LIFESTYLE

Si accende il Natale a La Venaria Reale con Immaginaria

Diversi momenti di festa si alterneranno alla Reggia e nel centro storico

 

Immaginaria 2024 è una rassegna unica che unisce tradizione, arte e spettacolo. Dopo il Concerto di Natale, tenuto dall’orchestra Barocca dell’ Accademia di Sant’Uberto, in programma il 7 dicembre, con un viaggio sonoro attraverso le opere di Telemann, Fasch e altri compositori, la magia continua con le “Sere di Natale”. A partire dal 26 dicembre fino al 6 gennaio, la Reggia aprirà i suoi spazi anche in orario serale per far rivivere l’atmosfera magica del Natale nei suoi ambienti barocchi, e sarà possibile visitare il piano nobile della Reggia e le mostre in corso “Tolkien – uomo, professore e autore” e “Blake e la sua epoca”, fino alle ore 21 durante la settimana e alle 22 nei weekend e festivi a tariffe speciali.

Il giorno di Santo Stefano, in occasione dell’avvio dele sere di Natale, la magia della Reggia si riaccenderà con la Festa dello Zapato, una speciale visita teatralizzata a cura di Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani che coinvolge sia piccoli sia grandi visitatori nel rivivere il momento dello scambio di doni, che avverrà attraverso una divertente caccia al tesoro nei sontuosi ambienti del palazzo.

Tutte le domeniche di dicembre, a partire dalle 15.30, la Reggia offre alle famiglie con bambini visite guidate speciali con laboratori didattici dedicati alla scoperta della tradizionale Festa dello Zapato, antica ricorrenza che si celebrava alla Corte dei Savoia nel periodo di Natale. In occasione di questa festa, lo scambio di doni avveniva nascondendo i regali dentro scarpette che piccoli principini si divertivano a cercare.

Lingotto Musica propone, nello scenario della Venaria Reale, un ciclo cameristico con quattro appuntamenti nella Sala di Diana il 27,28,29 e 30 dicembre, nel tardo pomeriggio. Protagonisti formazione emergenti e giovani solisti under 35, ma dal talento comprovato, che dirigeranno lo spettatore attraverso un itinerario capace di esplorare quattro secoli di musica, a partire dalle melodie barocche, ai brani romantici, al repertorio “fin de siecle” e ai ritmi del Novecento americano. La musica continuerà a essere protagonista alla Reggia di Venaria cieche il giorno di Capodanno, mercoledì 1 gennaio alle ore 21, con il concerto del celebre violoncellista Mario Brunello. Il concerto troverà luogo nell’aulica cappella di Sant’Uberto, all’interno della Reggia di Venaria. Prima del concerto i visitatori potranno, con lo stesso biglietto, visitare le mostre in corso. Brunello è solista, direttore, musicista da camera e, di recente, pioniere di nuove sonorità con il suo piccolo violoncello. Il suo stile appassionato lo ha portato a collaborare con i migliori direttori d’orchestra del mondo e a esibirsi con le più prestigiose orchestre mondiali. Per tutta la durata delle festività natalizie, sarà presente un videomapping immersivo che darà vita con i suoi colori alle facciate del Castelvecchio della Reggia, della Torre dell’Orologio e delle architetture dei palazzi storia del centro di Venaria.

Martedì 24 dicembre ci sarà la chiusura anticipata alla Reggia e al Castello della Mandria, prevista alle ore 15; mercoledì 25 dicembre è prevista la chiusura natalizia e, a partire dal 26 dicembre fino al 6 gennaio la Venaria Reale rimarrà aperta in occasione delle Sere di Natale. Apertura secondo programma anche in orario serale (esclusi 31 dicembre e 6 gennaio).

Mara Martellotta

La vigilia di Natale e il tesoro del Fontegno

 

L’inverno non era ancora neve ma nell’aria, da giorni, si avvertiva la sua presenza. Da nord, il vento freddo soffiava con più vigore e le nuvole, nel cielo ingrigito, si rincorrevano veloci.

Il bosco era silenzioso. Solo qualche passero infreddolito cinguettava senza molta convinzione. Affacciandosi dal Belvedere, lo sguardo si perdeva sull’intero perimetro del lago d’Orta. E di fronte, più alta e massiccia, la vetta del Mottarone chiudeva all’occhio l’orizzonte. A Natale mancava ormai poco. Eppure, nonostante il clima di festa, l’aria che si respirava quando un abitante di Quarna Sopra incontrava uno di Quarna Sotto, diventava improvvisamente gelida.


I volti diventavano scuri e gli sguardi truci. Non un saluto, non un cenno. Solo indifferenza e, soprattutto, insofferenza. Era una vecchia storia che si trascinava da molto, troppo tempo. Tra Giovanni e Carletto non correva buon sangue. E lo stesso si poteva dire per Berta e Giuditta o per Silvano e Luciana. Insomma, per farla breve: gli abitanti di Quarna Sopra non andavano per niente d’accordo con quelli di Quarna Sotto. E viceversa. Non c’era modo di farli ragionare. Ogni pretesto, anche il più banale, faceva scattare la scintilla del dissidio. Bastava un nonnulla per litigare, discutere, polemizzare. E ci si accusava a vicenda, senza risparmiarsi. Ciò che contava era dividersi, guardandosi di traverso. Non era una novità. Accadeva puntualmente da almeno due secoli. Tutto era nato nella notte della vigilia di Natale del 1809, dalla chiesa parrocchiale di Santo Stefano, a meno di quarantott’ore dalla festa che la celebrava, quand’era sparita la pentola di polvere d’oro custodita nella cripta a fianco dell’altare. Il furto aveva costernato l’intera comunità. Tutti i quarnesi erano rimasti a bocca aperta, attoniti. Era un fatto doppiamente grave. Vuoi per il gesto sacrilego compiuto poco prima della messa di mezzanotte, probabilmente tra il tardo pomeriggio e le prime ore della sera, complice il buio. Vuoi per il valore non solo venale della pentola e del prezioso metallo che, in migliaia e migliaia di pagliuzze dorate, era stato raccolto nei fiumi della zona e dell’alta Val Sesia dai cercatori d’oro che n’avevano pazientemente setacciato i letti in lungo e in largo. Il frutto del lavoro e della devozione d’intere generazioni si era volatilizzato in un battibaleno. Il furto, ovviamente, aveva lasciato una ferita che non era ancora rimarginata. Un pesante atto d’accusa aveva diviso in due, come una mela spaccata a metà, le Quarne visto che le due comunità si rinfacciavano l’accaduto. “Sono stati quelli di sotto”, dicevano quelli di Quarna Sopra. “ Ma, siete matti? Sarete ben stati voi a nasconderla, così da incolparci. Vergognatevi..!”, ribattevano gli abitanti di Quarna Sotto. Un filo d’odio ormai divideva le due comunità che pure, un tempo, erano abbastanza unite. C’erano stati screzi, qualche battibecco e persino delle scazzottate quando gli animi più accesi e le gole più arse si ritrovavano per la bevuta di fine settimana alla locanda della Luna Nuova. La “notte della pentola rubata”, come ormai era ricordata, aveva dato uno scossone tremendo, dividendo le due comunità. Da allora si stava come su di un confine tra paesi in guerra. Una guerra senza armi e senza atti di violenza ma non meno cruenta se si prestava attenzione agli stati d’animo e si pesavano le parole.

Da sempre i curati avevano cercato di mitigare i dissapori, tentando di riunire i quarnesi. A onor del vero, con scarsi risultati. Anche il vecchio parroco di Santo Stefano, don Giulio Leoni, testardo e cocciuto, continuava da anni in quest’opera che, per ottenere un risultato positivo, necessitava di un vero e proprio miracolo. Il suo punto di vista ( che era stato, in precedenza, più o meno, lo stesso degli altri parroci ) era piuttosto semplice e al tempo stesso abbastanza chiaro: perché non unire le forze e tentare di venire a capo del misterioso furto? Perché non mettere da parte le polemiche, smettendola di guardarsi in cagnesco, e cercare una intesa? Appelli che regolarmente cadevano nel vuoto. Pareva non vi fossero orecchie disposte ad ascoltarli e animi talmente induriti dalla diffidenza da sembrare rinsecchiti come delle vecchie prugne. Certo che dopo quasi due secoli di tracce utile non ve n’erano, semmai ve ne fossero state, nemmeno una e il caso non poteva essere annoverato tra quelli freddi, come si diceva in gergo, ma andava rubricato tra quelli ormai del tutto ghiacciati. Eppure le preghiere e le invocazioni di don Giulio toccarono il cuore di due ragazzini, Mirco e Maria Rita. Il ragazzo abitava con i suoi genitori a Quarna Sopra, in via dei Gelsomini. Maria Rita, viceversa, era nata e viveva in via alle Motte, a Quarna Sotto. Entrambi frequentavano la quinta elementare alla De Amicis di Omegna, scuola che aveva avuto tra i suoi alunni più celebri il piccolo Gianni Rodari. I due erano molto amici e soffrivano per quel muro invisibile fatto di rancori e incomprensioni che divideva le due Quarne. Don Giulio l’avevano conosciuto frequentando, come lupetti degli scout, l’oratorio del capoluogo cusiano dove il prelato quarnese insegnava catechismo. Ascoltata la storia della pentola trafugata, decisero di provare a fare luce una volta per tutte su quell’evento che aveva sconvolto irrimediabilmente il quieto vivere dei due paesini abbarbicati sul monte Castellaccio. Seguendo i consigli del vecchio prete iniziarono le ricerche e, in pochi giorni, raccogliendo con discrezione testimonianze e racconti dei più anziani d’entrambi i paesi, riuscirono a trovare una piccola, minuscola traccia. Frugando tra le vecchie carte impolverate dell’archivio della parrocchia, misero gli occhi sul testamento di un’anziana contadina che probabilmente nessuno aveva letto visto che non comparivano eredi. Nel documento, vergato con mano incerta da qualche amanuense sotto dettatura di Cesira Nardini, oltre al lascito delle povere cose ( un tavolo, due sedie, alcuni strumenti da lavoro, una gerla e dodici scudi d’argento ) alla parrocchia di Santo Stefano, a cui l’anziana donna era devota, c’era dell’altro. E si trattava di una vera e propria rivelazione. In una parte aggiunta al testamento si narrava del vecchio Osvaldo Strimpellino, una figura conosciutissima. L’Osvaldo era stato, a suo tempo, sergente maggiore dell’esercito di Napoleone, accompagnando l’ex caporale corso in tante campagne e battaglie sui campi d’Europa. In virtù di questa sua esperienza nella Grand’armée, era stato incaricato dalla comunità di Quarna di far rispettare le leggi e di tutelare gli interessi degli abitanti del piccolo paese. A quei tempi di Quarna ce n’era una sola e, si pensava, indivisibile. Cesira Nardini era stata sua moglie. Morto il marito, sentendo ormai vicino anche lo scoccare della sua ora, dettò la memoria per non portarsi il segreto nella tomba. Ma di quale segreto si parlava? Mirco e Maria Rita non ci misero molto a scoprirlo: si trattava proprio della pentola d’oro. Cos’era accaduto?  La sera della vigilia di Natale del 1809 Osvaldo si stava incamminando verso la chiesa per accendere le due fiaccole che avrebbero illuminato il piccolo cortile esterno. Il vespro era già passato e nel buio ormai fitto i riflessi delle torce facevano danzare le ombre lungo i muri, complice una lieve brezza gelata. Dalla strada vecchia si udirono voci che parlottavano sommessamente. Osvaldo incuriosito si avvicinò al muretto e guardò sotto. Una mezza dozzina di loschi figuri, intabarrati in lunghi mantelli neri, stavano accordandosi su come rubare la pentola d’oro. Dall’inflessione della parlata si coglieva che venivano dalla bassa, forse da Gozzano o da Borgomanero. Erano arrivati fin lì a dorso di mulo, salendo da Omegna dopo aver costeggiato le sponde del lago d’Orta per tutta la sua lunghezza. Osvaldo, udite le parole di quei brutti ceffi, non esitò un attimo. Non potendo da solo affrontare quella compagnia di canaglie, decise di agire d’astuzia. Il modo migliore per salvare il tesoro dei quarnesi era metterlo al sicuro, prelevandolo dalla cripta e nascondendolo. E così fece. Poco più tardi, appostatosi nell’ombra, vide i ladri andarsene arrabbiati e senza bottino. Tornando verso casa, con le orecchie che gli fischiavano ancora per le male parole e le imprecazioni di quei loschi figuri, raccontò tutto a sua moglie, facendole giurare di non dire mai nulla. Per sua grande sfortuna Osvaldo cadde in un burrone proprio la sera stessa, scivolando su di una lastra di ghiaccio mentre stava per recarsi dal curato per raccontare anche all’uomo di chiesa l’accaduto. La moglie, per il gran dolore che le fece perdere parte del senno e un poco per ignoranza, non se la sentì di raccontare a nessuno ciò che il marito gli aveva confessato. Solo nel suo testamento decise di raccontare cos’era accaduto. Ma a chi sarebbe interessato tutto ciò? Lo scrivano pensò al delirio di una vecchia che aveva le rotelle fuori posto e per carità scrisse quanto aveva udito senza però prestarvi credito. Così nessuno seppe che la pentola d’oro, causa di tutte quelle polemiche che avevano occupato lo spazio di due secoli, cementando le divisioni tra Quarna Sopra e Quarna Sotto, era stata calata da Osvaldo in fondo al vecchio pozzo della chiesa della Madonna del Fontegno. In quel luogo, a meno di venti metri sotto un braccio d’acqua, lungo il sentiero che da Quarna Sopra scendeva verso Cireggio, la pentola giaceva indisturbata da quasi duecento anni. Con il Natale alle porte la grigia cappa che incombeva sul paese si era spezzata e dal cielo la neve scese lieve, a larghe falde. Si rinnovava l’atmosfera di magia di quei giorni. I bambini giravano su se stessi con  le facce rivolte al cielo e le bocche aperte; ogni fiocco che si depositava  sulle lingue aveva un sapore particolare, emettendo una sorta di lieve crepitio. Era uno dei suoni dell’infanzia, uno dei ricordi di attesa felice che non avrebbero mai dimenticato. Erano quasi le otto di sera del 24 dicembre quando Mirco e Maria Rita, accompagnati da Don Giulio, dal sindaco di Quarna Sopra e dal maresciallo dei carabinieri, raggiunsero il vecchio pozzo. Bastò meno di un’ora per recuperare la vecchia pentola. Tutto l’oro brillò davanti ai loro occhi, illuminato dalle torce elettriche, rivelando il prezioso fardello  che il vecchio Osvaldo aveva calato con una corda in fondo al pozzo. La pentola fu riportata nella chiesa di Santo Stefano pochi minuti prima dello scoccare della mezzanotte. La notizia si sparse in un baleno. Per tutta la notte vi fu un via vai di persone che s’incontravano, parlavano, si davano grandi pacche sulle spalle, abbracciandosi. Si rideva e si piangeva, in quella notte di Natale. E ci s’interrogava sulla stupidità che aveva diviso per tanto, troppo tempo le due comunità. Per fortuna, di fronte alle invidie e all’insensibile testardaggine dei grandi, c’erano stati due bambini curiosi che non si erano arresi.

 

 Marco Travaglini

 

 

Yoga di Natale: 3 Semplici Pose per Restare in Forma

YOGA SENZA BARRIERE 

 

Con l’arrivo del Natale, è essenziale trovare momenti di calma e benessere.

 

Il praticare yoga durante il periodo natalizio non solo ci aiuta a mantenere la forma fisica, ma offre anche una pausa rigenerante per mente e corpo.

 

In questo articolo, esploreremo tre pose yoga – Guerriero 1, Guerriero 2 e Parivrtta Parsvakonasana – che possono essere integrate facilmente nella tua routine natalizia.

 

Guerriero 1

 

In piedi, estendi una gamba indietro e piega l’altra formando un angolo retto. Alza le braccia sopra la testa, palme unite.

 

Questa posizione potenzia la forza nelle gambe, tonifica i muscoli addominali e rinvigorisce la mente.

 

Guerriero 2

 

 

Dalla posa del Guerriero 1, apri le braccia lateralmente, allineandole con le gambe. Concentrati sul punto di vista oltre la mano anteriore.

 

Questa postura migliora la resistenza fisica, stimola la circolazione e promuove la stabilità emotiva.

Parivrtta Parsvakonasana

 

Dalla posa del Guerriero 2, gira il busto dalla parte della gamba anteriore e posiziona una mano a terra, l’altra si alza verticalmente.

Questa torsione benefica il sistema digestivo, rafforza la colonna vertebrale e libera tensioni accumulate.

Queste tre pose, inserite nella tua routine natalizia, ti regaleranno benessere e vitalità.

 

Attraverso la pratica costante, il tuo corpo e la tua mente affronteranno la stagione invernale con equilibrio e serenità.

 

Che tu sia un praticante esperto o alle prime armi, dedicare del tempo a te stesso con lo yoga renderà le festività ancora più speciali.

 

Namasté – @odakawithserena

SERENA FORNERO

 

Le mille cartoline di Henry Cole e il “Canto di Natale” di Dickens

I cartoncini di Natale, con frasi d’augurio e belle immagini, vennero pensati e prodotti ( almeno quelli “ufficiali”..) nel 1843 quando l’uomo d’affari inglese, Sir Henry Cole, che lavorava alle poste britanniche, commissionò al disegnatore e amico John Callcott Horsley la realizzazione di mille cartoline natalizie da inviare ai propri amici
 Preoccupato di non aver tempo per scrivere le annuali lettere per le feste di fine anno, Cole gli chiese di disegnargli un cartoncino che contenesse messaggi familiari e caritatevoli. Forse non se ne resero conto sul momento che stavano contribuendo alla creazione del Natale moderno con albero, regali, Babbo Natale, i buoni sentimenti e quei biglietti d’auguri, prodotti d’invenzione anglosassone, dove il principale interprete fu uno dei più grandi romanzieri dell’Ottocento, Charles Dickens. In “Canto di Natale”, suo malgrado, lo scrittore inglese inven­tò gran parte della mitologia che ancora oggi costituisce la tradizione natalizia: il pranzo, la famiglia, le vacanze, la neve, i regali, la beneficenza, i canti, i dolci e addirittura il vin brulé. Quel libro – che narra la fantastica storia dell’avarissimo Scrooge, diventato generoso in seguito alla visita di tre spettri proprio durante la notte di Natale – venne pubblicato il 18 dicembre 1843. Venduto in seimila copie nella prima settimana fu,per l’epoca, un vero bestseller. Con quella storia Dickens declinò i “nuovi valori” che la festività intendeva rappresentare. Non solo la fami­glia ma anche lo spirito di carità che biasima l’ingiustizia sociale e la povertà, descrivendo di par suo quell’Inghilterra rurale destinata a fare da sfondo alle cartoline di auguri con i paesaggi innevati.Tutto questo accadeva nello stesso anno che vide il trentenne Wagner rappresentare il suo primo lavoro, un potente melodramma intitolato “l’Olandese volante”, mentre Giuseppe Verdi mandava in scena alla Scala di Milano i Lombardi alla prima crociata. Il successo fu strepitoso, soprattutto per il celebre “coro dei lombardi”, adottato come canto patriottico in chiave manifestamente anti-austriaca. Il 1843 fu anche l’anno dell’inaugurazione del primo stabilimento balneare riminese mentre a Milano nasceva la prima stazione ferroviaria sul modello di quelle inglesi: quella di Porta Tosa, capolinea della  ferrovia Milano-Venezia. La rivoluzione industriale muoveva i primi passi in Italia, partendo dal Piemonte e dagli opifici tessili nel Biellese e nel Verbano. A settembre usciva il primo numero del magazine “The Economist” mentre si accendevano qua e là movimenti di protesta sociale e d’indipendenza, anticipatori di quella “primavera dei popoli” che cinque anni più tardi, nel fatidico 1848, sconvolse l’Europa con i suoi moti rivoluzionari. L’ Inghilterra s’incamminava nell’età  vittoriana ( la Regina Vittoria, sul trono da sei anni, ne compiva  ventiquattro), epoca di splendore politico, culturale e di cambiamenti sociali. Insomma, un anno importante il 1843. Tornando ai biglietti d’auguri, Horsley scelse di disegnare una famiglia, composta da elementi di varie generazioni e intenta a festeggiare il Natale con un brindisi a base di punch (suscitando non poche polemiche e rimostranze), recante la scritta a lettere maiuscole “A Merry Christmas and a Happy New Year to You” (ovvero l’augurio di “Un Buon Natale e un Felice Anno Nuovo”). Le cartoline, ognuna delle quali misurava 8,5 per 14,5 centimetri, furono  litografate presso la  londinese Jobbins of Warwick Court  e colorate da un pittore professionista, un certo Mason. Lo stesso Cole, futuro fondatore e direttore del primo museo del design, le acquistò per uno scellino l’una, firmandole “Felix Suddenly”, cioè “improvvisamente felice”. La nascita degli auguri natalizi coincise o quasi con quella del francobollo, tant’è che il britannico “penny black” ,con il profilo della Regina Vittoria,fu il primo esempio di carta-valore ad essere destinata all’affrancatura della corrispondenza. Ma questa è un’altra storia.

Marco Travaglini

 

È complicato essere semplici

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“Ho comprato dei prodotti finanziari ma non so bene come funzionino….Male!! risponde l’esperto”.
E allora come fare? A chi rivolgersi? Il cliente risparmiatore ha bisogno di sapere come comportarsi. In caso di necessità il professionista non manca mai. Riccardo Ferrero, consulente finanziario, torna sul Torinese con “Epimeteo e Prometeo – Dialoghi sugli investimenti” attraverso le sue divertenti, ironiche e argute vignette. Questa volta con… E’ complicato essere semplici.

Persone negative, difficili, complicate e conflittuali: impariamo a difenderci

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(Prima parte)

Non ditemi che non ne conoscete e che la loro presenza non si rivela decisamente fastidiosa, e di difficile approccio… Nel luogo di lavoro, tra coloro coi quali veniamo a contatto nelle nostre incombenze quotidiane, ma talvolta anche tra i conoscenti e gli amici e magari anche in famiglia…

Persone che conoscono alla perfezione la spiacevole arte di complicare le cose, individui difficili ed esigenti, che hanno un problema per ogni soluzione, una contraddizione per ogni evidenza e una tempesta per ogni momento di calma. Esseri petulanti che tentano, consapevolmente o meno, di rubarci la pace interiore,

Personalità complesse, che adorano le discussioni, che sfiancano, che debilitano e che dobbiamo imparare a gestire se vogliamo preservare la nostra serenità mentale ed emotiva. Con le quali magari siamo costretti a convivere, per ragioni di lavoro, di impegni o di vita privata.

Quante volte avremo avuto la tentazione di spostarle nella cartella “spam”, come succede a certa posta elettronica, di trasferirle in una dimensione parallela alla nostra realtà, così da mantenerla intatta e al sicuro, e da preservarla dalla fatica, a volte improba, di rapportarci con le persone che appartengono a queste categorie.

Ma pare che non sia così semplice liberarsi di loro… Il meglio che possiamo fare consiste spesso nel cercare le modalità per far sì che il loro impatto nella nostra vita, a prescindere dalla vicinanza e dalla frequenza con le quali ci rapportiamo con loro, sia il meno invasivo e devastante possibile Tutti, a modo nostro, siamo un po’ complicati.

Ognuno di noi ha qualche groviglio, nella mente e nel cuore, in cui si mischiano paure e insicurezze, frustrazioni e ansie. Tutto questo, in una certa misura, fa parte dell’inevitabile. Ma la principale differenza con le persone che incarnano l’estremo della complessità è che esse sono quasi sempre incapaci di stabilire rapporti sociali e affettivi funzionali, rispettosi e sani.

 

(Fine della prima parte)

Potete trovare questi e altri argomenti legati al benessere personale sulla Pagina Facebook Consapevolezza e Valore.

Roberto Tentoni
Coach AICP e Counsellor formatore e supervisore CNCP.
www.tentoni.it

Autore della rubrica settimanale de Il Torinese “STARE BENE CON NOI STESSI”

A Natale ogni spesa è un capitale

Ormai immersi nell’atmosfera natalizia, tutti noi giriamo come trottole alla ricerca dei regali, del cibo da preparare nella cena della vigilia o nel pranzo del 25, del vestito da indossare in quelle occasioni (non sia mai usare quello dell’anno scorso) o, semplicemente, per passare a salutare amici, negozianti e così via.

Siamo talmente presi dal meccanismo del consumismo natalizio da non accorgerci o, più facilmente, da non dare peso al fatto che una festa cristiana, dove si celebra la nascita (insieme al Padre ed allo Spirito Santo) del proprio oggetto di culto, sia sempre meno festa religiosa e sempre più inno al consumismo.

Si inizia ad ottobre con i primi panettoni che neppure tanto timidamente troneggiano sugli scaffali dei supermercati, proseguendo con pubblicità su ogni mezzo (stampa, mezzi di trasporto, TV, social) per arrivare ai negozi pieni di articoli natalizi senza l’acquisto dei quali sembra di non poter vivere.

Non discuto sul fatto che l’aspetto religioso venga trascurato perché chi sia veramente osservante continuerà a praticare (Avvento, Messa di mezzanotte, ecc) quanto sul fatto che siamo totalmente anestetizzati da non accorgerci di come siamo diventati schiavi del consumismo.

I prezzi lievitano enormemente proprio perché la gente, comunque, compra; persino i parcheggi con le strisce blu (Torino insegna) nel periodo prenatalizio diventano a pagamento anche nei festivi perché la gente in centro ci va ugualmente, con la propria auto, e paga 2,80 euro l’ora per non essere da meno degli altri, per non sentirsi di serie B, per paura di perdere qualche “offerta”.

Tonnellate di cibo preparato per la cena del 24 finiranno sicuramente nei rifiuti perché abbiamo paura che non basti mai, abbiamo paura di passare per tirchi nei confronti dei commensali; che dire del maglione natalizio che andrà a sommarsi ai maglioni natalizi degli anni precedenti comprato perché, dai cinesi, costa solo 19 euro? E che dire del prosecco o, a scelta, dei vini fermi acquistati in quantità da ubriacare una caserma di alpini che andranno alla fine solo dopo mesi?

E se non compriamo (una minoranza sparuta che non acquista esiste) dobbiamo comunque andare in centro a vedere le vetrine, a vedere altra gente, per entrare nei negozi e farsi gli occhi sapendo che “anche quest’anno il Natale è magro, pochi soldi e troppe spese”.

Che dire? Un tripudio di consumismo, schiavitù, shopping compulsivo, bisogno di appartenere e altro ancora rendono questi eventi (Natale è il più eclatante ma non è l’unico) una vera festa pagana che ha sostituito il suo significato originario dove, alla faccia della carità cristiana, se durante il nostro shopping ci viene chiesto qualche spicciolo rispondiamo che li abbiamo finiti.

Aggiungiamo a questi aspetti quello, non da meno soprattutto a Torino, dell’inquinamento che tutte le auto che si riversano in centro producono ed abbiamo un’idea di come si agisca senza pensare, di come la nostra personale esigenza (che esigenza non è, al massimo è voglia) abbia la prevalenza sull’interesse di tutti, quindi anche nostro, di migliorare la qualità della nostra vita, di come non si sia più capaci di effettuare rinunce anche minime o sacrifici (mezzi pubblici al posto dell’auto privata) essendo ormai schiavi senza catene in un meccanismo più grande di noi.

Quando quelli della mia generazione erano bambini, il Natale era visto come una vera festa, quando i regali si scartavano soltanto il mattino del 25 e, spesso, erano portati nella notte tra 24 e 25 da babbo Natale (che solitamente era lo zio o il vicino di casa, a cui erano state date le chiavi) così da conferire a quella festa una sacralità, da attivare un’attesa che rendeva la festa più sentita, più importante. Quanti di noi oggi ricevono i regali la mattina del 25 e non prima? Chi di noi non scarta i regali appena li riceve, magari con giorni di anticipo?

E’ evidente che si sia messo in moto un meccanismo che mette al primo posto gli acquisti, utilizzando in questo caso la festa di Natale ma poteva essere una qualsiasi altra festa; il giorno in cui per Ferragosto ci si scambierà regali vedrete che già a fine luglio ci sarà la corsa agli acquisti.

Da notare che subito dopo Natale inizia il periodo dei saldi, dove almeno teoricamente si spenderà molto meno di quanto abbiamo spesso sotto Natale per acquistare le stesse cose; escludendo gli acquisti destinati ai regali, non possiamo aspettare i saldi per riversarci nei negozi?

Le luci di artista di Torino, un tempo accese in prossimità dell’8 dicembre, sono andate via via anticipando la loro accensione al 1° novembre ed ora vengono accese prima di fine ottobre; è necessario, in un periodo di crisi qual è il nostro, impegnare kw di elettricità che si potrebbero risparmiare accendendo tutte quelle luci anche soltanto un mese dopo? Le persone sentirebbero che è meno Natale se solo riportassimo gli eventi alle date corrette.

Quando dalle statistiche emerge che il 70% delle persone in Italia è analfabeta funzionale, ho l’impressione che siano arrotondate per difetto.

Sergio Motta

Delicato patè, facile e… natalizio

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Un raffinato antipasto ideale per la tavola delle feste e non solo e’ il pate’; realizzato con carne o pesce ridotto a crema, modellato in uno stampo e raffreddato, puo’ essere preparato in anticipo con pochi ingredienti, e’ facile, veloce e soprattutto goloso, viene solitamente accompagnato da crostini. Non si tratta ahime’ di un piatto dietetico, ma una volta all’anno ce lo possiamo permettere…

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Ingredienti

 

200gr. di lonza di maiale tritata

200gr. di fegato di vitello

2 fegatini di pollo

150gr.di burro

200gr. di mascarpone

Timo e maggiorana q.b.

Sale e pepe q.b.

 

Cuocere la carne di maiale con un pizzico di timo e di maggiorana in 50gr. di burro per almeno 15 minuti, aggiungere il fegato di vitello tagliato a striscioline ed i fegatini di pollo tagliati a tocchetti (privati delle nervature), portare a cottura. Lasciar raffreddare e versare tutto nel mixer con il burro rimasto ed il mascarpone. Frullare sino ad ottenere una crema vellutata. Rivestire uno stampo con pellicola trasparente, versare la crema ottenuta, chiudere con la pellicola e conservare in frigo per almeno 12 ore. Al momento di servire togliere la pellicola dallo stampo e sformare il pate’. Decorare a piacere e servire con crostini.

 

 

 

Paperita Patty

La rubrica della domenica di Pier Franco Quaglieni

SOMMARIO:  Club o dopo lavoro? –  Dal sacrario del Martinetto a Torino che attende la salvezza dalle mummie – Lettere

Club o dopo lavoro?
La crisi dei club in passato più esclusivi ed elitari, sta  diventando sempre più evidente. Mancano i soci e i club si fondono insieme per mantenere un numero minimo di adepti. Agli incontri associativi si presentano persone in maglione, senza cravatta e immancabili scarpe da ginnastica. Ma il massimo del decadimento non era ancora accaduto: la preghiera del socio con una serie di rancide banalità ad imitazione della preghiera dell’alpino che rende lecita una domanda: la laicità dove è andata a finire?
Io entrai in uno di quei club con un preciso cerimoniale e indossando lo smoking come tutti i soci. Ci consideravano degli  snob o persino  degli affiliati alla massoneria, diceria  quest’ultima, che mi dava molto fastidio. Oggi  a volte sembra di essere in un dopo lavoro. Ci sono segni  di una decadenza senza fine  anche per l’età veneranda di molti soci e per parecchi parvenus passati bruscamente dal circolo parrocchiale di quartiere  ad ambienti non adatti e a loro   in passato giustamente preclusi. L’associazionismo  è finito e forse non potrà mai più resuscitare? Oggi la crisi sembra un tramonto senza speranze future di rinascita. Forse Internet ha distrutto un certo associazionismo che aveva un senso quando raccoglieva persone di un livello sociale e culturale omogeneo.
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Dal sacrario del Martinetto a Torino che attende la salvezza dalle mummie
Il Martinetto è un luogo reso sacro dal sangue versato dai patrioti del comitato militare del Gen. Perotti e del Capitano Balbis. Fa bene il Comune a rendere quel luogo più agibile e sicuro. La cerimonia ad 80 Anni dalla fucilazione nell’aprile scorso fu un po’ penosa. In effetti andrebbero rivisti tutti i monumenti cittadini  oggi in mano ad un assessore titolare di molte  deleghe  a cui non sa adempiere con la necessaria competenza: sempre inerzia, ritardi e polemiche se c’è lui di mezzo. Più luce, dice una consigliera dell’estrema sinistra, ai monumenti della Resistenza, quasi ci fosse una scala di priorità politica e storica anche nei monumenti.
C’è chi a destra  propone di illuminare il monumento a Vittorio Emanuele II e al Conte Verde, trovando ostilità e disinteresse.
Illuminare tutti i monumenti renderebbe Torino meno provinciale e più vicina a Parigi che nessuno accosta più a Torino. Anche Parigi è decaduta, ma parlare oggi di Torino come di  piccola Parigi appare ridicolo. E ’una città sporca, disordinata, con strade con scarsa  o nulla manutenzione dove i lampioni anche del centro non vengono mai puliti e dove molti  negozi importanti del centro hanno abbassato le serrande. Per gli acquisti natalizi sono  andato a Milano  e da Peck ho comprato le vivande per pranzo di Natale. Torino è  diventata una città  marginale priva di attrattive e  piena di accattoni e immigrati nullafacenti di cui in verità è ricca anche Milano. Cuneo è molto meglio. Lo dicono in molti: la qualità della vita non è confrontabile. Mancano, è  vero, le mummie egizie da cui Torino attende la salvezza, ma esse  non sono vitali neppure per il turismo torinese come molti pensano. Auguro a tutti i lettori buon Natale, ma quello di quest’anno, grazie anche  ad E l k a n n,   è uno dei più spenti e tristi degli ultimi decenni. Un Natale senza luci  perché quelle cosiddette d’artista sono ormai vetusta archeologia del secolo scorso che non merita nessuna  attenzione. Sono luci  che intristiscono le feste e rivelano un’arte banale se non insignificante:  solo  i suoi costi troppo alti la rendono “preziosa”.
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Lettere scrivere a quaglieni@gmail.com

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Milei liberista
Ho seguito un po’ il presidente  argentino della motosega Milei . Mi sembra un utile esempio ad un’Italia spendacciona in crisi. Un esempio liberale utile anche per noi.   Gianni Cuminetti
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Milei va contestualizzato in un ambito argentino in cui il Peronismo non è mai morto. Privatizzare, tagliare le spese (ma solo quelle inutili), rimettere in moto l’economia appare un ottimo progetto. I primi successi non devono  però illudere perché il disastro argentino è peggio di quello Italiano. Io non condivido l’anarco-liberismo perché lo Stato liberale è il perno su cui ruota una civiltà prospera e ordinata.  La parola anarchia mi fa ribollire di rabbia in tutte le versioni.
Ma non disprezzo Milei il quale  può sembrare un po’ troppo draconiano e semplicista. Ma la mala spesa italica induce anche  a chiedere di usare tante motoseghe. La vicenda dell’aumento scandaloso e immotivato  dello stipendio dei ministri non deputati a cui volevano regalare l’indennità parlamentare per eguagliarli con i parlamentari è  indicativa della malafede arrogante e anche dell’ignoranza ingorda di certi personaggi che andrebbero – nella visione di un buongoverno einaudiano- sicuramente   segati, anche se la piccola motosega argentina non basterebbe!