In un angolo del vecchio cimitero di Montparnasse, a Parigi, c’è una lunga tomba di pietra, corrosa dal tempo e dalle intemperie, senza fiori e seminascosta da altre tombe imponenti. Sotto questa lapide giace Chaim Soutine, grande pittore di origine russa, scomparso il 9 agosto 1943, insieme all’ultima compagna della sua vita, Marie-Berthe Aurenche, la musa dei pittori surrealisti ex moglie di Max Ernst. Chaim Soutine, decimo di undici figli di un sarto ebreo, fin dall’infanzia viene osteggiato nella sua passione per il disegno da una famiglia, profondamente legata alle tradizioni religiose contrarie alla rappresentazione dell’essere umano, che cerca in tutti i modi possibili di impedirgli di dedicarsi all’arte, infliggendogli pesanti punizioni che creano in lui traumi, ferite e lacerazioni psicologiche che lo accompagneranno per tutta la sua esistenza. Soutine sviluppa una personalità schiva, caratterizzata da un’introversione profonda e da una spiccata timidezza. I fantasmi della sua infanzia continueranno a perseguitarlo, posandosi sulle tele, insinuandosi nei suoi dipinti, popolandoli di figure deformate, di buoi squartati che grondano sangue, di fiori enormi e palpitanti come rosse bocche spalancate, di paesaggi impazziti che sembrano trombe d’aria, tifoni, vortici, raffigurazioni che danno vita ad una
pittura personalissima e profondamente coinvolgente fatta di colori violenti e squillanti che caratterizzano i suoi bambini, i suoi piccoli pasticceri, i suoi chierichetti e tutto quel mondo che dal lontano ghetto russo ha trovato spazio e immortalità nella sua arte e nei suoi quadri. Soutine, trasferitosi a Parigi nel 1913, si lega con una profonda amicizia ad Amedeo Modigliani. I due pittori non potrebbero essere più diversi l’uno dall’altro: l’italiano è affascinante, attraente, spavaldo ed esuberante, brucia se stesso e la propria scarsa salute in feste, ebbrezza e gesti folli, il russo è chiuso, timido, malinconico e cupo; la pittura del livornese è naturale, spontanea, fatta di schizzi e di linee buttati giù in un caffè, di donne nude, di amanti belle e spavalde, quella di Soutine è faticosa, meditata, piena di sofferenza, di dolore, casta, pudica, difficile da partorire, da realizzare. Eppure Modigliani prende l’artista russo sotto la sua ala protettrice, convincendo anche il proprio mercante a gestirlo, condividendo con lui gli scarsi guadagni e le lunghe notti insonni trascorse a bere e ad ubriacarsi, dipingendo quattro ritratti di questo amico che rappresenta il suo esatto contrario, una faccia antitetica e al tempo stesso indivisibile di una stessa moneta. Tuttavia quando, nel 1920, Modigliani si spegne all’Ospedale della Charité, distrutto dalla tubercolosi e dall’alcol, Soutine è lontano, a Vance, e laggiù apprende della scomparsa dell’amico. La morte di Modigliani lo sconvolge profondamente e resta traumatizzato anche dal suicidio di Jeanne Hébuterne, compagna del pittore italiano, gettatasi dalla finestra all’ottavo mese di gravidanza. Nuove ferite si aggiungono a quelle che l’artista portava impresse nell’anima, ferite che nemmeno i successi che la sua pittura inizia ad ottenere, scoperta dai collezionisti americani riescono a cicatrizzare.
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Del resto, Soutine si comporta nei confronti dei suoi quadri come Saturno con i suoi figli: li crea e, poi, per una strana paura connaturata in lui, per una sorta di insoddisfazione, li taglia, li brucia, li cancella, dominato da una furia distruttrice. La fama sembra diventare un peso e il denaro che guadagna, attraverso le proprie opere, viene rapidamente bruciato per concedersi lussi che non gli appartengono. Dopo la scoppio della Seconda Guerra mondiale, Soutine, essendo ebreo, è costretto a nascondersi per non essere catturato dai tedeschi e deportato. Deve diventare un fantasma, abbandonare Parigi e cercare rifugio nei centri minori della Francia. Il pittore si volatilizza, scompare, si annulla, sfuggendo a tutti, eccetto che alla morte che lo segue come un’ombra. Una pericolosa ulcera gastrica lo affligge da tempo e a causa di un improvviso aggravarsi del male, l’artista è costretto ad intraprendere un ultimo viaggio verso Parigi per tentare un’operazione che gli sarà fatale, in un carro funebre che lo cela a tutti, trasformandolo prematuramente in un cadavere. Soutine muore il 9 agosto 1943, senza aver ripreso conoscenza. Il decesso, tuttavia, viene segnalato soltanto l’11 agosto, per evitare controlli da parte degli occupanti che continuano, così, a cercarlo. Il funerale si tiene l’11 agosto: oltre alle compagne della sua vita Ma-Be Aurenche e Gerda Grot-Michaelis sono presenti soltanto tre persone nel cimitero di Montparnasse: Pablo Picasso, Jean Cocteau e Max Jacob. Inizialmente la tomba è anonima e soltanto dopo la fine della guerra viene inciso il nome di Soutine. Mentre il suo “Piccolo Pasticcere” batte i record d’asta e i suoi dipinti strazianti vengono ammirati nei grandi musei il pittore di Smilovici riposa dimenticato da tutti, come se, anche nella morte continuasse a perpetrare la necessità di essere invisibile, introvabile, nascosto e a parlare al mondo soltanto attraverso la forza devastante della sua pittura.
Barbara Castellaro






paesaggio della zona con l’immagine dei boschi che sfuma tra nubi basse e nebbia. Gi stessi boschi dove, nell’intento di sfuggire alla follia omicida, trovarono la morte migliaia di bosgnacchi. C’è anche l’istantanea di una bambola rotta, con la faccia tagliata, probabilmente strappata dalle mani di una bambina: un giocattolo innocente che, deturpato e scaraventato nel fango, si trasforma in una sagoma inquietante. Queste foto, senza didascalia, raccontano ogni cosa e tutto il dolore meglio delle parole che suonerebbero vuote, fuori posto. In fondo, inutili. Non sono tante queste immagini. Non c’è bisogno di ostentare l’orrore per smuovere la memoria. L’ultima della
serie, però, è un pugno nello stomaco ancora più forte. Una mano, guantata di bianco, solleva dalla terra di una fossa comune un’altra mano senza vita, scheletrica, nera, sporca. Il contrasto è netto e la pellicola in bianco-nero lo accentua fino a renderlo sconvolgente,impressionante. Pare che la mano morta chieda aiuto, si aggrappi per trascinarsi disperatamente fuori. E l’altra, oserei dire con una delicatezza caritatevole, la sostiene, consapevole che ormai non resta più nulla da fare se non consentirle una dignitosa sepoltura, dopo l’orrore della morte violenta e la profanazione del corpo. E’ un particolare crudo, un’immagine diretta, priva di mediazioni. La mano, presumibilmente di uno dei tanti uomini massacrati a Srebrenica o nei dintorni, riflette la tragicità della morte con una efficacia senza pari. Nel nostro immaginario la morte viene
raffigurata con teschi e ossa umane, scheletri disegnati, dipinti o incisi sulle lapidi dei vecchi cimiteri, a volte sulle inferriate. La figura più classica , diffusasi dopo il Medioevo, è quella dello scheletro che brandisce la falce che recide la vita, allo stesso modo in cui taglia l’erba o il grano. Ma in questo caso la fotografia della mano scarna e sporca di terra rende l’idea del degrado del corpo ed evoca la morte nel modo più macabro e diretto che si possa immaginare. Per questo colpisce, lasciando senza fiato. Difficilmente si può ignorare ma altrettanto difficilmente gli sguardi indugiano su quest’immagine di indicibile drammaticità. Ad alcuni ragazzi la vista ha provocato ansia e conati di vomito, ad altri la tensione si è sciolta in pianto. Nessuno è rimasto indifferente. Ci sono immagini, situazioni che fanno riflettere molto più di altre. Chi visita oggi il campo di sterminio di Auschwitz resta attonito sfilando davanti alle teche del museo colme di scarpe, protesi, occhiali, capelli. O alle centinaia di barattoli vuoti di zyklon B, il cianuro solido che – a contatto con l’aria – non lasciava scampo a chi era stato costretto ad entrare nelle “docce” delle camere a gas. Lo stesso è accaduto a Belgrado qualche anno fa, nel luglio del 2010, dove le “Donne in nero”, attiviste antimilitariste di Serbia, hanno inscenato una originalissima manifestazione in ricordo di Srebrenica. Hanno raccolto 8372 paia di scarpe, tante quante furono le vittime dell’eccidio riportate sulla stele del Memoriale ( in realtà circa diecimila) , allo scopo di farne un monumento nella capitale serba. Così centinaia di paia di scarpe di ogni tipo, foggia e colore – da uomo, donna, sportive e per bambini, ciabatte e stivali – sono state allineate per terra sulla Kneza Mihailova, la frequentatissima strada pedonale nel cuore dell’ex capitale della












Ed a galleggiare su tutto, come un velo di nebbia, l’assurdità assoluta e palpabile della guerra. Un “catalogo poetico” di straordinario fascino,in cui si trova Hofmannsthal che presagisce la fine della “nostra vecchia Austria, assediata da ombre nere, da torbidi presagi”, il tenente Musil che vede in faccia la morte sul campo di battaglia, Kafka che in sogno immagina le future camice brune naziste, Edith Stein che si fa suora cattolica ma muore in un lager come martire ebrea, Freud che spiega ai suoi alunni la connessione tra coraggio soldatesco e viltà scientifica. “Non abbiate timore. A prima vista / può sembrare poesia, ma sono storie / di due guerre, raccolte da un cronista / che si è perduto fra vecchie memorie. / Il testo, anche se ha righe disuguali, / non differisce in nulla da una prosa, / con nomi, date e luoghi ben reali – / sia documento o cronaca o altra cosa”.
Con questa chiave di lettura, Forti apre il suo racconto per poi sfogliare, pagina dopo pagina, gli “annali dispersi” dell’Impero asburgico, cogliendone le voci e riproducendole, trascritte in versi discorsivi su persone e vicende. Così s’incontrano la famiglia Canetti al concerto, l’ultima ora dell’Imperatore, il Golem che appare a Gustav Meyrink, il suo “biografo”. E ancora: Ettore Schmitz tra i naufraghi del
piccolo almanacco di Radetzky appartiene a quel genere”, scrisse Corrado Augias. Aggiungendo come “in un periodo così affollato di cronache, romanzi, storie, Forti è stato capace di mettere insieme avvenimenti ed episodi che mai nessuno prima aveva accostato con tanta appassionata perizia e finezza d’evocazione. Così facendo ci dà di quegli anni di guerra un volto inaspettato e più d’una sorpresa”. Quelle narrate da Forti ( eccellente traduttore, morto nel 199 a 77 anni) sono storie familiari e remote, trascritte come fogli di un “lunario” che racconta, dal 1914 al 1918, anno per anno, mese per mese, il tramonto dell’Impero e le vicende personali dei suoi scrittori e dei suoi artisti, fino alla sconfitta che distruggerà la vecchia compagine e libererà nuovi demoni. In pratica, la fine di un mondo e di un modo d’intendere la vita e i rapporti tra gli uomini che non avrebbe più avuto eguale.