LIFESTYLE- Pagina 400

Gruppo di lavoro per l'ospedale Asl To5

accordo_ospedale_to5L’assessore alla Sanità, Antonio Saitta, ha insediato il gruppo di lavoro tecnico trasversale, interno alla Regione Piemonte, incaricato di seguire direttamente l’attuazione dell’iter per la realizzazione del nuovo ospedale unico dell’asl TO5. Ne fanno parte dirigenti e funzionari delle Direzioni regionali Sanità, Ambiente, Pianificazione territoriale, Trasporti ed Opere pubbliche

 

“Per l’ospedale unico della TO5 – osserva Saitta – il protocollo d’intesa firmato il 3 dicembre scorso dalla Regione con i Comuni di Carmagnola, Chieri e Moncalieri prevede che l’area sarà individuata dalla Regione sulla base di precisi criteri: contesto urbano (esposizione, qualità del suolo, qualità urbana dell’intorno); baricentricità valutata sia in rapporto alla dislocazione sul territorio degli utenti sia ai tempi necessari per raggiungere l’area; facilità di accesso che dovrà essere garantita a tutti i cittadini del territorio di riferimento ad una pluralità tipologica di accessi, sia di carattere infrastrutturale, sia con sistemi alternativi, anche attraverso la previsione del servizio di elisoccorso; rete infrastrutturale e di sottoservizi già esistente e strutturata o che richieda minimi investimenti per la sua integrazione; rete di trasporto pubblico o comunque sua possibile integrazione; fattibilità dell’intervento in relazione ai vincoli di carattere idrogeologico e ambientale. Questioni tecniche puntuali sulle quali entro quindici giorni i vari settori, ciascuno per la propria competenza, mi forniranno relazioni dettagliate. Sulla base di questi criteri, la Regione individuerà ancora prima della localizzazione dei terreni le zone che corrispondono alle caratteristiche concordate con i sindaci”.

 

“Un metodo di lavoro trasparente – conclude Saitta – che ci consentirà a breve di valutare oggettivamente le numerose candidature locali. Il nostro obiettivo è realizzare in tempi rapidi lo studio di fattibilità e mettere a gara la progettazione, la realizzazione e la gestione del nuovo ospedale unico.”

 

Gianni Gennaro

gianni.gennaro@regione.piemonte.it

Dalla Regione arriva un fondo di 12 milioni per sostenere le piccole e medie imprese

REGIONE PALAZZO

 I tassi di interesse, inferiori a quelli di mercato, sono stati predefiniti per ogni classe di rating

 

Una misura anticrisi della Regione attiva attraverso Finpiemonte un fondo di 12 milioni di euro. L’obiettivo? sostenere gli investimenti delle piccole e medie imprese. Il fondo, denominato  “Tranched Cover Piemonte”, prevede un intervento a garanzia dei finanziamenti che saranno concessi da tre istituti bancari: Unicredit, Intesa San Paolo e Monte dei Paschi di Siena. L’iniziativa intende allargare il perimetro del credito e abbassarne il costo, per rilanciare gli investimenti.

 

Il finanziamento, che dovrà essere concesso entro il 30 settembre 2016, potrà spaziare da 25mila euro ad un milione di euro per ogni beneficiario. I tassi di interesse, inferiori a quelli di mercato, sono stati predefiniti per ogni classe di rating.

 

L’assessore regionale alle Attività produttive, Giuseppina De Santis, spiega che “non si vuole replicare ciò che fanno le banche, ma operare per un maggiore accesso al credito laddove il mercato arriva con difficoltà. Questa misura, che movimenterà risorse per circa 150 milioni, potrà dare un forte impulso alla ripresa degli investimenti, contribuendo al rafforzamento del tessuto economico piemontese”.

 

“Si tratta – ha aggiunto il presidente di Finpiemonte, Fabrizio Gatti – di una manovra aggiuntiva e non sostitutiva dei finanziamenti bancari. E’ la prima volta che la finanziaria regionale fa una cosa del genere, che rientra appieno nella sua funzione di sostenere l’economia piemontese”.

 

(Foto: il Torinese)

E' CARNEVALE, CAVAGNOLO IN FESTA!

carnevaleSabato 30, dalle ore 15, ci sarà il Carnevale dei bambini al Palazzetto dello sport

 

Con la polentà a baccalà a mezzogiorno, svoltasi domenica 24 gennaio, al circolo Stazione, organizzata dalla Polisportiva, è partita la serie di manifestazioni del carnevale di Cavagnolo. Sabato 30, dalle ore 15, ci sarà il Carnevale dei bambini al Palazzetto dello sport, a cura della pro loco. E sempre questa associazione domenica 7 febbraio andrà invece ad organizzare, alle ore 11.30, in piazza Vittorio Veneto, la fagiolata. Martedì, poi nuovamente pro loco sarà l’anima della polentata con salsiccia, al centro culturale Martini (dalle ore 18.30). Infine il tour della pro loco attraverso Cavagnolo si concluderà a mezzogiorno di domenica 21, con polenta e salsiccia al Borgo Allegria.

Massimo Iaretti

 

Il “giorno della Memoria”. Per non dimenticare quel 27 gennaio del 1945 ai cancelli di Auschwitz

auscwitzaushvitz2aushwitz2Il 27 gennaio del 1945 cadeva di sabato. L’Armata Rossa, e più precisamente la 60ª Armata del Primo Fronte Ucraino, arrivò nella cittadina polacca di Oswieçim (in tedesco Auschwitz), a circa 60 km da Cracovia. Le avanguardie più veloci, al comando del maresciallo Konev, raggiunsero  il complesso di Auschwitz-Birkenau-Monowitz nel pomeriggio e attorno alle 15.oo i soldati sovietici abbatterono i cancelli del campo di sterminio

 

«La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz“Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati». Così recita l’articolo 1 della Legge 20 luglio 2000, n. 211 che ha istituito il “Giorno della Memoria”. Il 27 gennaio del 1945 cadeva di sabato. L’Armata Rossa, e più precisamente la 60ª Armata del Primo Fronte Ucraino, arrivò nella cittadina polacca di Oswieçim (in tedesco Auschwitz), a circa 60 km da Cracovia. Le avanguardie più veloci, al comando del maresciallo Konev, raggiunsero  il complesso di Auschwitz-Birkenau-Monowitz nel pomeriggio e attorno alle 15.oo i soldati sovietici abbatterono i cancelli del campo di sterminio , liberando circa 7.650 prigionieri. Ad Auschwitz, circa due settimane prima, i nazisti si erano precipitosamente ritirati portando con loro, in una marcia della morte, tutti i prigionieri sani, molti dei quali morirono lungo il percorso. In realtà i sovietici erano già arrivati precedentemente a liberare dei campi nel profondo est polacco,  come quelli di Chełmno e di Bełżec , ma questi, essendo di sterminio e non di concentramento, come Treblinka e Sobibòr, erano vere e proprie fabbriche di morte dove i deportati venivano immediatamente uccisi nelle camere a gas. La scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo l’orrore del genocidio nazista. In totale, solo ad Auschwitz, furono deportate più di un milione e trecentomila persone. Novecentomila furono uccise subito al loro arrivo e altre duecentomila morirono a causa di malattie, fame e stenti. I soldati sovietici si trovarono di fronte non solo  i pochi sopravvissuti ridotti a pelle e ossa ma, durante l’ispezione del campo,  rinvennero le prime tracce dell’orrore consumato all’insaputa del mondo intero: tra i vari resti,  quasi otto tonnellate di capelli umani. Lì, nel sud della Polonia, a partire dalla metà del 1940, funzionò il più grande campo di sterminio di quella sofisticata «macchina» tedesca denominata «soluzione finale del problema ebraico». Auschwitz era una vera e propria metropoli della morte, composta da diversi campi – come Birkenau e Monowitz – ed estesa per chilometri. C’erano camere a gas e forni crematori, ma anche baracche dove i prigionieri lavoravano e soffrivano prima di venire avviati alla morte. Gli ebrei arrivavano in treni merci e, fatti scendere sulla cosiddetta «Judenrampe» (la rampa dei giudei) subivano una immediata selezione, che li portava quasi tutti direttamente alle «docce» (così i nazisti chiamavano le camere a gas).

 

I morti nei campi di sterminio, ai quali vanno aggiunti anche le centinaia di migliaia di ebrei uccisi nelle città e nei villaggi di Polonia, Ucraina, Bielorussia, Russia, i morti del ghetto di Varsavia e altri ancora,  furono oltre sette milioni. Dei deportati italiani, almeno 8.600 furono gli ebrei e circa 30.000 i partigiani, gli antifascisti e i lavoratori (questi ultimi arrestati in gran parte dopo gli scioperi del marzo 1944).Ci furono poi centinaia di migliaia di  soldati e ufficiali del disciolto esercito italiano che, dopo l’armistizio dell’8 settembre, lasciati senza ordini, soprattutto per quanto riguarda l’atteggiamento da tenere verso l’ex alleato tedesco, diventarono degli sbandati. Gli 810mila militari italiani catturati dai tedeschi sui vari fronti di guerra vennero considerati disertori e quindi giustiziabili se resistenti (in molti casi, soldati e ufficiali vengono trucidati, come a Cefalonia). Deportati  nei lager, furono classificati come internati militari (Imi), non riconoscendoli come prigionieri di guerra, per poterli “schiavizzare” senza controlli, ignorando la Convezione di Ginevra sui Prigionieri, del 1929. Oltre 600mila, nonostante le sofferenze e il trattamento disumano subito nei lager, pur sollecitati ad aderire alla Repubblica di Salò e al regine nazista, rimangono fedeli al giuramento alla Patria, scelgono di resistere,  pronunciando un orgoglioso e dignitoso  “NO” al fascismo. I militari detenuti presso le carceri di Peschiera del Garda furono i primi deportati italiani, giunti a Dachau il 22 settembre 1943. Poi conobbero la tragedia dei lager nazisti gli ebrei, gli antifascisti condannati al carcere o al confino, gli altri militari arrestati sui diversi fronti di guerra. La maggioranza delle vittime dei nazisti trovò la morte nei lager di Auschwitz-Birkenau, Dachau, Flossemburg, Dora-Mittelbau, Neuengamme, Ravensbruck, Mauthausen, Buchenwald. Nell’Italia del Nord furono creati dei campi di transito dove gli arrestati (partigiani, antifascisti, ebrei) sostavano per un breve periodo, in attesa dei convogli che li avrebbero trasportati nei grandi lager del Reich e dei territori occupati. Uno era situato a Fossoli di Carpi, presso Modena: fu smantellato nell’estate del 1944 e sostituito da un altro campo di transito situato più a nord, a Bolzano. Un altro si trovava a Borgo San Dalmazzo, in provincia di Cuneo. Anche in Italia venne istituito un campo di sterminio: la Risiera di San Sabba, a Trieste, dal 20 ottobre 1943 fino al 29 aprile 1945.  Nei lager nazisti gli italiani, arrestati e deportati come antinazisti, dovevano portare sulle spalle anche la “colpa di essere traditori”, “badogliani” e quindi venivano considerati doppiamente colpevoli e tali da essere destinati ai lavori più pesanti, più avvilenti, più massacranti, al pari degli ebrei e dei prigionieri di guerra sovietici.

 

Tutti gli strati del nostro paese furono colpiti dalla tragedia della deportazione: dall’intellettuale all’operaio e all’artigiano, dal più povero al ricco, dal giovane al vecchio stanco e malato, senza risparmiare donne e bambini.Le donne, in particolare, furono deportate a Ravensbruck, lager di eccezionale durezza, in cui i nazisti vollero doppiamente umiliarle, sfruttarle e colpirle a morte. La ricorrenza del 27 gennaio offre una buona occasione per riflettere sulla storia agghiacciante della discriminazione e dello sterminio razzista: una storia tragica, scandita in Italia dalle leggi razziali del 1938 che cancellarono i diritti civili di quaranta mila cittadini italiani , dai luoghi dell’annientamento fisico di milioni di ebrei, di detenuti politici, di persone definite da Hitler “difettose“.  Una riflessione che è parte di uno sforzo necessario per garantire la continuità delle conoscenze tra le generazioni, affinché si possa comprendere, sino in fondo, il significato del nazi-fascismo, che aveva posto a suo fondamento il principio di discriminazione; e come in ogni momento in cui questo principio riemerge , la tragedia può ripetersi.  E, infatti, si ripete in un mondo scosso da guerre, eccidi, violenze dal medio oriente all’ Africa, dal continente sud americano fino all’estremo oriente. Gli ultimi esempi – in Europa –  vennero dai Balcani, all’inizio degli anni ’90, in Bosnia Erzegovina e  poi nel Kossovo. Quando si riflette sul modo con cui i fatti accaduti ad Auschwitz ed in tutti gli altri “campi” debbano essere insegnati e fatti conoscere,  occorre tener presente alcuni principi imprescindibili che si fondano proprio sulla consapevolezza di ciò che ha reso possibile la Shoah.

 

Shoah è una parola ebraica che significa «catastrofe», e ha sostituito il termine «olocausto» usato in precedenza per definire lo sterminio nazista, perché con il suo richiamo al sacrificio biblico, esso dava implicitamente un senso a questo evento e alla morte, invece insensata e incomprensibile, di sei milioni di persone. La Shoah è il frutto di un progetto d’eliminazione di massa che non ha precedenti, né paralleli: nel gennaio del 1942 la conferenza di Wansee approva il piano di «soluzione finale» del cosiddetto problema ebraico, che prevede l’estinzione di questo popolo dalla faccia della terra. Lo sterminio degli ebrei non ha una motivazione territoriale, non è determinato da ragioni espansionistiche o da una per quanto deviata strategia politica. È deciso sulla base del fatto che il popolo ebraico non merita di vivere. È una forma di razzismo radicale che vuole rendere il mondo «Judenfrei» («ripulito» dagli ebrei). Dopo la Shoah è stato coniato il termine «genocidio». Purtroppo il mondo ne ha conosciuti tanti, e ancora troppi sono in corso sulla faccia della terra.

 

Bisogna riflettere su un punto. Se è potuto accadere quello che è successo ad Auschwitz che, forse vale la pena ricordarlo, era un Vernichtungslager cioè -letteralmente – un lager di “nullificazione“, ciò è stato possibile perché uno Stato ha fondato la propria legittimazione sul principio di disuguaglianza. Il nazismo si fondava, come il fascismo, sul principio di discriminazione. Senza quel principio non avremmo avuto gli orrori successivi. L’accettazione di quel principio ha prodotto come “conseguenza normale” il passaggio dalla negazione dei diritti degli ebrei al loro sterminio, con l’applicazione rigorosa di principi di efficienza e un’organizzazione razionale basata sull’applicazione metodica e quotidiana di operazioni burocratiche che Hannah Arendt descrisse, nel loro insieme, come la “banalità del male“. Gli ebrei, e con essi gli zingari, gli omosessuali e le persone “difettose” non venivano arrestati e sterminati a causa delle loro azioni, o del loro “avere“, ma solo in ragione del loro “essere“. Così i prigionieri politici, i dissidenti, gli internati militari. Un’altra riflessione riguarda il dovere di affrontare il problema delle responsabilità, delle connivenze, degli approfittamenti e dei silenzi che vi sono stati nel nostro Paese. Sappiamo che ci furono molte manifestazioni di rischiosa e forte solidarietà. Molti ebrei furono ospitati da amici non ebrei o nascosti.Ma non fu questo il comportamento prevalente. Il comportamento prevalente fu il silenzio. Non ci fu solo chi salì in cattedra grazie all’espulsione dalle università dei professori definiti di razza ebraica. Anche dopo l’inizio delle deportazioni ci furono casi non isolati di cittadini italiani che accettarono di segnalare il proprio vicino ebreo alle autorità nazifasciste in cambio di qualche soldo. Alcuni di questi, anche dopo la guerra, non si vergognarono di uscire indossando i vestiti e gli oggetti preziosi sequestrati nelle case di coloro che avevano denunciato. E’ stata raccolta una mole impressionante di documenti che testimoniano l’efficienza con la quale la burocrazia italiana procedette alla sistematica spoliazione dei beni di cittadini definiti di razza ebraica. Funzionari ed impiegati si impegnarono per la compilazione, e la solerte messa a disposizione dei nazisti, delle liste dei deportati per i campi di sterminio. Si tratta di 8566 persone di cui solo 1009 sono sopravvissute. Fu uno zelo disonorante. Ecco perché il dovere della memoria della Shoah, il non dimenticare mai quanto accadde allora, è parte integrante dell’impegno permanente contro l’indifferenza, contro il torpore della memoria.

 

Il Giorno della Memoria non è un omaggio alle vittime, ma una presa di coscienza collettiva del fatto che l’uomo è stato capace di questo. Non è la pietà per i morti ad animarlo, ma la consapevolezza di quel che è accaduto. La capacità di lottare contro il principio di discriminazione che costituisce la più grave forma di iniquità sociale è uno dei capisaldi della dignità di uno stato democratico. Non va scordato.In tempi così difficili, segnati dai fatti tragici dell’estremismo islamico che si traduce in violenza e  terrore,non tutti comprendono che uno dei caratteri fondamentali del futuro dell’Europa sarà quello della multietnicità e che questo futuro deve essere affrontato con fermezza ma anche con serenità, dev’essere governato e non respinto.Il Giorno della Memoria è un atto di riconoscimento di questa storia: come se tutti, oggi e ogni giorno, ci affacciassimo ai cancelli di Auschwitz,  riconoscendovi il male che è stato. Che non deve più accadere, ma che in un passato ancora molto vicino a noi, nella civile e illuminata Europa, milioni di persone hanno permesso che accadesse. E’ essenziale un lavoro di formazione , di trasmissione di valori, sentimenti, ideali molto impegnativo ma altrettanto necessario per dare un senso alla vita e permettere che la vita abbia un senso.

 

Marco Travaglini

 

Malosti ripropone L’Arialda di Testori con i diplomati della Scuola per Attori dello Stabile

arialda 22arialda 23Le vicende dell’Eros e del suo amore non sporcato per il giovane Lino, a distanza di più di cinquant’anni, non intorbidano più nessuna sensibilità. Ma rimangono vive e vitali, come quelle dell’Arialda con tutto il suo desiderio d’amore, cercato e sempre negato

 

Ancor tempo prima una decina danni di frastornare il mondo letterario e teatrale del nostro paese con un terremoto linguistico che lo portò alla scrittura della “Trilogia degli Scarrozzanti”, con un insieme di fusioni, di storpiature, di termini disinvoltamente slungati o ridotti o imbruttiti, tra dialettismi lombardi o francesismi addomesticati (Giovanni Raboni lo definì “il più instancabile sperimentatore della letteratura italiana di questi ultimi decenni”), Giovanni Testori critico darte tra i più raffinati, amante di aree ben precise, tra Piemonte e Lombardia, poeta, romanziere e omosessuale colpevolizzato incrociò con il testo dell’Arialda la stretta democristiana degli Andreotti, dei Scelba, dei Gronchi (Morelli, Stoppa e Orsini che, nel tentativo di chiarire e di liberare una situazione senza via d’uscita, salgono al Quirinale da un Presidente che si rifiuta di riceverli) e l’accusa di oscenità, incorrendo in censure, in riduzioni, in ostacoli, in quelle cancellazioni che alla ripresa milanese impedirono alla commedia di andare in scena. Così per il palcoscenico; e così per il cinema, dal momento che la stessa autorità s’accanì sulle immagini di Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, risultato della collaborazione tra il regista e lo scrittore, essendo alla radice del film Il ponte della Ghisolfa e La Gilda di Mac Mahon, insieme all’Arialda tasselli di quell’affresco che sono I segreti di Milano.

 

I tempi sono cambiati, il nome di Testori s’è anche per troppi annebbiato e le vicende dell’Eros e del suo amore non sporcato per il giovane Lino, a distanza di più di cinquant’anni, non intorbidano più nessuna sensibilità. Ma rimangono vive e vitali, come quelle dell’Arialda con tutto il suo desiderio d’amore, cercato e sempre negato, con il suo mondo abitato dai morti in cui rifugiarsi, come quelle del Gino, con la sua giovanile irruenza, o del maturo Candidezza, che portano attraverso un nebbioso panorama dell’hinterland milanese, fatto di strade e prati e cavalcavia come pure di stanze spoglie che s’affacciano sui lunghi ballatoi, come di palestre o bar fumosi, ad una rete fitta e umanissima di amori scabrosi, frettolosi, feroci e colti nell’inganno. Un presepe ferito di figurine che palpitano anche nell’ipocrisia, nella ferocia, negli atti finali di una vita sconvolta, nel desiderio fatto di bene e di male d’affermarsi, nei fantasmi tangibili (certe situazioni sentono l’influenza di Pirandello) che nel loro essere invisibili costruiscono un attimo di reale presenza.

 

Ha fatto bene Valter Malosti a riproporre il testo, a farne sentire ancora oggi la bellezza della scrittura, a immergerlo nel vuoto che è il palcoscenico delle Fonderie Limone di Moncalieri, soltanto lo scheletro di una porta a delimitare entrate e uscite, alcune soltanto, qualche tavolo, qualche sedia, ha fatto bene a giocare con la prepotenza di quei corpi (anche per immagini, l’armoniosità di certe Deposizioni lascia segni nella memoria) e di quelle voci, facendo quasi scontrare un personaggio con l’altro e riuscendo a creare un grandioso affresco di lotte, di rancori, di fragili vittorie e di sottomissioni. Tutto questo con l’apporto dei diplomati della Scuola per Attori del Teatro Stabile torinese da lui stesso guidata, alcuni fattisi apprezzare su differenti gradi in recenti spettacoli fatti in casa e qui desiderosi di mettersi in gioco totalmente. Qualcuno, se le rose fioriranno, sarà da tener d’occhio nelle stagioni a venire. Ricordiamo tra tutti Beatrice Vecchione che è una fervida Arialda, tutta la forza e la sfrontatezza di Matteo Baiardi (Gino), Roberta Lanave, Gloria Restuccia e la efficace prova di Camilla Nigro, buttatasi senza risparmio nel personaggio di Mina. Si replica sino a domenica 31 gennaio.

 

 (Foto: A. Macchia)

Elio Rabbione

Fino a martedì al Regio "La piccola volpe astuta"

volpe-astutaLa musica di Janacek rende poesia e mistero del mondo cecoslovacco

 

Va in scena al teatro Regio dal 19 al 26 gennaio prossimo “La piccola volpe astuta”, il delizioso capolavoro di Janacek, nel poetico allestimento di Robert Carson.  Per la prima volta rappresentata al Regio di Torino, “La piccola volpe astuta” è un’opera complessa e delicata di Janacek e risulta una più rappresentative del teatro musicale cecoslovacco moderno, articolata in due atti e nove quadri. Il libretto dello stesso compositore si ispira a un romanzo a puntate per una serie di illustrazioni di animali, dal titolo ” Liska Bystrouska” di Rudolf Tesnohlidek,  e si basa su un gioco di riflessioni fra un mondo di animali dal comportamento simile a quello degli uomini e un mondo umano vicino alla natura e al regno animale.

 

Infatti tra il 7 aprile e il 21 giugno 1920 un giornale di Brno pubblicò le 51 puntate di un romanzo che aveva per protagonista una volpe simpatica e indipendente, incuriosita dal buffo mondo degli umani. La donna di servizio di casa Janacek era un’attenta lettrice di quelle avventure e un giorno propose al compositore di musicare quel testo. L’opera debuttò il 6 novembre 1924 al teatro di Brno, quattro anni prima della scomparsa del compositore.  Alle sue esequie, come egli stesso aveva richiesto dopo la prova generale dell’opera, l’Orchestra del Teatro Nazionale di Brno eseguì il toccante finale dell’opera. Nei tre atti c’è molto spazio per intermezzi sinfonici che collegano i vari quadri e la danza.

“La  nostalgia – scrive Milan Kundera,  autore di un felice saggio su “La volpe astuta” –  determina non solo l’atmosfera dell’opera,  ma anche la sua architettura fondata sul parallelismo tra due tempi costantemente a confronto: quello degli esseri umani che invecchiano lentamente,  e quello degli animali che procede a passi precipitosi”

 

La musica rende perfettamente la poesia e il mistero di questo mondo, servendosi di un linguaggio pieno di sfumature,  di tocchi sfuggenti di tipo Impressionistico.  L’autore,  Leos Janacek, si rifà al canto popolare ceco e utilizza un declamato caratteristico di grande efficacia. Questa ne risulta una delle composizioni più liriche e melodiose. Orchestra e Coro sono del teatro Regio, accanto ai Solisti e Coro delle voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino, sotto la direzione di Jan Latham Koening,  con Claudio Fenoglio maestro del coro. Interpreti principali:  Lucie Silkenova, Michaela Kapustova,  Svatopluv Sem e Eliska Weissova. 

Repliche da martedì 19 gennaio alle 20 al 26 gennaio.

 

Mara Martellotta

Un taxi per Cenerentola

CENERENTOLALa malcapitata è passata da pulire casa del padre a pulire casa del marito. Sì è vero,ha qualche donna di servizio, ma alla fine è sempre lei a dover riordinare qui e là ,cucinare, sparecchiare, caricare la lavastoviglie, mentre il principe è nelle brughiere a fare qualche battuta di caccia alla volpe

 

 

Un giorno in città arriva la notizia che il re ha organizzato un ballo a corte, durante il quale il principe potrà trovare la sua sposa.  Le sorellastre, che sono brutte ma molto ambiziose, danno il via ai preparativi per il ballo, provando e riprovando vestiti preziosi, sotto la supervisione della madre. Cenerentola riesce a cucire con gli scampoli avanzati un semplice abito per lei, che grazie alla bellezza naturale è comunque decisamente più avvenente delle sorellastre.

 

Ciò scatena in loro l’ira funesta e in un attimo distruggono il vestito e l’acconciatura di Cenerentola, che si lascia andare allo sconforto piangendo tutte le sue lacrime.Ma come in ogni favola che si rispetti, la magia sblocca le situazioni più difficili: una fata  (la “fata madrina” di Cenerentola) le procura un incantevole abito da sera  celeste e trasforma una zucca in una carrozza di cristallo, grazie alla quale la ragazza riesce a recarsi al ballo (nonostante il divieto della matrigna).  Cenerentola, irriconoscibile anche dalle sue sorellastre, balla tutta la sera con il principe, ma tiene d’occhio l’orologio: è stata avvisata dalla madrina che l’incantesimo è destinato a svanire  a mezzanotte. Persa negli occhi del principe, sente i rintocchi dell’orologio e scopre con orrore che la magia sta lasciando il posto alla realtà; scappa dalle braccia del suo accompagnatore e correndo via perde per le scale del castello una scarpina di cristallo.

 

 

Il principe, che come tutti gli uomini desidera ciò che gli sfugge ed è attratto dal mistero, non degna di uno sguardo le altre fanciulle adoranti e proclama a gran voce che sposerà colei che riuscirà a indossare quella minuscola scarpetta.Il giorno successivo, gli assistenti del principe girano per il regno, facendo provare la scarpa a tutte le fanciulle in età da marito, incluse le sorellastre di Cenerentola. Queste  cercano in ogni modo di infilarsi la scarpetta, ma dopo varie prove, l’unica a riuscire nell’intento è Cenerentola, che sposa in poco tempo il principe.. e vissero per sempre felici e contenti.

 

 

DUE ANNI DOPO:

 

La malcapitata è passata da pulire casa del padre a pulire casa del marito. Sì è vero,ha qualche donna di servizio, ma alla fine è sempre lei a dover riordinare qui e là ,cucinare, sparecchiare, caricare la lavastoviglie, mentre il principe è nelle brughiere a fare qualche battuta di caccia alla volpe. Quando torna entra con gli stivali infangati e uno stuolo di amici casinisti, corre ad accendere il camino per poi stravaccarsi con loro bevendo sidro direttamente dalla bottiglia.

 

“Ceneeeee… vieni a vedere perchè il camino non funzionaaa?” E così Cenerentola sotto gli abiti di velluto è spesso piena di cenere come una volta, e altrettanto infelice. Adesso non sono le sorellastre a obbligarla a pulire, ma quegli zoticoni degli amici di suo marito, che salgono in casa ad ogni ora del giorno e della notte sporcando di terriccio dappertutto. E il principe? Lui sorride con aria bonaria e beve fino a tardi, a volte è così ubriaco da non riconoscerla, altre le si addormenta addosso mentre lo trascina a dormire, tutto sporco di marmellata.

 

Una mattina Cenerentola si sveglia e la cenere della sera prima le si è incollata ai capelli, e non si toglie: non sembrano neanche più biondi, ma grigi, e un pensiero la inchioda. La mia vita sarà sempre così, resterò per sempre Cenerentola, la fata madrina non avrebbe voluto questa vita per me. Scende le scale del castello  correndo e in un attimo è in strada, solleva l’abito per andare più in fretta, senza voltarsi. Non tornerà più indietro e le carrozze sono troppo lente.    “Taaaxi!! ” 

 

Federica Billone

La "prima volta" del popolo di sinistra in piazza per la sicurezza

barriera manifestaziobarriera manifestazbarriera manifestazitosettoSTORIE DI CITTA’ /

di Patrizio Tosetto 

 

Mi sono fatto l’ idea che i più dei manifestanti hanno votato prima Pci e poi sempre a sinistra. Chi partecipa al corteo, nella sua maggioranza ha una certa età. Sicuramente riconosco chi è stato o forse è iscritto a Rifondazione. 

 

I cellulari della polizia lasciano Piazza Foroni alle 19 30. Prima alcuni vigili dirigevano il traffico. Ecco la prima manifestazione contro la criminalità da sinistra. Si potrebbe dire : il popolo , almeno un pezzo di popolo non ne può più. Mi sono fatto l’ idea che i più dei manifestanti hanno votato prima Pci e poi sempre a sinistra. Chi partecipa al corteo, nella sua maggioranza ha una certa età. Sicuramente riconosco chi è stato o forse è iscritto a Rifondazione. 

 

La sezione di via Baltea è  chiusa. Freddo e buio. Corteo pacifico, solo alcune contestazioni in via Scarlatti. Dalle finestre un giovane italiano grida buffoni e una ragazza magrebina si lamenta d essere stata insultata. Obiettivo; raccogliere 200 firme per presentare una lista civica in Barriera di Milano.  C’ è sempre una prima volta. “La nostra ambizione è  fare l’ accordo con Airaudo. Se non sarà possibile andremo avanti da soli. Il PD ha tirato la corda”. 

 

Risposte: ce l’abbiamo con i delinquenti, non con chi è venuto qui per lavorare. Tutto sotto controllo. Raffaele Petrarulo arringa la folla.È ora di reagire, chi vive lì intorno conferma risse quotidiane. Obiettivo; raccogliere 200 firme per presentare una lista civica in Barriera di Milano.  C’ è sempre una prima volta. “La nostra ambizione è  fare l’ accordo con Airaudo. Se non sarà possibile andremo avanti da soli. Il PD ha tirato la corda”. 

 

I capannelli continuano nonostante il freddo ed io vado a trovare due amici, Antonella e Giorgio. Due vecchi amici, attraversando i giardini di largo Cimarosa e vengo insolentito da due ubriachi slavi. Paura, sì paura di quel che accade e soprattutto per  ciò che può accadere. Pavidamente prendo l’auto nonostante debba fare solo centro metri.

 

Sono agitato ma gli amici mi rabboniscono. Te ne devi fare una ragione! Ed i inizia la discussione che proseguirà a cena. Tante parole e poi conclusioni simili. Poi non sono solo “loro” che non fanno il loro dovere. Su 10 vigili assunti dopo sei mesi 7 contestano gli ordini impartiti voltandosi dall’altra parte. Anto scuote la resta. Eppure alla festa di Natale una mamma marocchina ha letto storie per bambini del suo paese. 

 

Un padre nigeriano amorevolmente in perfetto inglese ha sostenuto : noi vogliamo integrarci. Noi siamo una cosa che non condivide la violenza di certi islamici. Visti i bassi costi  i giovani stanno comprando in Barriera .Qualche speranza  c è. Ma la politica, ma i politici? ma i politici di barriera dovranno fare il loro dovere,  dando un senso alla loro candidatura. 

Mini-rivoluzione ai centri per l'impiego: più aiuto a chi cerca lavoro

operai fabbrica lavoro

Il trasferimento dei dipendenti sarà temporaneo, in attesa che si definiscano i compiti della nuova Agenzia nazionale per l’occupazione

 

L’assessore al Lavoro e Formazione professionale della Regione, Gianna Pentenero, ha calendarizzato una serie di incontri con i dipendenti dei Centri per l’impiego per spiegare come sarà riorganizzata la rete dei servizi. Dal 1° gennaio, infatti, le circa 500 persone dell’organico dei 35 Centri piemontesi sono state distaccate dalle ex Province all’Agenzia Piemonte lavoro della Regione. L’obiettivo è uniformare le procedure su tutto il territorio regionale, per offrire un migliore servizio a chi cerca lavoro.

 

Sarà una piccola rivoluzione. Il primo appuntamento è avvenuto nel Centro di via Bologna 153 a Torino, poi in quello di Moncalieri,  a Chivasso, a Ciriè e Ivrea, e in via Castelgomberto  a Torino.

 

“La Regione – dice Pentenero – svolge un ruolo di primo piano nella gestione delle politiche attive del lavoro mediante i Centri per l’impiego. Un’altra novità riguarda, inoltre, i circa 200 dipendenti che si occupavano di politiche attive e formazione professionale nelle Province, che ora passano direttamente in capo alla Regione. Si tratta – aggiunge  – di un processo di riorganizzazione complesso, che ci pone di fronte a diverse sfide: valorizzare al meglio competenze e professionalità del personale e, al tempo stesso, uniformare regole e modalità di gestione dei servizi per il lavoro, spesso diverse da provincia a provincia”.

 

Il trasferimento dei dipendenti sarà temporaneo, in attesa che si definiscano i compiti della nuova Agenzia nazionale per l’occupazione.

 

Felice Cavallotti, il “bardo della democrazia”

cavallottiLa sua vita fu davvero intensa. Non ancora diciottenne, fuggì di casa per partecipare alla seconda spedizione garibaldina in Sicilia, combatté e svolse il compito di corrispondente di guerra. Tornato a Milano si diede stabilmente all’attività di giornalista cui affiancò quella di poeta, drammaturgo, storico

 

Felice Cavallotti, politico e poeta, drammaturgo e patriota italiano, fondatore, insieme ad Agostino Bertani, dell’estrema sinistra storica, soggiornò a lungo sul lago Maggiore. A Ghevio ,presso la zia Adelaide, e poi a Dagnente, dove nel 1883 acquistò una modesta casa allora immersa nel verde, la quale divenne il suo “buen retiro”. Da Milano vi trasportò libri e carte, arredando le stanze con estrema semplicità, senza sfarzo. Cavallotti quando tornava sul lago era solito giungere ad Arona in treno, poi con il battello si portava a Meina e da lì, passeggiando lungo i sentieri, saliva a piedi fino a Dagnente. Ora, un itinerario letterario, ad Arona,  ne ricorda le gesta di politico, giornalista e letterato, al di là della sua immagine oleografica. Il percorso si snoda dalla stazione ferroviaria sino alla collina dove abitava, illustrato da nove tra leggii e pannelli. La sua vita fu davvero intensa. Non ancora diciottenne, fuggì di casa per partecipare alla seconda spedizione garibaldina in Sicilia, combatté e svolse il compito di corrispondente di guerra. Tornato a Milano si diede stabilmente all’attività di giornalista cui affiancò quella di poeta, drammaturgo, storico. Nel 1866 si unì ancora a Garibaldi nel tentativo di liberare il Trentino e l’anno dopo partecipò alla fallita insurrezione di Roma. Collaborò con diversi giornali: la Gazzetta del Popolo della Lombardia, l’Indipendente di Napoli, la Gazzetta di Milano, ilGazzettino Rosa (foglio della scapigliatura milanese). Nel 1873,  all’età di 31 anni, Felice Cavallotti fu eletto per la prima volta al Parlamento come deputato di Corteolona.Nel suo primo discorso disse : “Abbiamo una sola parola d’ordine: onestà; una religione: giustizia ed eguaglianza, libertà e progresso; un’arma: il coraggio delle nostre opinioni”. In parlamento rimase per dieci legislature consecutive, distinguendosi per le battaglie in difesa delle libertà statutarie e degli ideali democratici. Molto attivo contro gli ultimi governi della Destra storica, Cavallotti fu scettico anche a proposito della Sinistra, che salì al potere nel 1876, e si tenne all’opposizione, denunciandone il trasformismo negli anni di Agostino Depretis: “Quando il popolo sente le stesse parole pronunciate da uomini di opposte convinzioni, finisce col non credere più in nulla e in nessuno; e s’infiltra in lui lo scetticismo, questa malaria dei popoli liberi, questa peste dei popoli giovani”. Instancabile e battagliero, portò avanti le sue idee scrivendo articoli e partecipando a comizi che gli procurarono, oltre all’appellativo di “bardo della democrazia” frequenti processi e duelli, il trentatreesimo dei quali gli risultò fatale: il 6 marzo 1898  venne colpito mortalmente dalla sciabola di Ferruccio Macola, direttore della Gazzetta di Venezia, un tempo suo fervido ammiratore. Seguendo le sue volontà fu sepolto nella nuda terra nel cimitero di Dagnente (oggi frazione di Arona), sulle alture che dominano la parte bassa del lago Maggiore, dove venne eretto un imponente cenotafio. Un corteo di tre chilometri ne accompagnò il feretro. Per la morte di Felice Cavallotti, anche Giosuè Carducci pronunciò un discorso funebre pieno di passione all’Università di Bologna. Il socialista Filippo Turati lo commemorò con un discorso al cimitero di Milano, dove la bara si fermò durante il viaggio da Roma a Dagnente, per ricevere gli onori della sua città natale: “Caro Felice, recliniamo oggi sulla tua bara la nostra rossa bandiera, del colore che pure tu amavi, sapendo che la sua ombra non ti sarà molesta”.

Marco Travaglini