
Una nuova esperienza di colazione attende i clienti della Galleria Iginio Massari di Torino, in piazza CLN 232: quindici nuove inedite interpretazioni di croissant e brioche si aggiungono all’iconico cornetto all’italiana, alla veneziana alla crema, alla sfogliata e agli altri classici che da sempre rappresentano l’eccellenza dolciaria della famiglia Massari. «La rinnovata viennoiserie è un invito a riscoprire il piacere di uno dei pasti più importanti della giornata con creazioni che coniugano studio, tecnica e creatività – spiega il Maestro Iginio Massari -. La colazione è il primo gesto di piacere. Abbiamo realizzato un’offerta che racconta la nostra idea di eccellenza quotidiana: semplicità apparente, grande tecnica e bilanciamento tra tradizione e innovazione, abbiamo posto particolare attenzione alla lievitazione e alla texture dell’impasto».
Le novità comprendono, tra le varie creazioni, il Pain au Chocolat bicolor, il Fagottino rosso al lampone fresco e mascarpone, il Croissant bicolor, la Parisienne alla crema, il Pain Suisse, l’anello al Gianduia, i Cestini di frutta alle fragole e al caffè, la Brioche al pistacchio e lamponi.
L’innovazione nasce dal rispetto della tradizione, come nel caso del cornetto all’italiana sul quale la famiglia Massari ha dedicato anni di perfezionamenti, lavorando su sfogliature, bilanciamenti e soprattutto alle lievitazioni per esaltarne la fragranza, la leggerezza e l’inconfondibile gusto.
Accanto alla nuova viennoiserie, la Pasticceria presenta una Tarte Tatin eccezionale fatta con due diversi tipi di mele per acidità, sapore e consistenza ideali. Insieme alla Tarte Tatin, le torte Perfetta, Caprese e Bresciana vengono sfornate ogni quarantacinque minuti direttamente in pasticceria per consentire agli ospiti di assaporarle al massimo della loro espressione.
La nuova viennoiserie, la Tarte Tatin e altre novità sono disponibili presso la Galleria Iginio Massari di Torino, in piazza CLN 232,aperta tutti i giorni.
Tartufo bianco, riso piemontese, carne di fassona, Alta Langa e Barolo – i gioielli dell’enogastronomia piemontese – sono stati i protagonisti della giornata di ieri della missione piemontese in Giappone.
Dichiara il presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio: «Siamo convinti che le nostre eccellenze enogastronomiche possano rappresentare un motore economico sempre più importante per il nostro export su questi mercati che diventano ancora più strategici alla luce dei dazi che esistono verso gli Stati Uniti e che ci impongono di potenziare altre relazioni commerciali. A questo si unisce l’apprezzamento dei giapponesi per la qualità dei nostri prodotti. In questo Paese, come in Piemonte e in Italia, il cibo è cultura ed è un ponte per saldare l’amicizia tra Piemonte e Giappone e creare relazioni e sinergie».
Due gli appuntamenti clou . La degustazione all’Hotel W di Osaka dell’Alta Langa Docg – lo spumante Metodo classico proclamato Vino piemontese dell’anno 2025 – per una selezionata platea di 25 giornalisti giapponesi dei settori food, wellness e turismo. Organizzata dalla Regione Piemonte insieme al Consorzio di Tutela Alta Langa, è stata condotta dal sommelier Akira Mizuguchi.
Spiega l’assessore al Commercio, Agricoltura e Cibo, Turismo, Sport e Post-olimpico, Caccia e Pesca, Parchi Paolo Bongioanni: «È un prodotto di eccellenza assoluta: il più antico Metodo Classico d’Italia, 3 milioni e 300mila bottiglie prodotte, di cui solo il 15% attualmente è esportato e che quindi ha grandi spazi di crescita per promuoverlo sui mercati internazionali».
A seguire, nella Great Room dell’Hotel W, il Piemonte Gala Dinner che ha visto 150 ospiti istituzionali e stakeholder giapponesi per un menu interamente a base di prodotti piemontesi d’eccellenza preparato dallo chef Masato Miyane. Classe 1974, diplomato al Musashino Culinary Institute di Tokyo, Miyane è venuto in Italia nel 2001 ed è stato per cinque anni con Massimo Camia presso la Locanda nel Borgo Antico di Barolo. Rientrato nel 2006 a Tokyo, ha lavorato come chef nel ristorante Ostü di cui è diventato proprietario nel 2011. Il menu ha proposto piatti simbolo della cucina piemontese: Vitello tonnato, Uovo in cocotte con Tartufo Bianco d’Alba, Tajarin al burro con Tartufo Bianco d’Alba, Guancia di manzo brasata al Barolo e Bonet, accompagnati da Alta Langa Docg, Roero Arneis, Langhe Nebbiolo Doc, Barolo Docg e Moscato d’Asti Docg.
A illustrare il menu agli ospiti è stato lo stesso assessore Bongioanni, che commenta: «In questi giorni fitti di incontri, il Giappone ha mostrato una grande passione e interesse a scoprire la ricchezza dell’offerta enogastronomica e turistica del Piemonte. L’Italia è il principale produttore di riso d’Europa, e il Piemonte supera il 55% della produzione nazionale: abbiamo visto il grande interesse dimostrato dai buyer giapponesi in occasione di Risò a Vercelli nelle scorse settimane. Dal tartufo bianco d’Alba alla carne di fassona che si gemella con quella di Kobe, dai nostri formaggi che sono espressione della filiera casearia migliore d’Italia fino ai grandi vini come Alta Langa e Barolo, sul quale stiamo innervando una strategia di promozione sulle linee aeree giapponesi, il mercato nipponico si sta rivelando un nuovo quadrante ricco di opportunità per i nostri produttori e una straordinaria alternativa rispetto ai condizionamenti dei dazi. Occasioni come questa si rivelano le azioni promozionali più efficaci perché offrono quell’esperienza diretta che poi ognuno si porta a casa, ricorda e condivide raccontandola agli altri e diventando così testimonial diretto di quella memoria sensoriale».
cs



Nascono la pasta e il pane con grano torinese che rispettano il lavoro degli agricoltori.
Presentata il 3 ottobre scorso, presso la palazzina di Caccia di Stupinigi, la nuova pasta fresca prodotta con la filiera del grano di Stupinigi, una delle due filiere torinesi del grano promosse da Coldiretti (l’altra è la filiera del Gran di Bric della Collina chivassese). Il grano di Stupinigi è coltivato nei Comuni di Nichelino, Beinasco, Orbassano, Candiolo, None, Vinovo. Si tratta di una miscela di quattro varietà testate per lungo tempo in campo prima di essere seminate. La farina ricavata presenta una scarsa percentuale di glutine e viene macinata mantenendo le proteine del germe.
La pasta di grano tenero viene prodotta da Pasta Girardi, azienda attenta alla qualità e rispettosa dell’equo compenso per i coltivatori con stabilimenti a Leinì e Orbassano. Si tratta di una pasta che rispetta perfettamente la tradizione piemontese con le sue cinque referenze, i tajarin, gli agnolotti di carne, i ravioli di ricotta e spinaci, i plin, i paccheri.
Ma se per la pasta della farina di Stupinigi è la prima volta, non così è per il pane. Da dieci anni Panacea produce pane speciale con la stessa farina. Oggi Panacea, una cooperativa torinese nata per l’inclusione sociale, ha presentato un nuovo ‘miccone’ panificato con la stessa farina rinnovando così l’offerta disponibile nelle panetterie Panacea che, con la farina di Stupinigi, producono anche grissini, biscotti, crackers, tortine.
La farina è prodotta da Mulino Roccati di Candia Canavese e il grano è stoccato nei silos del consorzio agrario Nord Ovest di Orbassano.
La presentazione dei nuovi prodotti ha rappresentato anche l’occasione per il rinnovo dell’accordo di filiera tra agricoltori industriali che, da un decennio, tutela tutti gli agricoltori aderenti. Il nuovo contratto di filiera migliora anche la remunerazione per i contadini.
Coldiretti Torino è riuscita a mediare, portando a casa 5 euro in più al quintale come premio di filiera, basato sulla quotazione del grano di forza, vale a dire del grano più caro nelle contrattazioni. Il presidente di Coldiretti Torino, Bruno Mecca Cici, spiega il vantaggio di sostenere i contratti di filiera, che in Piemonte sono attivi anche per il latte e la nocciola.
“ Con i contratti di filiera – ha spiegato Bruno Mecca Cici – ci guadagnano gli agricoltori che percepiscono una remunerazione più alta e non soggetta alle oscillazioni di mercato. Ci guadagnano le aziende alimentari perché hanno a disposizione un prodotto aderente alle esigenze aziendali garantito da un disciplinare. Ci guadagnano i consumatori perché acquistano alimenti certificati di alta qualità”.
Alla presentazione hanno partecipato anche il sindaco di Nichelino, Gianpiero Tolardo, che ha parlato dell’impegno del suo Comune e dei Comuni del Parco per la promozione dei prodotti locali. Marta Fusi, direttrice della Palazzina di Caccia di Stupinigi, ha messo in evidenza la relazione antica tra la palazzina barocca e l’agricoltura, un rapporto già concepito dall’Architetto Juvarra che, insieme alla regia palazzina, progettò anche le cascine.
Francesca Martina, consigliera di Orbassano dell’Ente di Gestione delle Aree protette dei Parchi Reali, ha illustrato l’impegno del Parco per l’agricoltura sostenibile. Roberto Roccati di Molino Roccati ha illustrato le caratteristiche della farina, David Valderrama, presidente della cooperativa sociale Panacea, ha mostrato il nuovo pane dalla crosta croccante e il cuore morbido e lenta lievitazione. Simone Girardi e Paola Nardo di Pasta Girardi hanno presentato la nuova pasta fresca che ricalca la tradizione piemontese. Il vicedirettore di Coldiretti Torino, Giancarlo Chiesa, ha ricordato i vantaggi economici per i coltivatori. Si tratta di un risultato che premia l’azione sindacale e la vicinanza alle aziende agricole troppo spesso costrette a vendere il prodotto sottocosto.
Mara Martellotta
Dal green alla vita, lo sport come strumento per guardare con occhi nuovi la fragilità e la forza della disabilità.
È appena uscito il nuovo romanzo Nevio Grubessich Il Golf come una scatola di cioccolatini. Non si sa mai quello che ti capita, pubblicato da Impremix Edizioni. Nel titolo si fonde la passione per il Golf con la metafora della vita e le sue sorprese, la sua imprevedibilità, i cambi di programma e i momenti inattesi. Il Golf non è raccontato come disciplina sportiva, ma piuttosto come una lente per osservare quello che l’esistenza riserva. La storia narra di due ragazzi che si incontrano giocando a Golf e si rivedono solo quando hanno 60 anni e davanti ad un bicchiere di vino ricordano i loro momenti insieme, ma si raccontano anche i motivi per cui si sono persi di vista. Uno dei due, inoltre, è diventato cieco e vive le problematiche di questo handicap, il testo, tuttavia, non ha un tono malinconico o vittimistico, è caratterizzato invece da una sfumatura quasi divertente.
Nel libro sono inseriti anche dei racconti di persone disabili, come quello di Giulia Marabotti che affetta da una malattia, l’acondroplasia, decide, per poter praticare il suo amato sport, di fare degli interventi chirurgici ai femori, alle tibie e agli omeri; la storia di Alessandra Donati che sfida la sua neuropatia o quella di Franco Sebastiano Venier, sulla sedia a rotelle dopo un brutto incidente.
“Ho scritto e dedicato questo libro a Tiziana Nasi” dice l’autore “una persona speciale, presidentessa del golf disabili, che ho conosciuto in occasione di una donazione di due poltrone da dentista alla associazione per cui faccio volontariato insieme a mia moglie Nicoletta. Mi ha chiesto di scrivere un libro sulla disabilità e così è nato questo volume di cui sono molto orgoglioso”.
Il Golf, in questo romanzo di Grubessich, diventa simbolo della convivenza con la propria fragilità, parla delle aspettative degli altri, della bellezza di un colpo ben fatto, ma anche dalla lezione che arriva da quelli sbagliati. Non c’è l’enfatizzazione della tecnica sportiva, ma un invito alla introspezione: ciò che conta è come si reagisce quando si perde la pallina, nella metafora più ampia della vita, o quando ci si rialza per tirare di nuovo, spesso non sapendo cosa aspettarsi.
Il mondo della disabilità viene ancora percepito in maniera distorta, certamente avere a che fare con degli importanti limiti fisici non è facile, ma si può vivere comunque con entusiasmo, si possono fare dei progetti ambiziosi e raggiungere traguardi competitivi e sportivi molto importanti. Si crea un equilibrio tra le difficoltà delle barriere e una sana leggerezza che fa da guida ad una esistenza di certo problematica, ma anche felice e piena. “Scrivendo questo libro ho compreso la poca sensibilità che avevo nei confronti delle persone disabili che non pretendono nulla di particolare se non un po’ di sensibilità e umanità. Ho ascoltato le loro storie, le loro emozioni e le loro speranze cercando di riportarle in maniera chiara e piacevole”.
All’interno del libro è narrata anche la storia di un caddie (il portabastoni) storico di Torino: Celso Molinero a cui l’autore ha dedicato anche una targa. “L’ho paragonato ad un consigliere, al navigatore in una gara di guida e a un direttore d’orchestra, ma anche un grande amico” spiega l’autore.
Un libro dunque, quello di Nevio Grubessich, che allarga la prospettiva su una dimensione che, nonostante i progressi degli ultimi anni, non si e’ ancora ben compresa. Il Golf, con la sua natura di gioco lento, fatto di concentrazione, silenzi e piccoli gesti ripetuti, diventa, in questo caso, uno strumento potente per avvicinarsi al tema della disabilità. È uno sport che non chiede necessariamente forza fisica estrema, ma equilibrio interiore, pazienza, capacità di adattarsi, qualità che accomunano il percorso di chi vive una condizione di fragilità. La sfida non è contro l’avversario, ma contro se stessi, contro i propri limiti e le proprie paure, in un terreno che cambia ad ogni buca, proprio come succede nella vita. Giocare significa accettare l’imprevisto e trasformarlo in possibilità, scoprendo che ogni tiro, come ogni esperienza, ha un suo valore.
Maria La Barbera

Per definire la Trattoria Broccia si può parlare di una cucina squisitamente popolare, che porta in tavola la tradizione, con porzioni abbondanti e prezzi contenuti, tovaglie a quadrettoni e un’ospitalità calorosa di chi gestisce un locale e accoglie i clienti come fossero ospiti a casa propria.
L’anima di Broccia è autenticamente calabrese. La famiglia Zurzolo, che guida sala e cucina, è composita. Formata da cognati, fratelli, cugini, mogli e mariti, arriva da Rosarno, e porta con sé il meglio della cucina di una delle regioni dall’identità gastronomica inconfondibile.
Per di più sorge nel territorio di San Salvario, nel cuore di un quartiere torinese cresciuto sulla base della vitalità delle persone, sulla commistione di culture, sullo star bene celebrato come momento di condivisione collettiva. Broccia risulta una trattoria vera e propria con le caratteristiche di un tempo, dove la convivialità era l’elemento principe della tavola, mentre si consumava un piatto di pasta gustoso e l’amaro della casa.
Questa trattoria propone la pasta tipica di alcune zone della Calabria, salumi e formaggi locali e la capra “all’aspromontana”, servita nella terracotta. Ai sapori meridionali, Broccia unisce quelli della terra d’adozione della famiglia. Il risultato è un menù totalmente inedito che, ai piatti della Calabria, affianca le tradizioni tipiche piemontesi, come il vitello tonnato, i tajarin al ragù e la bagna caoda, servita nel tipico fujot, il fornelletto di terracotta che da Broccia diventa la “scionfetta”, in una simpatica nuova nomenclatura calabro-piemontese. Così Broccia diventa il luogo dove le culture si incontrano, come da tradizione del quartiere di San Salvario, e dove si fondono le tradizioni di un bene comune di tutta Italia, la trattoria.
La sala è capitanata da Kevin, giovane volto del progetto, accanto a lui la sorella Azzurra e Marco, entrambi in cucina, i cugini Giovanni e Francesco, suo cognato Angelo e la moglie Diana, in sala. Da Broccia si viene anche per un bicchiere di vino calabrese o piemontese, accompagnato dall’abbondante antipasto proposto nelle due versioni: quella del barotto e quella del “terrone”. Sono presenti due menù degustazione, a 30 euro, e uno esclusivamente vegetariano a 25 euro.
Broccia Ristorante e Cucina Popolare – via Nizza 39/A, Torino
Telefono: 380 1855519
Mara Martellotta
A cura di PiemonteItalia.eu
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“E ora, che si fa?”, chiese Gioacchino, rivolgendosi incredulo agli altri compagni. “Che si fa, che si fa…Si cerca qualcuno che se la senta, che trovi le parole giuste. Del resto si sapeva che, prima o poi, ci sarebbe capitato un funerale civile anche qui da noi, no? C’è sempre una prima volta”, rispose sbrigativo Carletto Barelli, il segretario della Camera del Lavoro

Lucrezia l’aveva detto a tutti e, da qualche anno, ormai anziana, l’aveva anche scritto – nero su bianco – nel testamento. Così non c’erano dubbi: il giorno dell’ultimo saluto, prima di finire sotto terra, non voleva tra i piedi preti e suore. “Niente omelie e fumo di candele;niente fiori e rosari da sgranare. Solo una breve orazione civile”. Così aveva scritto, di suo pugno, Lucrezia Dolcini, dopo la premessa di rito (…nel pieno possesso delle mie facoltà mentali e in piena libertà, volendo disporre per il tempo in cui avrò cessato di vivere, dichiaro con il presente atto le mie ultime volontà come di seguito espresse…).
Essendo nubile e senza prole, non aveva parenti stretti a cui lasciare l’unico bene di cui disponeva: una vecchia casa con annesso fienile che aveva ereditato dal padre, morto di silicosi a meno di quarant’anni. E così aveva disposto che fosse la CGIL a beneficiare di ciò che possedeva. In cambio, come unica contropartita, voleva che l’impronta dell’ultimo saluto fosse laica in tutto e per tutto. La sua storia, del resto, parlava per lei. Nata nel 1892 poco distante dalla Pieve di Montesorbo a Ciola, una frazione di Mercato Saraceno, in Romagna, Lucrezia – con i genitori – era emigrata in tenera età in Ossola dove il padre, Duilio, aveva trovato lavoro nel cantiere del traforo del Sempione. Un’opera imponente che, all’epoca della sua costruzione, nei primi anni del ‘900 , collegando Domodossola a Briga, si fregiava di essere la più lunga galleria ferroviaria del mondo. D’indole ribelle, era cresciuta in una famiglia di fede repubblicana. Il padre era stato anche segretario, in gioventù, del più antico partito politico italiano in una località limitrofa, Talamello. Quel nome e il simbolo della foglia d’edera, in Romagna, spiccavano fieramente su fiammanti bandiere rosse e gli aderenti cantavano feroci canzoni contro i Savoia e tutte le teste coronate. La giovane Lucrezia, cresciuta con il mito dei “tre Giuseppe” (Mazzini, Garibaldi e Verdi) stravedeva per il padre che, al posto delle favole, le leggeva brani della Costituzione della Repubblica romana, che Aurelio Saffi , romagnolo purosangue, aveva contributo a scrivere con gli altri due membri del “triumvirato”, Armellini e Mazzini, dopo aver sottratto il potere al Pontefice, al tempo Pio IX. Papà Dolcini, rimasto vedovo, crebbe la sua unica figlia con amore, mettendola in guardia sulle fatiche della vita. Per rappresentarle meglio, usava un’immagine piuttosto forte, presa in prestito dal poeta Olindo Guerrini, in arte “Stecchetti”, anch’esso romagnolo: “La vita l’è coma la schèla de puler: cùrta, in salìda e pìna ad merda” (la vita è come la scala del pollaio: corta in salita e piena di sterco). Così, lavorando sodo, con il magro guadagno riuscì anche a far studiare la figlia e Lucrezia, tra un sacrificio e l’altro, si diplomò maestra e insegnò a leggere e scrivere nella scuola elementare di uno dei più popolosi rioni di Domodossola. Lo fece riponendo nel suo lavoro la stessa passione con cui, alla sera, partecipava agli incontri e alle iniziative promosse dal sindacato e dai partiti progressisti. Se c’era da predisporre un manifesto pubblico o organizzare una serata di solidarietà con le famiglie degli operai in sciopero di questa o di quell’altra fabbrica, la “maestra Lucrezia” non si tirava mai indietro, offrendo impegno e tempo senza nulla pretendere in cambio. Per questo era benvoluta e stimata in tutta la valle. E la notizia del suo decesso era stata accolta con tristezza e dolore. Chi poteva porgerle l’ultimo saluto? Carletto Barelli ebbe un’idea: “si potrebbe chiedere a Germinale Festelli, il maremmano. Che ne dite? ”. Convennero tutti che l’idea era ottima e venne incaricato Libero Fusini, che lavorava con Germinale all’acciaieria della “Pietro Maria Ceretti“.
Uno schietto e diretto, un po’ fumino e permaloso, il Festelli passava per uno che aveva un caratteraccio ma in realtà era solo allergico ai compromessi e non aveva mezze misure, nel bene e nel male. Se un amico aveva bisogno, si faceva in quattro per dargli l’aiuto necessario ma se qualcuno gli faceva saltare la mosca al naso erano guai e dolori. “Quando Germinale diventa brusco è come il temporale che si scatena in agosto”, dicevano in fabbrica, alludendo ai fulmini e alle saette che accompagnavano le sfuriate del “toscanaccio” quando aveva la luna storta. Il Festelli, livornese di Cecina, saputo della morte di Lucrezia, sbottò con un solenne: “Maremma maiala! Che triste notizia mi date! L’era una donna decisa come l’omo. C’aveva dù ‘oglioni!”. Sinceramente dispiaciuto, non esitò a dare l’assenso alla richiesta che Libero gli sottopose a nome delle sezioni comunista e socialista, della Fiom e della Camera del Lavoro, oltre che di alcuni dei vecchi repubblicani che erano rimasti fedeli alle loro origini. Il funerale si sarebbe svolto due giorni dopo, partendo dall’abitazione di Lucrezia, alla Noga, di fianco all’edificio seicentesco della vecchia parrocchiale, dedicata alla Vergine del Rosario. Il corteo, prima di raggiungere il cimitero, avrebbe fatto una sosta in piazza Mercato dove avrebbero preso la parola Carletto Barelli e , soprattutto, Germinale Festelli, l’oratore ufficiale. Il cecinese preparò con cura il discorso, deciso a non farsi prendere la mano dall’ardore della passione che l’avrebbe, senza alcun dubbio, portato all’esagerazione. Scrivendo, cancellando, aggiungendo arrivò a quella che, per lui, era la perfezione possibile: un’orazione civile che si proponeva di omaggiare la memoria di Lucrezia, toccando le corde dei sentimenti più veri. Provò più volte il discorso davanti allo specchio, calcolando con l’orologio quanto tempo gli era necessario per leggere quel testo senza andar troppo piano, strascicando le parole, e neppure troppo veloce, con il rischio di mangiarsele. Cronometro ventitre minuti esatti. Né troppo, né troppo poco. Sì, poteva andare.
Così, con i fogli infilati nella tasca della giacca di fustagno del dì di festa, in testa al corteo composto da alcune centinaia di persone, affiancato da labari delle cooperative e bandiere rosse, Germinale avvertiva su di sé tutto il peso della responsabilità. In piazza, dopo il telegrafico intervento del segretario della Camera del Lavoro, il Festelli s’avvicinò al microfono. Con un colpo di tosse si schiarì la voce e alzando lo sguardo sulla folla, appoggiò la mano sinistra sul feretro coperto da una bandiera sulla quale spiccava il simbolo dell’edera e fece per prendere i fogli dalla tasca. In quel momento, vuoi per l’emozione, vuoi perché non aveva toccato cibo dal giorno prima, gli si annebbiò la vista e – per un istante – si sentì mancare la terra sotto i piedi. Rendendosi conto che non era in condizione di leggere, prese coraggio e pronunciò, con voce di tuono, una delle più brevi orazioni funebri della storia: “ Oh, Lucrezia. Noi ci s’ha fatto le lotte insieme e ora siamo più soli. L’è ‘nda’ via una compagna che valeva, maremma maiala ‘mpestaha ‘hane. E mi domando: oh, Lucrezia, perché sei morta se cinque minuti prima di morire, eri così piena di vita ?”. Dopo qualche attimo di smarrimento iniziarono i primi applausi e, in breve, l’intera piazza tributò l’ultimo, caloroso addio alla “maestra Lucrezia”, senza però trovare una risposta alla domanda di Germinale.
Marco Travaglini