerirne l’acquisto al Conservatorio di Bologna e fu così che il primo sax fece la sua comparsa in Italia. Ma il grandissimo seguito di questo nuovo strumento avvenne in America con il genere jazz e blues ma anche nel pop e rock oltrechè nel genere bandistico, ormai impensabili senza questo strumento lucido e sinuoso, che ricorda il clarinetto ed il flauto, con la sua campana da cui esce il suono, ampia e generosa che ricorda la corolla di un fiore. Quanti musicisti hanno fatto di questo strumento la loro massima espressione ! Uno fra tutti : Charlie Parker ma anche Stan Getz, Benny Carter e tanti altri sublimi sassofonisti, esecutori e amanti di questo strumento espressivo e duttile che nelle loro mani dette il meglio di sè.

Patrizia Foresto

Opera, la cucina che racconta Torino attraverso la meraviglia del gusto

SCOPRI – TO ALLA SCOPERTA DI TORINO 
A due passi da Piazza San Carlo, in una di quelle vie del centro dove il tempo sembra rallentare per lasciare spazio alla bellezza, si trova “Opera”, un ristorante che non si limita a servire piatti: racconta storie. Varcata la soglia del locale, ci si ritrova in un ambiente intimo, elegante senza ostentazioni, fatto di luci calde, legno chiaro e dettagli curatissimi. C’è una calma gentile che avvolge tutto, dal sorriso discreto del personale alla musica che accompagna senza disturbare. La sala è luminosa di giorno, morbida e raccolta la sera, ideale per un pranzo riflessivo o una cena da ricordare. Lo stile è moderno ma profondamente radicato nel territorio, proprio come la cucina che propone: una ricerca attenta, quasi filologica, degli ingredienti e delle tradizioni piemontesi, interpretate con mano contemporanea e spirito curioso.
Il cuore pulsante di Opera è lo chef Stefano Sforza, che porta avanti una visione personale e coerente della cucina: ogni piatto è il risultato di un equilibrio tra tecnica, materia prima e ispirazione. Qui non si viene solo per mangiare, ma per fare esperienza. Il menu cambia seguendo le stagioni, ma non mancano mai sorprese e riletture creative di grandi classici. Tra le proposte più apprezzate, le animelle glassate con cipollotto e fondo al Marsala, o la reinterpretazione del vitello tonnato che gioca su consistenze e acidità senza tradire l’anima del piatto originario. Il pane, fatto in casa ogni giorno, è servito con burro mantecato e olio extravergine piemontese: un inizio semplice ma già rivelatore. Anche la carta dei vini merita attenzione: una selezione mai banale, con molte etichette del territorio accanto a scelte più internazionali, tutte pensate per accompagnare con precisione il percorso gastronomico.

Un’esperienza che unisce eleganza e calore, senza perdere autenticità
Opera non è un ristorante “di tendenza”, è qualcosa di più duraturo. Ha l’eleganza di chi sa il fatto suo ma non sente il bisogno di ostentarlo. La sensazione è quella di essere ospiti, non clienti. Il servizio è preciso ed umano, con personale attento, preparato e sempre disposto a raccontare un piatto, un ingrediente o un accostamento. Si percepisce un rispetto profondo per il lavoro, la materia e le persone, in cucina come in sala. Anche i dessert meritano un discorso a parte; piccoli capolavori di equilibrio, mai troppo dolci, sempre centrati. Il sorbetto al sedano e mela verde, ad esempio, sorprende per freschezza e pulizia, chiudendo il pasto con leggerezza e finezza. Il ristorante offre anche un menu degustazione che si snoda in sette portate, ognuna pensata come tappa di un racconto coerente, dove nulla è lasciato al caso. Le porzioni sono calibrate, l’impiattamento sobrio ma elegante e ogni piatto arriva al tavolo con il suo tempo, senza fretta.
Nel cuore di Torino, un luogo dove il cibo diventa racconto.
Opera è il luogo ideale per chi cerca qualcosa in più di una buona cena. È una destinazione per torinesi curiosi e per viaggiatori attenti, per chi vuole riscoprire i sapori della tradizione piemontese senza rinunciare all’innovazione, per chi apprezza il dettaglio e la coerenza, per chi crede che mangiare bene sia un atto culturale prima ancora che un piacere. Non ci sono effetti speciali, ma sostanza. Non ci sono forzature, ma autenticità. È un ristorante che ha scelto la via dell’identità e della cura e la percorre con coerenza e passione. In un momento storico in cui la ristorazione tende spesso all’eccesso o alla spettacolarizzazione, Opera rappresenta una forma di resistenza elegante e concreta. E quando si esce, dopo il caffè servito con piccola pasticceria fatta in casa, si ha la sensazione di aver vissuto qualcosa che resta. Qualcosa che non si dimentica. Proprio come le grandi opere.
NOEMI GARIANO

Gran tour tra i siti Unesco in bicicletta

A cura di Piemonteitalia.eu

In Piemonte c’è un ambiente che stupisce. Un “grande parco” che si estende dal Monviso all’Adamello, con al centro il Monte Rosa e il distretto dei laghi, dove elementi naturali, culturali, storico artistici del patrimonio UNESCO disegnano un mondo da scoprire con lentezza, a piedi e in bicicletta su strade bianche, argini di fiumi e canali…

Leggi l’articolo:

https://www.piemonteitalia.eu/it/esperienze/gran-tour-tra-i-siti-unesco-bicicletta

“Castelli in Rosa” ad Arignano

Un fine settimana fra danze storiche, letteratura “romance” e picnic d’epoca al “Castello delle Quattro Torri”

Sabato 28 e domenica 29 giugno

Arignano (Torino)

Sarà il “Castello delle Quattro Torri” di Arignano (l’unico di stile rinascimentale in Piemonte, fatto costruire dalla famiglia dei Conti Costa fra il 1407 ed il 1430), ad ospitare il prossimo weekend, sabato 28 e domenica 29 giugno, l’evento “Castelli in Rosa”, ultimo e certamente fra i più raffinati appuntamenti della Rassegna “Tutti i colori della cultura”, ideata per celebrare i trent’anni del progetto “Castelli Aperti”, organizzato dall’Associazione “Amici di Castelli Aperti”. Particolarmente ricco e “tarato” su quella che può considerarsi la “dimensione più romantica, letteraria e conviviale” del vivere il nostro patrimonio culturale, il programma, pensato per pubblici d’ogni età, mette insieme “performance” in costume, momenti conviviali, incontri letterari e visite guidate fra storia e architettura. Ideale per un viaggio d’altri tempi e remoti linguaggi, nonché per l’offerta di suggestioni indimenticabili, è sicuramente – sotto questo aspetto – la scelta del “Castello” di Arignano con le sue “Quattro Torri”, le sale affrescate e la spettacolare balconata affacciata sul verde.

Sabato 28 giugno si apre, alle 11, con il “Grande Ballo dell’Ottocento” a cura della “Società di Danza Torinese” : una raffinata esibizione tra quadriglie, valzer, mazurke e danze figurate ispirate all’etichetta dell’aristocrazia risorgimentale, su musiche di Verdi e Strauss, eseguite da danzatori in splendidi costumi d’epoca.

A seguire, alle 12,30, il Parco del Castello si animerà con un gustoso “picnic all’aperto” e giochi d’epoca come il “pallmall” e il “gioco degli anelli”, in un’atmosfera tesa a rievocare le abitudini ludiche delle famiglie ottocentesche. I partecipanti potranno rilassarsi sul prato, degustare prodotti locali e lasciarsi coinvolgere da un intrattenimento dal sapore “retrò”. Alle 14,30 sarà possibile scoprire i segreti del “maniero” con una visita guidata” tra architetture, affreschi e scorci panoramici, mentre, alle 15,30, la“letteratura” diventerà protagonista con la scrittrice sondriese di Chiavenna, Silvia Montemurro , che presenterà “Il segreto di villa Carlotta” (Giunti), romanzo d’esordio di una saga ambientata sulle rive del lago di Como, ispirata alle storie vere di cinque principesse che hanno vissuto in celebri dimore storiche. L’incontro, moderato da Petunia Ollister , divulgatrice letteraria e volto noto della “cultura pop”, sarà l’occasione per esplorare il fascino dell’“historical romance”tra storia, mistero e passioni. Alle 17, il secondo “Gran Ballo dell’Ottocento” riporterà il pubblico tra i fasti della danza di società, seguito da una nuova “visita guidata” del Castello alle 18 . La giornata si chiude alle 19.30 con un “aperitivo in balconata” , un momento suggestivo per brindare ammirando il paesaggio collinare che circonda il Castello, immergendosi in un’atmosfera sospesa nel tempo.

Ad aprire la giornata di domenica 29 giugno, un nuovo “picnic” nel Parco (ore 13) con prelibati “cestini gourmet” preparati ad hoc. Nel pomeriggio, due nuove visite guidate” al Castello (14,30 e 17,30) si alterneranno ad incontri con le protagoniste della scena letteraria “romance” italiana contemporanea.

Alle 15,30 sarà ospite Camy Blue (al secolo Silvia Ciompi) , giovane scrittrice italiana, che ha esordito su “Wattpad” prima di arrivare in libreria, facendo appassionare migliaia di lettori e guadagnando l’affetto di una vasta community. L’autrice presenterà il suo ultimo libro “Wild Hearts” (Magazzini Salani), una storia d’amore estiva, in mezzo alla natura del Montana.

Alle 18.30 toccherà a A.J. Foster (pseudonimo di Aurora, 21enne scrittrice marchigiana di Senigallia) , già autrice di bestseller con oltre 150mila copie vendute, che presenta “Unconditionally Mine” , nuovo capitolo della fortunata “saga degli Harrison”, incentrato sulla figura di Asher, il più enigmatico e amato dei fratelli. Un intreccio di promesse, legami e amore assoluto, per una lettura che emoziona e coinvolge.

Gran finale, ancora una volta, con l’“aperitivo in balcone” alle 19.45 : un momento conviviale, intimo e panoramico, per chiudere il fine settimana in bellezza.

Per info dettagliate e aggiornamenti: www.castelliaperti.it

g.m.

Nelle foto: Il “Castello delle Quattro Torri” di Arignano; “Grande Ballo dell’Ottocento”; A.J. Foster

Via Padova 5, l’inizio di tutto in Barriera di Milano tra fuliggine e profumo di biscotti

Sono nato in via Padova 5, alloggio in affitto.

Correva l’ anno 1957. Mia madre raccontava che era talmente piccola che incinta all’ottavo mese non riuscì più a rialzarsi perché incastrata tra il letto e l‘armadio. Stava facendo le pulizie. Non si perse d’animo e piano piano si rialzò. Abituata nel cavarsela da sola. A 10 anni andò a lavorare alla Marus che sarebbe diventata Facis in corso Emilia a due passi da Porta Palazzo.  Orfana. Mio nonno per soli tre mesi non aveva compiuto 40 anni. Non arrivo’ mai al fronte perché morì prima di pleurite. Faceva il decoratore. Raccontatomi da tutti come uomo mite. Vivevano in via Bra ed erano nati in via Cuneo.

Precisamente non  in piena barriera di Milano. Ma tant’è che , almeno in quegli anni  faceva un tutt’uno oltre piazza Crispi ed il Dazio.  Metà case e metà officine meccaniche ed artigianali.  Grandi Motori da un lato e Ceat gomme dall’ altra parte. La Wamar il corso Mortara. Sicuramente il ricordo è anche il misto d’odore tra fuliggine , colate di gomma ed il profumo dolciastro dei biscotti. Il mio primo ricordo in assoluto è all’eta di tre anni. Ci eravamo trasferiti in via Cherubini 64. Avevo un febbrone da cavallo e chiedevo ai miei di comprare il televisore. Lo fecero gli zii paterni. Ero unico erede della famiglia. Scuola materna in via Monterosa e elementari alla Gabelli. Li’ organizzai un esercizio. Proprio così. Facevo la colletta per contrattare tutta la farinata di Giacu che si presentava sempre alle 12, 30. In questo modo anche chi non aveva soldi poteva mangiare. Egualitarismo  ante-litteram. Poi qualcuno fece la spia e cazziatone prima della maestra e poi dei genitori.  Un mese senza televisione. Poi le medie alla Baretti. Tre anni di puro divertimento e di pochissimo studio. Nonostante ciò uscii con ottimo. Erano  ancora i tempi in cui bastava stare attento alle lezioni. In quegli anni il mio incontro con lo sport.

Ginnastica artistica alla Palestra Sempione e pallacanestro all’oratorio Michele Rua. Poi un po’ di atletica, che non guasta mai. Dove  trovassi le risorse è ancora un mistero. Mi sono sempre piaciuti gli inizi.  Debbo confessare : deboluccio sulla lunga distanza.  Del resto non si puo’ avere tutto dalla vita. Sono gli anni in cui la frase più ricorrente era: non abbiamo dubbi sull’intelligenza di suo figlio, ma non si applica.

Destino cinico e baro. Addirittura mia madre mi portò all’Onmi.  Istituita dal fascismo e non abrogata dalla Repubblica. Una specie di consultorio famigliare vecchia maniera. Tecnicamente ragazzino difficile. Test attitudinali con relativa diagnosi: instabile psicomotorio con evoluzione intellettiva di un anno avanti rispetto alla media. In altre parole birichino ma intelligente. Tutto ma proprio tutto in Barriera. Ero decisamente sbordante anche perché decisamente grosso. Alle medie ebbi la prima cotta.  Ricordo ancora il nome: Lucia.  Fatale la festicciola di fine anno. Il classico scantinato con il classico mangia dischi e patatine e popcorn e Coca- Cola.

Non l’avrei più rivista ma quelle ore restano  indelebili nella memoria. Gli ardori sessuali rinviati al Liceo scientifico Albert Einstein.  Via Pacini, ovviamente in Barriera.  Forse tra i primi licei in Barriera e due diverse compagnie di amici.

I  giardini di via Mercadante e il basket dell’oratorio Michele Rua alias Auxilium Basket Monterosa. Devo al gioco della Pallacanestro le prime incursioni fuori Barriera.  Domenica si giocava. Una partita in casa ed una partita fuori casa . Oratorio San Luigi in via Ormea o al Martinetto al fondo di via San Donato. Fino all’altra parte della città, all’Oratorio Giovanni Agnelli,  il tempio del Basket.  Impossibile non ricordare la Crocetta in via Piazzi.  All’Agnelli ci giocai per tre anni. Praticamente tutti i giorni sul tram 10 tra allenamenti e partite.

Anche qui mi vennero d‘aiuto gli zii regalandomi il vespino 5o. Brigavo in giro cercando di rimorchiare.  Faceva la differenza. Poi si bighellonava nelle panchine dei giardini o sulla scalinata della chiesa. Giusto per turar tardi per la cena. Si studiava anche, vi assicuro.  Chi più chi meno. Qualcosa però si studiava. Magari non eravamo secchioni ma sì, qualcosa si studiava. La summa erano i campionati studenteschi. Addirittura andai a Roma per le finali dei giochi della Gioventù. Potremmo dire : dalla Barriera con furore, sfiorando la felicità e la spensieratezza.  Quel profumo di libertà che oggi non sento più. Libertà di conquistare quello a cui si ambiva. Sicuramente non era tutto facile. Ma era tutto possibile. Possibile ciò che era lecito. Piccoli valori e piccole morali che si trasmettevano nei reciproci comportamenti.

Piccole felicità nel fare quel canestro vincendo la partita  e piccole felicità  con quella ragazzina che  al cinema appoggiava la resta sulla tua spalla facendoti sembrare adulto. Tutto questo crescendo, tutto questo in Barriera di Milano.

Patrizio Tosetto

La Gilera di Brunello… pardon, del Partito

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La Gilera 300 Bicilindrica del 1958, tenuta come un gioiello, era di proprietà del Partito. Brunello l’aveva in uso per svolgere la sua attività d’ispettore de L’Unità nelle varie edicole del Piemonte nord orientale, della Valle d’Aosta e della Lomellina pavese.  Una “bestia” rossonera da un quintale e mezzo a serbatoio asciutto, capace di fare trenta chilometri con un litro e di schiaffargli in faccia il vento marciando a centoventi all’ora. Brunello ne era l’orgoglioso affidatario e l’accudiva prestandole tutte le attenzioni. Il suo era un lavoro duro, sfiancante. In sella alla Gilera, macinando chilometri su strade polverose e sconnesse, costeggiando campi e risaie, attraversando borgate contadine e paesini minuscoli e sperduti, abbarbicati sui monti. Quando pioveva, e accadeva spesso, la moto e il suo autista si trasformavano in statue di fango ma niente, in nessuna stagione e con qualsiasi tempo, poteva interrompere la “missione” per conto del Partito e del giornale “fondato da Antonio Gramsci”. Brunello, in missione , si agghindava con la sua “tenuta da viaggio”.

La più “completa” era quella invernale: doppia maglia di lana, copia di giornale (ovviamente, l’Unità) per riparare il petto dall’aria, maglione pesante, giaccone di cuoio, doppio paio di pantaloni, ginocchiere da portiere e, a riparare la testa, casco e occhialoni. Con la bella stagione, l’armamentario restava più o meno lo stesso, calando però in stratificazione. In uno scenario politico dominato dai governi di centrosinistra e segnato dal “miracolo economico”, nel marzo del 1962, L’Unità aveva unificato le direzioni di Roma e Milano, affidando ad un unico direttore, Mario Alicata, la conduzione del giornale. Al suo fianco, come condirettori, lavoravano  Aldo Tortorella per l’edizione settentrionale e Luigi Pintor per quella del Centro-Sud.Il giornale era migliorato anche in qualità, apparendo più vivace e scorrevole, con articoli meno lunghi e un linguaggio meno complicato, con foto più grandi e numerose. Insomma, piaceva e si vendeva bene. Dopotutto era l’unica vera voce dell’opposizione in un paese impegnato a vivere la fase più intensa  di trasformazione economica, sociale e culturale della sua storia. Il lavoro dell’ispettore era molto importante. Al pari di chi “confezionava” il quotidiano, dai giornalisti e stenografi ai linotipisti e tipografi,l’ispettore aveva il compito delicatissimo di vigilare sull’andamento delle vendite, controllando i resi e l’organizzazione delle diffusioni straordinarie. Era lui che doveva adottare tutti gli accorgimenti necessari a promuovere L’Unità e consolidarne il ruolo di giornale popolare. Il rapporto con gli edicolanti diventava strategico e Brunello, nella categoria ,aveva molti amici. Durante la Resistenza non furono pochi i giornalai che svolsero attività antifascista, soprattutto nelle grandi città, diffondendo la stampa clandestina delle organizzazioni democratiche, pur essendo sottoposti a fortissime pressioni poliziesche. E negli anni del dopoguerra, quei legami erano rimasti improntati ad una forte umanità. Quando arrivava, oltre alla cordialità dei rapporti e un bicchiere di vino in compagnia, non mancava mai di portare con se qualche regalino per i figli più piccoli dei giornalai.Un modellino d’aereo di cartone, un libro di storie, qualche numero speciale de “ Il Pioniere dell’Unità”, supplemento del quuotidiano che usciva al giovedì. Le storie a fumetti del giornale curato da Marcello Argilli, soprattutto quelle di Atomino e Chiodino, suscitavano un grande interesse. Così come le filastrocche raccolte sotto la sigla “Il juke box di Gianni Rodari”.L’arrivo di Brunello, come si può facilmente immaginare, era un evento. E per  L’Unità, anche da parte di coloro che la pensavano diversamente, c’era – il più delle volte – un occhio d’attenzione, un certo riguardo. Così, tra un giro e l’altro, si consolidavano amicizie e si allargava l’influenza del quotidiano del più grande partito comunista dell’Occidente. Quando transitava nel vercellese, poi, era festa grande. Soprattutto all’inizio dell’estate, nel tempo della monda del riso. Ogni anno, per la campagna risicola, migliaia di donne si riversavano nella bassa vercellese  così come nel novarese e in Lomellina dove la mano d’opera locale non era sufficiente. Le mondine arrivavano dall’Emilia, dal mantovano, dal Veneto. Accanto a loro si recavano alla monda anche le donne delle baragge e delle zone collinari che raggiungevano le cascine della bassa viaggiando sui carri o a piedi.Era un lavoro durissimo, sfibrante e malpagato ma l’alternativa era una gran miseria e quel lavoro stagionale, con i piedi a bagno nell’acqua di risaia e la schiena curva per ore e ore sotto il sole,  rappresentava l’unica possibilità di portare a casa qualche soldo per la pagnotta o la polenta.Brunello, originario di quelle parti, prima di diventare funzionario del Partito e Ispettore de L’Unità, appena finita la guerra e la lotta partigiana, aveva svolto per alcuni anni l’incarico di sindacalista della Federbraccianti. Tra le mondariso era conosciuto e apprezzato per l’impegno a tutela dei loro diritti.Quando passava su quelle strade, con la sua rombante Gilera, sentiva la nostalgia per quel mondo che pare uno specchio capovolto, dove l’ azzurro del cielo si riflette nelle acque delle risaie. Avvertiva anche l’affetto di chi non l’aveva dimenticato e , scorgendolo sulla strada, non mancava d’indirizzargli un saluto.Ma in quel fine inverno del 1963, sui campi vuoti e gelati, c’erano solo solitudine impastata con una nebbia tanto fitta che si poteva tagliare con il coltello. L’aria era ghiacciata e viaggiare in moto non era uno scherzo. Nemmeno per i comunisti di provata fede.Fu all’entrata di Arborio, provenendo dal lungo rettilineo di Ghislarengo che la ruota anteriore della moto scivolò su una  lastra di ghiaccio, perdendo aderenza. Brunello venne disarcionato ma non mollò il manubrio della Gilera e , tra gli sguardi attoniti dei pochi passanti e di qualche avventore dell’osteria dei “Mulini”, percorse tutto il centro del paese strisciando attaccato alla moto impazzita. Nessuno osò fiatare davanti a quello spettacolo di scintille, stridore e smadonnamenti da venerdì sera in osteria. Al termine della lunga “scivolata”, Brunello s’alzò, controllò la moto rimettendola in piedi e raddrizzando alla belle e meglio il manubrio. La “tenuta” invernale aveva limitato i danni fisici e anche la Gilera non subì troppe ingiurie dalla caduta. Ben peggio sarebbe stato se Brunello avesse deciso di scindere il suo destino da quello della rombante motocicletta che, con ogni probabilità, si sarebbe sfracellata contro qualche muro. I primi soccorritori, preso atto che di danni gravi non ve ne fossero,chiesero a Brunello la ragione della scelta di non mollare la presa della moto. Lui, dolorante ma composto, rispose che delle proprie cose si poteva decidere cosa farne ma con i beni  di tutti, come nel caso della moto del Partito, non si scherzava. “Vanno tutelati, cribbio. Sempre e comunque”, bofonchiò a denti stretti l’ispettore de L’Unità, riprendendo la strada con un l’intento di portare a termine la sua missione.

Marco Travaglini