Serendipitsite- Viaggiare con Serendipità
Sempre più spesso leggiamo della parola ” serendipity o serendipità” che ci riporta l’immagine di questa scritta sulla copertina di un’agenda, sulla tazza del caffè americano o come sfondo per fare una foto, ma cosa significa? La serendipità è la fortuna di fare felici scoperte per puro caso e, anche, il trovare una cosa non cercata e imprevista mentre se ne stava cercando un’altra. A me capita spesso di cercare forsennatamente qualcosa e, immancabilmente trovarne un’altra che avevo smesso di cercare…ed è una piacevolissima sensazione! Questa settimana vorrei parlare di viaggi con serendipità e più precisamente di Elisa Midelio e del suo blog di viaggi. ELISA si definisce una
torinese DOC poiché compra stampe ingiallite di Torino, ama l’insalata russa e il Bunet e si incanta ogni volta che entra in una residenza sabauda.Il suo blog (www.serendipitsite.com) è nato quasi due anni fa, inizialmente come contenitore di storie e pensieri poi, si è evoluto ingrandito e poco per volta il blog ha fatto una virata decisiva ed è diventato un blog di viaggi. I viaggi che sono la passione più grande di Elisa ne sono quindi diventati il tema principale, in cui conserva un tocco spensierato e fatta di magia, sempre con uno sguardo rivolta alla sua Torino. Elisa scrive dei suoi viaggi, dell’Italia che ama scoprire in lungo e in largo e del resto del mondo. Elisa lavora anche in radio, tutti i mercoledì dalle 19 alle 20 su Radio Agorà 21, il programma si chiama “viaggiare con serendipità” e nasce con il desiderio di dare anche una voce alle foto e alle parole che le persone che la seguono sono abituate a vedere. I suoi progetti per il 2018 continuare con la radio e continuare a scrivere di viaggi e viaggiare e, nel frattempo aspettare di rimanere incantata da tutto quello che , un po’ per caso, un po’ per magia, capiterà!
L’occhio magico di Carlo Mollino. Fotografie 1934-1973
Il 2018 inizia con un evento cult per gli appassionati di fotografia. Il 18 gennaio 2018, CAMERA inaugurerà l’occhio magico di Carlo Mollino. Fotografie 1934 1973, la più grande e completa mai realizzate sul legame tra l’architetto torinese e la fotografia. Tra i più noti e celebrati architetti del 900, Carlo Mollino ha da sempre riservato alla fotografia un ruolo privilegiato, utilizzandola sia come mezzo espressivo, sia come fondamentale strumento di documentazione e archiviazione del proprio lavoro e del proprio quotidiano. Questa esposizione, svela il rapporto tra Molino e la fotografia evidenziandone l’unicità e le caratteristiche ricorrenti, dalle prime immagini da architettura realizzata in negli anni 30 fino alle Polaroid degli ultimi anni. È nel 1949 che pubblicò “Il messaggio dalla camera oscura”, volume innovativo e fondamentale per la diffusione della cultura fotografica in Italia e la sua accettazione tra le arti maggiori. La mostra vuole così approfondire la complessità della riflessione di Carlo Mollino sulla fotografia, ponendolo nella storia della fotografia attraverso un percorso che alterna grandi classici ad opere del tutto il merito e mai esposte prima. La mostra è divisa in quattro sezioni tematiche, ognuna intitolata con una citazione è tratta degli scritti
dello stesso autore: “Mille case” riunisce le immagini relative al tema dell’abitare. “Fantasie di un quotidiano impossibile” è sull’atmosfera e l’espirazione surrealiste che hanno influenzato parte della produzione fotografica di Molino. “Mistica dell’acrobazia” è il titolo della terza sezione dedicata alla velocità movimento e dinamica. Infine “L’amante del duca”, la più ampia delle quattro sezioni con oltre 180 fotografie dedicata al tema del corpo e della posa. In chiusura si trovano documenti tra cui lettere, manoscritti, dattiloscritti originali e cartoline collezionate dall’architetto provenienti da tutto il mondo che evidenziano l’interesse per la Fotografia in ogni sua espressione. Tutti i materiali in mostra, salvo alcune eccezioni opportuna talmente indicate, provengono dalle collezioni del fondo Carlo Molino, archivi della biblioteca “Roberto Gabetti”, Politecnico di Torino.
Luogo: CAMERA
Periodo: dal 18 gennaio 2018 al 13 maggio 2018
Costo del biglietto: intero euro 10, ridotto euro 6
Capodanno al Regio con Roberto Bolle
Per festeggiare l’ultimo dell’anno Roberto Bolle torna al Teatro Regio per festeggiare con l’attesissimo «Roberto Bolle and Friends». Bolle è il primo ballerino al mondo ad essere contemporaneamente Étoile del Teatro alla Scala di Milano e Principal Dancer dell’American Ballet Theatre di New York. Il Gala di Roberto Bolle riunisce alcuni tra i ballerini internazionali più importanti per dare vita a una serata di danza al suo massimo livello, con un programma vivace e sorprendente. Un’occasione unica per il pubblico di ammirare le principali stelle del balletto insieme sul medesimo palcoscenico, in un viaggio di emozioni attraverso differenti tecniche, stili e scuole. Un’occasione unica anche per chi vuole avvicinarsi a questo universo, qui infatti troveranno riuniti i brani più belli e famosi del repertorio ottocentesco e novecentesco insieme ai migliori ballerini del momento. Roberto Bolle and Friends vi attende la sera di Capodanno, il 31 dicembre, sul palco del Teatro Regio di Torino.
Buon anno a tutti!
Sabina Carboni


Tra i pochi svegli mattinieri non c’era nessuno che pareva intenzionato a mettere fuori il naso dall’uscio di casa. Il freddo era pungente ma non nevicava più. Per tutta la notte, dal cielo erano state distribuite delle generose pennellate di bianco che, a poco a poco, avevano coperto tutto: tetti, strade, alberi


addormentandoci alla sera. La nostra dimora, essendo un ex-fabbrica, sul piano del riscaldamento lasciava molto a desiderare. Ma i disagi non finivano lì. L’impianto elettrico risaliva alla destinazione industriale dello stabile e la tensione disponibile nelle prese di casa misurava 160 volt. Le lampadine si trovavano ancora in commercio (sempre più rare) ma per il frigorifero occorreva un piccolo e pesantissimo trasformatore per commutarla nei più idonei e “moderni” 220 volt (in seguito comprammo anche la Tv e i trasformatori diventarono due). Anche il rifornimento d’acqua potabile era un bel problema.
Solo il bosco di castagni e querce, le faggete e le macchie di robinie opponevano una testarda resistenza che, con il passare dei giorni, diventata sempre meno convinta. Quell’ostinata riluttanza a liberarsi della propria chioma in breve si esauriva e anche gli alberi del bosco, malvolentieri, erano costretti a cedere il passo all’inverno che bussava alla porta, lasciando a terra un soffice tappeto di foglie che rifletteva tutte le sfumature del giallo e del marrone. A scuola si andava a piedi, imbacuccati. Un paio di chilometri scarsi tra andata e ritorno, attraversando il paese fino al vecchio edificio bianco-verde delle scuole elementari (non ho mai capito per quale ragione estetica il colore dell’intonaco è restato sempre quello nel tempo, mah..).
D’inverno la parte bassa del Selvaspessa si prosciugava e il gelo solidificava l’aria umida in leggerissime e fragili lastre di ghiaccio tra un sasso e l’altro.Bastava lanciare una piccola pietra per incrinarle o frantumarle in mille pezzi. Ma i giochi sul fiume erano un frutto proibito per noi “reclute”. Questione d’età e d’autonomia. Solo i più “vecchi” tra noi ragazzi, quelli che avevano raggiunto il limite del primo ciclo scolastico e che – a dieci anni o giù di lì- erano pronti per “avviarsi” alle medie, avevano accesso alle meraviglie di quel luogo misterioso. Per quelli che come me frequentavano le prime classi, c’era l’obbligo dell’immediato rientro a casa quando, al termine della mattinata, lo squillo della campanella chiudeva le lezioni. Con la cartella di cuoio a tracolla o in spalla – salutata la maestra Pedrelli e i bidelli- uscivano dall’aula, imboccando di
corsa il cancello della scuola. Un breve saluto, la promessa di rivedersi l’indomani e via, ognuno per la propria strada. Siamo cresciuti così, in quei primi anni ‘60. Con la giusta attenzione a libri e quaderni e la voglia di giocare che si ha a quell’età. I nostri erano giochi poveri, dove a far la differenza – non costando nulla – la faceva la fantasia, arricchendoli e rinnovandoli al punto d’apparire sempre nuovi e differenti nonostante fossero il più delle volte gli stessi.
questi casi d’immaginazione ce ne voleva davvero tanta. Ricordo, ad esempio, le lunghe discussioni con la mia immagine riflessa nel vecchio frigorifero Ignis. In testa portavo una bustina militare di mio padre, sulle spalle uno zainetto grigioverde ereditato da chissachì e tra le mani uno “sciopp da legn”, un fucile di legno artigianale. A quell’epoca sottostavo agli ordini del “sergente”, la cui immagine rispondeva immediatamente al mio saluto militare, imitando ogni mio gesto nel mettermi sull’attenti davanti alla porta lucida del frigo. Non avendo il dono della parola toccava a me, improvvisandomi ventriloquo, dare una voce al “sergente” che, come tutti i
sergenti che si rispettano, l’aveva un po’ roca e un tantino autoritaria. Solo più tardi l’artigianale sciopp fu sostituito con il fucilino ad aria con il tappo di sughero tenuto dallo spago. Un’arma straordinaria, tecnologicamente avanzata per quell’epoca, che faceva risuonare nell’aria il suo minaccioso e secco “plop!”.
poiché, di lì a poco, con mio grande stupore e rammarico, iniziò a emanare uno sgradevole odore. Il cibo, fermentandole nel ventre di gomma, la fece marcire. Così, strappandomi qualche lacrima, fusoppressa. Peccato, se quella bimba mi avesse regalato una bambola di quelle magre, quasi anoressiche e dalle labbra strette e chiuse come le Barbie (che proprio in quel 1964, sbarcò in Italia provenendo dall’America), forse l’avrei conservata. Il mondo dei balocchi era racchiuso nella vetrina del negozio della signora Alfonsina. Guardare attraverso quell’esile barriera di vetro equivaleva ad affacciarsi su di una realtà fantastica. In quel piccolo negozio si comprava di tutto: dal sale ai tabacchi, dalle riviste piene di foto ai quotidiani che sfogliandoli annerivano le dita d’inchiostro, dalle mollette colorate per il bucato ai lumini bianchi e rossi per il cimitero. Ma noi, in prossimità del Natale, eravamo attratti da quelle luci colorate e intermittenti, capaci di
rendere ancora più straordinaria la piccola parata dei giocattoli esposti al centro della vetrina. Nulla a che vedere con quelle più ricche e ben fornite dei negozi di giocattoli di Intra, Pallanza o Stresa. Già a Baveno, in piazza del municipio, si trovava di meglio. Però, nella vetrina della signora Alfonsina, c’era quel tanto che bastava a farci rimanere con il naso incollato al vetro e la bocca aperta. Spiccavano le racchette da ping-pong dell’Arco Falc, rivestite di sughero, con cui giocare sul tavolo da cucina – quand’era sgombro- immaginando la stessa superficie simile del verde e scolorito tennis da tavolo che c’era nella sala dell’oratorio. C’era l’aquilone Air-Jet della Quercetti (la stessa ditta che produceva i chiodini colorati di gomma per comporre mosaici): bastava gonfiarlo – come ci aveva fatto vedere Luca, fortunato possessore di una copia – e diventava come una grande supposta bianco-rossa con le alette blu, quasi impossibile da governare perché andava di qua e di là in preda a un delirio di traiettorie anarchiche. C’erano i trasferelli, la cera Pongo, gli aerei di balsa con l’elastico che ti dovevi costruire da solo e che stavano in aria quei pochi secondi che separavano il lancio dallo schianto al suolo, pistole e fucili di plastica o metallo brunito, dal calcio di legno. M’incuriosiva la pistola di latta nera (che in seguito mi fu regalata): aveva le munizioni stese su dei rotolini di carta rossa che riproducevano lo stesso rumore delle nocciole schiacciate, lasciando nell’aria un odore acre e sgradevole. E come non citare il caleidoscopio, le trottole di legno e quelle di latta ( “di tolla”) a pressione, i pentolini e
le bambole, i pastelli a cera e il missile Mach-X, quello che si lanciava con l’elastico tenendolo fermo con i piedi e una volta giunto in aria apriva il paracadute. Ero terribilmente attratto da quel razzo ma, tempo dopo, avendone ottenuto un esemplare, restai deluso da quel vettore: per salire, saliva ma il più delle volte precipitava (appunto, come un missile..) a terra, schiantandosi al suolo e solo allora, beffardamente, il paracadute rotolava mollemente fuori.
che mi voleva un bene dell’anima, risparmiando come e quanto poteva, mi dava qualche soldo di mancia che investivo nei fumetti con le avventure di Topolino e Paperino, Tiramolla, Cucciolo e Beppe, il lupo Pugacioff e Cocco Bill, il cowboy che beveva solo camomilla. E, quando si poteva disporre di qualcosa in più, la scelta cadeva sulle bustine di figurine da dieci lire. Nulla di paragonabile a quanto aveva Alfio ma non mi sono mai lamentato. Nel primo album dei calciatori della Panini ogni squadra di serie A era raffigurata con quattordici giocatori e in molti casi si vedeva che le figurine non erano altro che fotografie in bianco e nero colorate a mano. Nelle ultime pagine dell’album (che in copertina raffigurava Nils Liedholm, il forte attaccante svedese del Milan) c’era un’intera sezione dedicata al grande Torino, la squadra che dominò i campionati dal 1942 al 1949 e che perì il 4 maggio di quell’anno nel disastro aereo di Superga. Il mito, a pochi anni dalla tragedia, era fortissimo. La formazione la sapevamo anche noi piccoli a memoria, quasi fosse uno scioglilingua, a prescindere dal tifo: 
erano il signor Michele Rasi, bell’uomo forte e robusto, di una quarantina d’anni, la signora Ebrica sua moglie e suo figlio Giacomino, un ragazzetto di dieci anni, bruno, tozzo, coraggioso camminatore”. Mi piacque molto “Il piccolo alpino” di Salvator Gotta. L’edizione era la prima, già allora vecchia, del 1926. Il libro, pur essendo usato, era ben conservato. Lo zio l’aveva acquistato su una bancarella alla fiera degli “Oh, Bei Oh, Bei” che si svolgeva nei giorni dell’Immacolata nelle vie attorno alla Basilica di Sant’Ambrogio. Era lì, dove risuonava quell’esclamazione (oh bei, oh bei ! che belli, che belli!) che tradizionalmente si compravano i regali di Natale a Milano. Le bancarelle vendevano dolci e delle sleppe di torrone da far paura, che poi venivavo tagliate in tanti pezzi più piccoli. Gli ambulanti offrivano giochi, berrette e sciarpe, cianfrusaglie di ogni tipo.
Quella fu la somma che spese dalla signora Alfonsina per il sale e per un camioncino di latta rossa e blu. Era il mio regalo per Natale. Quando vidi l’inaspettato dono sotto il piccolo abete addobbato con una dozzina scarsa di palline colorate, pensai che Gesù Bambino fosse stato molto generoso. Non credevo ai miei occhi: era un camioncino bello e colorato, con nere e lucenti ruote di gomma. Sull’abitacolo erano disegnate le porte e il rosso del cassone contrastava con il blu cobalto dell’intera struttura. Era il più bel camion di latta che avessi mai visto. Tanto bello e sfolgorante che a un certo momento non lo vidi più. Era sparito! Mi sembrava d’averlo sognato, anche se ero certo di averlo tenuto tra le mani, girandolo e rigirandolo sotto e sopra. Mia madre mi consolò, giocando con me, la nonna e la zia Annetta al gioco dell’Oca. Tiravo il dado, seguivo il percorso dell’oca di legno sulle caselle ma non dimenticai quel camioncino. Era successo qualcosa che non riuscivo ancora a capire. Fuori nevicava che era un piacere e nei giorni successivi mi divertii con i pupazzi e le palle di neve. Venne poi la notte della Befana. Nella calza appesa vicino al camino, che era sempre spento, trovai due mandarini, delle castagne secche, un cioccolato, un paio di rotolini di liquerizia e…un camioncino di latta rossa e blu. Non ricordo un ritorno tanto gradito quanto quello.
Questo comporta l’insorgere di uno stress emotivo e cognitivo rilevante, che nasce proprio dall’ideale che ci siamo imposti di raggiungere rispetto a quello che, invece, realmente potremmo fare per goderci una ricorrenza. Tutto ciò al punto tale da far vivere l’evento come un processo emotivamente faticoso e affettivamente quasi “scomodo”. Proprio per questo motivo sarebbe molto utile rifiutare qualsiasi schematizzazione del Natale dettata da imposizioni sociali o virtuali, abbassando le aspettative e mantenendosi impegnati e protagonisti in ciò che più ci appassiona, riducendo così di molto la propria influenzabilità individuale. Se siamo attivi in un’intenzione restiamo lucidi ed emotivamente concentrati, cosicché qualsiasi tipo di influenza esterna avrà maggiore difficoltà nell’attecchire dentro di noi. E’ importante, dunque, non farsi sommergere da ritmi imposti, spesso devastanti, che pervadono queste festività. Il Natale è nostro, non dei regali. Dona un abbraccio di almeno mezz’ora.
emozione o effetto speciale. Provare a riportare tutto al “quasi niente” per ridare valore e capacità apprezzante anche al minimo gesto, purché verso l’altro a cui vogliamo bene. E come? Raccontando complimenti sinceri, regalando baci e abbracci duraturi, prese per mano, libri, oggetti fatti a mano donando la nostra creatività di cuore.
facendo il bravo otterrai il regalo da Babbo Natale, la Befana non ti porterà il carbone e, dunque, anche da adulti continuiamo ad essere lì a chiederci se siamo stati bravi veramente e ad interrogarci su come sia stato il bilancio dell’anno passato. Iniziamo la “sagra” del voto ma rispetto a cosa? Dipende sempre dai parametri che ci diamo da rispettare. Dobbiamo provare ad essere meno severi con noi stessi e a non fare paragoni con gli altri e con quello che ci viene raccontato rispetto al “socialmente desiderabile”. Dovremmo essere più liberi. Se siamo capaci di essere più liberi e lontani dagli schemi imposti potremmo aprire una possibilità di riuscire a sentire meno il peso ineluttabile delle feste da calendario. Liberarsi dai voti, dai sensi di colpa, dai bilanci e lanciarsi negli abbracci, prima verso noi stessi, poi verso l’altro lontano dai mi piace, dai “like virtuali” e dalle condivisioni ossessive del miglior “selfie” occasionale. La vita non è un teatro di posa, non è un set fotografico dove cerchi la luce migliore per sembrare più alto o più magro. La vita è una scia di sensazioni che si trasformano in emozioni che, se coltivate, a loro volta sfociano in sentimenti. Per tutto questo serve il contatto, la presenza, non basta un messaggio vocale.
* Dott. Davide Berardi, Psicologo – Psicoterapeuta
Negli ultimi anni si è assistito ad una vera e propria riscoperta dello swing e del lindy hop in tutto il mondo. Quando sembrava ormai essere irrimediabilmente tramontato il ballo di coppia, eccolo a far di nuovo irruzione come principale forma di intrattenimento nel fine settimana e quale modo migliore per incontrarsi
scuole e i festival periodici in cui vengono presentati workshop e ospiti internazionali sembrano crescere e consolidarsi di anno in anno e a dismisura. Una delle cose che sorprende di questo ballo è la socialità. Nelle serate di social dance si balla liberamente con partners diversi senza seguire coreografie predefinite, ma improvvisando guidati dalla musica e dalla sintonia spontanea che si instaura tra i ballerini. Normalmente si è abituati a considerare il ballo di coppia frutto di uno studio accurato di coreografie prestabilite in vista di esibizioni o gare, basti pensare al programma “Ballando con le stelle”. L’improvvisazione di questo ballo invece, tutto giocato sull’abbandono alla musica e al partner, è qualcosa di unico ed è ciò che entusiasma tutti coloro che condividono questa passione. L’euforia collettiva che si sprigiona durante una jam session e l’immediatezza
della musica dal vivo che accompagna gli scatenati balli contribuiscono ad alimentare il desiderio di far parte di una comunità che sembra espandersi continuamente. Durante la settimana sono tante le serate dedicate ai balli social, occasioni imperdibili per chi vuole mettere a frutto i passi imparati a lezione e per ballare con persone diverse. Due sono i ruoli nella coppia: il leader, colui che guida improvvisando e la follower che segue il leader interpretando. Ma si suol dire che a ballare si è sempre in tre: il leader, la follower e la musica.
grande passione, ma anche una scelta abbastanza obbligata nel momento in cui a Torino non esisteva ancora una scena swing e non conoscevo nessuno che ballasse lindy hop! Dopo moltissimi anni di danza modern jazz e contemporanea ero approdata ai balli swing perché, appassionata di musica nera d’annata, avevo scoperto che in Europa esistevano diversi festival dedicati e avevo iniziato a frequentarli. Pian piano le cose a Torino sono cambiate e di sicuro un grosso aiuto è arrivato dal Jazz Club che ha iniziato a organizzare serate dedicate alla musica swing e alla social dance nell’inverno 2011. In tutti questi anni ho sempre continuato a insegnare e ho visto la scena swing crescere e trasformarsi e la città rispondere in maniera entusiasta. Oggi si può ballare più o meno ogni sera a Torino! Dopo varie esperienze e collaborazioni ho infine fondato la scuola Feel Good Swing assieme al mio compagno di ballo e di vita Alessandro Rossi. Man mano la squadra si è allargata e siamo molto contenti del percorso fatto fin qui e dell’atmosfera rilassata e inclusiva che si respira in Feel Good Swing. D’altronde abbiamo scelto questo nome proprio perché secondo noi la cosa più bella e importante da trasmettere attraverso i balli swing è la voglia di divertirsi, di stare assieme e di stare bene!
Una delle cose che colpisce dell’ambiente swing è l’aspetto sociale, la comunità che si crea intorno e la straordinaria varietà di persone attratta dalla musica e dal ballo. Un fenomeno che sembra essere un po’ in controtendenza visti i tempi dominati per lo più da relazioni alimentate sui social network. Quali tipologie di persone si iscrivono ai corsi? 
prodotti cosmetici. In venti anni di collaborazione con aziende cosmetiche e farmaceutiche internazionali ha maturato una profonda conoscenza del cosmetico e della pelle. Si occupa costantemente di ricerca e divulgazione, per diffondere un nuovo paradigma della cosmetica e, proprio per questo il suo impegno è esteso e continuo. Barbara Bertoli è una viaggiatrice curiosa che ama immergersi nelle culture locali per cercare all’origine l’incredibile biodiversità che la natura ci offre. Luoghi in cui l’uso tradizionale delle piante, dei fiori e delle essenze più pure e incontaminate dalla chimica, diventa fonte d’ispirazione per elaborare un nuovo concetto di bellezza e di consapevolezza cosmetica, più completo ed evoluto. Nel 2015 è uscito il suo libro “La geografia della bellezza”, che io personalmente ho letto 2 volte e mi è piaciuto tantissimo, un giro del mondo attraverso i continenti e attraverso i rituali di bellezza dei
popoli passando dalle proprietà dell’olivo utilizzato in Grecia, al rosmarino e mandorle dell’Italia, dal miele impiegato in Egitto alla vaniglia del Madagascar. E poi gli oli essenziali utilizzati in Oriente e il bagno onsen giapponese, arrivando poi nella moderna America. Il tutto corredato da ricette di bellezza facilmente replicabili, ma non voglio svelare tutti i Paesi trattati nel libro e dei popoli protagonisti, i cui preziosi consigli costituiscono un vero patrimonio da tramandare e divulgare. Oltre ad aver scritto il libro “Geografia della Bellezza” edizioni Ultra di Castelvecchi, ha scritto su
MELISSA e i suoi 65 passi dalla Mole
lasciato al caso, ogni dettaglio è curato nei minimi particolari, carta da parati vintage, credenze colme di barattoli con infusi, aromi speziati, profumi di una volta, insomma una miscellanea di sensazioni olfattive che riportano ai ricordi. Girovagare tra gli scaffali e trovarci di tutto: tisane, caramelle, cioccolato, libri, profumi, scatole, fotografie, trucchi, sali da bagno e tanto altro ancora. Questo è il segreto del successo di questa bottega. Un angolo fatto di dettagli, di piccole cure, di particolari dove anche solo un sacchettino di caramelle alla rosa può letteralmente addolcire la giornata.
È sicuramente un’opera unica nel suo genere, l’allestimento è curato con estrema attenzione e non è solo la meccanica che rende unico il Presepe, ma anche la fantasia dei realizzatori che riescono a strabiliare il visitatore. Quest’anno ad accogliere il visitatore si aggiungono figure di pastori (ad altezza d’uomo) che lo accompagnano verso la meta. Per rendere più belle le figure esterne al presepe quest’anno si sono aggiunti i tre re Magi a grandezza naturale. Inoltre hanno realizzato la Natività, sempre a grandezza d’uomo che verrà collocata in chiesa. La creazione del Presepe meccanico dell’oratorio Michele Rua è frutto di un’idea nata anni fa da alcuni salesiani cooperatori. L’associazione salesiani cooperatori è un’associazione creata e ardentemente voluta da Don Giovanni bosco. Il Presepe meccanico ed il Laboratorio uomini del Michele Rua di Torino non è nato solo per stupire, ma è l’occasione per ritrovarsi in famiglia o con amici, un momento di incontro e di condivisione.














