FOCUS INTERNAZIONALE di Filippo Re
Un gasdotto porterà la pace in Afghanistan dopo quarant’anni di guerra e di terrorismo? Sulla carta sembrerebbe proprio così. Tutti lo vogliono, tutti sono pronti a brindare, afghani, talebani, pakistani, indiani, perchè sarà una grande fonte di business per gli Stati coinvolti. Si chiama Tapi (prende il nome dalle iniziali dei Paesi coinvolti, Turkmenistan, Afghanistan,
Pakistan e India) e porterà, a partire dalla fine del 2019, se tutto filerà liscio, 33 miliardi di metri cubi di gas all’anno dai pozzi turkmeni di Galkynysh in Pakistan e in India attraverso il territorio afghano passando nelle regioni centro-meridionali controllate dai Talebani. La gigantesca infrastruttura occuperà migliaia di persone e darà un sostanziale benessere economico alla regione centroasiatica. Un’opportunità commerciale e politica per rilanciare lo sviluppo della disastrata economia nazionale liberandola dalla dipendenza dal gas russo. Ma dietro queste rosee prospettive restano seri dubbi sulla possibilità di realizzare interamente l’infrastruttura per l’elevata instabilità della regione. Gli attacchi terroristici e le minacce dei talebani e dell’Isis che puntano alla distruzione del gasdotto mettono a rischio il proseguimento dei lavori. Nonostante gli attentati che continuano a sconvolgere Kabul e le altre città afghane qualcosa si sta muovendo dietro le quinte dei contatti segreti in corso da alcune settimane tra il governo di Kabul, appoggiato dagli Stati Uniti e dalle forze Nato, e i Talebani o con una parte importante di essi. Cosa è accaduto? Gli “studenti coranici” si sono fatti avanti e hanno chiesto di trattare con gli americani per tentare di risolvere l’infinita crisi afghana. Colloqui diretti Stati Uniti-Talebani sarebbero un’assoluta novità poiché il gruppo islamista ha sempre anteposto il ritiro delle truppe straniere all’inizio di qualsiasi trattativa con Kabul e i suoi alleati. Il governo afghano ha risposto offrendo una tregua incondizionata ai talebani sperando di aprire una trattativa con i jihadisti. Un
piccolo passo avanti verso il dialogo tra le parti sembra dunque esserci, almeno a giudicare dalle parole del portavoce degli islamisti, Zabihullah Mujahid, favorevole alla realizzazione del Tapi nelle aree sotto il loro controllo. Mujahid ha anche ricordato che il primo contratto per la sua costruzione fu firmato dai talebani stessi quando erano al governo dell’ “Emirato islamico dell’Afghanistan”, dal 1996 al 2001. Il progetto, al centro dell’attenzione dei Paesi asiatici da quasi 30 anni, prevede il trasferimento dai pozzi turkmeni (il Turkmenistan è il quarto produttore di gas al mondo) verso l’Asia meridionale di 33 miliardi di metri cubi di gas all’anno ma è bloccato a causa dell’interminabile guerra e per i problemi di sicurezza che comporta il passaggio del gasdotto in Afghanistan per 700 dei 1800 chilometri complessivi del tragitto. Il gasdotto giungerà nelle città afghane di Herat e Kandahar e raggiungerà l’insediamento di Fazilka presso il confine tra India e Pakistan. Il primo tratto della conduttura tra i giacimenti di gas in Turkmenistan e la città afghana di Herat è stato finalmente completato. I leader di Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India, insieme ai generali americani e ai comandanti della Nato, si sono incontrati a Herat per festeggiare la fine dei lavori tra imponenti misure di sicurezza messe in atto anche dai 500 militari italiani schierati in città. A finanziare i lavori ci pensa l’Asian Development Bank con dieci miliardi di dollari insieme alla Banca per lo sviluppo islamico ma c’è anche un nuovo attore sceso in campo, l’Arabia Saudita, che ha deciso di investire in modo massiccio nell’esecuzione del Tapi. “Questo corridoio del gas porterà sviluppo e cooperazione a quattro nazioni e collegherà l’Asia centrale a quella meridionale attraverso l’Afghanistan dopo oltre un secolo di divisioni, ha sottolineato il presidente afghano Ashraf Ghani, intervenendo alla cerimonia che si è svolta a Herat. Il Tapi non solo riavvicina l’India e il Pakistan e il Pakistan all’Afghanistan, opposti da pesanti diatribe ma ha anche ottenuto il via libera dei Talebani afghani che hanno garantito la loro piena collaborazione”. Un tratto di gasdotto, quello più facile, è stato completato, ora comincia la fase più complicata e rischiosa con l’attraversamento del territorio afghano, metà del quale è controllato dagli insorti, dai talebani ed è colpito ripetutamente dagli islamisti dell’Isis, l’ultimo gruppo arrivato in terra afghana con il trasferimento di migliaia di miliziani dai territori perduti in Siria e Iraq. I Talebani, i ribelli più forti sul campo anche se divisi in fazioni rivali, non sono però in grado di conquistare Kabul e sconfiggere
l’esercito afghano, sostenuto da truppe occidentali, e questo può essere uno dei motivi che li spinge a cercare il dialogo con il governo. Il gasdotto porterà il gas turkmeno in Pakistan e in India, oltrechè in Afghanistan, stimolando l’economia in gran parte del Paese asiatico martoriato da decenni di guerra e già ricchissimo di risorse minerarie come l’uranio, a condizione che la guerra finisca. Se tutto procederà nel migliore dei modi, le casse governative riscuoteranno ingenti tasse per il transito della pipeline sul suolo afghano e introiti per 500 milioni di dollari all’anno per garantire la sicurezza delle strutture, in gran parte interrate. Altrettante risorse finiranno nelle tasche dei Talebani, forse superiori a quelle derivanti attualmente dalla coltivazione e dalla vendita dell’oppio che l’anno scorso ha fatto registrare una crescita record. Nei territori amministrati dai Talebani l’aumento della produzione dell’oppio ha registrato nel 2017 un aumento eccezionale di quasi il 90%, percentuale considerata allarmante dal rapporto annuale preparato dall’Ufficio dell’Onu contro il traffico di droga e la criminalità organizzata (Undoc) presentato di recente a Kabul. Ora le condotte verranno allungate verso le bollenti province di Helmand e Kandahar, sotto il controllo talebano, fino al confine pakistano. Ad accelerare i passi dei talebani nella ricerca di un’intesa con Kabul c’è la forte rivalità con l’Isis che può contare su numerosi combattenti ben armati che hanno rivendicato gli ultimi sanguinosi attentati a Herat e nella capitale dove una numerosa folla festeggiava il Nawruz, il capodanno persiano, solennità odiata dai fondamentalisti perchè non islamica. A questo punto non ci resta che sperare nel gasdotto e nei negoziati con i talebani. Anche padre Giovanni Scalese, il parroco di Kabul che vive rinchiuso nel bunker dell’ambasciata italiana, ripone le ultime speranze di pace nel dialogo tra il governo e i talebani e nella costruzione della conduttura trans-afghana. “Solo con la pace possiamo sfruttare le risorse naturali del Paese e far transitare un’opera così importante come la pipeline in costruzione, tutte cose ben più importanti e redditizie del commercio criminale dell’oppio. L’interesse economico potrebbe avere successo dove le armi e la diplomazia hanno fallito”.
Dal settimanale “La Voce e il Tempo”
eccoci alla controversia in famiglia, cioè in questa nostra testata che si chiama “il Torinese”, non ho trovato cenno al fatto che uno degli interventi artistici più rilevanti in Saint-Eustache si deve proprio a un torinese. Si tratta di Giuseppe Devers, nato a Torino nel 1823, che fu pittore, scultore e soprattutto ceramista. Trasferitosi a Parigi nel 1846 in seguito alla concessione di un sussidio -di una borsa di studio diremmo oggi- concessogli da Carlo Alberto per perfezionarsi negli studi artistici, si specializzò nel tempo in interventi di ceramica architettonica, sino a diventare il massimo riferimento Oltralpe di questa particolare e tecnicamente difficoltosa arte applicata. Tant’è che
come
tuttora ben visibile, composta da quattro grandi pannelli in maiolica, alla maniera dei Della Robbia, disposti ai quattro punti cardinali del transetto centrale, e dedicati a quattro figure fondamentali della musica sacra: Re Davide, Santa Cecilia, Sant’Ambrogio e San Gregorio Magno. Quindi raccomando ai nostri concittadini di andare a vedere in Saint-Eustache pure queste alte prove del nostro genio subalpino (e magari, per limitarci solo agli edifici sacri, anche altri artefatti minori di Devers a Parigi e dintorni nelle chiese di St. Ambroise, della Trinité, di Saint Leu Napoleon Tavernie). Glielo dobbiamo, perché Giuseppe Devers è qui da noi oggi troppo dimenticato, nonostante il suo ritorno a Torino, spaventato dagli accadimenti relativi alla Comune di Parigi, chiamato nel 1871 in cattedra all’Accademia Albertina. Ma cominciò a declinare, in un contesto rispetto a quello parigino troppo angusto, a immalinconirsi e a bere. Sino a morire, afflitto da una grave demenza precoce, nel 1882. Parabole tipicamente torinesi.
DALLA PUGLIA
L’autore pubblicò nel 1749 un “Trionfo del sesso”
di «Alessandro dei plagiari» -, e pubblicò nel 1749 un “Trionfo del sesso”
dice tutto ciò che pensa, che non chiarisce sempre la sua condotta e le sue intenzioni. È un uomo che, senza tradire le giuste ragioni, non risponde sempre esplicitamente per non lasciarsi scoprire». E si comporta così perché, in generale, “ è sicuramente meno rischioso tacere che parlare”. Una piccola opera sapiente che racconta dell’arte del parlare a proposito, del non aprire bocca a vanvera. L’arte del tacere è anche un’arte dell’eloquenza del corpo, che la civiltà cristiana per lungo tempo ha ignorato, pur essendo un capitolo importante dalla retorica classica. L’arte del tacere è padronanza di sé e della relazione con gli altri: «L’uomo non si appartiene mai così tanto che nel silenzio». Diviso in due parti ( nella prima descrive i principi necessari per tacere, i diversi tipi di silenzio e le cause che li determinano; nella seconda si sofferma sul fatto che “si scrive male, si scrive troppo, non si scrive abbastanza” e su come esprimersi nei libri), questo libro si presta ad una lettura godibilissima e, al tempo stesso, utile. E’ vero che l’abate ricorda come i torchi nella Francia del settecento gemevano per i troppi libri pubblicati (e ancor oggi è così) ma “L’arte di tacere” non rientra tra le pubblicazioni colpevoli di aver sprecato la cellulosa.
Il 31 ottobre del 1892 Conan Doyle pubblicò “Le avventure di Sherlock Holmes”, riprendendo le storie già apparse sulla rivista britannica
racconto di Doyle si legge del noto intercalare “Elementare, Watson”, né lo si descrive con quel suo strano cappello o con la pipa ricurva. A parte questo, alla creatura di Conan Doyle si sono in qualche modo rifatti anche gli autori di celebri investigatori, da Agatha Christie ( con il suo Hercule Poirot) ad Umberto Eco, nel caso del Guglielmo da Baskerville de “Il nome della rosa”. I film e le serie televisive non si contano e l’interprete che più di altri ha legato il suo volto a quello dell’investigatore è stato l’attore britannico
Programmi
dell’entroterra del
più ricordare la carta geografica, senza pensare a nessun nome di nessun luogo. Forse era solo, molto semplicemente, la gioia della discesa: o forse quell’azzurro che, tra i verde di ogni tornante, ci invitava a scendere verso il lago
altrettanto sconosciuta di quella oltre Eboli, altrettanto lontana sebbene vicinissima: solo, era più umana. A Corconio, non l’avrebbero nemmeno chiamata civiltà. Sapete, se fossero stati interrogati come l’avrebbero chiamata? Educazione. Noi siamo così, avrebbero detto, siamo così perché così siamo stati educati dai nostri nonni, dai nostri genitori, dai nostri compaesani appena un po’ più in là di noi negli anni. Era un’educazione più umana e più profonda di quella di tanti altri paesi perché serrava più da presso la realtà, tutto il bene e tutto il male della vita
stesso che precede la loro cancellazione da un’altra onda. Immagino che Soldati, quando si recava ad Omegna, fissasse con curiosità e forse con un certo fascino lo scorrere lento della corrente della Nigoglia e quei pesci che vi si mettono di traverso, puntando il muso in senso opposto, tenaci come salmoni pronti a spiccare il salto. Immagino che abbia pensato che, come ogni cosa viva di queste parti,anche i pesci
DALLA LOMBARDIA
di esercitare un’egemonia imperiale da Teheran al Mediterraneo ma con il rischio di scontrarsi prima o poi con l’alleato russo. Se a ciò aggiungiamo le armi che finiscono agli Hezbollah libanesi, decine di migliaia di miliziani sciiti filo-iraniani presenti nell’area, le milizie sciite irachene e schiere di mercenari sciiti afghani e pakistani, per Israele i rischi aumentano di giorno in giorno. E la stessa cosa vale anche per i 2000 soldati americani finiti nel mirino dell’Iran dopo i raid di sabato che ora Trump vuole riportare a casa. Dalla sospetta incursione aerea israeliana nei dintorni di Aleppo contro una base iraniana alle minacce della Guida Suprema Khamenei contro l’Occidente e i suoi alleati, la tensione tra Israele e l’Iran è alle stelle. Teheran installa nuove basi in Siria e Israele le distrugge, a Damasco, a Homs e ad Aleppo. Il vero scontro, per il momento ancora nascosto, è tra Israele e l’Iran. La Siria sarà divisa in futuro tra russi e iraniani, con i turchi che non molleranno tanto facilmente i territori occupati a nord.
delle Chiese d’Oriente, ha lanciato un nuovo appello per la pace alle potenze mondiali affinché si trovi una soluzione politica del conflitto siriano rilanciando i negoziati di Ginevra guidati dall’Onu, la cui agenda prevede un governo di transizione, elezioni libere e una nuova Costituzione. Nel frattempo però l’unico obiettivo dei vincitori riguarda la divisione
costretto a rinunciare a una parte del territorio. Russi e turchi sono alleati sempre più stretti, alla faccia dell’Occidente e della Nato anche se Ankara ha appoggiato i raid del 14 aprile contro Assad, acerrimo nemico del leader turco. È l’alleanza atomica e militare russo-turca quella che sorprende di più gli osservatori intenti ad analizzare i nuovi rapporti tra i due Paesi. Sono stati firmati accordi nucleari, militari e commerciali impensabili fino a pochi anni fa quando tra Mosca e Ankara scoppiò una grave crisi diplomatica in seguito all’abbattimento di un jet russo da parte dei turchi alla frontiera con la Siria nel novembre 2015. Ora piovono contratti di tutti i tipi, energetici, agricoli, turistici e sembra che tutti i problemi tra Mosca e Ankara siano stati risolti in un colpo solo. Erdogan e Putin hanno inaugurato il cantiere per la realizzazione della prima centrale nucleare turca che sorgerà ad Akkuyu, nella provincia di Mersin, nella Turchia meridionale e sarà costruita dalla società russa Rosatom. Si tratta di una commessa da 20.000 miliardi di euro che darà lavoro a migliaia di persone. A rafforzare ulteriormente l’asse tra i due Paesi è l’imminente fornitura alla Turchia del sofisticato sistema missilistico russo S-400, lo stesso fornito da Putin ad Assad. Le barriere sono crollate anche sul versante del turismo e nei prossimi mesi si prevede il ritorno in massa dei russi sulle spiagge della Mezzaluna. Lo scorso anno i turisti russi erano drasticamente calati sotto il milione mentre nell’estate del 2015 erano stati più di cinque milioni e quest’anno si spera di raggiungere i sette milioni.
DALLA PUGLIA