LIFESTYLE- Pagina 102

“Lettera a una professoressa”: una lezione sempre attuale

La scuola non va, lo cantavano i Lunapop nel 1999. E certe mattine viene voglia di cantarlo anche a me.


Alle prime ore del giorno c’è ancora la nebbia, percorro così, ovattata nellatmosfera fumosa, il tragitto che mi separa da scuola, parcheggio la macchina, mi dirigo verso il caffè delle 7:45 obbligatorio per sopravvivere alla mattinata lavorativa- ed eccoli già lì, vivacie frizzanti, come li descriviamo nei verbali, si avvicinano saltellando e mi ingurgitano di affermazioni e dubbi: Il cartoncino era per oggi?, Ho dimenticato la cartellina, Ha scritto i compiti su Argo?, Oggi c’è Arte o teoria?.
Meravigliosi e terribili, come si fa a non affezionarsi?
Ecco, forse non è chiaro a tutti, ma la scuola esiste per loro, per gli studenti.
La scuola è lì per tutti i Giammariadi Filippo Caccamo, per i Giovanninodi Rousseau e per i Giannie i Pierinodi Don Milani.
Credo fermamente nel mestiere del docente ed è per tale motivo che sento di discostarmi da tante situazioni e decisioni che ultimamente stanno tramutando il sistema scolastico in un ludico parcheggio privo di significato, i docenti in clown multimediali e gli studenti in amebe viziate.
In questa società liquida (Z. Bauman), fluida e spettacolarizzata (riprendendo la teoria di Guy Debord), in cui il politicaly correct ha il sopravvento sulle coscienze e in cui legoismo e legocentrismo vengono scambiati ad hoc- per libertà individuale e indipendenza, mi sento di andare controcorrente e prendere delle posizioni ferme, lo faccio per i miei alunni, perché non voglio che diventino come quegli adulti che mangiano fissando il cellulare anziché la persona che hanno di fronte, affinché non siano educati in un mondo che preferisce lindisponenza, al fine di renderli quella cosa belladi cui parlava Menandro (IV sec. a. C.).
Per far sì che ciò avvenga, come molti altri colleghi docenti, mi interrogo sulle direzioni da intraprendere per rattoppare questa scuola che al momento non va; riflessione dopo riflessione, lettura dopo lettura, mi è (ri)capitato tra le mani Lettera ad una professoressa di Don Milani.
Si tratta di uno dei testi che più mi ha colpito e su cui ho più ponderato, un libro a parer mio- obbligatorio per chi vuole intraprendere questa professione, al di là del giudizio personale.
Dopo unaccurata rilettura, che mi ha confermato lopinione più che positiva che già avevo a riguardo, mi domando: è davvero possibile considerare attuale un testo scritto negli anni Sessanta?
Lettera ad una professoressarimane una testimonianza tuttaltro che banale o di semplice definizione, pubblicato nel 1967 da una non proprio famosa casa editrice fiorentina, si presenta come un autentico livre de chevetdi una generazione, una sorta di vademecumper gli insegnanti democratici o una sorta di Libretto rossosessantottino.


Lo scritto è “un classicodella letteratura scolastica e, data la particolarità delle affermazioni asserite, ha fin da subito diviso i lettori in due parti, chi grossomodo concorda con le riflessioni apportate dai ragazzi di Barbiana e chi invece preferisce un approccio diverso e si discosta, in entrambi i casi il libro segna uno snodo centrale nelle grandi battaglie avvenute per riformare il sistema educativo. Tuttavia è bene puntualizzare che, se da una parte esso denuncia apertamente e per la prima volta le falle di quellapparato burocratico, dallaltra le parole degli studenti di Don Milani comportano anche linizio della fine dellautorità degli insegnanti, dello stare in disparte dei genitori e secondo alcuni- della voglia di studiare dei fanciulli.
Di certo unopera non politicaly correct.
Lho anticipato, mi riprometto di prendere posizione, pur non ritenendo concretizzabili tutti i punti esplicati nel testo e pur tenendo in chiara considerazione la differenza legata al periodo storico in cui il testo viene redatto, mi possono ritenere una donmilanianaconvinta.
Lavoro a scuola da qualche anno ormai, mi trovo a diretto contatto con gli studenti e talvolta con mamme e papà-, sto assistendo ai cambiamenti generazionali e ogni giorno mi rendo conto di quanto sia necessario un cambio di rotta.
In sostanza credo che potrebbe giovare maggiormente allattuale sistema scolastico una rilettura di gruppo di Lettera ad una professoressaanziché il solo focalizzarsi sulluso di ChatGPT.
Cosa ricercare allora in un libro scritto tempo addietro e in un contesto tanto differente dal nostro?
I princìpi, la risposta è questa.
Se me lo consentite, cari lettori, vorrei spiegarmi meglio, prendendo in esame alcuni punti che ritengo salienti e utili e tralasciando per forza di cose la totalità del testo che, pur non essendo particolarmente lungo, non può essere commentato in totoin questa sede.
Si parta con le ovvietà: la società, i bisogni e le necessità degli anni Sessanta non sono le medesime che sentiamo ora. Si pensi prima di tutto al problema dellobbligo distruzione, che si estende oggi fino ai sedici anni detà (Legge 296 del 2006), oppure si prendano in considerazione le accortezze e le norme che assicurano agli studenti con difficoltà (intellettive o socio-culturali) di frequentare uno specifico percorso scolastico al pari degli altri compagni, inoltre mi sento di poter abolire la dicitura scuola classista, poiché, per quanto permangano talune differenze tra periferia, centro o prima cintura, ogni struttura scolastica offre ad oggi un servizio eguale per tutti.
Non è vero dunque che non va mai bene niente, le istituzioni collaborano sempre più con il territorio, si assicura una formazione continua agli insegnanti e cresce costantemente lattenzione verso il fenomeno del bullismo o del cyber-bullismo. Lofferta formativa è più che migliorata nel tempo, lidea di istruzione ha preso le distanze dal tanto temuto nozionismoe le molteplici attività rendono un popiù appetibile il frequentare le lezioni anche da parte dei più svogliati.
Non è nemmeno vero che non ci sono più i ragazzi di una volta. I giovani sono sempre gli stessi, sono semplicemente figli del nostro tempo, e nonostante li consideriamo più fragili o ineducati di una volta, non è di certo colpa loro, ma di chi gli sta attorno.
Osserviamo ora da vicino le tematiche su cui ancora oggi possiamo e dovremmo- interrogarci.
Iniziamo dalla problematica dei programmi, queste benedette indicazioni nazionali a cui siamo obbligati a fare riferimento: dite la verità, cari colleghi, sono o non sono unangoscia?
I ragazzi di Barbiana sostengono che ciò che viene insegnato a scuola sia puro nozionismo enciclopedico e che le informazioni impartite dai docenti riguardino argomentazioni che non hanno riscontro alcuno nellattualità della vita al di fuori della classe, un sapere così elargito non porta dunque alla formazione di cittadini consapevoli.
I giovani di Don Milani e questo è un merito che nessuno gli può togliere- non si limitano a criticare ma avanzano delle risoluzioni alle lacune che vedono nel sistema scolastico.
Essi suggeriscono di rimpiazzare i programmi con una continua ricerca critica del sapere allinterno di un percorso multidisciplinare costruito strada facendo, in questo modo gli alunni acquisiscono gli strumenti necessari per partecipare attivamente alla vita collettiva.
Mai stata così daccordo: è necessario partire dallattualità per poi collegarci al passato, stupire con limmediatezza del contemporaneo e spiegarlo andando a ritroso, alla ricerca nella storia delle cause che hanno portato al nostro presente. Un sogno ad occhi aperti, pensate come sarebbe bello leggere in classe articoli di giornale, riviste specializzate, ascoltare interviste di personaggi pubblici, spiegare le notizie dei telegiornali o commentare insieme gli ultimi scoop” –inerenti ovviamente alla materia dinsegnamento.-
Certo c’è il sogno e poi la dura realtà: gli studenti di oggi conoscono poco o nulla del loro presente, quasi non leggono, non vedono i telegiornali e apprendono informazioni semplificate e parziali- tramite i social.
Sarebbe quindi opportuno convincerli che Tick-Tocknon basta per ritenersi informati sui fatti, che non sempre gli influencer conoscono largomento di cui desiderano trattare e infine che no, dieci minuti non sono sufficienti per apprendere alcuna argomentazione.
Non sono brava come i ragazzi di Barbiana, non ho una vera e propria soluzione a tale problema, mi limito ad avere unopinione. Forse il problema è il tempo, forse aveva ragione ancora una volta- Don Milani a dire che noi insegnanti dovremmo lavorare di più”, magari se i ragazzi rimanessero a scuola per più ore avremmo la possibilità costruire le nostre unità didattiche in altra maniera e potremmo permetterci una maggiore attenzione nei riguardi dellattualità. Inoltre i fanciulli starebbero più tempo insieme e meno vis-à-viscon il proprio smartphone.
Proseguiamo: i voti. Quante ne abbiamo sentite sui voti questanno? Voti sì, voti no, sostituirli con i giudizi, non scrivere niente se non frasi incoraggianti sui compiti, e poi tutti quei casi di giovani studenti caduti in disperazione per un 4, insomma un capitolo tuttaltro che chiuso.
A Barbiana il voto non è visto di buon occhio, per diverse motivazioni, prima fra tutte perché “è ingiusto fare parti uguali tra disuguali, in secondo luogo monopolizza lattenzione e linteresse degli studenti, facendoli studiare solo per la valutazione, ponendoli in una situazione di ansia e competizione, infine il voto dato non è uno strumento di lavoro e non aiuta gli studenti a migliorare.
Resta difficile immaginare una scuola senza voto, anche se ce ne sono. Personalmente concordo con le motivazioni apportate dai ragazzi di Don Milani, eppure sono una sostenitrice dellutilizzo dei voti, lappunto che mi sento di fare tuttavia riguarda una delucidazione necessaria per gli studenti e i genitori a casa- , il numero che scrivo sul compito è una valutazione circoscritta a quelcompito in quel determinato momento, è solo una valutazione della preparazione al momentodello svolgimento della verifica, esso non ha nulla a che fare con la personalità o la totalità del ragazzo, non è un giudizio sulla persona ma solo sul livello di conoscenza che lalunno aveva in quel determinato momento. Che sia chiaro: i voti cambiano, in meglio o in peggio, e servono per imparare ad essere autocritici verso noi stessi, sono strumenti utili per imparare a migliorare, non solo per quel che concerne i contenuti ma sopratutto per lavorare sullautostima.


E poi, li bocciamo o no, questi incolti e illetterati studenti dellultimo banco?
Ovviamente a Barbiana la bocciatura non è contemplata, al contrario si propone il tempo pieno, si assicurano in questo modo più tempo e più mezzi per dare a tutti gli studenti, anche quelli che partono sfavoriti, la possibilità di avere successo scolastico.
Come non essere daccordo?
Anche qui però ci si scontra con la realtà dei fatti: come convincere i ragazzi di oggi che a scuola si viene per questione di dignità personale, per poter essere sempre in grado di decidere con la propria testa cosa fare e cosa no, anche andando contro la norma comune (se necessario)?
La bocciatura diviene uno spauracchio obbligato di fronte alle classi attuali, ormai composte da individui che non hanno la percezione dellimportanza della cultura e della conoscenza. Concordo con Don Milani, è necessario educare alla dignità e diseducare alle mode, che sono lantitesi della capacità critica, e condivido che per fare ciò non dobbiamo mettere i giovani sotto una campana di vetro ma dobbiamo aiutarli a divenire liberi pensatori. Questa è la teoria, la pratica poi è tuttaltra cosa.
Ultimo punto: gli alunni. I ragazzi che ci troviamo a fronteggiare oggi non hanno nulla a che vedere con quelli che frequentavano Barbiana, questo purtroppo è vero. Gli studenti di Don Milani hanno ben chiara la propria battaglia, essi alzano la voce perché sanno come Lucio che possiede 36 mucche – che la scuola sarà sempre meglio della merda.I giovani fiorentini si battono per una scuola libera, democratica e popolare, conoscono le fatiche del lavoro e la rassegnazione, hanno ben presente cosa significa avere paura di non poter cambiare la propria posizione sociale o le proprie abitudini di vita, di conseguenza sono giovani coraggiosi, che non temono di esporsi per ottenere quegli stessi diritti scritti nella Costituzione.
I nostri ragazzi non sono così “fortunati, sono sempre più soli ed isolati, non fanno tardi al pomeriggio o alla sera, non temono le note dei professori, non affrontano individualmente i problemi che non sanno risolvere. Non conoscono i limiti né il brivido che si prova nel superarli, non distinguono il merito perché gli abbiamo insegnato che tutto gli è dovuto.
A furia di volerli aiutareli abbiamo resi interdipendenti dagli adulti di riferimento, eppure è il momento di renderci conto che non possiamo salvarli dal crescere.
Forse a scuola da Don Milani dovremmo tornarci un potutti, lui ci incoraggerebbe a prenderci qualche responsabilità in più, forse ci direbbe di fare dei passi indietro e di osservare i nostri piccolimentre si rialzano da soli con le ginocchia sbucciate. Ce lo insegnerebbe con qualche scappellotto sul collo, ma questi sono i rischi che corre chi si ostina a non voler imparare.

ALESSIA CAGNOTTO

 

“Sprissetto”, l’aperitivo sotto la Mole

Classico, Bitter, Venezia, Eden e Sud sono le varianti di Sprissetto che trovate da Borello Supermercati, scelto come pioniere di prodotti locali e in questo caso di un nuovo aperitivo piemontese

Partendo dall’aperitivo per antonomasia, Marco Lo Greco fondatore di Sprissetto, inizia a immaginare il suo nuovo modo di concepire l’happy hour. Un progetto curato per tre anni, culminato nel 2021 con la commercializzazione del primo prodotto nel mercato HO.RE.CA, successivamente importato in Australia e ora, con la collaborazione di tre soci, presente in 15 paesi nel mondo.

Marco, classe 1991, vanta una carriera decennale come bartender e una formazione nell’ambito del design, questo percorso gli ha permesso di studiare i prodotti a 360°, dagli ingredienti fino all’etichettatura.

Le ricette sono ispirate alla tradizione liquoristica italiana e realizzate artigianalmente con ingredienti naturali come erbe amaricanti, scorze di agrumi, spezie e frutti. Questi liquori sono perfetti per creare i cocktails da aperitivo più celebri, tra cui lo Spritz, l’Americano e il Negroni.


Il brand Sprissetto è stato ideato prendendo ispirazione dal Veneto in quanto patria dell’aperitivo e dal suo dialetto, l’etichetta è stata disegnata da Marco che con il suo passato nel design ha saputo abilmente mixare font semplici e giovani con il giusto spazio per la lista ingredienti così da rendere i consumatori informati.

Classico, Bitter, Venezia, Eden e Sud sono le varianti di Sprissetto che trovate da Borello Supermercati, scelto come pioniere di prodotti locali e in questo caso di un nuovo aperitivo piemontese.

Eleonora Persico

Spotorno e Noli, il mare a due passi dal Piemonte

Quando si parla  della nostra regione spesso, e con poco entusiasmo, si evidenzia che non c’è il mare.

 

E’ vero il Piemonte non è deliziato da nessuna spiaggia, è geograficamente innegabile ma raggiungere splendide coste e deliziosi borghi marini non è una impresa troppo avventurosa.

 

Con un ora e mezza di macchina, prendendosela comoda e traffico permettendo soprattutto nei week end estivi, si arriva nella vicina e ridente Liguria. Percorrendo infatti l’autostrada Torino-Savona si possono raggiungere destinazioni davvero incantevoli che meritano attenzione almeno quanto le desiderate e gettonate mete costiere del sud. Spotorno e Noli, mete liguri tra le più vicine partendo da Torino, sono due piccoli e gradevoli gioielli curati dove passare qualche giorno o semplicemente fare una gita in giornata.

Spotorno, la prima venendo da Savona, contigua a Bergeggi, è situata nella Riviera di Ponente tra Punta del Maiolo e Punta del Vescovado. E’ caratterizzata da una lunga spiaggia sabbiosa e piccoli ciottoli con molti stabilimenti balneari coloratissimi, ariosi e spaziosi tra cui uno dedicato ai nostri amici pelosi, la spiaggia attrezzata dedicata ai cani Pluto Beach. Il lungomare è decorato da piccoli giardini, fascinose ville dai colori vivaci,  hotel, locali e il martedì un simpatico mercatino crea movimento e vitalità .Accogliente, allegra e frequentata, moderatamente meno delle colleghe più “alla moda”, questa piccola cittadina, oltre alla spiaggia, ha un bel centro storico, caratteristici carruggi (i vicoli tipici delle cittadine liguri), case variopinte con balconi fioriti, la chiesa della Santissima Annunziata con opere d’arte del ‘600 e ‘700, graziosi negozi e locali dove fare shopping estivo e godersi un aperitivo o una cena col rumore delle onde in sottofondo. Se si ha voglia poi di girare nell’entroterra, all’interno del Parco del Monticello è possibile visitare l’Oratorio di Santa Caterina, caratteristico per la facciata in stile barocco, e il Castello, originario del XIII secolo ma riedificato dopo l’abbattimento nel XVI secolo, parte integrante di un sistema difensivo insieme alle torri e ad una struttura quadrangolare, costruito per far fronte ai frequenti attacchi di quel periodo da parte dei Saraceni. Il mare cristallino e dalle diverse sfumature di azzurro, nuovamente bandiera blu dopo diversi anni, vanta aree naturali riconosciute e protette come quella della vicinissima Isola di Bergeggi, sito di interesse comunitario (SIC).

Più avanti percorrendo l’Aurelia, 15 minuti a piedi se si ha voglia di camminare godendosi il panorama, troviamo Noli. Questo delizioso borgo medievale, considerato uno tra i più belli della Liguria, e inserito nella guida dei “Borghi più belli d’Italia, è apprezzato sia per le sue spiagge e meravigliose calette nascoste   ma anche per i  retrostanti e rilassanti paesaggi montani. Diversi sono i sentieri e le aree verdi da percorrere in alternativa all’escursione  marina. Tra i più suggestivi troviamo il Sentiero del Pellegrino, circondato da bellezze naturalistiche, storiche e archeologiche che con 2 ore e mezzo circa di cammino porta dal Collegio e Chiesa di San Francesco fino alla Baia dei Saraceni per poi terminare al borgo di Varigotti.

Arrivando a Noli si notano subito la cinta muraria, le due torri medievali, quella dei quattro canti e quella comunale, il Palazzo del Comune, simbolo dell’antica Repubblica di Noli, mentre il Castello domina e signoreggia dal monte Ursino. Dante  citò Noli nella Divina Commedia, nel Purgatorio, e diversi furono i personaggi illustri, come Giordano Bruno e Cristoforo Colombo, che di passaggio nel borgo lasciarono tracce della loro visita.

Percorrendola all’interno, nelle minuscole vie d’altri tempi non può sfuggire il suo patrimonio architettonico-artistico fatto di Chiese, come quella di San Paragorio dell’XI secolo o quella di San Pietro, la nuova Cattedrale del XII, che si trova nell’omonima piazza. Anche qui il Castello, che si può raggiungere a piedi sebbene il marciapiede non sia sempre presente, si ergeva a difesa della cittadina. Per visitarlo all’interno è preferibile verificare gli orari, ma qualora non fosse aperto la vista che offre la sua posizione  vale comunque la passeggiata.

In tardo pomeriggio e in serata questo borgo e il suo lungomare, diventano magici e pieni di atmosfera grazie a numerosi locali, ristoranti, candele accese, aperitivi, negozi caratteristici che creano uno scenario di relax e divertimento gioioso e vacanziero.

MARIA LA BARBERA

 

Infospotorno.com

Infonoli.com

Al G7 una Vodka di qualità prodotta a Moncalieri da Davide e Michelangelo Rossotto

Durante il G7 a Borgo Egnazia i Leader mondiali tra l’altro han trovato una Vodka di ottima qualità distillata a Moncalieri e nata da una idea di Davide e Michelangelo Rossotto. Peccato, si fa per dire, che mancasse, per i noti motivi Vladimir Putin. La Vodka SILLA viene prodotta con acqua che sgorga ai 2000 metro del Monviso e da frumento tenero selezionato e certificato.

Cocktail Bar Bistrot L’Opera di Santa Pelagia apre a Torino

Ha aperto a Torino il 18 giugno 2024 il Cocktail Bar Bistrot L’Opera di Santa Pelagia che vede in cucina Giuseppe La Salvia e la consulenza dello chef Ivan Milani
La location è ideale per un aperitivo con Le tentazioni della Santa (tapas che escono dalla cucina), ma anche per un pranzo o una cena e dispone di due eleganti sale interne e di un dehors che affaccia sulla vicina chiesa di Santa Pelagia, protettrice degli artisti. Il Cocktail Bar Bistrot L’Opera di Santa Pelagia è un luogo contemporaneo che valorizza il gusto classico attraverso un approccio decorativo che ha dato vita ad ambienti in cui anche l’ironia trova il suo posto. 
 
La cucina proposta è quella italiana ma non priva di contaminazioni internazionali e sviluppa percorsi differenti: monopiatti (anche in porzione ridotta) per il pranzo; Le tentazioni della Santa e piatti dedicati per la cena. E così si spazia dall’Insalatona della Santa (foglie, cruditè, semi, frutta secca, Montebore, uovo) alla Melanzana cotta alla brace con tahini e labane, dallo Spaghetto Monograno Felicetti con filetto di acciughe, pomodori secchi, finocchietto e pan brioche al filetto di maiale con bietole ripassate. Per la cena ecco Vitello tonnato alla maniera antica, Plin della tradizione al sugo d’arrosto o ancora Petto d’anatra servito con il suo fondo e cipolle bianche. 
La carta dei vini conta un centinaio di referenze legate al territorio con particolare attenzione ai vitigni autoctoni e ai piccoli produttori a cui si aggiunge una piccola selezione di champagne. 
 
“La nostra scelta – spiega Ivan Milani – è quella di proporre in una location confortevole la possibilità di costruire la propria esperienza gastronomica secondo gusti e desiderata di ognuno con un’attenzione al Piemonte e all’Italia fornendo sempre un taglio internazionale e con la possibilità di scegliere sempre una proposta vegetariana. Il lavoro di ricerca che portiamo avanti in cucina con Giuseppe La Salvia è alto a cominciare dalle materie prime ricercate, ma anche attraverso la realizzazione della panificazione interna, di produzioni come yogurt, kefir o formaggi freschi, diversi fermentati. Questa scelta, che guarda molto ad un approccio da alta ristorazione, rispecchia il mio trascorso personale e guarda molto a Giappone e Medio Oriente, culture per me molto importanti. Ecco perché qui si possono trovare sashimi in varie forme, fermentati o l’utilizzo di miso e shoyu”. 
 
Discorso analogo per il bere, curato dal barman Marco Fabbri con una lista cocktail che spazia dai grandi classici ai signature come: 1772 (anno di consacrazione della Chiesa adiacente dedicata alla santa) su base gin e vermouth ambrato con chartreuse gialla per richiamare la liquoristica antica e chiaro riferimento al Bijou cocktail; Non sono una santa: un drink floreale e agrumato su base vodka servito in coppetta come se fosse un cocktail Martini rivisitato  e realizzato con un cordiale a base di rose e scorze di bergamotto e un Dom Benedictine. 
Per accompagnare la carta e i drink ecco ceci croccanti alle spezie, olive al forno, ravanelli, kefir e terra di malto, ma anche Le tentazioni della Santa vegetali, di pesce e di carne: dai fiori di zucchina in tempura alle panelle, dall’Ostrica con tapioca e aceto di riso ai Calamari in guazzetto, dal Pollo in salsa teriyaki a Pane e salame (il Nobile del Giarolo).
 
Il Cocktail Bar Bistrot L’Opera di Santa Pelagia si trova in via San Massimo 17 a Torino ed è aperto dalle 12 alle 14:30 da martedì a domenica e dalle 18 alle 23:00 da lunedì a sabato sera. Il locale fa capo a un gruppo di imprenditori vocati all’accoglienza che nel 2015 ha aperto la Residenza dell’Opera situata sopra il Bistrot e nel 2019 ha inaugurato anche Opera 35, il Boutique Hotel con 40 camere in via della Rocca 35 a Torino. 
 
Gli chef
Ivan Milani
Classe 1971, Ivan Milani si avvicina alla cucina da autodidatta dopo un percorso che dalla gestione di sale cinematografiche l’ha portato a rilevare nel 1997 lo storico Caffè Elena di piazza Vittorio a Torino trasformandolo nel primo wine bar di livello in città. Ivan Milani ha alle spalle importanti esperienze nel mondo della ristorazione tra cui il San Quintino Resort di Busca (Cn), Piano 35 a Torino, Al Pont de Ferr di Milano, Villa Monty Banks a Cesena. 
 
Giuseppe La Salvia
Nato a Torino, classe 1989, ha sviluppato fin da giovane un profondo interesse per la gastronomia. Dopo aver completato la sua formazione in scuole di cucina, ha iniziato la carriera lavorando in vari ristoranti della città. La svolta professionale è arrivata con l’opportunità di lavorare come chef al bistrot del Relais San Maurizio, nelle Langhe, dove per nove anni ha potuto esprimere appieno la sua creatività culinaria. Il suo approccio alla cucina si distingue per la capacità di esaltare i sapori autentici della tradizione, arricchiti da un tocco contemporaneo.

Il barman
Marco Fabbri, 25 anni, torinese, dopo gli studi si è formato presso il Caffè Stratta, per poi lavorare al Golden Palace Luxury Hotel di Torino. Dal 2020, Marco è approdato al D.ONE Torino, dove continua a esprimere la sua creatività e innovazione attraverso la creazione di nuovi cocktail e la gestione del bar. Ha partecipato a numerose competizioni, vincendo il Mix Contest Torino nel novembre 2021 e il BarItalia 2021 per il miglior drink con Amaro Nonino. Inoltre, ha collaborato con Martini per il catering di bar durante eventi esclusivi di Dolce & Gabbana e ha rappresentato Varnelli al Salone del Gusto 2022. Attualmente è il Brand Ambassador per E BON Vermouth e continua a dedicarsi con passione al mondo del bartending e dell’ospitalità.
 
Per maggiori informazioni: www.operadisantapelagia.com
Prenotazioni al numero: 339.8445525

Animali, spettacoli e magia al bioparco Zoom

Quest’estate, un palinsesto ricco di novità animerà Zoom fino a tarda sera con tantissimi eventi e con un’offerta di intrattenimento capace di coinvolgere, divertire e educare.

Esibizioni teatrali al chiaro di luna, show di magia e abili illusionisti, animazione per bambini e, a partire da luglio, tanta musica live.

Il 21 giugno (ore 20.45) in occasione della Giornata Mondiale della Giraffa, ospite d’eccezione il duo Gi&Raf: Raf, ventriloquo, illusionista ed attore salirà sul palco insieme all’inseparabile e dispettosa giraffa Gi.

il 22 e 29 giugno (ore 21:45) le due Magic Night con Luca Bono: giovane illusionista, campione italiano di magia.

Quando ci si divertiva con poco

I giochi, al tempo dell’infanzia nei primi anni sessanta del secolo scorso a Baveno, sul lago Maggiore ( fa persino effetto a immaginare lo scorrere del tempo..) erano molto semplici e ci si arrangiava con ciò che avevamo a disposizione. Non saranno stati un granché ma, accompagnati da una buona dose di fantasia – che, fortunatamente, non mancava –  erano pur sempre meglio di niente. In fondo, di alternative non ce n’erano e conveniva accontentarsi. Così, la vecchia cascina diventava un fortino delle giacche blu che presidiavano la selvaggia frontiera del West e l’impolverato calesse padronale del cavalier Castiglioni, ricoverato nello stabile adiacente, si trasformava in una diligenza pronta ad attraversare la prateria da un paese all’altro, tra l’Arizona e il Texas. I rocchetti del filo di tessitura – grigi coni di cartone pressato – infilati uno sull’altro, formavano delle lance che nemmeno i cavalieri medioevali potevano permettersi nei tornei dove mettevano in mostra il loro ardimento.

L’arrugginito marchingegno per l’intrecciatura della canapa, dal quale uscivano lunghe e robuste corde, immaginavamo fosse una straordinaria arma in dotazione a civiltà extraterrestri, abbandonata alla fine di antiche colonizzazioni del nostro pianeta. Le letture delle mirabolanti avventure contenute nei libri di Jules Verne, il fascino delle foreste del grande nord che scaturiva dalle pagine de L’ultimo dei Mohicani di Fenimore Cooper, la vita ribelle e trasgressiva, ricca di colpi di scena, dei pirati della Malesia capitanati da Sandokan e dal fido Yanez, contribuivano a far galoppare la fantasia sui prati e tra gli alberi della Tranquilla. Se a colmare le ore delle sere d’estate erano i racconti avidamente consumati, insieme alla vista, sfruttando la luce fioca delle lampadine alimentate con la corrente a 160 volt, o il giocare a nascondino con i ragazzi che venivano in villeggiatura dalla provincia di Varese  che, per noi, erano “i milanesi”, d’inverno ci si scapicollava sul prato innevato in ardite discese con la slitta.

Ovviamente le battaglie a palle di neve non mancavano così come la costruzione di sgraziati pupazzi di gelo, con tanto di pezzetti di corteccia per gli occhi e la bocca, una carota al posto del naso e una vecchia berretta colorata a fare da copricapo. Mai che ne venisse uno decente, però: erano goffi e flaccidi oppure rachitici e tremolanti. La neve si mangiava, a quel tempo. “Liscia” o con un po’ di limone che, almeno nelle intenzioni, non solo le dava quel poco di gusto ma contribuiva  a disinfettarla da tutti quei microbi ( tanti, troppi) che raccoglieva scendendo lenta e soffice fino a posarsi a terra.

Con i legni di nocciolo, robusti ed elastici, si confezionavano archi e frecce. Viceversa gli stretti tubi di celluloide che dovevano ospitare i cavi elettrici ( ce n’era una buona quantità nel magazzino abbandonato sopra alla fabbrica del signor Arrivabene) diventavano – una volta sezionati nella giusta misura – delle micidiali cerbottane. I proiettili abbondavano, grazie a quelle palline dell’infiorescenza delle palme che in gergo erano ribattezzate “ball da can”. Davanti alla fabbrica Shelling, dove si producevano scardassi – pettini d’acciaio per cardare la lana – c’era un grande palmizio ( tutt’ora è lì, seppur molto malandato) che regalava delle piccolissime noci di cocco, in tutto e per tutto uguali a quelle più grandi ma che non arrivavano nemmeno a eguagliare la misura di una pallina da ping-pong. Erano buonissime e le aprivano con il martello. Anche a mia madre piaceva la polpa delle noci di cocco e quand’era il tempo della festa patronale di Baveno, a giugno ( i santi Gervaso e Protaso ) ne acquistava dei pezzi dai venditori che li esibivano in quantità su quelle strane fontanelle a piramide. E, accanto al cocco, era difficile resistere alla tentazione dello zucchero filato, del croccante alle mandorle e alle nocciole, delle rotelle di liquirizia, con buona pace per dentisti e dietologi. Erano tempi in cui ci si accontentava di poco. E quel poco di cui si disponeva non era mai troppo.

Marco Travaglini

Giacomo e la briscola chiamata

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Quando il cielo lacrimava e sul lago soffiava quell’arietta fresca che intirizziva, la passeggiata sul lungolago verso la Villa Branca finiva immancabilmente davanti alla porta dell’amico Giacomo dove ci attendevano le sfida a briscola e tresette

 

Giacomo Verdi, detto “balengo” perché amava spingere la sua barca a remi tra le onde del lago in tempesta, infischiandosene dei rischi, da un bel po’ di tempo era costretto a stare in casa. Un brutta sciatalgia e i reumatismi rimediati  nel far la spola tra le due sponde del lago e le isole, gli impedivano di stare troppo in piedi. E allora, con la scusa di andarlo a trovare, ingaggiavamo delle tremende sfide all’ultima mano. “ Ah, amici miei, sapeste che rottura di balle dover star qui recluso. Per uno come me che non trovava mai terraferma e che fin da piccolo stava con la faccia contro vento, star qui costretto tra seggiola e divano, tra poltrona e letto, è proprio una gran brutta cosa. Quelle volte che non sento il cambio del tempo e riesco a metter il naso fuori dall’uscio, è una tal festa che non mi potete credere. Guardate, è come se fosse un Natale o una Pasqua fuori stagione. Ah, è talmente bello che mi sento un re”. Ogni volta, prima di tirar fuori il mazzo delle carte dal cassetto, Giacomo –  quasi stesse sgranando un rosario – ci faceva partecipi delle sue lamentele. Ma bastavano due o tre smazzate per sparigliare tutto e come d’incanto si dimenticava di acciacchi e malanni. Faceva smorfie, imprecava, sbatteva le carte sul tavolo. Non nascondeva l’ira o la gioia, a seconda di come gli “giravano” le carte, ma era un’altra persona. Amava quei giochi, vantandosi di essere un grande esperto. A volte ci teneva delle vere e proprie lezioni. “ Vedete, il mazzo con cui stiamo giocando è composto da 40 carte di 4 diversi semi. Ma c’è una grande varietà stilistica nel disegno.

In alcune regioni sono diffuse le carte di stile italiano o spagnolo, con i semi di bastoni, coppe, denari e spade e con le figure del fante, del cavallo e del re. In altre si usano le carte con i semi francesi .Sono cuori, quadri, fiori e picche, con le figure del fante, della donna e del re.Ecco, sono proprio queste che stiamo usando per la nostra partita”. Parlava come un libro stampato, in un italiano corretto e persino raffinato. “Fate attenzione a queste.Sono carte bergamasche, tipicamente nordiche.Hanno caratteristiche in comune con le figure dei tarocchi lombardi. L’asso di coppe si ispira alle insegne della famiglia Sforza”. Era capace di andar avanti così per un bel po’ se non cambiavamo discorso. E allora ci raccontava delle sue avventure, partendo sempre da quella volta che aveva portato sull’isolino una contessa ( omettendo di dire chi fosse, precisando “sapete,io sono una persona discreta e non mi piace far nomi” ) che per tutto il tragitto continuò a fargli l’occhiolino. Immaginando una qualche complicità e una sorta d’invito, appena toccato terra, tentò di abbracciarla e baciarla, guadagnandosi una sberla tremenda. “Madonna, che botta mi ha dato! Cinque dita cinque, in faccia, secche come un chiodo. Ero diventato rosso come un tumatis, un pomodoro, restando lì a bocca aperta, come un baccalà”. “ Ah, cari miei, se beccavo quel maledetto Luigino dell’Osteria dei Quattro Cantoni lo facevo nero come il carbone”. Quella storia l’aveva raccontata un infinità di volte ma, per non contraddirlo, ci fingevamo interessati e lo incalzavamo con le solite domande (“Come mai,Giacomo? Cosa c’entrava Luigino?”). E lui s’infervorava. “Cosa c’entrava, quella carogna? Cosa c’entrava? C’entrava che se l’avevo tra le mani gli davo un bel ripassoLo pettinavo per bene quel mascalzone. Mi aveva assicurato che la contessa era una che ci stava, che gli piacevano i barcaioli. Mi disse che se gli fossi piaciuto mi avrebbe fatto l’occhiolino. E me l’aveva fatto, porco boia; altro che se me l’aveva fatto. Ma era per via di un tic nervoso. Altro che starci. Sembrava una iena. E quel saltafossi lo sapeva, capite? Lo sapeva e mi ha tirato uno scherzo”. Sbollita la rabbia per quella brutta figura che ormai faceva parte dei ricordi, ricominciava a giocare, picchiando le carte sul tavolo come se quello fosse la testa pelata di Luigino. Giacomo abitava in una casa che dava su via Domo. Dalla parrocchiale , dove c’è Largo Locatelli, si scendeva verso l’abitazione per una viuzza stretta, tortuosa, lastricata a boccette che finiva nella piazzetta.

Lì, al numero 12, in una casa piuttosto bassa, coperta da un tetto di piode, stava il Verdi. Quasi in faccia alla cappelletta che ,si diceva, fosse stata eretta come ex-voto per la liberazione dalla peste. Sotto l’arco s’intravedevano ancora gli affreschi raffiguranti la Madonna con il Bambino e ben due coppie di santi : Giuseppe e Defendente, da una parte;Gervaso e Protaso, dall’altra. Era lì che la povera Marietta posava il cero nei giorni in cui suo marito, quel matto di Giacomo, metteva la barca in acqua incurante del “maggiore” che spazzava le onde, gonfiando minacciosamente il lago. Ora che Marietta era  passata a miglior vita era Giacomo – ormai prigioniero a terra per via dei malanni – a dare qualche soldo a Cecilio, il sacrestano, perché non si perdesse quell’abitudine che – diceva, sospirando – “ in fondo, mi ha sempre portato bene”. Ecco, le giornate più uggiose le passavamo in casa di Giacomo, in uno dei rioni più antichi di Baveno.Lì c’è ,ancora adesso, la “Casa Morandi”, un edificio settecentesco di quattro piani, con scale esterne e ballatoi. È forse l’angolo più apprezzato dai pittori e dai fotografi di tutta la cittadina. Sono in tanti, in Italia e all’estero, a tenere sulle pareti del salotto un acquerello, una china o più semplicemente una foto incorniciata della casa Morandi. Segno inequivocabile che da lì è passata un sacco di gente ,portando con sé la storia, quella vera, quella che si legge sui libri. E magari incrociando le carte con Giacomo.

Marco Travaglini

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Il cinema ci ha raccontato spesso il mondo della politica, sia in forma ironica (“Gli onorevoli”, con Totò) sia tragica (“Potere assoluto” con Clint Eastwood), sia romantica (“Il presidente, una storia d’amore” con Michael Douglas).

Nella realtà, almeno a casa nostra, la politica è stata vista dapprima con il rispetto dovuto a chi comanda, a chi decide le nostre sorti, poi con la partecipazione tipica degli anni ’60 e ’70, infine con il distacco di chi non ha fiducia, non capisce e disapprova.

Le recenti elezioni europee, regionali per il Piemonte, e comunali per circa 3700 Comuni in Italia hanno ampiamente dimostrato quanto sostengo: sono risultate le elezioni nella storia della Repubblica con la minor affluenza di elettori, meno di uno su due (49,69%). Vani sono stati i tentativi di richiamare affluenza utilizzando nomi di spicco o leader di partito.

Il dato, già di per sé basso, delle ultime politiche, 63,9%, era ancora elevato se paragonato al 54,5 delle scorse europee nel 2019 e, appunto, alle recenti elezioni.

In realtà il fenomeno dell’astensionismo in aumento non è nuovo e sembra destinato a proseguire. Solo nel 2004, ma sono appunto passati 20 anni, l’affluenza fu del 73% ma, particolarmente per le europee, la disaffezione dei cittadini nei confronti della politica sembra in crescita costante.

Particolarmente tra i giovani, la politica sembra non interessare più, così come l’attività e la tutela sindacali; l’emorragia di iscritti che alcune sigle sindacali stanno mostrando, alla pari con l’assenteismo alle urne, mostrano come i cittadini da un lato deleghino ai politici ogni decisione, non interferendo più nelle loro scelte e, dall’altro, siano profondamente delusi, sfiduciati dalla politica in genere.

Notizie sempre più numerose e contrastanti, politici sempre meno preparati, modifiche anche costituzionali che sfuggono alla maggior parte degli elettori hanno contribuito al crescente disinteresse per la res publica, la “cosa” di tutti, cui tutti dovrebbero partecipare, che tutti dovrebbero rispettare e che tutti, almeno teoricamente, dovrebbero alimentare con il gettito fiscale.

Nei Paesi anglosassoni, nel nord Europa ma anche in civiltà più lontane da noi, se sei sospettato di essere un evasore o se vieni condannato per aver evaso le tasse sei considerato peggio di un omicida; nel nostro Paese se riesci a farla franca per un periodo lungo sei considerato uno furbo, abile, quasi da imitare.

Chi entra in politica oggi difficilmente lo fa per porre la sua esperienza al servizio degli altri; troppo spesso lo fa per avere uno stipendio, anche se irrisorio nei Comuni minori, per entrare in quel mondo, a torto ritenuto magico, fatto di incontri, cene, frequentazioni importanti e favori elargiti quasi per obbligo.

Il compianto Enrico Berlinguer, rispettato anche dai suoi avversari e del quale ricorrono in questi giorni i 40 anni dalla scomparsa, soleva dire già allora “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela.”; sono convinto che tangentopoli non abbia eliminato la corruzione ma, anzi, abbia solo alzato il prezzo delle tangenti.

L’educazione civica che non viene più insegnata, trasmissioni dove i politici si insultano anziché spiegare, in modo preciso e corretto i propri programmi, ed un disinteresse naturale verso ciò che essendo di tutti è anche nostro, hanno reso la politica una cosa che non ci riguarda, le elezioni un evento che, comunque vada, non cambiano la realtà e i politici “tutti uguali”, “destra e sinistra fanno le stesse cose”.

E’ evidente che continuando a ragionare (anche se il termine corretto sarebbe il contrario) in questo modo non soltanto avremo scelte politiche dettate da pochi, spesso invise ai cittadini, ma soprattutto un dispendio enorme di denaro pubblico. Prendiamo, ad esempio, i referendum, unica consultazione elettorale vincolata dal raggiungimento di un quorum: il costo di ogni consultazione si aggira sui 200-300 milioni di euro, comprensiva di emolumenti per i componenti dei seggi, straordinari di tutti i dipendenti comunali e statali, stampa delle schede, ecc. ecc. Se non ci rechiamo alle urne, lo Stato avrà speso quelle cifre inutilmente, perché la consultazione referendaria sarà nulla; in tal caso non avremo alcun diritto di lamentarci.

Piuttosto perché, almeno una volta, non andiamo ad assistere alle sedute del consiglio comunale dove viviamo o del Parlamento in occasione di una gita a Roma? In TV o sui siti di Camera e Senato è possibile assistere alle sedute, ai question time, alle votazioni e capire come funzioni quel mondo apparentemente tanto lontano ma che lavora quotidianamente per noi: cosa ci costa provare una volta?

Sergio Motta