LIFESTYLE- Pagina 36

Un pomeriggio al Valsalice con il dottor Franco Berrino: alimentazione, salute e spirito ambiente

 

Nella giornata di venerdì 10 gennaio, presso l’istituto Valsalice di Torino, si è svolto un importante incontro con il dott. Franco Berrino, che ha parlato con sapienza, simpatia e passione in un’aula gremita di studenti della scuola media. L’evento è stato moderato dal prof. Andrea Olivazzo, docente di Tecnologia che, da diversi anni, dedica una parte di tempo delle sue lezioni ad affrontare un discorso sempre più significativo all’interno delle scelte di vita consapevoli: quello dell’alimentazione quotidiana.

“Il tema dell’alimentazione – ha dichiarato il prof. Andrea Olivazzo – l’ho sempre ritenuto importante, ed è giusto che i ragazzi possano riflettere e prendere consapevolezza di quanto le scelte alimentari influiscano su corpo, mente e ambiente. La presenza del dottor Berrino è la dimostrazione di quanto l’intero istituto Valsalice abbia a cuore la salute e il futuro delle nuove generazioni”.

Il dott. Franco Berrino, laureatosi in medicina e chirurgia all’Università di Torino e specializzatosi in anatomia patologica, si è poi dedicato soprattutto all’epidemiologia dei tumori. Dal 1975 al 2015 ha lavorato all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, dove ha diretto il Dipartimento di medicina preventiva e predittiva. Volto noto della lotta a un’industria alimentare che produce cibi sempre più sterili, raffinati, trattati chimicamente e potenzialmente pericolosi per la salute, è anche tra i fondatori de La Grande Via ETS, una Fondazione che promuove la consapevolezza di essere artefici della propria salute, fisica ed emotiva, e il benessere duraturo conquistato attraverso la scelta del cibo che viene mangiato e dell’attività fisica che viene compiuta. Un percorso finalizzato a divenire partecipi dell’armonia e della salute della comunità umana e del pianeta.

Proprio in questa direzione si è svolto l’intervento del dott. Berrino, che ha saputo catturare da subito l’attenzione dei giovani studenti spiegando due ricette sane e gustose di biscotti da preparare velocemente in casa, proponendo contemporaneamente una riflessione divenuta centrale all’interno dell’incontro.

“Tornare a cucinare e scegliere cosa mangiare è importante per noi e per il pianeta – ha dichiarato il dottor Berrino – oggi, purtroppo, è il cibo a scegliere noi. Questo succede a causa dei bombardamenti pubblicitari da parte dell’industria alimentare”.

“Dobbiamo sempre tenere a mente che scegliere cosa mangiare è una scelta che influisce non soltanto sulla nostra salute, ma anche sulle sorti del pianeta, sulle sue risorse – ha continuato il dottor Berrino – una delle cause della fame in Africa è dovuta alla coltivazione sterminata, voluta dal mondo occidentale, di soia, legumi e cereali finalizzati a diventare cibo per ingrassare gli animali in allevamento, in modo da ottenere più carne, più latte, più “prodotto da vendere”.  A quale costo, però? Gli animali si ammalano a causa di un’alimentazione innaturale e, di conseguenza, ci ammaliamo tutti noi che consumiamo il prodotto in forma di carne, latte, formaggi e derivati. L’uomo si è abituato oggi a mangiare cibi che non hanno mai fatto parte della sua dieta nel corso dell’evoluzione, alimenti sempre più raffinati come la farina 00, pieni di conservanti e trattati chimicamente per garantire una maggior durata, lo zucchero della pasticceria industriale, che posso definire “veleno”, vista la quantità di studi scientifici che lo collegano a molte gravi patologie sempre più presenti nella nostra società”.

“Il mio consiglio – ha concluso il dott. Berrino – è quello di tornare in cucina, di preparare con le vostre mani ciò che andrete a mangiare. Noterete anche dei benefici a livello economico. Tornare a mangiare il cibo dell’uomo, ovvero verdura, legumi, cereali, frutta fresca e secca come base fondamentale della nostra dieta significa allontanarsi dal consumismo imposto dall’industria alimentare. Cercate di mangiare cibo biologico, integrale, consapevoli della preparazione che l’ha portato fino al vostro piatto”.

Gian Giacomo Della Porta

Dal PC all’AI

Chi sia nato tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ‘70 ricorderà l’avvento dei primi PC, l’M24 Olivetti in particolare o, seppure più limitato, il Commodore 64 che portarono una innovazione, impensabile solo qualche anno prima, nella nostra vita e nella nostra società.

Dalla lettura dei floppy disks (e poi dei CD) all’esecuzione di calcoli piuttosto complessi, la redazione di testi memorizzabili, i primi fogli di calcolo (Lotus 123®) e molto altro, nel giro di 40 anni la tecnologia si è evoluta in modo esponenziale giungendo ad offrirci, al costo di un televisore, un computer ed una tecnologia in grado di accendere a distanza la caldaia o il forno, controllare le telecamere disseminate nell’appartamento, comandare una o più prese di corrente e molto altro.

Negli ultimissimi anni ha fatto la sua comparsa l’intelligenza artificiale, meglio conosciuta col suo acronimo AI, che sta realmente cambiando la nostra vita, e non necessariamente in meglio; uno dei primi esempi è quella offerta da programmi di fotoritocco o di video editing che, basandosi su una nostra semplice stringa di testo, sono in grado di creare l’immagine o il video da noi richiesto (Santa Claus donna qui sotto, per esempio)

L’AI altro non è che lo sviluppo logico del percorso iniziato, appunto, con i primi PC che almeno in teoria dovevanosemplificarci la vita. In realtà, ogni innovazione moderna ha solo in apparenza migliorato lo status, il modus vivendi delle popolazioni che quelle innovazioni hanno fatto proprie. Pensiamo solo alla robotica: nata per migliorare la precisione nell’esecuzione delle mansioni da parte degli operai, in realtà si è dimostrata un mezzo, accettato dai sindacati, per permettere alle aziende di licenziare gli operai. Anche nei servizil’informatizzazione ha portato agli stessi risultati: dove prima occorrevano quaranta impiegati ora ne basta la decima parte, ove prima c’erano due filiali bancarie per ogni Comune, ora c’è un solo sportello Bancomat ogni 3-4 Comuni.

L’avvento di whatsapp, che permette di lasciare messaggi audio, viene osteggiato dai più per motivi che sfuggono all’umana comprensione, preferendo sterili messaggi di testo che potrebbero essere stati inviati dal primo che prende in mano lo smartphone.

Non parliamo, poi, dei siti di incontri che permettono a perfetti sconosciuti, sé dicenti Pippo o Mimmo, di incontrare Mimì o Lulù, salvo poi fare retromarcia di fronte alla realtà, vista l’incapacità di incontrare, conquistare e sedurre una persona realmente.

L’AI, inoltre, è (o, meglio, sarebbe) in grado di scegliere per noi ilpartner più idoneo sulla base di ciò che abbiamo inserito nel nostro profilo.

E’ evidente che la nostra società meriti solamente l’estinzione, vista la volontà (o la tendenza) all’autodistruzione.

Quello che parrebbe essere un miglioramento della qualità di vita, alla luce dei fatti risulta essere un enorme autogol che ci allontana sempre più dal benessere, nell’accezione originale del termine, e dalla felicità.

Pensiamo di essere felici avendo (quasi) tutto sotto controllo con un semplice tasto dello smartphone, potendo in ogni momento stare in contatto con amici, parenti, amanti, ecc, ma chissà perché,ora più che mai, ci rivolgiamo allo psicologo o allo psicoterapeuta perché qualcosa in noi non va.

Una tecnologia che, in modo subdolo, lento ma inesorabile mette in evidenza tutti i nostri problemi, le nostre fragilità e che ci toglie la serenità, il sonno, la privacy, il riposo.

Con l’AI geni della musica come Beethoven o Mozart saranno messi alla pari con qualsiasi cretino che urla contro le donne, i poliziotti o il proibizionismo; quelli che una volta venivano derisi al bar fin quando non gli si toglieva il mezzo litro davanti verranno venerati come un Nobel o un laureato Honoris Causa.

Che senso avrà ancora studiare se basterà un’occhiata in rete per diagnosticarsi la patologia acuta da cui siamo affetti, per recensire un libro premiato, per valutare causa ed effetto del riscaldamento globale o per giudicare un film senza neppure averlo visto?

L’unico vero risultato dell’AI sarà di permettere ai decerebrati ditenere il passo con i più intelligenti; i minus habens, avendo molto tempo libero perché nessuno li assumerà più, avranno tempo a volontà per pontificare, convincere il mondo delle loro tesi, elaborare tesi fantasiose su qualsiasi argomento o cercare di dimostrare che la Terra è piatta.

Da ragazzino andai con i miei genitori a vedere il film “2001 Odissea nello spazio” nel quale, oltre alla regia impagabile di Stanley Kubrick, la musica di Richard Strauss ci conduceva alla scoperta della prima forma di AI, il computer HAL 9000 in grado addirittura di leggere il labiale dell’equipaggio. Considerando che parliamo di un film uscito nel 1968 possiamo dire che avremmo avuto, volendo, il tempo per prepararci e, ove necessario, correre ai ripari ma evidentemente così non è stato.

Dunque, che senso ha programmare un’intelligenza artificiale destinata agli imbecilli naturali?

Sergio Motta

Post holidays blues, il ritorno alla quotidianità dopo le vacanze

Il tanto atteso periodo natalizio si e’ concluso, anche l’ultimo giorno di festa e’ passato e tutto e’ tornato alla normalita’: la scuola, il lavoro, le abitudini, lo stress e le corse.

Non e’ semplice passare da un periodo di festa caratterizzato dal relax al pieno ritmo, certamente sarebbe molto utile seguire il metodo della gradualita’ inserendo negli ultimi giorni di vacanza alcune consuetudini propedeutiche alla nostra normalita’, ma non sempre se ne ha voglia, al contrario si vuole vivere il periodo festivo fino all’ultimo minuto, ma vedremo quanto invece questo progredire creando delle tappe sia determinante.

Comunque bisogna ritornare alle nostre attivita’ e spesso questo bagno di routine non e’ facile da affrontare: depressione, svogliatezza e tristezza si presentano al nostro cospetto e rimandarle al mittente non e’ semplicissimo.

Ma cosa e’ la post holidays blues e perche’ si presenta cosi’ frequentemente? Questo insieme di sintomi emotivi , ma anche fisici rappresentano una sindrome depressiva o ansiosa che compare nel momento in cui ci si reimmette nei ritmi frenetici della vita quotidiana, spesso carica di responsabilita’ e preoccupazioni. Rappresenta una risposta psico-fisica del nostro corpo che produce uno stato di malessere generale che puo’ durare qualche giorno o anche qualche settimana, ma che e’ sicuramente transitorio e assolutamente trattabile.

I sintomi che si presentano sono apatia, difficolta’ di concentrazione, irritabilita’, malinconia e sensazione di vuoto. Ci sono inoltre anche delle spie di tipo fisico come la spossatezza, la cefalea o l’insonnia.

Il suggerimento per prevenire questo stato di indisposizione e’ quello di non passare da un giorno all’altro dal relax al totale impegno, che sia scolastico o lavorativo.

Si puo’ cominciare dall’alimentazione, evitando di concedersi troppi sgarri, dalla attivita’ fisica da riprendere anche lentamente e dal sonno, termometro importante del nostro benessere.

Un altro suggerimento e’ quello di riordinare la casa facendo poche cose alla volta e rimettendosi in pari con commissioni e arretrati. Continuare a ritagliarsi momenti di svago e’ essenziale cosi’ come alimentare il relax giorno per giorno, insomma niente colpi di frenesia associati a sensi di colpa.

E’ determinante procedere a piccoli passi non chiedendo a noi stessi di passare dal riposo totale alla massima spinta di efficienza. Il cambio repentino e’ nocivo e molto stressante, il nostro corpo cosi’ come il nostro cervello necessitano di tempo per abituarsi al cambio di ritmo. Raggiungere la velocita’ in maniera progressiva e’ la sola maniera di tornare all’efficienza e alla totale lucidita’ senza controindicazioni, passare dalla modalita’ vacanza a quella top speed puo’ creare, infatti, un cortocircuito.

Ovviamente se la sindrome da rientro dovesse prolungarsi, rivolgersi ad uno specialista puo’ essere d’aiuto per affrontare in modo completo ed efficace questo momento che puo’ coinvolgere chiunque, ma che ha ricadute diverse in base alla personalita’ e a disagi pregressi.

Direi infine coltivare l’entusiasmo per nuovi progetti o evoluzioni positive della nostra vita rappresenta quel balsamo che apre il percorso alla soddisfazione, al piacere e alla gioia, veri antidoti alla malinconia e al malessere. Le vacanze torneranno, ma nel frattempo l’appagamento non sara’ mancato.

MARIA LA BARBERA

Dantès sull’isola dei pescatori

 

L’isola Superiore, più comunemente conosciuta come isola dei Pescatori, con i suoi cento metri di larghezza per trecentocinquanta di lunghezza a dispetto del nome è la più piccola delle isole del golfo Borromeo sul lato occidentale lago Maggiore, di fronte a Stresa ( la più grande è l’isola Madre, seguita dall’isola Bella). Quest’isola è stata la prima ad essere abitata tant’è che in un decreto vescovile datato 1627 veniva citata come Insella o Insula Superior, distinguendosi dalla vicina Insula Inferior (isola Bella) a quel tempo ancora disabitata. Quella dei Pescatori è anche l’unica isola del golfo che non appartiene al patrimonio dei Borromeo ed è abitata per tutto l’anno da una cinquantina di residenti stabili, da molti gatti e da Dantès, un piccolo e straordinario yorkshire terrier. La pesca, un tempo attività principale, è ancora praticata da alcune famiglie che hanno conservato quest’antica tradizione.

Le tracce di quest’attività s’intravedono un poco ovunque, dal “codino” dell’isola — striscia di terra alberata all’estremità nord — dove s’incontrano le strutture in ferro un tempo usate come supporti per stendere le reti fino al piccolo porto dove sono ormeggiate le barche da pesca e si conservano i resti di una caldaia che veniva utilizzata per tingere le reti, variandone il colore a seconda dell’uso. Un ambiente straordinario e suggestivo che Dantès, cagnolino curioso e vivace, con un pelo setoso e un carattere propenso all’avventura, amava esplorare in ogni suo angolo appena il sole sorgeva lentamente sopra le acque tranquille del Lago Maggiore. Si aggirava nelle strette stradine tra le case dai colori vivaci dove, a dispetto dei luoghi comuni, incontrava moltissimi gatti con i quali aveva stabilito una pacifica convivenza nel rispetto dei reciproci spazi. Nonostante si pensasse che fossero nemici giurati erano tutti dei quattro zampe pelosi che dimostravano, giorno dopo giorno, come potessero vivere insieme, creando un rapporto basato sul reciproco rispetto. L’isola dei Pescatori era infatti conosciuta anche come l’isola dei gatti. Perfettamente integrati nell’ambiente tranquillo e privo di pericoli, erano tantissimi i felini che si potevano incontrare nelle vie del borgo, in gruppo o solitari, a cercare cibo o protezione dal sole e dalla pioggia tra le piante dei giardini, nella piazzetta della chiesa di San Vittore o nelle vicinanze delle trattorie che s’affacciano sul lago. Quando tramontava il sole e anche l’ultimo battello ripartiva, l’isola cambiava aspetto: calava il silenzio e nella quiete notturna i gatti diventavano i veri padroni del territorio. Un giorno, mentre si avventurava vicino al molo, Dantès notò qualcosa di strano: una piccola rete da pesca abbandonata si era impigliata tra le rocce. Avvicinandosi si rese conto che all’interno c’era un pesciolino argentato che guizzava, cercando di liberarsi. Senza esitare il piccolo yorkshire terrier si mise ad abbaiare per attirare l’attenzione dei pescatori, sperando che qualcuno lo aiutasse.

Il primo ad avvicinarsi fu Rossino, uno dei gatti dell’isola. Il felino guardò il piccolo pesce leccandosi i baffi, quasi pregustasse il fresco bocconcino ma Dantès con poche, convincenti espressioni lo dissuase. Un giovane pescatore di nome Marco si avvicinò. “Cosa hai trovato, piccolo amico?” chiese, accovacciandosi per osservare meglio. Dantès abbaiò e indicò con il muso la rete. Anche il gatto, ormai rassegnato, miagolò. Il pescatore comprendendo la situazione si mise subito al lavoro e, con delicatezza, liberò il pesciolino. “Siete stati veramente bravi!”, esclamò Marco, accarezzando sia il piccolo yorkshire che il micio dal pelo fulvo. “Avete salvato questo pesciolino e poi dicono che i cani e i gatti non vanno d’accordo”. Dantès scodinzolò felice e anche Rossino si strusciò ronfando sulle caviglie del pescatore mentre il pesciolino, ormai libero, si allontanò rapidamente nell’acqua limpida. Da quel giorno Dantès, Rossino e Marco divennero grandi amici. Ogni mattina il giovane pescatore portava il cane e il gatto sulla sua barca, e insieme navigavano tra le isole e i paesi del golfo Borromeo. Sia Rossino che Dantès amavano sentire il vento tra il pelo, osservando le onde e il volo di germani reali, svassi maggiori,  cormorani e folaghe che costruivano il proprio nido sulle barche nei porticcioli o direttamente sui moli. La sera prima di ferragosto, quando la processione delle barche da pesca illuminate portava la statua dell’Assunta, partecipavano anch’essi – insieme alla nutrita comunità felina – al grande falò sulla “coda” dell’isola. Ed era festa grande, potendo godere di teste e lische dei pesci finiti in padella o sulle griglie. L’isola, esposta ai venti, il cui nome li distingue per provenienza (il Mergozzo, che soffia dall’omonimo lago, battendo la sponda occidentale; il Maggiore, impetuoso e deciso che dalla Svizzera scende verso oriente; l’Inverna, che si muove in direzione opposta al Mergozzo, increspando leggermente il lago e portando il bel tempo), offriva ai piccoli abitanti riparo nei vicoli stretti e sinuosi tra le case a più piani dai lunghi balconi dove veniva messo il pesce ad essiccare. Diventati delle celebrità locali potevano godere dell’affetto degli abitanti che li conoscevano e adoravano. Inutile dire quanto questa situazione piacesse a Dantès, a Rossino e ai loro tanti amici che abitando sull’isola erano più che felici.

Marco Travaglini

L’Innominabile

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Ve lo ricordate lo jettatore Rosario Chiàrchiaro, magistralmente interpretato da Totò nel film a episodi “Questa è la vita” ? Era il personaggio creato da Pirandello nel racconto “La patente”, dove un uomo con la fama di menagramo decideva di sfruttarla quasi fosse un mestiere per campare, pretendendo la “patente di iettatore” al fine  d’essere pagato per evitare gli effetti dei suoi malefici. Il principe della risata si combinò una faccia da jettatore che era una meraviglia: barba ispida, incolta sulle gote; baffi  stretti e spioventi; un paio di grossi occhiali scuri, un abito e un cappello neri come la pece e un’ espressione  che obbligava , senza indugio, a fare i debiti scongiuri.

 

Nell’immaginario popolare lo iettatore è stato descritto come un essere magro, pallido, arcigno, leggermente curvo, solitario, taciturno, dal naso ricurvo e con occhi grandi e sporgenti, sormontati da folte sopracciglia . Bene, ora che ve lo siete immaginato, dimenticate tutto. Sì, perché il menagramo di cui si parla – che chiameremo a titolo scaramantico “l’innominabile”, era un uomo del tutto normale, impegnato nella vita amministrativa e politica dopo essere stato partigiano,amministratore pubblico, dirigente del PCI. L’unico “neo” era quella reputazione da uccello del malaugurio che lo accompagnava. Era pur vero che un giorno, in un salone per ricevimenti, guardando il soffitto, puntò l’indice verso il grande lampadario esprimendo una perplessità sulla sua “tenuta” e quest’ultimo pochi minuti dopo s’infranse sul pavimento lasciando i presenti sbigottiti e, fortunatamente, illesi. Non fu, ad essere onesti, un episodio isolato.  Per una serie di casi certamente fortuiti, molte delle sue sventurate “previsioni” s’avverarono suscitando, oltre allo sconcerto e all’incredulità di chi non era e non intendeva diventare superstizioso , una forte preoccupazione in coloro che, non pochi,  iniziarono a sospettare che emanasse davvero un’influenza negativa, portando sfortuna al prossimo. Così, di episodio in episodio, pur ammettendo la possibilità del caso, anche gli scettici furono rosi dal dubbio che le  coincidenze diventassero davvero un po’ troppe. Così, quando l’innominabile s’avviava a prendere un volo per Roma, i conoscenti evitavano accuratamente di salire sullo stesso aereo, accampando le scuse più varie.

Nonostante ostentassero indifferenza, tradivano una comune preoccupazione: l’aereo avrebbe potuto cadere e, nel caso, l’unico passeggero che sarebbe senz’altro miracolosamente scampato alla tragedia non avrebbe potuto essere nessun’altro che lui, l’incolpevole portatore sano di sfiga. L’innominabile soffriva molto per questa situazione davvero imbarazzante. Per un po’ aveva fatto finta d’ignorare la cosa ma , con il tempo, la sua “fama” era cresciuta a dismisura e capitava spesso che, incontrando amici e compagni, questi ultimi infilassero in fretta le mani in tasca dei pantaloniper la rituale toccata dei genitali finalizzata a  scongiurare gli effetti della sua presenza. Che tristezza provava nello scoprire che anche delle signore ben vestite e dal portamento elegante si lasciavano andare a gesti volgari, affrettandosi  a fare le corna. Ci soffriva parecchio poiché, essendo d’animo mite, non avrebbe mai e poi mai immaginato di poter arrecare danno alcuno al prossimo. La sua vita e il suo impegno potevano testimoniare l’esatto contrario, con una infinità d’episodi che l’avevano visto protagonista di gesti d’altruismo e di solidarietà. E’ proprio vero che, su cento cose giuste  che si fanno ne basta una discutibile e si è segnati per sempre. Cosa poteva farci? Il lampadario non l’aveva certo staccato lui dal soffitto. Luigi e Carletto, quando erano saliti in auto, erano un po’ “allegri” e lui aveva solo manifestato la preoccupazione che potessero andare a sbattere da qualche parte. Cosa poteva farci se la loro auto, nemmeno un minuto dopo, si era fracassata contro il muro della stazione e i due erano finiti all’ospedale con le ossa rotte?

A Don Giuseppe l’aveva detto per scrupolo che quella candela poteva incendiare la tovaglia dell’altare. Era colpa sua se metà chiesa aveva preso fuoco? E Marcello? Si era infuriato con lui solo perché , notando il platano oscillare pericolosamente a causa del vento, gli aveva suggerito di non parcheggiare sotto quei rami a sua Gilera. Se poi il vecchio albero del viale delle Rimembranze era caduto  sulla moto scassandola tutta era per sua responsabilità o a causa della tromba d’aria improvvisa ? Suvvia, se la gente era un po’ sfortunata non poteva pagarne lui le conseguenze, vi pare? Eppure qualcosa non quadrava se due persone come Arturo e Lido,  assolutamente prive di pregiudizi e solidamente scettiche nei confronti di ogni diceria, avevano maturato qualche ragionevole dubbio in proposito. Una sera tardi, tornando in auto da una riunione nel novarese, passando di fronte ad un capannone sormontato da una grande insegna luminosa che informava di come si trattasse delle “Officine” che portavano lo stesso cognome dell’Innominabile. Arturo non mancò di far notare il caso di omonimia. Come durante le tempeste magnetiche dei film di fantascienza la macchina si arrestò, senza dare ulteriori segni di vita. Motore muto, quadro elettrico senza vita, luci spente, motorino d’avviamento che non girava. Niente da fare. Ai due non restò che andarsene a piedi fino al primo centro abitato, a quasi dieci chilometri. L’unico albergo era chiuso in quella stagione e in giro non c’era anima viva. Girarono a zonzo per un bel po’ e poi trovarono da dormire in un fienile, come due vagabondi. Al mattino, accompagnati da un meccanico che s’ingegnava anche da elettrauto, tornarono all’auto che, appena girata la chiave nel cruscotto, si mise in moto. I due, increduli si guardarono stupiti mentre il meccanico scuoteva la testa. Così, a causa dell’omonimo industriale metallurgico, la fama dell’Innominabile si allargò anche verso i confini orientali del Piemonte, minacciando di varcare il Ticino. Cosa che, per fortuna dei lombardi, non avvenne.

 

Marco Travaglini

Dolci piemontesi. Sapori e colori di una terra magica

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Non si può non parlare dei dolci piemontesi, non si può non raccontare delle prelibatezze che deliziano il palato di chi vive in questa splendida regione, ma anche di chi la visita e la conosce

Quando ti siedi al ristorante e vedi che nella lista dei dolci c’è il Bonèt sei sicuro che sarà una deliziosa esperienza culinaria, quando entri nelle pasticcerie che dilettano questa terra e trovi le Bignole e gli altri dolci tipici sai che la felicità è lì, ad un passo, e ti cambierà la giornata.
 Vediamo quali sono i più conosciuti, i più amati, i più graditi, i dolci che conferiscono al Piemonte l’etichetta di dolce regione di meravigliose prelibatezze.

Il Bonèt, dolce al cioccolato tipico delle Langhe e del Monferrato, è molto simile ad una crème caramel. Un tempo fatto col fernet, oggi sostituito spesso dal rhum, è arricchito da nocciole e caffè. Il nome bonet è in realtà un cappello un po’ tondeggiante che si indossa ovviamente a fine pasto, dopo aver mangiato il dolce, prima di andare via. Dulcis in fundo.

Cri CriIl Cri Cri, un cioccolatino avvolto da carta colorata e da piccole sfere di zucchero, prendendo così la forma di una caramella, ha una storia davvero romantica, quella di Cristina una ragazza appassionata di moda a cui il fidanzato portava questi dolcetti. La commessa della pasticceria chiedeva se i cioccolatini fossero per Cri e il suo moroso rispondeva: “sì per Cri”. La storia d’amore per questa squisitezza appassionata continua!

Le buonissime Bignole in passato non si glassavano ma si spennellavano semplicemente con lo zucchero. Si deve la loro apparizione in Piemonte ad un frate, Pasquale de Baylon,
che le preparava per rallegrare le merende Torinesi. Al cioccolato, al caffè, allo zabaglione, alla nocciola sono riconoscibili per la loro glassa colorata che le rende bellissime alla vista. Graziose e ghiotte.

I Bicciolani sono dei semplicissimi biscotti di pasta frolla resi speciali dall’aggiunta di varie spezie: il coriandolo, la cannella, i chiodi di garofano, la noce moscata. Tipici di Vercelli, questi buonissimi frollini, hanno anch’essi una antica tradizione e la loro comparsa risale ai primi anni del 1800 quando il proprietario di una bottega, Vittorio Rosso, con una ricetta che pare essere ancora segreta, diede loro vita. Sembra che grazie alla loro compattezza arrivino, in caso di spedizione, comunque e sempre integri. «Patrimonio unico e irrinunciabile della tradizione cultural-gastronomica piemontese».
Krumiri
Ricordano i baffi di Vittorio Emanuele II i Krumiri, i gustosi dolcetti di Casale Monferrato nati nel 1878, anno della sua morte. Appartengono ai P.A.T. – prodotti agroalimentari tradizionali – e furono paragonati, per la loro forma curva, secondo le voci dell’epoca, a coloro che a schiena bassa disertavano gli scioperi operai, divenendo così per i colleghi, vicini, in maniera servile, alla borghesia industriale. Ovviamente questa connotazione negativa, legata agli eventi storici dell’epoca, non ne ha alterato la percezione positiva e gradevole. “Ai dolci gustosi Krumiri eleganti dei bimbi golosi s’allietan i canti”, scriveva Ottavio Ottavi.

Maria La Barbera

 

La felicità si può imparare

Spopolano i corsi di psicologia positiva, qualsiasi cosa pur di essere felici.

Già da qualche tempo, soprattutto durante e dopo il periodo pandemico, si sono moltiplicati i corsi di psicologia positiva, una didattica che insegna la felicità o perlomeno propone una strada in discesa per raggiungerla utilizzando regole, suggerimenti precisi e anche la pratica. Non solo, quindi, teoria o ipotesi sul come spingersi versolo stato di grazia tanto ambito, ma una scienza vera e propria che si avvale di lezioni e compiti a casa. I numeri sono da capogiro. Un esempio? La psicologa Laurie Santos, insegnante a Yale ha 3,8 milioni di iscritti in tutto il mondo e il suo è corso più seguito in più di 300 anni di storia dell’Università; inoltre è stato creato un podcast –  “Happiness Lab”- che conta più di 65 milioni di download. Il corso “Leadership and Happiness” dell’Università di Harvard, invece, esaurisce regolarmente i 180 posti a disposizione, per coloro che non riescono a partecipare in presenza le lezioni sono garantite online.

Sembra quindi che, anche se non si è nati con il dono della letizia, sia possibile impararla, sia concepibile acquisire nozioni su come conquistarla, su come essere felici.

Ma cosa è la psicologia positiva? Di cosa si occupa?

Il benessere personale e la qualità della vita sono l’obiettivo, il centro e l’oggetto di studio della “psicologia positiva”. Secondo Martin E. P. Seligman, lo psicologo statunitense a cui è riconosciuta la paternità di questa scienza, la psicologia deve dedicarsi anche agli aspetti positivi dell’esistenza umana: emozioni gradevoli, potenzialità, virtù e capacità dell’individuo. La qualità della vita è un tema  sempre più all’attenzione della medicina, della sociologia e della psicologia in generale e gli aspetti ed avvenimenti positivi presenti nella nostra esistenza costituiscono una protezione per la salute fisica e mentale.

Sono diversi gli argomenti trattati durante questi corsi che mirano,innanzitutto, ad una inversione di tendenza, ad un deciso e consapevole cambiamento di alcune nostre abitudini e attitudini. In cima alla lista c’è la questione temporale, la nostra inclinazione a pensare troppo al futuro e fare riferimento al passato, principale produttore di sensi di colpa e rimpianti. Per perseguire la felicità e la serenità è necessario stare nel presente, collocarsi nel qui e ora, non spostare ne’ avanti ne’ indietro il nostro pensiero. Troppo spesso siamo tormentati da ciò abbiamo sbagliato, da cosa non è andato bene, dai nostri presunti fallimenti; la mente si concentra sui trascorsi, presumibilmente negativi, creando frustrazione e di certo non producendo, in tale modo, uno stato positivo. Allo stesso modo speculare sul futuro avvantaggiandosi eccessivamente sulle cose che dovremmo fare o che succederanno non ci permette di vivere pienamente la nostra vita attuale.

Un altro elemento importante  su cui si concentrano le lezioni di felicità è la gratitudine, è importante essere riconoscenti per quello che si ha, fare una lista delle cose belle della nostra vita, sentirsi fortunati contrastando un’altra inclinazione molto frequente che è quella di lamentarsi, di pensare che si potrebbe avere di più magari utilizzando uno strumento, perlopiù frustrante, come quello della comparazione. Inseguire mete impossibili, avere modelli irraggiungibili, spesso poco reali, non fa bene. E’ costruttivo cercare di migliorare la nostra vita, tuttavia, essere grati per ciò che si ha è il primo passo verso la felicità.

I pensieri negativi, invece, vanno non scacciati ma limitati. Concedere spazio alle considerazioni ostili va bene, accettarle è necessario perché reprimerle avrebbe un effetto  dannoso. Il suggerimento è quello di dedicargli un tempo fisso, anche giornaliero, per esempio 10 minuti al giorno, poi basta!

Infine ci sono gli altri, gli amici, la famiglia, le persone intorno a noi. Saper stare soli è determinante, e spesso necessario, ma la felicità va cercata anche nell’ insieme, in compagnia, socializzando, condividendo, ridendo insieme, giocando. La solitudine prolungata, l’isolamento e la non connessione con gli altri provoca tristezza e infelicità mentre l’amicizia, la vicinanza, gli altri possono procurare quella gioia che ci permette di affrontare le cose della vita con la sicurezza del supporto e, spesso, del mutuo soccorso . La cosa importante è ridurre le aspettative, non pretendere gesti o dimostrazioni, ma vivere le persone, stare semplicemente insieme a loro.

Sapere di poter essere felici, di poter migliorare il nostro stato d’animo dando spazio alla serenità è molto incoraggiante e innovativo. Scardinare quelle credenze secondo le quali si nasce con delle attitudini, con un carattere e una personalità seguendo la sola teoria dell’ineluttabilità, del non riparabile è possibile e anche doveroso, come lo è darsi la possibilità di stare bene, di superare quelle abitudini e attitudini mentali che ci fanno vivere uno stato di negatività e malcontento.

Maria La Barbera 

Sapore d’Oriente nel piatto: straccetti speciali di pollo

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Il piatto non necessita di lunghe cotture ma di una profumata marinatura

 

Un ottimo secondo piatto leggero, fresco e veloce, non necessita di lunghe cotture ma di una profumata marinatura che esaltera’ il delicato gusto del pollo abbinato alla croccantezza delle verdure.

Semplice, dal successo garantito.

 

 Ingredienti:

1/2 petto di pollo intero

2 carote

2 zucchine

1 limone

1 spicchio di aglio

1 cucchiaino di zenzero in polvere

1 cucchiaino di semi di cumino

1 cucchiaino di semi di sesamo

olio evo q.b.

sale, pepe q.b.

Lavare le verdure e tagliarle a bastoncini nel senso della lunghezza.Tagliare il petto di pollo a striscioline, metterlo in una terrina, cospargerlo con le verdure, le spezie, l’aglio a fettine, bagnare il tutto con il limone, l’olio, il sale,e il pepe. Mescolare bene e lasciar marinare in frigorifero per almeno due ore. In una piastra in ghisa rovente, cuocere gli straccetti di pollo con le verdure scolate per circa dieci minuti, mescolare con una paletta e bagnare con la marinatura, lasciar sfumare. A cottura ultimata, servire subito.

Paperita Patty

“Gesù, perdonami”… Don Siro e il giovane Ardenti

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Il vescovo, l’ultima volta che gli aveva parlato, era stato chiaro. Anzi, potremmo dire chiarissimo. Inequivocabile. “Caro don Siro, lei deve mettere la testa a posto. E’ un parroco stimato dai suoi fedeli che, a quanto mi è stato riferito, non mancano alle funzioni ma…e aveva fatto una lunga pausa, quasi cercasse le parole giuste)..bisogna che non prenda sempre di petto il podestà e chi oggigiorno ha la responsabilità della cosa pubblica. Con i fascisti, piaccia o no, bisogna andar d’accordo. So bene anch’io che sono rozzi, maneschi e non sempre animati delle migliori intenzioni verso il prossimo. Ma noi, caro don Siro, siamo la Chiesa. Non se lo deve scordare. Siamo la Chiesa che guarda e tollera, comprende e non giudica. Si ricordi che solo Iddio può trarre i giudizi. Sono stato chiaro? Adesso vada, su…e si faccia voler bene anche da quei signori in camicia nera“. Era l’ultima, in ordine di tempo, delle lavate di capo che don Siro si era buscato dai suoi superiori.

La Chiesa, pur non condividendo gli atteggiamenti dei fascisti, in particolar modo le bastonature e le somministrazioni di olio di ricino a coloro che venivano individuati come oppositori o, quantomeno, persone non gradite al regime, manteneva un atteggiamento prudente. Don Siro, parroco del paese da vent’anni (ci teneva a precisarlo:“vent’anni,eh.. mi raccomando. Vent’anni e non un ventennio perché la sola parola mi fa uscire dalle grazie e non voglio far peccato mollandovi un bel ceffone”), mal sopportava quei ragazzotti con l’orbace e ancor più gli andavano di traverso quei reduci della grande guerra che si pavoneggiavano imitando la postura del Duce, petto in fuori e gambe larghe. “Andar d’accordo con quelli lì? Madonna mia, come faccio…Sono peggio dei diavoli. Arroganti, presuntuosi e blasfemi. Parlano di Dio e della Patria e poi, alla faccia della carità cristiana, sbattono in gattabuia quelli che non la pensano come loro. Oppure, com’è successo al povero Rossi, gli fan trangugiare un litro e mezzo di olio di ricino. Giù per la gola, a garganella, con l’imbuto. Se non ha tirato fuori le budella nel cesso alla turca nella sua casa di ringhiera, è stato per puro miracolo. E il Luison? E’ un socialista ma è anche una grava persona. Volevano che cantasse Faccetta Nera: si è rifiutato e l’hanno riempito di botte che adesso cammina tutto storto. Ed io dovrei andarci d’accordo? No, cara Madonna: l’è come far peccato!”. Don Siro non era solo una sòca negra, come diceva Geppe. L’abito talare non doveva trarre in inganno. Era sì un uomo di chiesa ma non si poteva dire che non prestasse attenzione e rispetto anche a coloro che la fede l’avevano persa o non l’avevano mai trovata. Soprattutto Don Siro era infastidito dalla violenza dei fascisti. Non sarebbe mai stato in grado di sparare una schioppettata o dar di bastone in testa a qualcuno ma ciò non gli impedì di prendere a calcioni nel sedere l’ultimo rampollo degli Ardenti, famiglia di industriali lombardi che possedevano una gran villa in paese. L’aveva fatto, senza esitazione,  dopo che il diciassettenne eterno avanguardista Furio Ardenti aveva scritto “Noi diciamo che solo Iddio può piegare la volontà fascista. Gli uomini e le cose mai”. Il punto era che quella frase, per il prete, suonava non solo  blasfema ma intollerabile visto che  campeggiava – a caratteri cubitali, tracciati con la vernice nera –  sul muro esterno della canonica. “Gesù, perdonami“, disse mentre sferrava il calcio nelle terga del giovane  fascista. “Perdonami, se faccio peccato ma, credimi, ho le mie buone ragioni“, aggiunse accompagnando le parole con una seconda, vigorosa pedata nel didietro dell’Ardenti, facendogli volar via di botto  il Fez che portava in testa. Il padre del ragazzetto, ma ancor più la madre – una nobildonna secca come un manico di scopa, dal carattere nervoso e suscettibile – andarono su tutte le furie, protestando vivacemente con il Podestà che,a  sua volta, fece le sue rimostranze al Prefetto. Il passaggio successivo era stata la convocazione nel palazzo vescovile, non troppo distanze dalla Basilica sormontata dalla cupola di Santo patrono. Anche questa volta, terminata la lavata di capo, il povero prete si mise in viaggio dal capoluogo al centro più importante del lago con il treno per poi approfittare – da lì al paese – dell’ultima corsa con il  vaporetto, pronto a salpare verso le isole e le località costiere. In cuor suo, Don Siro, si era già quasi dato l’assoluzione.In fondo, quello scatto d’ira era ben giustificato dallo scarso, scarsissimo rispetto che quei signori in divisa scura come la pece portavano alle sue convinzioni religiose e alla pacifica convivenza. “Se proprio devo porgere l’altra guancia – mugugnava tra sé il prete – vorrà dire che, in caso estremo, porgerò anche l’altro piede”. Intrecciò le dita per pregare e sul volto comparve per un attimo un sorriso sornione.

Marco Travaglini