Dall Italia e dal Mondo- Pagina 55

All’ombra della Est del Rosa, Macugnaga e il “cimitero degli alpinisti”

Immane, alto fino a meta’ del cielo, ecco il massiccio del Rosa, con i suoi bianchissimi ghiacciai e le sue pareti di roccia nera. Non diverso e’ lo spettacolo dell’Himalaya. Lo guardiamo tra le lacrime. Che cosa c’e’ di piu’ bello su questa terra? Il monte Rosa visto da Macugnaga è eroico”.

MACUGNAGA4

Così scrisse Mario Soldati la prima volta che vide la parete Est, l’himalayana.  In cima  alla valle Anzasca, “terre alte” del Piemonte nord orientale, c’è Macugnaga. Oltre e più in su s’inerpica la montagna. Tra i prati e le case dall’inconfondibile architettura walser, all’ombra del monte Moro e di fronte alla più bella parete delle Alpi occidentali, c’è tutta la storia di questo borgo di montagna, iniziata nel XII secolo quando il “piccolo popolo” arrivò dal Vallese colonizzando questa conca ricca di alpeggi. Tutto, a Macugnaga, richiama la cultura del “Popolo delle Alpi”, composto da  pastori, alpigiani, boscaioli e contadini. I walser, dalla valle di Goms, appendice estrema del Vallese posta tra il passo del San Gottardo e l’Oberland bernese, raggiunsero l’alta valle Anzasca dal passo del monte MACUGNAGA2Moro e poi la Valsesia dal Colle del Turlo. Attorno al XIII secolo, interi nuclei familiari con i bambini più piccoli trasportati nelle gerle, si misero in cammino lungo le antiche mulattiere per risalire le valli, superare nei punti più convenienti le montagne e ridiscendere a sud delle Alpi in cerca di luoghi ove dar vita a nuovi villaggi. A fine Settecento, il ginevrino Horace Benedicte de Saussure, appassionato studioso,  nel corso del suo viaggio intorno al Monte Rosa, li definì nei suoi diari “sentinella tedesca” in territorio italiano. Macugnaga è composta dalla frazione più grande – Staffa – insieme a quelle di Pestarena e Borca, le più basse,  e Pecetto, la più alta. Macugnaga ospita alcuni interessanti e originali musei. A Borca, ad esempio,  c’è la Casa-museo Walser, abitazione d’epoca comprensiva di tutti gli arredi e gli oggetti di un tempo e anche il museo della miniera d’Oro della Guja, prima miniera-museo in Italia, percorribile per un chilometro e mezzo nel ventre roccioso della montagna, dove si è estratto il prezioso metallo dal 1710 fino al 1945. A Staffa, invece, si può trascorrere un po’ di tempo al museo della Montagna e in quello del contrabbando che racconta la secolare storia degli “spalloni” che valicavano con i loro carichi di merce il confine tra l’Italia e la Svizzera, sfidando i rischi naturali e i controlli della Finanza. A poca distanza dal centro del paese, nel Dorf – l’antico borgo fatto da abitazioni costruite con tronchi di larice incastrato –  davanti alla Chiesa Vecchia si trova il vecchio tiglio. Sotto all’imponente albero pluricenteneario, dalla circonferenza di oltre sette metri, un tempo si tenevano i mercati, s’incontravano le genti delle diverse valli del Rosa, si svolgevano, come in una sorta di tribunale all’aperto, riunioni giudiziarie e amministrative. A fianco della Chiesa Vecchia c’è il cimitero degli alpinisti. La storia ci dice che, il 22 luglio 1872,  Ferdinand Imseng di Saas, ma residente a Macugnaga, con una guida e un portatore condusse tre inglesi alla vetta della Dufour direttamente da Macugnaga. Da quel momento iniziò un’epoca di grandi ascensioni e, come capita sulle grandi montagne, anche di parecchie tragedie, la prima delle quali causò proprio la scomparsa di Imseng MACUGNAGAassieme a un suo cliente, Damiano Marinelli, e alla guida Battista Pedranzini. Un evento che provocò una sollevazione dell’opinione pubblica al punto che furono proibite le ascensioni sul Rosa, ma il provvedimento non venne preso in grande considerazione visto che, cinque anni dopo, venne inaugurata la capanna Marinelli, per aiutare gli scalatori che tentavano le ascensioni dirette da Macugnaga. Nel cimitero, tra le tombe che ospita, molte portano il nome dei “caduti del Rosa”, sfortunati alpinisti che trovarono la morte nel bianco perenne della grande montagna. Un luogo suggestivo, dove spesso sono state intonate struggenti invocazioni al “Signore delle Cime”. Tra lapidi e foto, immagini di corde, piccozze e ramponi  ci sono anche delle tombe vuote perché i corpi sono ancora sepolti nel ghiaccio della parete Est e chissà mai se verrà il giorno in cui la montagna consentirà di trovarne le povere spoglie. In qualche caso è passato anche più di mezzo secolo, come quando – nel 2007 –  vennero alla luce un femore, alcune costole, un dito e dei brandelli di abiti che, l’esame del Dna, attribuì ad Ettore Zapparoli, alpinista, scrittore e musicista, scomparso sul Rosa nell’agosto del 1951 durante un’ascensione solitaria e nonostante le ricerche, mai ritrovato. Ora anche lui, come tanti, riposa  nel vecchio cimitero, sotto il portichetto dove una lapide ricorda i soci defunti del Gruppo italiano scrittori di montagna, del quale Zapparoli era membro. Un sonno eterno, quello dell’ “unico vero alpinista solitario” – come lo definì il grande alpinista Emilio Comici, proprio davanti all’imponente incanto della Est, la parete più alta delle Alpi, con le sue insidiose rocce, i seracchi e i ripidi pendii di neve.

Marco Travaglini

LA STATUA DELLA LIBERTA’ E’ UN “PLAGIO” DI UN’OPERA FIORENTINA?

La Statua della Libertà è probabilmente uno dei monumenti più famosi al mondo ed è senza dubbio il simbolo più rappresentativo della città di New York e degli interi Stati Uniti d’America. Con i suoi 93 metri d’altezza, è visibile a 40 km di distanza e si erge come un imponente “biglietto da visita” per il visitatore che si appresti ad entrare nel Paese.L’opera, inaugurata nel 1886, fu donata dalla Francia agli Stati Uniti d’America, non solo in quanto le due nazioni erano storicamente alleate, ma anche perché, nell’imminenza del centenario delle rispettive rivoluzioni francese ed americana, si voleva ricordare l’impegno profuso da questi due popoli nella lotta per la conquista dei diritti fondamentali del cittadino.La Statua della Libertà fu realizzata dallo scultore francese Frédéric Auguste Bartholdi, con la collaborazione di Gustave Eiffel (noto anche per la torre parigina che porta il suo nome), che si occupò in particolare di progettare gli interni dell’immensa opera. Il genio creativo di Bartholdi è stato giustamente celebrato in tutto il mondo, ma sarà stata tutta farina del suo sacco? Nella bellissima basilica di Santa Croce a Firenze si trova una splendida scultura che ricorda moltissimo, soprattutto nella posa della figura femminile, il celebre monumento americano. L’opera si chiama “Libertà della Poesia” ed è stata realizzata tra il 1870 ed il 1883 e dunque solo qualche anno prima rispetto all’inaugurazione della Statua della Libertà. Il suo autore, lo scultore Pio Fedi, all’epoca in cui lavorava all’opera scultorea, era già all’apice della sua notorietà, avendo appena ultimato il suo ultimo capolavoro (il famoso “Ratto di Polissena”), che aveva avuto l’onore di essere collocato sotto la Loggia de’ Lanzi in Piazza della Signoria, in compagnia di altre stupende opere d’arte realizzate da artisti di tutte le epoche. Data la riconosciuta bravura dello scultore italiano, Pio Fedi ebbe anche l’onore di realizzare una scultura che rappresentasse un’allegoria della poesia e che sarebbe stata collocata, come in effetti è avvenuto, sopra la tomba del drammaturgo italiano Giovan Battista Niccolini, deceduto circa dieci anni prima e sepolto nella basilica di Santa Croce. Il destino ha voluto che, in quegli anni, si trovasse a Firenze lo scultore francese Bartholdi, il quale visitò l’Italia in più occasioni, soprattutto per combattere, a fianco di Garibaldi, nelle file dei franchi-tiratori durante la guerra franco-prussiana. Si sa per certo che Bartholdi si trovava a Firenze nel 1875, poiché è stata ritrovata una lettera che lo stesso scultore aveva scritto alla madre quell’anno. E’ altamente probabile che uno scultore straniero come Bartholdi, trovandosi a Firenze e visto il clamore suscitato dall’opera che il “collega” Pio Fedi stava realizzando, non abbia resistito alla tentazione di dare un’”occhiata” al lavoro dello scultore italiano e, con l’occasione, di studiarne i dettagli. Del resto, al di là delle differenze di dimensioni e di materiali utilizzati dai due artisti, la somiglianza tra le due statue è strabiliante ed induce a pensare che Bartholdi, quantomeno, abbia preso ispirazione dall’opera italiana. A ben vedere, infatti, entrambe le statue rappresentano una figura femminile con una corona in testa (quella di Pio Fedi è composta da otto raggi, mentre quella newyorkese ne ha solo sette), entrambe hanno il braccio destro sollevato, sebbene la statua italiana tiene nella mano una catena spezzata, mentre nella statua della libertà americana la figura femminile tiene in mano una fiaccola (le catene invece la statua americana le ha ai piedi); il braccio sinistro della statua italiana è abbassato e culmina con una ghirlanda d’alloro, simbolo della poesia, mentre la Statua della Libertà ha anch’essa il braccio sinistro abbassato ma tiene in mano il libro della dichiarazione di indipendenza americana. Entrambe le statue, infine, indossano una lunga toga e poggiano su un piedistallo. E’ plagio o semplice casualità?

Davide Longo 

 

IL RITORNO A TORINO DI AUGUSTO CESARE FERRARI

FOCUS INTERNAZIONALE / ARTE

Il 20 settembre si inaugurerà presso l’Accademia Albertina di Torino la mostra “Augusto C. Ferrari, pittore architetto da Torino all’Argentina. ¡Qué bello es vivir!“, che chiuderà il 18 novembre. 

Nato figlio di ignoti a San Possidonio (Mo) nel 1871, Augusto crebbe con la famiglia della balia fra Bassa Modenese, Oltrepò Mantovano  e Genova, dove nel 1892 fu riconosciuto dal padre Francesco Ferrari, negoziante di vini nato a Cavezzo ma residente a Roma. Finalmente col  cognome Ferrari,  corse a Torino per intraprendere la vita che sognava: studiare in Accademia e fare il pittore. Nel 1900 si diplomò docente di disegno d’ornato al Museo Industriale di Torino. Espose a Torino dal 1901 alla Promotrice ed al Circolo degli Artisti, di cui fu socio da quell’anno. Dipinse anche panorami, dapprima col suo maestro Giacomo Grosso, per le battaglie di Torino e di Maipù, poi da solo, quando  realizzò con aiuti il grande panorama di Messina distrutta (1950 mq di pittura, esposto a Torino negli anni 1910-11). Su indicazione di Giacomo Grosso, decorò nel 1911 la chiesa parrocchiale del suo paese natale, Cambiano (To). Approdato a Buenos Aires  nel 1914 per riallestire il suo panorama, non riuscendo nell’impresa, affrontò la sua vita di migrante dipingendo due chiese in cambio di ospitalità. Ma la vita riprese a girare per il verso giusto: conobbe Celia del Pardo che nel 1917 divenne sua moglie e presto si fece conoscere, ricevendo gli incarichi di altri due panorami e della decorazione della chiesa di San Miguel (suo capolavoro, ora monumento nazionale), nella quale lasciò prova della sua maestria nel governare grandi spazi con la pittura. Per questa impresa realizzò un’eccezionale documentazione fotografica preparatoria (di modelli e scene),  delineando il programma decorativo col parroco mons. Miguel De Andrea, importante  esponente della Chiesa argentina. Raggiunta una certa agiatezza, tornò a Torino nel 1922 con la moglie e tre bimbi per fare il pittore, iscriversi  nuovamente al Circolo degli Artisti, studiare, viaggiare…. Tornò in Argentina con la famiglia nella primavera del 1926, per non allontanarsene più.  Dopo lo scarso successo della grande mostra realizzata a Buenos Aires subito dopo il rientro, superò la nuova difficoltà  riproponendosi – a cinquantacinque anni – come architetto, soprattutto apprezzato dagli Ordini religiosi, che in lui, architetto ornatista eclettico con grande erudizione e un geniale talento nel combinare frammenti diversi, trovavano l’interprete perfetto per perpetuare programmi iconologici e simbologie, in riferimento alle loro radici europee. Realizzò dapprima il chiostro nel convento cappuccino che lo aveva accolto nel 1914 (Nueva Pompeya), poi la grande e splendida chiesa neogotica del Sagrado Corazón (“De los Padres Capucinos”) di Córdoba (1927-32), poi molte altre chiese e complessi ecclesiastici nella provincia di Córdoba e ville private nella vicina cittadina di villeggiatura di Villa Allende. Lavorò fino a tarda età, quando ancora fu impegnato nelle supervisione architettonica e direzione lavori dell’abbazia benedettina di Belgrano a Buenos Aires, ed in progetti di chiese che elaborava per proprio svago e dedicava ai nipoti.

Liliana Pittarello

Sangue sulle strade: due morti e due feriti

DALLA PUGLIA Nuove vittime della strada sulle autostrade italiane. Un grave incidente ha coinvolto una Fiat Doblò che, rientrando in Puglia,  si è schiantata contro il guard-rail dell’autostrada A/14, nei pressi di Termoli. E’ morta la moglie del conducente del veicolo, Anna Dell’Orco di 56 anni, di Bisceglie, e un uomo di 36 anni Leonardo Papagni, amico della figlia della coppia. In condizioni molto gravi il conducente del Doblò, di 59 anni, ed  è ferita, ma non è in pericolo di vita la figlia di 30 anni. Sono intervenuti  i Vigili del Fuoco e il 118.

Vernante, dove la storia di Pinocchio si legge sui muri delle case

vernante pinocchioE’ stato eretto anche un bel monumento al personaggio di legno, opera degli artigiani locali fratelli Bertaina. Nella pace del cimitero comunale, l’artistica tomba dello “zio di Pinocchio” è vegliata dal burattino che piange

Vernante , porta dell’alta Val Vermenagna e della Val Grande, deve il proprio toponimo al nome occitano dell’ontano, la Verna, pianta molto diffusa da quelle parti. A venti chilometri da Cuneo e a sei da Limone Piemonte, questo paese di poco più di mille abitanti, divisi tra il centro e  le frazioni di Palanfrè, Folchi, Renetta e Ciastellar, è famoso per le sue cipolle ripiene, per le raviole alla vernantina  e per i “Vernantin”, particolari coltelli a serramanico interamente lavorati a mano con impugnatura in corno. Ma la fama di Vernante non finisce qui:  in questa località delle Alpi Marittime, la favola di Pinocchio ha trovato casa e si raccontata sui muri delle abitazioni. L’idea, nata sul finire degli anni ’80  per opera di due pittori locali – Carletto Bruno e Meo Cavallera – , si è concretizzata negli oltre centocinquanta “murales” che raccontano le vicende del burattino più celebre del mondo. Così, passeggiando lungo le strade di Vernante, si possono ammirare le scene che ripercorrono, con i tratti caratteristici di Attilio Mussino, il più famoso illustratore del Pinocchio di Collodi,  le avventure dello straordinario burattino. A Mussino, la municipalità di Vernante ha dedicato un museo, ospitato nei locali della ex Confraternita.vernante pinocchio 2 Il grande disegnatore scelse a Vernante la seconda compagna della sua vita, la signora Martini Margherita, ed il luogo in cui  dedicarsi al lavoro artistico e  trascorrere gli ultimi anni della sua vita, dal 1944 al 1954. Formatosi all’Accademia Albertina di Torino, già da studente Mussino collaborò con alcuni giornali satirici come La Luna e Il Fischietto. Lungo quasi mezzo secolo fu il rapporto con il Corriere dei Piccoli : a partire dal primo numero, pubblicato nel dicembre del 1908, fino al 1954  (anno della sua morte). Il suo lavoro più celebre, tuttavia, è rappresentato dalle illustrazioni delle collodiane “Avventure di Pinocchio”nell’edizione del 1911 edita dalla fiorentina Bemporad . Con i disegni di Attilio, come usava firmarsi, Pinocchio affrontò per la prima volta il colore e andò ben oltre i limiti in cui l’avevano confinato i primi due illustratori, Enrico Mazzanti e Carlo Chiostri. Mussino portò il burattino di Carlo Collodi dentro la grande illustrazione europea del Novecento, al punto che la sua edizione sarà la più ristampata e venduta in assoluto e, per molti versi, resterà ineguagliata. Vernante, dove è stato eretto anche un bel monumento a Pinocchio, opera degli artigiani locali fratelli Bertaina,  gli ha intitolato – oltre al museo – anche  la Scuola Elementare e i giardinetti pubblici.  Non a caso, nella pace del cimitero comunale, l’artistica tomba dello “zio di Pinocchio” è vegliata dal burattino che piange.

 

Marco Travaglini

I tappeti della guerra russo-afghana

13-09-2018 Inaugurazione della mostra “Dall’Afghanistan all’Italia. I tappeti delle guerra russo-afghana 1979-1988”

Ci sono anche semplici stilizzazioni di aerei, carri armati, fucili bombe ed elicotteri nei trenta tappeti Baluci afghani esposti nella mostra “Dall’Afghanistan all’Italia. I tappeti della guerra russo-afghana. 1979-1988”, allestita nella galleria Carla Spagnuolo di Palazzo Lascaris dal 13 settembre al 6 ottobre 2018.”Dalle trame di questi tappeti – ha affermato il consigliere segretario Giorgio Bertola durante l’inaugurazione – emergono le trame delle storie personali di coloro che li hanno tessuti a mano nei cortili delle case afghane. Una produzione artistica che racconta le vite di una comunità e potenzia il messaggio rendendolo comprensibile a tutti attraverso le immagini semplici dettate dalle emozioni”.   La mostra verrà aperta in via straordinaria anche sabato 6 ottobre (dalle 15 alle 21) in occasione della manifestazione cittadina Portici di Carta. Quel giorno l’esposizione sarà accompagnata da un intervento con musiche tradizionali afghane e da una dimostrazione di tessitura su un telaio artigianale. 

Alessandro Volta e la “nativa aria infiammabile di palude”

VOLTA 3Alessandro Volta, tra i più famosi fisici della storia, studioso e inventore molto prolifico che si applicò soprattutto allo studio dei fenomeni elettrici. Infatti, quella che viene comunemente chiamata lapila di Volta”, il primo generatore statico di energia elettrica mai realizzato, tanto da costituire il prototipo della batteria elettrica moderna, fu un’invenzione davvero rivoluzionaria. Ma al geniale ingegnere comasco si deve anche la scoperta del metano, avvenuta nel 1776, tre anni prima della “pila”. Alessandro Volta nel corso dei suoi studi di fisico e filosofo viaggiò molto, spostandosi in diversi paesi d’ Europa,senza trascurare i territori più vicini. Tra questi anche la sponda lombarda del lago Maggiore, dove – ospite della famiglia Castiglioni – trascorse ad Angera alcune giornate nell’autunno dell’anno in cui, a Filadelfia, veniva scritta la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America. Il soggiorno nel paese all’ombra della Rocca Borromea fu breve ma fruttuoso. Durante  una gita in barca attorno alle rive dell’IsolinoPartegora( quello che gli angersi chiamano “l’isulìn”), un piccolo scoglio circondato di canneti nelle acque del golfo di Angera,  praticamente l’unica delle undici isole del Lago Maggiore situata in territorio lombardo, Volta s’imbattè nell’aria infiammabile delle paludi. Costeggiando quei canneti, frugando con un bastone il fondoVOLTA melmoso dell’acqua, Volta vide salire a galla e poi svanire nell’aria bollicine gassose. Incuriosito, racchiuse il gas all’interno di provette di vetro e incominciò a studiarne le proprietà e scoprì che poteva essere incendiato, sia per mezzo di una candela accesa, sia mediante una scarica elettrica( Quest’aria arde assai lentamente con una bella vampa azzurrina”)ededusse che il gas si formava nella decomposizione di sostanze organiche, animali e vegetali, in assenza di ossigeno. Pensando immediatamente a un suo utilizzo pratico ( dalle sue ricerche risultava che quel gas fosse presente in grande quantità in  tutte le paludi) Alessandro Volta pensò subito a un utilizzo pratico della sua “aria infiammabile” e costruì una pistola elettroflogopneumatica in legno, metallo e vetro, il cui scopo sarebbe stato la trasmissione di un segnale a distanza, dimostrandosi – in pratica – un precursore dei sistemi di accensione dei moderni motori a benzina. Non pago realizzò una lucerna ad aria infiammabile e perfezionò l’eudiometro per la misura e l’analisi dei gas. Per una corretta determinazione della composizione del gas passò più di un quarto di secolo. La scoperta portò VOLTA 2grandi vantaggi e, già nella prima metà dell’Ottocento, l’illuminazione a gas divenne comune in molte città americane ed europee, a tal punto da modificare gli stili di vita dei cittadini: le strade, ben illuminate anche di sera, scoraggiarono i malintenzionati, la gente usciva anche di sera i luoghi d’incontro e cambiavano anche i costumi.  Nel febbraio del 1822 il gas fece la sua prima apparizione a Torino, in piazza San Carlo, nel caffè del sig. Gianotti ( quello che oggi è il Caffè San Carlo) ma solo vent’anni dopo venne impiegato nell’illuminazione delle strade cittadine. Nel 1837, Carlo Alberto, autorizzò François Reymondon, architetto di Grenoble, e Hippolyte Gautier, ingegnere di Lione a costruire il gasometro di Porta Nuova e due anni dopo un nuovo tipo di illuminazione a gas entrò in funzione con 100 fiamme che divennero 1600 nel 1840. Le cronache dell’epoca raccontano che, nell’ottobre del 1846, “fra l’entusiasmo della popolazione, furono illuminate le contrade Dora Grossa e Nuova”  e, poco dopo, anche le vie Po e Santa Teresa, piazza Castello, piazza San Carlo e piazza Vittorio. E tutto questo, in qualche misura, trovò origine anche da quella “nativa aria infiammabile di palude” che il Volta scoprì tra i canneti dell’isolotto sul lago Maggiore.

Marco Travaglini

Come si diventa cittadini europei

“Chi  non ricorda il passato è condannato  a ripeterlo”: la citazione, del filosofo e scrittore spagnolo George Santayana, campeggia in una delle sale della Casa della storia europea a Bruxelles. Sul suo significato, sul valore di coscienza e di memoria collettiva e sui principi fondanti dell’Unione europea si sono soffermati i ventiquattro studenti degli istituti superiori piemontesi che hanno visitato nei giorni scorsi la città sede delle istituzioni europee, un viaggio premio per i vincitori della 34esima edizione del concorso “Diventiamo cittadini europei”, organizzato dalla Consulta regionale in collaborazione con l’Ufficio scolastico regionale. I ragazzi, provenienti dagli istituti superiori di Alba, Alessandria, Biella, Borgosesia, Cuneo, Ivrea, Novara, Novi Ligure, Rivoli, Savigliano, Torino, Tortona e Vercelli, hanno visitato il museo interattivo, inaugurato lo scorso anno, che racconta i grandi avvenimenti della storia europea, i processi che hanno portato alla nascita dell’Unione e il funzionamento delle sue istituzioni, mentre al centro visitatori del Parlamento hanno vissuto da protagonisti i lavori parlamentari attraverso il gioco di ruolo “Parlamentarium”. Dalla prima edizione del 1983, il concorso ha permesso a migliaia di studenti di fare un’esperienza formativa su cos’è l’Europa: quella di quest’anno ha visto la partecipazione di 68 istituti superiori e 878 alunni, che si sono dovuti cimentare in un elaborato sui temi della Brexit e della disoccupazione giovanile, valutati da una commissione di esperti e premiati con il viaggio a Bruxelles.

(CS) www.cr.piemonte.it

Le tutele della rete dallo strapotere dei colossi. Nuova normativa europea

In questi giorni è in corso alla Camera dei Deputati la discussione sulla SIAE, del diritto d’autore e media. Una riforma equa in tal senso sarebbe quanto mai auspicabile, ma nel frattempo al Parlamento Europeo sarà all’ordine del giorno, a partire dal 12 settembre, una discussione, per certi versi, simile ma molto più importante che dovrebbe tutelare artisti e autori dalle manipolazione e strapotere dei colossi della rete (Facebook, google ecc). Non solo per la tutela degli internauti è in corso la petizione regionale lanciata dalla Società Italiana degli Autori ed Editori diretta ai deputati del Parlamento europeo per richiedere la modifica delle attuali leggi che regolano Internet e in particolare gli articoli riguardanti il Copyright che favoriscono sempre di più i giganti della tecnologia a scapito degli utenti “semplici” come i cittadini. La petizione è regionale, quindi rivolta ai cittadini dell’Italia Nord Occidentale.  A pochi giorni dal voto in Europa, dopo la presa di posizione di editori e giornalisti, è nata Europe for creators, movimento composto da cittadini, creativi e quasi 250 organizzazioni a sostegno della direttiva Europea per il copyright, la cosiddetta Direttiva Barnier. Il movimento ha lanciato un sito web e un account su Twitter (@EUForCreators), con l’hashtag #EuropeForCreators. Sappiamo tutti che, ora, per i colossi della rete il pagamento equo non esiste. Speriamo che dal prossimo 12 settembre lo diventi quando vengono utilizzate le loro opere. La nostra preoccupazione è che invece, come per il regolamento per la tutela della privacy, recentemente entrato in vigore, sia un modo come un altro per affossare i più piccoli mentre i colossi continueranno imperterriti. Il voto serve per aggiornare le regole sul copyright nel 21° secolo, per garantire che musicisti, artisti e chiunque produca musica e altri contenuti che ci piace vedere e condividere su piattaforme come Facebook e YouTube, ottengano un pagamento equo quando vengono utilizzate le loro opere.  Attualmente, i giganti della tecnologia raccolgono la maggior parte dei profitti.

Tommaso Lo Russo

 

L’assedio di Idlib

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Sembra l’atto finale della guerra siriana l’offensiva scatenata da Putin e Assad su Idlib nel nord-ovest del Paese, l’ultima roccaforte dei ribelli e delle milizie qaediste che da sette anni e mezzo combattono contro il regime di Damasco. E sembra anche uno sgarbo rivolto a Trump che poche ore prima aveva intimato a russi e siriani di astenersi da qualsiasi intervento militare. Invece, aerei russi e siriani hanno ripreso i raid attorno a Idlib dopo oltre tre settimane di sosta. I missili dei jet russi hanno colpito diverse postazioni dei jihadisti di Hayat Tahrir al-Sham e un’area in mano a ribelli filo turchi.

L’attacco ordinato da Mosca e da Damasco è il segnale che potrebbe annunciare l’offensiva di terra, i cui piani sono al centro del vertice di Teheran tra russi, iraniani e turchi. Oltre 120.000 soldati siriani e russi sono pronti ad andare all’assalto di 60.000 insorti in quella che si presenta come una campagna militare ancora più cruenta e terribile di quelle viste ad Aleppo e nella Ghouta orientale, alle porte di Damasco. Si prevede la fuga di centinaia di migliaia di civili verso la Turchia che ha inviato rinforzi per bloccare l’ondata di profughi che si riverseranno lungo la frontiera. Le mosse di Ankara nei confronti dei suoi alleati a Idlib e verso Putin saranno decisive. Erdogan ritirerà i suoi soldati dalle zone contese e lascerà al loro destino le fazioni ribelli che sostiene? Staffan de Mistura, l’inviato dell’Onu per la Siria, ha chiesto a Putin e al presidente turco di fare di tutto per trovare un accordo ed evitare un bagno di sangue nella provincia di Idlib. Uno scontro su larga scala porterebbe a un nuovo massiccio esodo di civili verso il Paese della Mezzaluna. Un’eventualità che preoccupa Erdogan, già in difficoltà sul piano interno per la grave crisi economica. Nella guerra infinita siriana (circa 400.000 morti) si rischia una nuova catasfrofe umanitaria. Gli accorati appelli del Papa alla comunità internazionale per fermare la macchina bellica sembrano caduti nel vuoto. Il Vicino Oriente torna a infiammarsi.

 

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L’Iran sposta i missili in Siria e in Iraq per minacciare Israele e l’Arabia Saudita. Israele lancia i suoi missili contro basi iraniane al di là del Golan e il ministro della difesa Lieberman non esclude di colpire obiettivi persiani anche in Iraq. Nell’infuocata polveriera siriana le forze islamiste dell’Isis e di al Qaeda si riorganizzano e tornano a minacciare l’Occidente. Idlib conta oggi almeno 500.000 abitanti, la maggior parte dei quali sono siriani fuggiti da tante altre zone in cui si combatteva. Sembrava un’isola felice nella tragedia siriana ma oggi la situazione è cambiata. A Idlib sono presenti, secondo l’Onu, 10.000 foreign fighters e la popolazione della provincia è passata da uno a tre milioni di abitanti, quasi tutti sfollati e tutti a rischio con l’offensiva siro-russo-iraniana contro i ribelli jihadisti e filo-turchi che potrebbe causare un numero altissimo di vittime e di profughi. Oltre 700.000 civili sono intrappolati tra russi e turchi e potrebbero fuggire dalla Siria e raggiungere l’Europa in qualsiasi momento. Per aiutarli a fuggire da Idlib si sta cercando, con grande fatica, di aprire “corridoi umanitari” ma il tempo stringe. Rispunta anche la paura di possibili attacchi chimici da entrambe le parti. Francia, Gran Bretagna e Regno Unito minacciano di rispondere con la forza in caso di un attacco chimico da parte dei siriani contro Idlib. Si riaffaccia intanto lo spettro della pulizia etnica. Non mancano infatti le preoccupazioni per una possibile “pulizia etnica” da parte di sciiti e alawiti (il clan di Assad al potere) contro i sunniti, la maggioranza della popolazione, e dei curdi contro i cristiani nel nord-est del Paese. Il 60% della provincia di Idlib è controllato dai qaedisti di Hayat Tahrir al-Sham (ex Fronte al Nusra) mentre il resto del territorio è conteso da milizie jihadiste, rivali tra loro, e da altri gruppi riuniti nell’ “Esercito libero siriano” armato dalla Turchia. Assad vuole chiudere la guerra prima possibile e avviare la ricostruzione del Paese. Dopo la riconquista di Aleppo e Raqqa e nel sud della Ghouta orientale e Douma, le truppe del rais di Damasco marciano verso la riconquista delle aree settentrionali che ancora sfuggono al suo controllo.

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Dopo la riconquista di Idlib rimarebbero escluse solo alcune zone curde nel nord e nel settore centro-orientale dove hanno trovato riparo i soldati del Califfo. Nel caos siriano anche al Qaeda e l’Isis tornano a far paura come dimostrano i recenti appelli a continuare la guerra santa contro l’Occidente di Al Baghdadi e di Al Zawahiri, leader di al Qaeda. Tra Siria e Iraq sarebbero, secondo le Nazioni Unite e i servizi segreti americani, circa 30.000 i combattenti dell’Isis ancora operativi e pronti a colpire in Occidente e alcune centinaia di miliziani sarebbero già tornati nei Paesi europei da cui erano partiti per combattere nel Levante. La ferocia di questi miliziani è riemersa nuovamente a fine luglio nel massacro di Suweida nel sud-ovest della Siria contro la locale comunità drusa (oltre 250 vittime) e nella recente decapitazione di uno degli ostaggi sequestrati nel corso dell’incursione jihadista. Lo stesso regime siriano, che nonostante i crimini commessi contro la popolazione negli ultimi anni, è stato indegnamente nominato nei giorni scorsi alla presidenza di turno della Conferenza internazionale sul disarmo, ha messo in guardia i Paesi europei sul ritorno in patria di una folta pattuglia di combattenti reduci dal Siraq e potenzialmente pronti a colpire. La chiesa siriana osserva con angoscia gli sviluppi della situazione e ringrazia Papa Francesco per i suoi appelli a favore della pace in Siria. Manifesta però anche forti timori per la situazione dei cristiani siriani che dopo essere stati uccisi e cacciati dalle loro terre dagli estremisti islamici dell’ex Stato islamico sono ora perseguitati dai curdi. Una sorta di “pulizia etnica” in atto già da tempo nelle regioni nordorientali della Siria. La denuncia arriva da Jacques Behnam Hindo, arcivescovo siro-cattolico di Hassakè, nel nord est della Siria, secondo cui è in atto un tentativo da parte dei curdi di cancellare la presenza cristiana in queste zone del Paese. Alcune scuole cristiane, siriaco-ortodosse e armene, sono state chiuse dalle autorità curde scatenando le critiche delle associazioni cristiane che accusano i curdi di violare di diritti umani nel silenzio del mondo. Nel dramma siriano forse l’unica buona notizia è la prossima riapertura del monastero di Santa Tekla a Maalula, occupato e saccheggiato dai miliziani islamisti tra il 2013 e il 2014. Maalula, 50 km a nord est di Damasco, è famoso per essere uno dei luoghi al mondo in cui si parla ancora l’aramaico, la lingua del tempo di Gesù.

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dal settimanale “La Voce e il Tempo”