Dall Italia e dal Mondo- Pagina 51

Auto andata perduta per l’alluvione: tribunale condanna il Comune al risarcimento

DALLA LIGURIA

Il tribunale civile di Genova ha condannato il comune a risarcire un privato che aveva perso l’automobile nell a drammatica alluvione del 9 ottobre 2014. Si tratta di  “una negligente e imprudente inerzia da parte del Comune” poichè  il parcheggio di Corte Lambruschini,  nonostante fosse  in una zona alluvionabile non era stato adeguato con opportuni lavori. Per questo. Per  i giudici il parcheggio municipale interrato non è a norma ed è a rischio di totale allagamento. Si è inoltre appurato che il condominio era  stato costruito senza i sistemi antiallagamento prescritti. Una sentenza che potrebbe dare speranze ad altri danneggiati in situazioni analoghe.

L’Iran mostra i muscoli ma rischia il collasso

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Gli Hezbollah sulle rive del lago di Tiberiade pronti a sferrare un attacco letale allo Stato ebraico. Milizie iraniane installate sul Golan sul punto di piombare sulla Galilea. Missili persiani puntati contro l’Arabia Saudita e contro le basi americane in Medio Oriente. Scenari catastrofici e inimmaginabili ma forse neanche tanto lontani dalla realtà. Lo scontro finale tra Israele e la Persia si avvicina? I generali iraniani soffiano sul fuoco delle tensioni con l’America e avvertono che le basi militari statunitensi situate nella regione sono facilmente raggiungibili dai missili persiani.

Al Udeid nel Qatar, la più grande base americana in Medio Oriente, Al Dhafra negli Emirati Arabi e Kandahar in Afghanistan si trovano a poche centinaia di chilometri di distanza dalle rampe di lancio iraniane. Nel Golfo e nel Mare dell’Oman le navi da guerra a stelle e strisce con decine di aerei da combattimento e migliaia di militari possono finire nel mirino dei Pasdaran. “Le strutture militari americane che spiano il nostro Paese sono ora sotto la copertura dei nostri missili, proprio come la carne sotto i nostri denti”. Le parole del comandante delle forze aeree delle Guardie della rivoluzione, il generale Amirali Hajizadeh, risuonano minacciose nei cieli del Levante. “Non saremo noi ad iniziare uno scontro ma ci difenderemo se attaccati”. Replica così il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif alle accuse dell’Occidente di alimentare il caos e l’instabilità nella regione e di sostenere il terrorismo. Resta però il fatto che dal Mediterraneo al Golfo Persico, da Beirut alla Mesopotamia, le ambizioni imperiali degli ayatollah non conoscono confini. Dalle basi iraniane in Siria si lanciano avvertimenti a Gerusalemme e da Teheran si minaccia l’Arabia Saudita rafforzando l’alleanza con il Qatar e sostenendo militarmente i ribelli yemeniti sciiti contro Riad. Teheran starebbe inoltre sviluppando nuovi missili balistici intercontinentali. Nel nord dell’Iran esisterebbe, secondo gli analisti militari, una struttura, forse nascosta all’interno di una montagna, in cui gli iraniani starebbero lavorando con sofisticate tecnologie belliche. Sul Golan, dalle torri di avvistamento con la stella di David si controllano i movimenti del nemico in uno stato di allerta continua come non accadeva da tempo. “Non vogliamo svegliarci al mattino e vedere gli Hezbollah sulle sponde del lago di Tiberiade. Non possiamo permettere alle milizie iraniane di mettere radici sul Golan che deve restare sotto la nostra sovranità. Continueremo a colpire le basi iraniane sul territorio siriano finchè ne rimarrà una in piedi”. È la risposta del premier israeliano alla strategia del nuovo impero persiano che mostra i muscoli in Medio Oriente ma così facendo rischia di incendiare l’intera regione. È infatti Teheran la principale minaccia alla sicurezza di Israele, non per i suoi piani atomici ma per la presenza degli iraniani a poche decine di chilometri dai suoi confini con milizie sciite, basi militari e depositi di missili, temendo che replichi in Siria quanto fatto con Hezbollah in Libano che sostiene e arma da decenni. Getta acqua sul braciere mediorientale il capo della diplomazia degli ayatollah: “non vogliamo ricostruire il nostro millenario impero ma non riconosciamo nessun altro impero e crediamo che la supremazia di una potenza non durerà”. L’odio reciproco tra gli Stati Uniti e l’Iran dura da 40 anni e Zarif non ha dubbi sul fatto che l’America, Israele e l’Arabia Saudita vogliano la caduta della Repubblica islamica: “è quello che hanno sempre voluto e non hanno mai abbandonato questa illusione“. Fragile all’interno, impoverito dalle sanzioni americane, nel mirino di separatisti arabi e curdi e colpito da gruppi jihadisti, il regime degli ayatollah minaccia tuoni e fulmini all’esterno. Ma fino a quando riuscirà a intimidire i suoi avversari? Sul fronte delle alleanze, mai molto durature in Medio Oriente, qualcosa scricchiola. Per Mosca la presenza militare iraniana in Siria comincia a essere piuttosto ingombrante. Fino a quando gli interessi strategici russi, turchi e siriani convergeranno? Nel recente vertice russo-turco sulla crisi siriana a Istanbul, con la Merkel e Macron, mancava proprio l’Iran, un attore fondamentale nel teatro siriano, oltre agli Stati Uniti. Teheran si sente sotto attacco e deve rispondere alle pressioni economiche che giungono da Washington impegnata a contenere l’influenza iraniana nel Siraq e nello Yemen. L’intesa sul nucleare si salverà senza gli Stati Uniti? I Paesi europei hanno assicurato più volte di voler conservare l’accordo sul nucleare e continuare i rapporti economici con la Repubblica Islamica ma il governo iraniano ha ribadito che non rispetterà l’intesa se non vedrà benefici economici per sé. Fa notare inoltre che i Paesi europei non hanno ancora istituito un meccanismo finanziario che consenta loro di continuare le transazioni con Teheran nonostante le sanzioni bancarie imposte dall’America. Se l’intesa del 2015 sul nucleare iraniano salterà del tutto, dopo l’uscita di Trump nel maggio scorso, la potenza persiana potrà riprendere ad arricchire l’uranio. Se da una parte l’Iran mostra fermezza nel duello con gli Stati Uniti e i Paesi della regione, dall’altra si prepara a difendersi dall’assalto americano che ha imposto a Teheran sanzioni molto dure per isolare il regime e impedirgli di ampliare la propria influenza fino al Mediterraneo. Le sanzioni introdotte dalla Casa Bianca ai primi di novembre sono le più dure della storia contro l’Iran perchè puntano ad azzerare le esportazioni di petrolio iraniano. Provocheranno un calo rilevante dell’economia iraniana come sostiene il Fondo monetario internazionale (Fmi) e soprattutto un netto calo nelle vendite di petrolio. Per il Fmi l’economia è destinata a calare dell’1,5% quest’anno e del 3,6% nel 2019. L’inflazione salirà a livelli molto alti superando il 30% il prossimo anno e la disoccupazione lascerà a casa molta gente, soprattutto giovani. L’Iran rischia il collasso anche se, come deciso dall’amministrazione americana, potrà continuare a vendere il greggio a otto Stati ancora per qualche mese ma nel frattempo le esportazioni sono già scese da 2,8 a 1,8 milioni di barili al giorno. Per non finire schiacciata dalle sanzioni la Repubblica islamica cerca alleati negli europei e nei Paesi della regione. Con l’Iraq vuole consolidare il commercio bilaterale con l’obiettivo di far passare il volume di affari complessivo con Baghdad dagli attuali 12 a 20 miliardi di dollari. L’Iraq è il secondo mercato più importante dopo quello cinese per i prodotti iraniani.

 

Dal settimanale “La Voce e il Tempo”

 

Insegnante sospeso per molestie sessuali su alunne minorenni

DAL FRIULI-VENEZIA GIULIA

Un insegnante di una scuola superiore di Udine avrebbe più volte molestato e fatto apprezzamenti sconvenienti nei confronti di undici alunne minorenni. Il docente è stato sospeso dall’insegnamento con l’accusa di molestie e violenza sessuale. Come scrive il quotidiano Messaggero Veneto, la vicenda risale  allo scorso anno scolastico. Le indagini sono effettuate dalla Squadra Mobile della Polizia coordinate dalla Procura. Le  segnalazioni erano state fatte alla dirigenza scolastica dai coordinatori di classe e dagli insegnanti che avevano ascoltato  le confidenze delle ragazze.

Istanbul, il sogno dell’Oriente

REPORTAGE DI MARCO TRAVAGLINI

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Il premio Nobel Orhan Pamuk ha definito l’opera di De Amicis  “il miglior libro scritto su Istanbul nel diciannovesimo secolo”, mentre Umberto Eco ha più volte sottolineato come la descrizione offerta da De Amicis della città sia la più cinematografica

 

“L’emozione che provai entrando in Costantinopoli…”

L’emozione che provai entrando in Costantinopoli mi fece quasi dimenticare tutto quello che vidi in dieci giorni di navigazione dallo stretto di Messina all’imboccatura del Bosforo”. Così iniziò il suo “Costantinopoli” Edmondo De Amicis, pubblicato a Milano dai Fratelli Treves nel 1877, nove anni prima del suo più grande successo, il libro “Cuore”. Il premio Nobel Orhan Pamuk ha definito l’opera di De Amicis  “il miglior libro scritto su Istanbul nel diciannovesimo secolo”, mentre Umberto Eco ha più volte sottolineato come la descrizione offerta da De Amicis della città sia la più cinematografica. E come dar torto a De Amicis quando i suoi ricordi sbiadiscono nella mente dopo visto il Corno d’oro, al punto “ che se ora li volessi descrivere, dovrei lavorare più d’immaginazione che di memoria”. “Perché la prima pagina del mio libro m’esca viva e calda dall’anima – aggiungeva – debbo cominciare dall’ultima notte del viaggio, in mezzo al mare di Marmara, nel punto che il capitano del bastimento s’avvicinò a me e al mio amico Yunk, e mettendoci le mani sulle spalle, disse col suo schietto accento palermitano: – Signori! Domattina all’alba vedremo i primi minareti di Stambul”. Istanbul, approdo dell’Occidente e punto di partenza per l’Oriente, è l’incrocio di culture millenarie: la Bisanzio dei greci, la Costantinopoli dei romani, unica città al mondo a cavallo di due continenti. Città straordinaria, somma di scontri e fusioni di culture raffinate ed opposte, è stata capitale di tre imperi: quello romano, quello bizantino e quello ottomano. E già questo sarebbe sufficiente per descrivere i mille volti di una metropoli di 14 milioni di abitanti ( la più grande d’Europa, la terza al mondo) traboccante di storia, multietnica per vocazione e cultura, in bilico tra passato e futuro.

Sultanahmet, la città vecchia

ISTANBUL SPEZIEA Sultanahmet, la città vecchia, bastano pochi passi per incontrare la storia. Si staglia la bizantina Ayasofya, considerata  la chiesa più grande del mondo per la sua poderosa mole fino a quando ( nove secoli dopo) non fu costruita la cattedrale di Siviglia, trasformata in moschea da Maometto II a metà del 1400 e , nel 1935, in museo per volontà  del fondatore della Repubblica di Turchia, Mustafa Kemal Atatürk. Di fronte si erge l’elegante, Sultanahmet camii , meglio conosciuta come la Moschea Blu, che deve il suo nome  dalle 21.043 piastrelle di ceramica turchese inserite nelle pareti e nella cupola, facendone il colore dominante nel tempio. Pareti, colonne e archi sono ricoperti dalle maioliche di İznik (l’antica Nicea), con toni che variano dal blu al verde. La Moschea Blu, che risale ai primi anni del 1600, è anche l’unica a poter vantare ben sei minareti, superata in questo solo dalla moschea della Ka’ba, alla Mecca, che ne ha sette. Secondo una leggenda popolare, questa particolarità è stata il frutto di un fraintendimento: l’espressione delle manie di grandezza del sultano Ahmed I, non potendo eguagliare la magnificenza della moschea di Solimano né quella della prospiciente Santa Sofia, non trovò soluzione migliore per cercare di distinguerla che i minareti in oro; ma l’architetto interpretò male le parole del sultano, capendo “altı” (in turco “sei”) anziché “altın” (oro). E poi l’Ippodromo, con l’obelisco di Teodosio e  la colonna Serpentina in bronzo e la bizantina Basilica Cisterna, la Yerebatan Sarnici.  Scoperta sul finire del XIX secolo, la cisterna fu costruita sotto il regno Giustiniano I, il periodo più prospero dell’Impero romano d’Oriente, nel 532. Oggi , millecinquecento anni dopo, si presenta come un ambiente incredibile, suggestivo, unico; un enorme spazio sotterraneo, in cui si trovano dodici file di 28 colonne alte 9 metri e distanziate di quasi cinque metri l’una dall’altra.

 

L’Occidente e il sogno dell’Oriente

Istanbul , com’è stata chiamata fin dalla conquista ottomana del 1453, ma com’è denominata ufficialmente solo all’indomani della Prima guerra ISTANBUL LUSTRASCARPEmondiale, è una sorpresa continua. “Nèa Ryme”, Nuova Roma, secondo il suo nome ufficiale, per gli amanti della storia. Costantinopoli, il suo vero nome, da sempre e per sempre. Un nome che evoca immagini mirabili: il sogno dell’Oriente, le lontananze raggiungibili attraverso il Bosforo e l’Anatolia. Le moschee, gli harem, i sufi danzanti, gli aromi del bazar delle spezie, il caos dei commerci e delle contrattazioni ad alta voce del Gran Bazar, il cibo e le stoffe, le ceramiche colorate e l’artigianato che riserva mille sorprese.  Si dice che da  mezzo millennio l’Europa identifica in quella sola città il prezioso anello di congiunzione fra l’antichità perduta e la modernità mai davvero raggiunta, fra il Levante e l’Occidente. Ed oggi, dentro questa megalopoli brulicante di vita, piena di suoni e profumi,  è normale e per certi versi inevitabile cercare le tracce d’un passato che in fondo appartiene a noi tutti  e che tuttavia, come ha scritto uno storico famoso “inseguiamo nel sogno orientalistico attraverso il quale l’Occidente cerca da secoli di definire se stesso”.

 

Oltre il ponte di Galata

 

Se si attraversa il ponte di Galata si può raggiungere la celebre torre di pietra, alta più di sessanta metri, con mura spesse quasi quattro. Quando venne costruita,  nel 1348 dai “ceneviz” , dai genovesi)  che la battezzarono Christea Turris (Torre di Cristo). In origine la torre faceva parte delle fortificazioni che circondavano la cittadella di Galata e quando venne edificata era l’edificio più alto della città. Galata (o anche Pera) è il nucleo storico situato nella parte nord del Corno d’Oro, l’insenatura che lo separa dal centro storico cittadino. Il Corno d’Oro è attraversato da parecchi ponti e  il più importante è proprio quello di Galata che, a differenza di quando pensano alcuni, non attraversa il Bosforo, ma collega solo le due parti della città vecchia (sul lato europeo) di Istanbul, scavalcando appunto il Corno d’Oro. Stando a quanto affermato dallo scrittore ottomano Evliya Çelebi, tra il 1630 e il 1632 ci fu chi ( pare si chiamasse  Hezarfen Ahmet Çelebi),  utilizzando delle ali artificiali, spiccò il volo dalla torre per sorvolare il Bosforo e atterrare a Üsküdar, quartiere che sorge a sei chilometri, nella zona asiatica della città. Vera o falsa che sia, quella dell’Icaro ottomano, resta comunque una bella storia.

 

La belle epoque del Pera Palace

Se si sale ancora non si può evitare una sosta al celeberrimo  Pera Palas , storico hotel costruito tra il 1892 e il 1895 allo scopo di ospitare i passeggeri dell’Orient Express, garantendo loro, nell’ultima tappa del viaggio iniziato dalla parigina Gare de l’Est, un alloggio paragonabile in eleganza e confort a quanto erano abituati in Europa.  Considerato “il più vecchio hotel europeo della Turchia”, dal taglio ibrido sospeso tra il neoclassico, l’art nouveau e lo stile orientale, tipico dell’architettura di Istanbul del diciannovesimo secolo, il  Pera Palas si presentò all’epoca come una meraviglia tecnologica: il primo edificio con alimentazione elettrica, dotato di acqua calda e del primo ascensore di tutta la città. Nelle sue stanze hanno alloggiato personalità e celebrità del mondo della cultura e dello spettacolo come Ernest Hemingway, Greta Garbo e Alfred Hitchcock, teste coronate, personaggi del jet set e donne misteriose come Mata Hari. La stanza 101, in cui era solito alloggiare Atatürk , il padre della Turchia moderna, laica e repubblicana, è stata adibita a museo in occasione del centesimo compleanno dello statista. In un’altra, la “411”, Agatha Christie scrisse il suo celebre romanzo  “Assassinio sull’Orient Express”. La “patisserie” del Pera Palace vale il prezzo del lusso di sedersi sui divanetti damascati, sorseggiare un tè nelle tazze di porcellana, accompagnandolo con prelibati dolci, dai macaron alla tarte tatin e alle varie leccornie della tradizione francese. E per sottofondo, musica d’altri tempi, soffusa, avvolgente come la nebbiolina sulla Senna nelle foto virate seppia d’inizio novecento.

I manifesti di Davutoğlu

 

Riattraversando il ponte di Galata, poco distante, c’è la stazione di Sirkeci, il terminale dell’Orient Express. “Istanbul Gar”, dice la scritta fuori all’ingresso. Dentro ci si può sedere nelle sale d’attesa con le loro panche di legno e le vetrate colorate attraverso le quali traspaiono le luci del porto; sulle pensiline di legno dipinto color crema si aspettava l’arrivo del treno più affascinante di tutti i tempi. Attesa che, oggigiorno, si protrae piuttosto a lungo, considerato che  nell’arco dei dodici mesi c’è un’unica corsa tra Parigi e Istanbul, a costi proibitivi. La cosa che colpiva, nella frenesia della vita di questa metropoli, era l’invadente, ossessiva,dilagante propaganda elettorale del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Ovunque campeggiava il volto di Ahmet Davutoğlu, il primo ministro turco. La Turchia si preparava ( l’appuntamento era fissato per il 7 giugno) ad andare alle urne per il rinnovo della Grande assemblea nazionale, il parlamento unicamerale del paese formato da 550 deputati eletti ogni 4 anni con un sistema proporzionale. La campagna elettorale molto spinta e quasi univoca, rendeva chiara la posta in gioco in un voto cruciale per le aspirazioni di Erdoğan, che voleva imprimere al paese una “svolta presidenziale” attraverso una riforma costituzionale. Per avere i voti necessari a far approvare la riforma, l’Akp doveva puntare a guadagnare almeno i tre quinti dei seggi. Nel sistema parlamentare turco, il presidente della repubblica ha un ruolo di garante, super partes e neutrale. Nei progetti di Erdoğan c’era invece una riforma presidenzialista in cui la divisione dei poteri fosse ridotta al minimo con un accentramento nelle mani del capo dello stato.

 

ISTANBUL MOSCHEA BLUIl tramonto dei sogni del “sultano”

Il voto dei cittadini ha però infranto i sogni  autoritari del “sultano” Recep Tayyip Erdoğan . A sbarrare il passo al presidente turco è stato il quarantenne Selahattin Demirtas, leader dell’Hdp, il partito filocurdo, definito lo “Tsipras turco”,  che è riuscito nell’ incredibile impresa di superare la soglia del 10% e sbarcare in Parlamento con una ottantina di  deputati (12,9%).  Per la prima volta dal 2002 il partito filoislamico  ( che ha perso quasi il 10%) non è in grado di formare un governo monocolore. Erdoğan aveva trasformato la contesa elettorale  in un referendum sulla sua riforma presidenziale , raccogliendo così un giudizio negativo.  Se le elezioni del 7 giugno hanno riconfermato la vitalità della democrazia turca, la sua  maturità democratica e un certo dinamismo della popolazione ( ha votato l’85 % degli aventi diritto) , chiudendo un’epoca , rimane l’incertezza della transizione che potrebbe rivelarsi un percorso accidentato. Ma questa è un’altra storia. Intanto, chi rischia il posto è proprio l’onnipresente primo ministro che, all’ombra del Presidente, non ha certo brillato e potrebbe essere “scaricato” quanto prima da Erdoğan.

 

Gallipoli,1915

Sui muri, campagna elettorale a parte,non era infrequente vedere affissi i  manifesti che ricordavano una mostra (ancora visitabile) o una celebrazione (appena svolta) del centenario dell’inizio della battaglia di Gallipoli – il 25 aprile 1915 – in cui l’Impero ottomano respinse l’offensiva della Triplice Intesa che puntava al controllo dello Stretto dei Dardanelli. La battaglia di Gallipoli durò nove mesi e causò 130 mila morti. Nove mesi di carneficina che non portarono ad alcun risultato sul terreno, ma che contribuirono a forgiare le identità nazionali di vari Stati. Infatti, in Turchia, questa battaglia costituì una svolta nella storia nazionale. Respingendo l’invasione occidentale, l’esercito dell’Impero Ottomano, alleato degli Imperi Centrali, forgiò il mito di Mustafa Kemal Atatürk, all’epoca giovane ufficiale, che pochi anni dopo fondò la Turchia moderna. Nessuno dubita che il secolare anniversario dello sbarco, ricordato come una delle peggiori sconfitte delle potenze occidentali durante il primo conflitto mondiale, è stato amplificata di molto anche per un altro scopo. Non occorre essere maliziosi per immaginare l’intenzione, del governo turco, di  mettere in ombra l’anniversario del genocidio armeno” riferendosi al massacro di circa un milione e mezzo di persone. Il fatto d’aver anticipato di un giorno le celebrazioni di Gallipoli ( al 24 aprile, anziché al giorno seguente)  non fa che confermare questa tesi.

 

L’altro centenario, “il grande crimine”

 

I massacri della popolazione cristiana  avvenuti in Turchia tra il 1915 e il 1916 sono ricordati dagli armeni come il Medz yeghern, “il grande crimine”. Le uccisioni cominciarono nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915, quando furono eseguiti i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli. L’operazione continuò nei giorni successivi. In un mese più di mille intellettuali armeni, tra cui giornalisti, scrittori, poeti e parlamentari furono deportati verso l’interno dell’Anatolia. Secondo lo storico polacco Raphael Lemkin ( l’uomo che ha coniato il termine genocidio) si è trattato del primo episodio in cui uno stato ha pianificato ed eseguito sistematicamente lo sterminio di un popolo. La Turchia però non ha mai accettato la definizione di genocidio, sostenendo che le uccisioni compiute dall’impero Ottomano erano una risposta all’insurrezione degli armeni e alla necessità di difendere le sue frontiere. Di fatto è la storia che non passa, anche se sono trascorsi cento anni. Lo si è visto dalle reazioni del Governo turco alle parole di papa Francesco sul “genocidio”, pronunciate a San Pietro. Lo si è visto, viceversa, nelle parole  delle autorità armene. Due posizioni differenti, contrapposte,ostili: gli armeni rivendicano il genocidio e i turchi parlano di un dramma tra tanti altri drammi dell`Impero ottomano in guerra. Alle spalle ci sono decenni di negazione, polemiche, dolori. Intanto le frontiere tra Armenia e Turchia sono chiuse. Ma perché è così difficile parlare di genocidio armeno? “Perché fissa l’orrore dell’annientamento sistematico di un intero popolo, rende visibili gli scomparsi, oltre un milione di persone mandate a morire secondo un progetto preciso. E ha tutto il peso di un crimine che non cade in prescrizione”. Le parole usate in un’intervista da Antonia Arslan, scrittrice di origine armena, autrice de “La masseria delle allodole” cadono come pietre e l’atteggiamento stizzito e negazionista di Erdogan e del suo governo fanno intendere quanto sia ancora lungo e periglioso il cammino di riconciliazione tra popolo armeno e popolo turco.

Il punto di partenza di tutte le strade

ISTANBUL CISTERNASi dice, proverbialmente, che “tutte le strade portano a Roma” e precisamente in un punto, nel Foro Romano, dove  nel  20 a.C. Augusto, con l’idea di organizzare e riordinare l’impero, fece costruire una colonna rivestita di bronzo dorato che indicava il punto di partenza di tutte le strade, il punto da cui ogni distanza da allora in poi si sarebbe misurata. Lo stesso vale per Costantinopoli-Istanbul dove, nei pressi della Cisterna e di Santa Sofia s’incontra  un modesto pilastro di pietra sbrecciato, seminascosto, sul quale di solito le guide turistiche sorvolano. Quel pilastro è il Milion o Miliarium, il Milliario d’Oro, tutto quel che rimane del Tetrastoon, il quadriportico dell’Augusteion costantiniano dal quale, come a Roma, iniziavano le strade e si misuravano le distanze per tutto l’impero. Una moderna cartellonistica, a fianco, indica le distanze delle principali città del mondo e con un po’ di fantasia ci si sente davvero al centro del vecchio mondo, dove Oriente e Occidente si uniscono in un mosaico di civiltà. Come direbbe Paolo Rumiz, evocando il nostro immaginario, l’Occidente e l’Oriente intesi come “un portale che schiudeva mondi nuovi”, rimpiazzato frettolosamente oggigiorno con dei freddi monosillabi astronomici: “Ovest” e “Est”.

Eyüp, a nord del Corno d’Oro

ISTANBUL CIMITEROInfine, Eyüp, il meraviglioso quartiere posizionato nella parte settentrionale del  Corno d’Oro. Ci si arriva da Eminönü con l’autobus o in alternativa con un taxi ( è raccomandabile contrattare la tariffa, per evitare sorprese). Si respira un’aria del tutto particolare in questo quartiere religioso che reclama rispetto. E’ a Eyüp che s’incontra una delle moschee più suggestive di Istanbul:  la più sacra di tutte, una di quelle che solitamente  i turisti ignorano, intenti a visitare le altre, più note e celebrate.  La moschea di Eyüp – per essere precisi, la Eyüp Sultan Camii – è tutt’altra cosa: una delle più antiche (se non la più antica, secondo molte fonti) della città, famosa perché sacra proprio in virtù della tomba di Eyyûb/Eyüp, porta-stendardo del Profeta Maometto morto durante l’assedio arabo del VII secolo e poi apparso in sogno per svelare il luogo della sua sepoltura e dare nuova carica nel corso dell’assedio vincente del 1453. Tutt’attorno si trovano le tombe di alti dignitari ottomani, ed era il luogo in cui i nuovi sultani venivano consacrati dal Gran maestro sufi. Da lì paret la teleferica che porta al Pierre Loti Cafè ( dedicato allo scrittore francese che amava Istanbul) da dove si può godere una meravigliosa vista sul Corno d’Oro e sulla città “delle mille e una notte”. Indimenticabile, unica, è una città che lascia il segno. Ci si può innamorare e Istanbul, a quel punto, rubata l’anima, non la lascerà più fuggire.

 

Marco Travaglini

Muore a 25 anni investito da auto e camion in autostrada

Cronache italiane

DALLA LIGURIA

Un ragazzo di 25 anni, originario del Brasile ma fino a pochi mesi fa residente a Carcare, nel Savonese, è morto  investito da alcune auto e da un camion sull’autostrada A6 tra i caselli di Millesimo e Altare, in Liguria. La polizia cerca di capire perché  il giovane stesse percorrendo a piedi quel tratto di autostrada. Tra le ipotesi al vaglio anche quella di un guasto all’automobile o che fosse stato fatto scendere da qualcuno per arrivare alla sua casa, proprio sotto il tratto in cui è morto.

Edelman, l’eroe della rivolta del ghetto di Varsavia

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Cercarono in ogni modo, dentro al ghetto, di continuare il filo della vita di prima, fino ad organizzare la resistenza che diede vita, in una smisurata sproporzione di forze, alla prima rivolta armata contro i tedeschi sul suolo dell’Europa occupata dai nazisti

Recentemente mi sono capitati tra le mani due volumi: C’era l’amore nel ghetto di Marek Edelman e Arrivare prima del signore Iddio, conversazione con Marek Edelman (nella foto)  di Hanna Krall. Edelman, poco più che ventenne, divenne il vicecomandante del Zob (Organizzazione ebraica di combattimento) e guidò la rivolta del ghetto di Varsavia che, con poche armi e qualche chilo di esplosivo, tenne in scacco la strapotenza nazista dal 19 aprile al 10 maggio 1943. La rivolta che provocò l’incendio e la distruzione del ghetto, sopraggiunse dopo che già 300 mila dei suoi residenti coatti erano stati uccisi nelle camere a gas di Treblinka. Non aspettarono passivamente di morire; non si avviarono alle camere a gas “come le pecore al macello”.Cercarono in ogni modo, dentro al ghetto, di continuare il filo della vita di prima, fino ad organizzare la resistenza che diede vita, in una smisurata sproporzione di forze, alla prima rivolta armata contro i tedeschi sul suolo dell’Europa occupata dai nazisti. Fra i pochi superstiti, Edelman combatté l’anno dopo nell’insurrezione della città. Cresciuto alla scuola del Bund, il partito socialista dei lavoratori ebrei, ai suoi ideali rimase fedele. Dopo la guerra, cardiologo all’ospedale di Lodz, è stato più volte licenziato e arrestato dal regime stalinista, fino alla vittoria di Solidarnosc. In nome degli ideali democratici che hanno caratterizzato tutta la sua esistenza, negli anni ’90 si è schierato al fianco della popolazione di Sarajevo durante l’assedio da parte dei serbi. Straordinaria anche la testimonianza che racconta a Hanna Krall, unendo l’esperienza di combattente a quella di cardiologo a guerra finita. Due vicende così distanti l’una dall’altra e invece paradossalmente vicine perché in entrambi i casi bisognava salvare delle vite avendo cura della dignità delle persone, e occorreva  “arrivare prima del Signore Iddio”.Marek Edelman, grezzo eroe  del ’900, ha sempre rifiutato di lasciare la Polonia e rifugiarsi in Israele. Si considerava il guardiano delle tombe si era dichiarato il guardiano. È morto, novantenne, il 2 ottobre del 2009. Ricordarlo è più che un dovere.

 

Marco Travaglini

L’infinita attesa. Il silenzio del mondo musulmano su Asia Bibi

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Mentre l’Occidente sta facendo di tutto per salvare Asia Bibi, la donna cattolica pakistana, madre di cinque figli, condannata a morte per blasfemia, un reato in realtà mai commesso, spingendosi anche a colorare di rosso sangue i più importanti monumenti europei in segno di protesta, nel mondo musulmano si tace. Silenzio di tomba. Nessuno commenta la sorte della donna, ancora bloccata in Pakistan nonostante sia stata assolta dall’accusa di blasfemia. Silenzio anche da illustri personalità pakistane come il Premio Nobel Malala Yousafzai e il sindaco di Londra Sadiq Khan che per ora tacciono. La sorte di Asia Bibi, la cui vicenda risale al giugno 2009, è simile a quella che nei Paesi islamici subiscono cristiani, ebrei, atei e musulmani poco ortodossi. Riprendiamo dall’Agenzia “Asia News” l’intervento di un giovane insegnante musulmano algerino che vive a Parigi. L’autore racconta il dramma di Asia Bibi, condannata a morte, poi assolta e ora in attesa di una revisione della sentenza della Corte Suprema, chiesta dai partiti islamisti pakistani a cui il nuovo governo guidato da Imre Khan non è riuscito ad opporsi o non ha voluto farlo. In Pakistan il reato di blasfemia viene punito spesso con la pena di morte.

Il testo:
Il mondo musulmano pare essere accecato dalla sua fede! Esso è sordo e muto quando si tratta di un cristiano, un ebreo, o un non musulmano che subisce ingiustizia. Vi è altra spiegazione? Asia Bibi resta una sconosciuta, anche se gran parte del mondo musulmano era al corrente della sua condanna da parte delle autorità pakistane. Una condanna paragonabile a quella emessa da Daesh contro i cristiani e gli Yazidi in Iraq. Nessuno si è indignato; nessun musulmano ha manifestato davanti all’ambasciata di quel Paese. È un silenzio complice o solo indifferenza? Sorgono tante domande legittime. Evidentemente, non si domanda chissà cosa, solo un minimo di solidarietà verso una donna che continua a subire ingiustizie, nonostante sia stata scagionata. Asia Bibi è solo uno dei tanti casi sofferti dalle minoranze religiose in Pakistan, un Paese la cui costituzione e giustizia sostengono la sharia sunnita. Un Paese che è affondato nell’estremismo religioso, uno Stato islamista che detiene delle armi nucleari. In pratica, un Daesh riuscito, come l’Iran e l’Arabia saudita. Un Paese dove gli islamisti pesano davanti alle decisioni della Corte suprema pakistana.


Torniamo a quello che è successo a questa cristiana, lavoratrice a giornata, nel giugno 2009: si è scatenata una disputa fra lei e le sue colleghe musulmane, mentre raccoglievano insieme delle bacche. Le musulmane le hanno detto che in quanto non musulmana, Asia Bibi aveva sporcato un recipiente da cui tutti bevevano, rendendolo inutilizzabile. La disputa è continuata, e ognuna delle donne accusava l’altra di aver insultato la propria religione. Qualche giorno più tardi, Asia Bibi è stata battuta e portata in prigione. Durante il suo processo, essa ha insistito sulla sua innocenza e ha negato di aver fatto alcuna dichiarazione ostile all’islam. La giustizia pakistana, ispirata alla sharia, l’ha condannata a morte nel novembre 2010. Una sorte riservata a tutti coloro che sono “blasfemi”, anche per i musulmani che hanno una visione religiosa differente da quella sunnita. Otto anni più tardi, dopo sforzi erculei da parte dei suoi avvocati difensori, la giustizia pakistana decide di rivedere la sentenza e finisce per riconoscere l’innocenza di questa cristiana. Mentre gli umanisti del mondo intero si aspettavano che il popolo pakistano benedicesse questa decisione salutare da parte della Corte suprema, alcune voci integriste di islamisti si oppongono a questa decisione e alcuni giorni dopo finiscono per ottenere una procedura che la impedisce di lasciare il Paese [volendo rivedere la sua sentenza di innocenza]. Che significa: gli islamisti vogliono la sua impiccagione, nient’altro!


Ciò che è ancora più aberrante è che nonostante la sua domanda di asilo in Gran Bretagna, le autorità inglesi non le hanno accordato questo diritto. Giorni prima, tre imam e eminenti personalità musulmane del Regno Unito scrivono una lettera al ministro degli interni Sajid Javid. Nella lettera essi domandano di dichiarare in maniera “chiara e pro-attiva” che la Gran Bretagna “sarebbe felice di ricevere la domanda di asilo” da parte di Asia Bibi. Questo fa capire fino a che punto gli islamisti fanno paura: se le autorità britanniche sono contrarie a ricevere Asia Bibi sul loro suolo, è perché hanno paura di attacchi terroristi. E questo è comprensibile in parte. Ma dico questo perché non capisco come mai questo Paese sia contraria all’esilio di una donna cristiana minacciata di morte e d’altro canto, lo stesso Paese sia favorevole ad accogliere islamisti egiziani, algerini, sauditi, pakistani. È un grande punto interrogativo.  Pertanto voglio denunciare questa ingiustizia, questo integrismo e l’inferno che si fa subire nel mondo musulmano a cristiani, ebrei, atei, e perfino musulmani non sunniti. Gli Stati cosiddetti musulmani sono oggi in modo implicito degli Stati che incarnano l’intolleranza verso le minoranze religiose. Sono deluso da questa decadenza e integrismo che colpisce il mondo musulmano di cui l’interpretazione dei testi religiosi sono purtroppo la benzina e il motore. Per questo molti imam chiedono una riforma religiosa seria, come quella compiuta a suo tempo dal cattolicesimo in Europa.

Anziana lancia acido sul volto di un commesso del supermercato

DALLA SICILIA

Una donna di 79 anni avrebbe gettato dell’acido sul viso di un commesso di un supermercato di  Alessandria della Rocca, nell’Agrigentino. La donna è stata identificata e arrestata dai carabinieri, con l’accusa di lesioni personali gravissime. da chiarire il movente dell’aggressione. Il commesso, di 49 anni, un quarantanovenne, è stato portato dall’elisoccorso e al reparto grandi ustioni dell’ospedale di Palermo in prognosi riservata.

Nuove vittime sulle strade: un morto e tre feriti

DALLA PUGLIA 

Un uomo è morto e tre persone  ferite, di cui una in modo grave. E’ il bilancio dell’incidente stradale avvenuto  sulla statale 17  Foggia – Lucera. La vittima è Mario Franciolini, di 45 anni, di Tricarico. I feriti sono due anziani, la mamma della vittima, di  73 anni e lo zio di 74, che viaggiavano a bordo di un’Alfa 147. Secondo la ricostruzione la vittima era alla guida della vettura quando, per cause in corso di accertamento, ha tamponato un furgone Fiat Ducato, il cui conducente è rimasto ferito.

Terra di frontiera: nei Balcani il destino del “secolo breve” (Seconda parte)

BOSNIA BANDIERAREPORTAGE di Marco Travaglini – La Bosnia-Erzegovina è un crocevia, tra le Alpi Dinariche, la Croazia e la Serbia. E’ nel proprio nome che questi luoghi svelano il proprio destino. Bosnia deriva dal fiume Bosna che nasce nei dintorni di Sarajevo. In illirico “boghi-na” significa “scorrente” mentre Erzegovina sta per “Ducato”, quale fu l’intera zona dei Balcani occidentali dalla metà del 1400. E’ un po’ ardito tradurre il tutto in “Ducato scorrente” ma aiuta a  cogliere l’essenza di una terra che ha visto scorrere la storia, passare regni e popoli, culture e religioni. Terra di frontiera, “limes” che riassume tanti destini nella porta d’accesso e transito tra Oriente e Occidente

SECONDA PARTE

Jasenovac, l’Auschwitz dei Balcani

Dopo un viaggio di alcune ore, appena varcata la frontiera con la Croazia, arriviamo a Jasenovac.  Quando si pensa ai campi di concentramento tornano alla memoria i lager in Germania,Austria, Polonia o in Repubblica Ceca. Ma c’è anche “l’Auschwitz dei Balcani”, questo terribile campo di Jasenovac, in Croazia, creato dalle forze ustascia di Ante Pavelic,con la collaborazione dei nazisti tedeschi e dei fascisti italiani. Il campo di concentramento si trova ad un centinaio di chilometri a sud-est di Zagabria e  venne costruito tra l’agosto del 1941 e il febbraio del 1942 proprio sulle rive del fiume Sava, che segnano il confine naturale tra la Croazia e la Bosnia-Erzegovina. All’entrata c’era scritto: “Red, Rad, Stega”, cioè “Ordine, Lavoro, Disciplina. In seguito all’alleanza dei croati ustascia con le potenze dell’Asse e con la conseguente adozione da parte di Zagabria dell’ideologia razzista, il campo di Jasenovac doveva essere destinato, per i nazisti –  principalmente a ebrei, oppositori politici e zingari. I croati, invece, aggiunsero un elemento in più, considerandolo il luogo adatto in cui internare e distruggere la popolazione serba. Cosìil maggior numero di vittime del campo furono per lo più serbi (il 56 per cento degli internati), oltre agli ebrei, zingari (quasi sempre uccisi non appena mettevano piede a Jasenovac), bosgnacchi (bosniaci musulmani), dissidenti croati e in generale tutti i membri della resistenza, compresi i partigiani e i loro simpatizzanti, etichettati dagli ustascia come “comunisti”. Le condizioni di vita erano simili a quelle degli altri campi di concentramento sparsi per l’Europa: cibo scarso, alloggi con pessime condizioni igieniche, undici, dodici ore di BOSNIA JASENOVAKduro lavoro, uccisioni e torture. Nei primi tempi molti detenuti furono costretti a dormire all’aperto perché non erano ancora state completate le baracche. Per la mancanza d’acqua, in tantissimi bevvero l’acqua del fiume Sava e frequenti erano le epidemie di tifo, malaria, dissenteria e difterite. Le guardie permettevano ai prigionieri di lavare i loro pochi indumenti una volta al mese nel fiume. Solo chi aveva particolari abilità professionali, come medici, farmacisti, orefici e calzolai, aveva un trattamento un po’ più umano. Per tutti gli altri toccava subire le angherie degli ustascia. Nell’agosto del ’42 nacque una scommessa tra le guardie su chi avesse massacrato il maggior numero dei prigionieri, che venivano uccisi con coltelli, mazze e spranghe, per risparmiare sui proiettili. Ad Jasenovac vennero utilizzati i forni della fabbrica di mattoni come  crematori, per un breve tempo e lì trovarono la morte donne e soprattutto bambini (almeno 20mila tra zingari, serbi ed ebrei). L’inferno finì nella primavera del 1945.Il 22 aprile circa 600 prigionieri si ribellarono, ma le guardie ne uccisero la stragrande maggioranza e solo in 80 riuscirono a fuggire. Prima di abbandonare definitivamente il campo, gli ustascia uccisero i restanti detenuti e diedero fuoco agli edifici, alle fornaci, alle camere di tortura e a tutto ciò che potesse testimoniare le atrocità commesse. Oggi, quello che rimane è un memoriale in ricordo delle vittime e un enorme dibattito nato tra i serbi e i croati sul numero dei morti, laddove i primi parlano di circa mezzo milione e i secondi cercano di impostare le cifre al ribasso. Secondo le fonti più accreditate, a Jasenovac persero la vita circa 100mila persone, di cui 45-52mila serbi, 15-20mila zingari (questo però è il dato più controverso e di difficile verificabilità), tra i 12 e i 20mila ebrei, e tra i 5 e i 12mila croati e bosgnacchi. E anche, leggendo l’elenco, diciotto italiani dei quali una donna. Fuori dal mausoleo, nell’aperta campagna che ospitò le baracche e le strutture del campo, sorge il “Fiore di Jasenovac”, il monumento-simbolo progettato dall’architetto e artista serbo Bogdan Bogdanovic. Tutt’attorno, nel terreno reso paludoso dalla pioggia e dalle frequenti esondazioni della Sava, s’intravedono i tumuli che fanno parte dell’assetto paesaggistico del memoriale. Piccole alture erbose che si ergono dove c’erano le baracche e dove i detenuti conobbero atrocità, sofferenze ed esecuzioni. Il tutto in un paesaggio silenzioso, in un luogo – come Bogdanovic stesso volle indicare – “angoscioso, profanato dal crimine”.

 

Zagabria

ZAGABRIABella, elegante Zagabria, dal profilo austro-ungarico,ci accoglie senza la pioggia fastidiosa che ci ha accompagnati per il resto del viaggio. La capitale della Croazia, adagiata tra le pendici meridionali del monte Medvednica e la sponda nord della Sava, è da sempre un centro importantissimo per gli scambi e per i traffici tra l’Europa centrale e l’Adriatico. Una città che offre una forte immagine di sé, coesa, unita. Pensare che durante il XIV secolo e quello successivo, era divisa in due centri – Gradec e Kaptol – che cercarono costantemente di danneggiarsi a vicenda. Al tempo di quelle lunghe dispute, la città vescovile poteva scomunicare Gradec, che rispondeva con i fatti, incendiando la rivale. I due centri collaboravano solo per motivi commerciali, come le tre grandi fiere, della durata di due settimane, che si svolgevano nel corso dell’anno. Solo all’inizio del XVII secolo, Gradec e Kaptol divennero un’unica città, Zagabria. Durante gli anni della seconda guerra mondiale, dal 1941 al 1945, Zagabria fu la capitale dello Stato Indipendente di Croazia retto da Ante Pavelić, leader degli Ustascia, i croati ultra-nazionalisti che promossero la pulizia etnica dello stato contro i serbi, gli ebrei e i rom. Al termine del conflitto la città divenne capitale della Repubblica Socialista di Croazia. Quarantasei anni dopo la liberazione, nel 1991,l’allora presidente Franjo Tuđman dichiarò l’indipendenza della Croazia, scatenando la reazione bellica della Serbia.

 

Lubiana

LUBIANAAnche Lubiana, capitale della Repubblica Slovena è un gioiello d’arte e architettura, con il suo centro storico in stile barocco e Art Nouveau. Ciascun quartiere conserva la sua impronta storica: medioevale, barocca o liberty anche se, tutta la città porta il segno  delle incredibili opere dell’ architetto urbanista Jože Plečnik a cui, dagli Anni Venti fino all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, venne affidato il compito di ridisegnare la città adattandola secondo i suoi gusti. Ovviamente l’intera città risente molto dell’influenza della vicina Austria. Sulla collina, di Grajska Planota la severa moledel castello domina dall’alto la città adagiata sul fiume Ljubljanica  e il centro storico dove si trovano   i maggiori monumenti. Anche Lubiana è un crocevia della storia balcanica e ,durante il secondo conflitto mondiale, nel 1941, fu occupata e annessa dall’Italia. L’intera città e il territorio circostante (la Bassa Carniola) divennero così una provincia italiana della regione Venezia Giulia, di cui Lubiana fu capoluogo con sigla automobilistica LB. Per contrastare la rivolta della popolazione locale, nella notte fra il 22 e il 23 febbraio 1942, le autorità militari italiane cinsero con filo spinato e reticolati l’intero perimetro di Lubiana,disponendo un ferreo controllo su tutte le entrate e le uscite. Il recinto era lungo ben 41 chilometri e furono arrestati circa 19 mila uomini, dei quali poco meno di un migliaio  furono deportati nei campi di concentramento. Le violenze non terminarono lì e, fino all’8 settembre 1943, le autorità militari italiane fucilarono, per rappresaglia, oltre 100 ostaggi presso la cava abbandonata Gramozna jama, nella periferia di Lubiana. Dopo l’occupazione tedesca del Litorale Adriatico nel maggio 1945, esercito del Reich e milizie nazionaliste slovene si arresero all’armata partigiana  di Tito. Così,fino all’indipendenza del 1991, la città divenne capitale della Repubblica socialista di Slovenia.Dopo una breve tappa a Capodistria, il nostro viaggio prosegue verso Trieste.

 

Risiera di San Sabba (Trieste)

La visita alla Risiera di San Sabba è d’obbligo. Il grande complesso di edifici dello stabilimento per la pilatura del riso – costruito nel 1898 nel periferico rione di San Sabba – venne dapprima utilizzato dall’occupatore nazista come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 ( lo Stalag 339). Poim verso la fine di ottobre di quell’anno, venne strutturato come Polizeihaftlager (Campo di detenzione di polizia), destinato sia allo smistamento dei deportati in Germania e in Polonia e al deposito dei beni razziati, sia alla detenzione ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei.

Nel primo stanzone posto alla sinistra di chi entra c’era la “cella della morte”. Qui venivano stipati i prigionieri tradotti dalle carceri o catturati in rastrellamenti e destinati ad essere uccisi e cremati nel giro di poche ore. Secondo testimonianze, spesso venivano a trovarsi assieme a cadaveri destinati alla cremazione. Proseguendo sempre sulla sinistra, si trovano, al pianterreno dell’edificio a tre piani in cui erano sistemati i laboratori di sartoria e calzoleria, dove venivano impiegati i prigionieri, nonché camerate per gli ufficiali e i militari delle SS, le 17 micro-celle in SAN SABBAciascuna delle quali venivano ristretti fino a sei prigionieri, Queste celle erano riservate ai partigiani, ai politici, agli ebrei, destinati all’esecuzione a distanza di giorni, talora settimane. Le due prime celle venivano usate a fini di tortura o di raccolta di materiale prelevato ai prigionieri: vi sono stati rinvenuti, fra l’altro, migliaia di documenti d’identità, sequestrati non solo ai detenuti e ai deportati, ma anche ai lavoratori inviati al lavoro coatto (tutti i documenti, prelevati dalle truppe jugoslave che per prime entrarono nella Risiera dopo la fuga dei tedeschi, furono trasferiti a Lubiana, dove sono attualmente conservati presso l’Archivio della Repubblica di Slovenia). Le porte e le pareti erano ricoperte di graffiti e scritte: l’occupazione dello stabilimento da parte delle truppe alleate, la successiva trasformazione in campo di raccolta di profughi, sia italiani che stranieri, l’umidità, la polvere, l’incuria – in definitiva – degli uomini hanno in gran parte fatto sparire graffiti e scritte. Ne restano a testimonianza i diari dello studioso e collezionista Diego de Henriquez (ora conservati dal “Civico Museo di guerra per la pace” a lui intitolato), ove se ne trova l’accurata trascrizione; alcune pagine sono riprodotte nel percorso della mostra storica. Nel successivo edificio a quattro piani venivano rinchiusi, in ampie camerate, gli ebrei e i prigionieri civili e militari destinati per lo più alla deportazione in Germania: uomini e donne di tutte le età e bambini anche di pochi mesi. Da qui finivano a Dachau, Auschwitz, Mauthausen, verso un tragico destino che solo pochi hanno potuto evitare. Nel cortile interno, proprio di fronte alle celle, sull’area oggi contrassegnata dalla piastra metallica, c’era l’edificio destinato alle eliminazioni – la cui sagoma è ancora visibile sul fabbricato centrale – con il forno crematorio. L’impianto, al quale si accedeva scendendo una scala, era interrato. Una canale sotterraneo, il cui percorso è pure segnato dalla piastra d’acciaio, univa il forno alla ciminiera. Sull’impronta metallica della ciminiera sorge oggi una simbolica Pietà costituita da tre profilati metallici a segno della spirale di fumo che usciva dal camino. L’edificio del forno crematorio e la connessa ciminiera vennero distrutti con la dinamite dai nazisti in fuga, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, per eliminare le prove dei loro crimini, secondo la prassi seguita in altri campi al momento del loro abbandono. Tra le macerie furono rinvenute ossa e ceneri umane raccolte in tre sacchi di carta, di quelli usati per il cemento. Tra le macerie, fu inoltre rivenuta la mazza la cui copia, realizzata e donata da Giuseppe Novelli nel 2000, è ora esposta nel Museo (l’originale è stato trafugato nel 1981). Triestini, friulani, istriani, sloveni e croati, militari, ebrei: bruciarono nella Risiera alcuni dei migliori ”quadri” della Resistenza e dell’Antifascismo. Quante sono state le vittime? Calcoli effettuati sulla scorta delle testimonianze danno una cifra tra le tre e le cinquemila persone soppresse in Risiera. Ma in numero ben maggiore sono stati i prigionieri e i ”rastrellati” passati dalla Risiera e da lì smistati nei lager o al lavoro obbligatorio.

 

Trieste, molo Audace

Il cerchio sta per chiudersi e seppure il nostro viaggio finirà a Torino, dove è iniziato, l’ultima tappa a Trieste – lasciata la Risiera – è qui: al molo Audace, in pieno centro città, a pochi passi da Piazza Unità d’Italia, sul molo che  separa il bacino di San Giorgio dal bacino di San Giusto del Porto Vecchio. Esattamente lì dove, cent’anni fa (al tempo in cui era ancora chiamato Molo San Carlo) ,gettò l’ancora la corazzata austriaca Viribus Unitis, sbarcando le salme dell’Arciduca  Francesco Ferdinando e della moglie Sofia,morti in quell’attentato di Sarajevo che cambiò la storia del Novecento. Lì, dove il  3 novembre del 1918, alla fine della prima guerra mondiale, la prima nave della Marina Italiana ad entrare nel porto di Trieste e ad attraccare al molo San Carlo fu il cacciatorpediniere Audace, la cui ancora è ora esposta alla base del faro della Vittoria. E’ un luogo simbolico, degli arrivi e degli incontri, nella città stretta tra il Carso e il mare. TRIESTERiassume un po’ l’intero confine orientale che è stato spazzato di continuo dai venti della Grande Storia. Un mosaico di mare, rilievi ed altopiani che è stato teatro di incontri e di scontri.Le battaglie maledette della Prima Guerra Mondiale, il pugno duro del fascismo di frontiera, le crudeltà della seconda Guerra Mondiale, con l’occupazione nazista, il ruolo del fascismo di Salò, la dura lotta partigiana jugoslava, l’orrore delle foibe, l’esodo imposto agli Italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia e l’imposizione di confini di Stato nel 1947 hanno soffocato queste  terre tra violenze e fili spinati, sfregiando e prosciugando un’antica e variopinta comunità di genti. Sul confine orientale le linee di confine hanno diviso come mannaie il territorio, prima tra Italia e Jugoslavia, e poi – nel 1991 – fra Italia, Slovenia e Croazia, spezzando tragicamente comunità, famiglie,esistenze individuali, abitudini quotidiane e commerci di lungo corso, segnando per decenni la vita pubblica di quelle terre. E più in giù, in terra erzegovese e bosniaca, dove i ponti che univano furono abbattuti e il “secolo breve”, il Novecento, iniziò cent’anni fa a Sarajevo, per finire poi, nel sangue dei conflitti e degli assedi con le guerre di dissoluzione della Jugoslavia negli anni ’90.

 

 Marco Travaglini

Fine

(La prima parte è stata pubblicata ieri nella sezione DALL’ITALIA E DAL MONDO)