Dall Italia e dal Mondo- Pagina 48

E’ in coma il fabbro ferito gravemente in un agguato

DALLA PUGLIA  E’ in coma farmacologico il  fabbro di 41 anni che è stato gravemente ferito ieri sera con cinque colpi di pistola che lo hanno raggiunto all’addome e alle braccia, a Margherita di Savoia. L’uomo è stato accompagnato all’ospedale di Barletta da due persone su un Suv, che sono però fuggite. Le sue condizioni sono preoccupanti. E’ stato sottoposto a un intervento chirurgico per una  emorragia toracica .I carabinieri hanno ascoltato diverse persone tra i parenti e amici della vittima.

Il futuro incerto del Medio Oriente. Ma c’è ottimismo

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

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A Baghdad la situazione è migliorata per tutti gli iracheni, non solo per i cristiani. Ci sono meno attacchi armati e attentati. La sicurezza è aumentata restituendo un po’ di serenità agli iracheni

È ottimista sul futuro del suo Paese il Patriarca di Baghdad cardinale Mar Louis Sako intervenuto a Torino a un convegno sul Medio Oriente promosso dal Centro Federico Peirone. “È vero, arrivano ancora notizie di assalti e scontri armati nella capitale ma riguardano soprattutto sunniti e sciiti che si scontrano tra loro nei quartieri della capitale. Nel resto dell’Iraq centinaia di famiglie cristiane sono tornate a casa e tante altre stanno per tornare”. La Chiesa caldea ha aiutato queste famiglie a ricostruire le abitazioni. Su 20.000 famiglie più di 9000 hanno fatto ritorno nella Piana di Ninive da cui i cristiani erano fuggiti di corsa all’arrivo dei miliziani dell’Isis nell’agosto 2014. Ora, ha aggiunto il capo della Chiesa cattolica caldea, dobbiamo di cercare di farli rientrare tutti nel loro Paese. In queste terre i cristiani sono le radici del Cristianesimo, senza di noi cosa sarebbe il Medio Oriente…” . Sono pochi i cristiani nella Terra dei due Fiumi ma possono dare una mano concreta alla ricostruzione del Paese. Ne è sicuro il cardinale Sako che insiste da tempo sui principi di unità e cittadinanza necessari per rifondare lo Stato. “I nostri parlamentari (solo 5 su 329 deputati, come prevede la Costituzione) si batteranno per favorire l’approvazione di leggi che difendano i cristiani e le loro terre e ci sarà un Ministro cristiano per le Minoranze. La gente è abbastanza soddisfatta, la vita torna alla normalità, si va al lavoro ogni giorno, è molto diverso da prima. Ma gli iracheni chiedono pace e stabilità, una vita normale, un futuro senza guerre. Oggi comunque si vive meglio”. E l’Isis si è dissolto del tutto o è ancora un incubo per molti? “Come forza militare il Daesh (o Isis) non esiste più tranne alcuni gruppi che resistono ma l’esercito del Califfo è stato sconfitto. Resta invece da sconfiggere, ha osservato il Patriarca, l’ideologia jihadista e violenta.

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Per ricordare il dramma dei cristiani che a causa di guerre e persecuzioni religiose continuano ad abbandonare il Medio Oriente si è svolto a Torino un convegno internazionale organizzato dal Centro Federico Peirone alla presenza, tra gli altri, del Patriarca di Baghdad cardinale Mar Louis Sako e di giornalisti di testate arabe. È ancor vivo il ricordo di quando, nell’estate 2014, centinaia di migliaia di iracheni fuggirono in pochi giorni dalla Mesopotamia all’arrivo dei miliziani neri dell’Isis. In appena due giorni 120 mila cristiani lasciarono le loro case e le loro terre a Mosul e nella Piana di Ninive per scappare nel Kurdistan iracheno. Era l’inizio di un esodo biblico che avrebbe portato milioni di profughi nei Paesi vicini, in Libano, in Turchia e in Giordania. “L’Islam è rimasto indietro, non ha fatto nuove riforme, ha detto il Patriarca, non si è aggiornato, è un Islam del VII secolo, per le fazioni radicali tutto è divino, è invece necessaria una nuova lettura dei testi sacri. Il futuro dell’Islam dipende proprio dalle riforme che verranno fatte”. Continua intanto il lavoro sul campo della Fondazione “Aiuto alla Chiesa che Soffre” (Acs) che ha già donato 40 milioni di euro per aiutare i cristiani iracheni a ricostruire i loro villaggi distrutti dall’Isis, in particolare nell’area di Ninive. Alessandro Monteduro, direttore di ACS-Italia, ha ricordato che era sparita ogni traccia del Cristianesimo nei luoghi dove erano arrivati i combattenti islamici e ora finalmente dopo grandi devastazioni si è cominciato a ricostruire. Nel 2017 è iniziata la riedificazione dei villaggi cristiani della Piana di Ninive e l’Acs ha rimesso in piedi migliaia di case in cui la gente è tornata dopo aver cercato riparo in Europa e nei Paesi mediorientali. “Apriamo corridoi umanitari non solo per fare fuggire i profughi, ha chiesto Monteduro, ma anche per farli tornare a casa. Una volta tornati dovranno essere aiutati e difesi anche sul piano della libertà religiosa”. Per iniziativa dell’Acs il prossimo 20 novembre Venezia tingerà di rosso il Canal Grande e i suoi monumenti per ricordare i cristiani perseguitati nel mondo.

Imprenditrice muore schiacciata da muletto guidato da collaboratore

DALLA PUGLIA   Un’imprenditrice di 48 anni di Frosinone è morta schiacciata da un muletto, guidato da un suo collaboratore. La donna lavorava  nelle campagne di Torremaggiore, nel Foggiano, ed è deceduta sul colpo, mentre stava dirigendo le operazioni di carico e scarico delle balle di fieno. L’uomo stava effettuando una manovra in retromarcia e non si è accorto della sua presenza. La procura di Foggia ha aperto una inchiesta nella quale il collaboratore dovrà rispondere di omicidio colposo.

Terrore in Egitto, versato altro sangue cristiano

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Ancora sangue cristiano e altri martiri in Egitto per la ferocia dei fondamentalisti islamici tornati a terrorizzare il Paese dei Faraoni. Dieci fedeli copti sono stati uccisi a raffiche di mitra “per il solo fatto di essere cristiani”, ha ricordato Papa Francesco, esprimendo profondo dolore per l’ennesimo attacco ai danni dei copti. Dieci pellegrini sono le nuove vittime degli estremisti islamici che in Egitto, sempre più terra di martiri, hanno colpito nuovamente la comunità copta, la più grande comunità cristiana del Medio Oriente.

Li hanno ammazzati mentre a bordo di due pullman si stavano recando al monastero di San Samuele il Confessore, nel governatorato di Minya, una zona desertica a centinaia di chilometri a sud della capitale dove da anni spadroneggiano miliziani jihadisti, dell’Isis e di gruppi affiliati, che sovente si scontrano con le forze di sicurezza egiziane, così come accade nel nord della Penisola del Sinai e al confine con la Libia. La reazione della chiesa copta non si è fatta attendere. I cristiani d’Egitto, dopo l’ennesima strage di pellegrini massacrati da un commando di estremisti islamici, non chiuderanno le chiese e non sospenderanno i riti religiosi di novembre in segno di lutto ma celebreranno i nuovi martiri come “vincitori”. I militari egiziani hanno subito individuato ed eliminato i 19 combattenti islamici ritenuti i responsabili della strage ma l’attacco del 2 novembre è solo l’ultimo di una serie di omicidi mirati contro la minoranza copta. Secondo la Chiesa cattolica locale i miliziani hanno agito per vendetta, per colpire la parte più debole della società, un obiettivo più semplice perchè meno protetto e difeso dalle forze di sicurezza e ora si teme una nuova ondata di attentati, a un mese e mezzo dalle festività natalizie. Il governo egiziano ha stanziato per ciascuna delle famiglie delle vittime un primo contributo di solidarietà pari a 100.000 sterline egiziane, circa 5000 euro. Alla cerimonia funebre, celebrata a Minya, hanno preso parte 10 vescovi copti che hanno annunciato il proposito di costruire una chiesa dove verranno custodite le salme dei copti uccisi. Oltre a colpire nel Sinai, i terroristi islamici vanno a caccia di cristiani nel sud dell’Egitto dove sono più numerosi. Nel governatorato di Minya costituiscono circa il 30% della popolazione, una riserva di caccia per i fondamentalisti che in queste zone non falliscono mai il bersaglio.

Un attacco molto simile si verificò a maggio 2017 quando un autobus di copti diretti verso lo stesso monastero fu bloccato da un commando armato dell’Isis che falciò in pochi secondi una trentina di persone. Il santuario copto di San Samuele fu eretto nel IV secolo dai discepoli di Sant’Antonio sul monte Qalamoun a oltre 200 chilometri a sud del Cairo. Si tratta di una comunità monastica molto vasta con un centinaio di monaci e diverse chiese. Il rapporto tra monaci, musulmani e tribù locali è cordiale e di reciproco rispetto e sovente i beduini nomadi si fermano al monastero a dormire o anche solo per consumare un pasto. Un esempio di convivenza pacifica tra cristiani e musulmani nel deserto egiziano di cui si parla poco e che purtroppo viene sconvolto ripetutamente dalla violenza dei fanatici musulmani che rifiutano la presenza degli infedeli nel loro Paese. Anche questa volta le autorità egiziane hanno fatto il loro dovere arrestando i presunti colpevoli della strage contro i copti ma a poco servono le manifestazioni di cordoglio del governo e dei comandi militari se mancano provvedimenti e leggi per contrastare o impedire le predicazioni religiose di odio verso i cristiani. I copti rappresentano il 10-15% della popolazione egiziana su una popolazione di 95 milioni di persone. Negli ultimi anni sono stati più volte presi di mira da gruppi jihadisti come l’Isis. Il caso più grave si verificò il 9 aprile 2017, nel giorno della Domenica delle Palme, quando 45 persone furono uccise in due attacchi contro la chiesa copta di Tanta e la cattedrale di Alessandria. I cristiani sono considerati nemici dai jihadisti perchè appoggiano il presidente al-Sisi che con il “golpe” del 2013 si liberò drasticamente dei Fratelli Musulmani con una spietata repressione salvando i copti dal regime religioso integralista della Fratellanza. Repressione che non accenna a diminuire. A ottobre un tribunale militare in Egitto ha condannato a morte 17 persone, ritenute responsabili di una serie di attentati contro alcune chiese cristiane copte che provocarono decine di morti e feriti fra il 2016 e il 2017 al Cairo, Alessandria e Tanta. Altri 19 imputati sono stati condannati all’ergastolo. I kamikaze che si fecero saltare in aria all’interno delle chiese erano combattenti dell’Isis o appartenenti a gruppi vicini al defunto Califfato.

Dal settimanale “La Voce e il Tempo”

 

Riflettori sul Medio Oriente

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Chi ricostruirà la Siria dopo quasi otto anni di conflitto? Chi pagherà la ricostruzione, stimata in 400 miliardi di dollari? Come sarà la Siria post bellica? Nella martoriata nazione levantina la guerra si sta spegnendo lentamente ma non è ancora finita. In alcune aree del Paese si continua a morire e centinaia di miliziani jihadisti si riorganizzano nelle zone dove il regime non ha ancora il totale controllo del territorio. “La ricostruzione della Siria non passa solo attraverso il suo tessuto economico e sociale, afferma il cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, ma tocca anche la sfera religiosa in una nazione in cui le minoranze, compresa quella cristiana, hanno beneficiato negli ultimi decenni di pari diritti e dignità”. Mentre nel vicino Iraq il nuovo corso politico, scaturito dalle ultime elezioni, avanza faticosamente tra povertà crescente e mire iraniane, nello Yemen infuria da tre anni una guerra combattuta per procura e quasi dimenticata dal mondo. La crescente ostilità tra le monarchie sunnite del Golfo e l’Iran sciita rischia di estendere l’incendio mediorientale. L’intera regione è in subbuglio e neppure la diplomazia dell’Onu riesce a placare gli animi e a ricomporre il mosaico di nazioni in disfacimento. Anche l’infaticabile mediatore italo-svedese Staffan de Mistura getta la spugna. L’annunciata uscita di scena dell’inviato speciale dell’Onu per la Siria dimostra la profonda delusione per l’impossibilità di trovare una via d’uscita al caos siriano la cui gestione è sempre più nelle mani di una diplomazia parallela ristretta e composta da Russia, Stati Uniti, Turchia e Iran, gli attori internazionali pronti a spartirsi la Siria. Anche Torino vuole riflettere sul nuovo Medio Oriente che un giorno nascerà sulle ceneri di quello attuale. Convegni e giornate di sensibilizzazione faranno il punto sugli eventi in corso con l’obiettivo di non spegnere mai i riflettori su quel che accade in una regione così strategica e vicina all’Europa. Il primo appuntamento sarà il convegno internazionale “La fine del Medio Oriente e il destino delle minoranze” organizzato dal Centro Federico Peirone di studi sull’Islam il 12 novembre presso la Facoltà Teologica di via XX settembre 83 alle ore 17,30 mentre il secondo incontro verterà su una giornata di mobilitazione promossa da Pax Chisti il 1 dicembre all’Istituto San Giuseppe per sostenere i diritti dei palestinesi a 70 anni dalla nascita di Israele e nel 70esimo anniversario della Nakba (catastrofe) quando 700.000 palestinesi furono cacciati dalle loro case e centinaia di villaggi distrutti. Il numero dei profughi siriani continua a crescere e ogni anno il rapporto dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati registra un nuovo record. Gli sfollati sono ormai circa 40 milioni mentre i rifugiati, che per salvarsi da guerre e persecuzioni hanno varcato i confini nazionali e hanno chiesto asilo all’estero, sono quasi 20 milioni. “La vita di tutti è cambiata drammaticamente, spesso quasi da un giorno all’altro, ricorda Paolo Girola, organizzatore e moderatore del convegno del Centro Peirone. In una sola notte, ad esempio, quella dal 6 al 7 agosto 2014, 300.000 iracheni sono fuggiti dalla Piana di Ninive attaccata dall’Isis, lo Stato Islamico. Quel poco che erano riusciti a portarsi appresso, è stato loro sequestrato dai miliziani e sono arrivati a destinazione a mani vuote. Mentre i riflettori si sono un po’ spenti sulle guerre grandi e piccole “che non finiscono mai” in Medio Oriente, il convegno internazionale organizzato dal Centro Peirone il 12 novembre vuole fare il punto con grandi giornalisti e testimoni di quelle tragedie ancora in corso. Dalla Siria allo Yemen, dalla terra Santa all’Iraq, i conflitti hanno cambiato e ancora cambieranno il volto di questa regione, che ha visto e vede infinite sofferenze, grandi migrazioni, spietate guerre civili. Una terra senza pace in cui i conflitti fra sciiti e sunniti sono alimentati dalla lotta per l’egemonia di grandi e medie potenze: in prima fila

Siria – Aleppo; 2012 (foto P. Siccardi)

Russia, Usa, Turchia, Iran, Arabia Saudita. E nel caos torbido emergono movimenti dell’islam radicale che sfruttano frustrazioni, risentimenti, ingiustizie palesi e corruzione di regimi autoritari o dispotici. I morti si contano a centinaia di migliaia, gli sfollati a milioni. Una tragedia alle porte dell’Europa che non è finita, anche se la pax di Putin sembra imporsi in Siria, con il consenso di una parte non piccola della popolazione, orientata a scegliere il male minore”. Meglio Assad al potere che un califfo ma la Siria marcia spedita verso la divisione del Paese in aree di influenza tra le potenze vincitrici. Così sembra anche nella provincia di Idlib, l’ultima roccaforte in mano ai ribelli, dove una parte di essa verrà controllata da Damasco e il resto si unirà al cantone curdo di Afrin e Al Bab sotto la custodia turca. Risolto il problema a Idlib, l’attenzione tornerà sul fronte nord orientale e lungo l’Eufrate. Resta infatti aperta la questione del Kurdistan siriano difeso da soldati americani invisi ai russi. Alla tavola rotonda del Peirone interverranno il Patriarca di Baghdad della chiesa caldea, cardinale Mar Louis Sako, Lucio Caracciolo, direttore di Limes, Samir Barhoum, direttore del Jordan Times di Amman, Michel Touma, direttore de L’Orient -Le jour di Beirut, Salvatore Pedulla, collaboratore dell’inviato Onu per la Siria e Alfredo Mantovano, presidente della Fondazione Pontificia Acs (Aiuto alla chiesa che soffre). L’altro fronte caldo del Vicino Oriente, quello israelo-palestinese, conferma che i conflitti mediorientali hanno il loro fulcro a Gerusalemme e la complessa e irrisolta crisi palestinese resta saldamente al centro dei dibattiti internazionali. Da mesi migliaia di persone infiammano con manifestazioni, violenze e lancio di razzi il confine tra Israele e la Striscia di Gaza. Nessuno vuole una nuova guerra nella Striscia ma nessuno degli attori coinvolti vuole bloccare gli scontri e riportare la calma. Nonostante tutto i canali diplomatici restano aperti e, con la mediazione egiziana, Israele e Hamas trattano per la riapertura dei valichi, lo scambio dei prigionieri e il varo di una tregua di cinque anni. Per tenere alta l’attenzione su questo tema Pax Christi promuove una giornata Onu per i diritti dei palestinesi che si svolgerà il 1 dicembre al San Giuseppe. “Pax Christi si batte da sempre per il riconoscimento di uno Stato palestinese che però Israele non vuole, osserva don Nandino Capovilla, consigliere nazionale di Pax Christi e coordinatore della campagna “Ponti e non Muri”. Israele si oppone alla volontà della comunità internazionale di riconoscere, come hanno già fatto molti Stati, il diritto all’autodeterminazione e la possibilità che nasca uno Stato palestinese”.

(Dal settimanale LA VOCE E IL TEMPO)

Nove novembre novantatre

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Guardare Mostar era come aprire una finestra sull’inferno. La parte musulmana della città, ormai spezzata in due, era sotto il tiro degli obici e dei cecchini. La parola più comprensibile era “niente”. Niente acqua, luce, cibo. Niente pace. Forse anche niente futuro. L’odore della morte aveva quasi spento la speranza mentre dal cielo piovevano le granate

Fu l’architetto Hayrrudin a costruirlo nel 1566, per ordine del sultano Solimano il Magnifico. Dalla parola slava che indica il ponte, «most», prese nome la città sorta sulle sue opposte sponde. Quel ponte a schiena d’asino, simbolo del legame fra Oriente e Occidente, fu visto, però dai nazionalisti croati – come ha scritto, con grande acume, Giacomo Scotti -“come negazione della loro politica d’odio verso i musulmani che abitavano ed abitano sul lato del fiume opposto a quello croato, nei densi quartieri di case abbarbicate sulle pendici che scendono dolcemente verso la sponda orientale”. In quel novembre 1993 guardare Mostar era come aprire una finestra sull’inferno. La parte musulmana della città, ormai spezzata in due, era sotto il tiro degli obici e dei cecchini. La parola più comprensibile era “niente”. Niente acqua, luce, cibo. Niente pace.

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Forse anche niente futuro. L’odore della morte aveva quasi spento la speranza mentre dal cielo piovevano le granate. Tante, tantissime  granate, provenienti dall’altra parte della città, quella sotto controllo dell’Hvo (l’esercito dei croato-bosniaci). L’artiglieria croata portò a compimento il suo”capolavoro” martedì 9 novembre, abbattendo il ponte. In coincidenza con il quarto anniversario della caduta del Muro di Berlino. Esattamente cinquantacinque anni dopo la “notte dei cristalli”, il pogrom antisemita dei nazisti che distrussero, bruciarono e saccheggiarono sinagoghe e negozi ebraici in Germania, Austria e Cecoslovacchia. Casualità? Difficile dirlo. Un fatto è certo. Se, per un verso,  la caduta del Muro chiuse una pagina nera della storia europea, abbattendo simbolicamente il confine della guerra fredda e avviando il processo di riunificazione della Germania, l’abbattimento del ponte di Mostar equivalse all’esatto contrario. La distruzione del Ponte Vecchio non fu un gesto casuale, né l’azione scellerata di un manipolo di soldati scriteriati e senza ordini. Al contrario, fu il risultato di una strategia pianificata dai politici croati e dai capi croato-bosniaci per rimuovere la popolazione musulmana, ghettizzandola sulla sponda orientale della Neretva. I sei croati ritenuti responsabili vennero imputati dal Tribunale dell’Aia per aver commesso una “impresa criminale congiunta” e condannati dai dieci ai venticinque anni di prigione. Tra di loro il generale croato Slobodan Praljak, al quale di anni ne furono affibbiati venti, in quanto riconosciuto come principale responsabile della distruzione dello Stari Most. Lo stesso che dichiarò che “quelle pietre” (il ponte) “non avevano nessun valore”. Divisione, cesura, distruzione di un simbolo dell’identità culturale: altro che anonime pietre. Alla fine della guerra, nel 1995, la comunità internazionale pose tra gli obiettivi principali della ricostruzione della Bosnia-Erzegovina devastata, la riedificazione dello «Stari Most». La seconda vita di quello che molti definivano un «monumento alla pace» cominciò qualche anno dopo, con materiali e tecniche originali, recuperando dal fiume le poche pietre ancora utilizzabili ed estraendone altre dalle cave da cui proveniva la pietra originaria che andava lavorata dagli scalpellini.

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Il costo della ricostruzione dell’intero complesso, dalle Halèbija e Tara – le imponenti, seicentesche torri laterali – agli edifici attigui, ammontava a circa 18 milioni d’euro. E l’Italia fu la nazione più impegnata, per l’entità della donazione, con oltre tre milioni. Una parte tutt’altro che simbolica dell’impegno straordinario per aiutare la Bosnia-Erzegovina a rimettersi in piedi. Una cosa importante che s’accompagnò a quella ben più straordinaria della folla di pacifisti, donne e uomini d’ogni età e ceto sociale,  che durante la guerra, affrontando gravi pericoli e mettendo a repentaglio la propria vita, portarono ai bosniaci d’ogni etnia la solidarietà, gli aiuti concreti in cibo, medicinali e  vestiario oltre che il conforto di un mondo che non li aveva dimenticati relegandoli alla cronaca di qualche telegiornale della sera. Anche tra questi, in molti, furono gli italiani. Purtroppo, mentre il ponte rinasceva offrendo di sé un’immagine di speranza, altri episodi contribuirono a tenere aperte le ferite. Come il significato simbolico che i nazionalisti hanno voluto dare al nuovo, altissimo campanile della piccola chiesa francescana. Il più alto che esista nell’ex Jugoslavia, ovviamente molto più alto del campanile originario, anch’esso lesionato dalle cannonate nel 1992. S’innalza come un pinnacolo a 107 metri d’altezza, svettando a dominio della città, ben oltre il campanile della più grande chiesa cattolica del Balcani, vale a dire la cattedrale di Zagabria. Un evidente gesto di sfida che si accompagna all’enorme croce di marmo bianco, alta trentatré metri, che si staglia nel cielo ancor più del campanile, perché issata sul monte Hum, che domina la Mostar occidentale, croato-cattolica. Una scelta deliberata dei croati di Mostar per sfida e dispetto ai musulmani. Simboli, grandezze e ombre che s’intendono proiettate sullo Stari Most che invece appartiene a tutti i mostarini, collegando le due sponde del fiume. Ma, nonostante tutto, il ponte resterà il vero ed unico simbolo della città nel suo insieme.

Marco Travaglini

Lasciavano solo tutto il giorno figlio di 5 anni con 10 cani

DALLA LOMBARDIA  Una coppia di genitori  40enni  italiani, che lavoravano fuori casa  tutto il giorno  lasciavano solo nell’abitazione a Livigno  il proprio bimbo di 5 anni, insieme  con dieci cani di grossa taglia. L’abitazione era invasa dagli escrementi degli animali. Il piccolo, che non frequentava l’asilo,  è stato affidato ai servizi sociali,  e ora  i genitori rischiano di perdere la patria potestà. 

 

(foto archivio)

Il destino del Medio Oriente

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Chi ricostruirà la Siria dopo quasi otto anni di conflitto? Chi pagherà la ricostruzione, stimata in 400 miliardi di dollari? Come sarà la Siria post bellica? Nella martoriata nazione levantina la guerra si sta spegnendo lentamente ma non è ancora finita. In alcune aree del Paese si continua a morire e centinaia di miliziani jihadisti si riorganizzano nelle zone dove il regime non ha ancora il totale controllo del territorio

Siria – Aleppo; 2012 (foto P. Siccardi)

La ricostruzione della Siria non passa solo attraverso il suo tessuto economico e sociale, afferma il cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, ma tocca anche la sfera religiosa in una nazione in cui le minoranze, compresa quella cristiana, hanno beneficiato negli ultimi decenni di pari diritti e dignità”. Mentre nel vicino Iraq il nuovo corso politico, scaturito dalle ultime elezioni, avanza faticosamente tra povertà crescente e mire iraniane, nello Yemen infuria da tre anni una guerra combattuta per procura e quasi dimenticata dal mondo. La crescente ostilità tra le monarchie sunnite del Golfo e l’Iran sciita rischia di estendere l’incendio mediorientale. L’intera regione è in subbuglio e neppure la diplomazia dell’Onu riesce a placare gli animi e a ricomporre il mosaico di nazioni in disfacimento. Anche l’infaticabile mediatore italo-svedese Staffan de Mistura getta la spugna. L’annunciata uscita di scena dell’inviato speciale dell’Onu per la Siria dimostra la profonda delusione per l’impossibilità di trovare una via d’uscita al caos siriano la cui gestione è sempre più nelle mani di una diplomazia parallela ristretta e composta da Russia, Stati Uniti, Turchia e Iran, gli attori internazionali pronti a spartirsi la Siria. Anche Torino vuole riflettere sul nuovo Medio Oriente che un giorno nascerà sulle ceneri di quello attuale. Convegni e giornate di sensibilizzazione faranno il punto sugli eventi in corso con l’obiettivo di non spegnere mai i riflettori su quel che accade in una regione così strategica e vicina all’Europa. Il primo appuntamento sarà il convegno internazionale “La fine del Medio Oriente e il destino delle minoranze” organizzato dal Centro Federico Peirone di studi sull’Islam il 12 novembre presso la Facoltà Teologica di via XX settembre 83 alle ore 17,30 mentre il secondo incontro verterà su una giornata di mobilitazione promossa da Pax Chisti il 1 dicembre all’Istituto San Giuseppe per sostenere i diritti dei palestinesi a 70 anni dalla nascita di Israele e nel 70esimo anniversario della Nakba (catastrofe) quando 700.000 palestinesi furono cacciati dalle loro case e centinaia di villaggi distrutti. Il numero dei profughi siriani continua a crescere e ogni anno il rapporto dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati registra un nuovo record. Gli sfollati sono ormai circa 40 milioni mentre i rifugiati, che per salvarsi da guerre e persecuzioni hanno varcato i confini nazionali e hanno chiesto asilo all’estero, sono quasi 20 milioni. “La vita di tutti è cambiata drammaticamente, spesso quasi da un giorno all’altro, ricorda Paolo Girola, organizzatore e moderatore del convegno del Centro Peirone. In una sola notte, ad esempio, quella dal 6 al 7 agosto 2014, 300.000 iracheni sono fuggiti dalla Piana di Ninive attaccata dall’Isis, lo Stato Islamico. Quel poco che erano riusciti a portarsi appresso, è stato loro sequestrato dai miliziani e sono arrivati a destinazione a mani vuote. Mentre i riflettori si sono un po’ spenti sulle guerre grandi e piccole “che non finiscono mai” in Medio Oriente, il convegno internazionale organizzato dal Centro Peirone il 12 novembre vuole fare il punto con grandi giornalisti e testimoni di quelle tragedie ancora in corso. Dalla Siria allo Yemen, dalla terra Santa all’Iraq, i conflitti hanno cambiato e ancora cambieranno il volto di questa regione, che ha visto e vede infinite sofferenze, grandi migrazioni, spietate guerre civili. Una terra senza pace in cui i conflitti fra sciiti e sunniti sono alimentati dalla lotta per l’egemonia di grandi e medie potenze: in prima fila Russia, Usa, Turchia, Iran, Arabia Saudita. E nel caos torbido emergono movimenti dell’islam radicale che sfruttano frustrazioni, risentimenti, ingiustizie palesi e corruzione di regimi autoritari o dispotici. I morti si contano a centinaia di migliaia, gli sfollati a milioni. Una tragedia alle porte dell’Europa che non è finita, anche se la pax di Putin sembra imporsi in Siria, con il consenso di una parte non piccola della popolazione, orientata a scegliere il male minore”. Meglio Assad al potere che un califfo ma la Siria marcia spedita verso la divisione del Paese in aree di influenza tra le potenze vincitrici. Così sembra anche nella provincia di Idlib, l’ultima roccaforte in mano ai ribelli, dove una parte di essa verrà controllata da Damasco e il resto si unirà al cantone curdo di Afrin e Al Bab sotto la custodia turca. Risolto il problema a Idlib, l’attenzione tornerà sul fronte nord orientale e lungo l’Eufrate. Resta infatti aperta la questione del Kurdistan siriano difeso da soldati americani invisi ai russi. Alla tavola rotonda del Peirone interverranno il Patriarca di Baghdad della chiesa caldea, cardinale Mar Louis Sako, Lucio Caracciolo, direttore di Limes, Samir Barhoum, direttore del Jordan Times di Amman, Michel Touma, direttore de L’Orient -Le jour di Beirut, Salvatore Pedulla, collaboratore dell’inviato Onu per la Siria e Alfredo Mantovano, presidente della Fondazione Pontificia Acs (Aiuto alla chiesa che soffre). L’altro

fronte caldo del Vicino Oriente, quello israelo-palestinese, conferma che i conflitti mediorientali hanno il loro fulcro a Gerusalemme e la complessa e irrisolta crisi palestinese resta saldamente al centro dei dibattiti internazionali. Da mesi migliaia di persone infiammano con manifestazioni, violenze e lancio di razzi il confine tra Israele e la Striscia di Gaza. Nessuno vuole una nuova guerra nella Striscia ma nessuno degli attori coinvolti vuole bloccare gli scontri e riportare la calma. Nonostante tutto i canali diplomatici restano aperti e, con la mediazione egiziana, Israele e Hamas trattano per la riapertura dei valichi, lo scambio dei prigionieri e il varo di una tregua di cinque anni. Per tenere alta l’attenzione su questo tema Pax Christi promuove una giornata Onu per i diritti dei palestinesi che si svolgerà il 1 dicembre al San Giuseppe. “Pax Christi si batte da sempre per il riconoscimento di uno Stato palestinese che però Israele non vuole, osserva don Nandino Capovilla, consigliere nazionale di Pax Christi e coordinatore della campagna “Ponti e non Muri”. Israele si oppone alla volontà della comunità internazionale di riconoscere, come hanno già fatto molti Stati, il diritto all’autodeterminazione e la possibilità che nasca uno Stato palestinese”.

 

(dal settimanale LA VOCE E IL TEMPO)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bloccati dal maltempo marito e moglie muoiono avvelenati

DAL VENETO Marito e moglie ottantenni sono stati trovati morti nella loro casa a Rivamonte Agordino, uno dei centri  bellunesi flagellati dal maltempo dei giorni scorsi. Si ipotizza che la coppia sia rimasta vittima di avvelenamento da monossido di carbonio per una stufetta difettosa.L’allarme è stato dato dai vicini di casa, che non riuscivano a contattare i due anziani. I vigili del fuoco sono entrati nell’appartamento e hanno trovato i coniugi privi di vita.

 

(foto archivio)

Un pranzo a Sarajevo  

A Sarajevo le zie di Goran, Samira e Zeina, vivono in una casa a pochi passi dalla Moschea Gazi Husrev-beg, in una viuzza parallela alla via Sarači che collega la bella strada di Ferhaddija con il cuore della Baščaršija, la città vecchia. Dappertutto, intorno,  s’innalzano i minareti mentre a oriente,  a poche centinaia di metri,  s’intravvede l’alto e austero profilo della biblioteca nazionale. Sulla sinistra, tenendosi alle spalle le acque della Miljacka, gli alteri palazzi asburgici sovrastano le case di legno dell’epoca ottomana. Poco distante c’è l’antica scuola coranica, la madrasa, centro del sapere musulmano sin dal 1537 e segno più che evidente di una storia d’istruzione, scienza e tolleranza  davanti alla quale vin quasi voglia di fare un inchino, togliendosi il cappello in segno di rispetto. Dall’uscio della loro casa bastano due passi e, svoltato l’angolo, si rimane incantati davanti alla bellezza della cupola centrale della Moschea, affiancata dai suoi tetims, le cupole laterali, più piccole. Il minareto, un dito puntato verso il cielo, teso a solleticare le nuvole con i suoi quarantacinque metri d’altezza, domina la piazza del mercato. Passare di qua e non far visita alle zie, mi dice Goran “equivale ad un’offesa molto seria al senso dell’ospitalità che qui è sacro“. Avvertite da lui, hanno preparato il pranzo. Ci accolgono con grande gentilezza. Entrambe con i capelli candidi, appena visibili sotto il velo, mostrano in volto i lineamenti delicati delle donne slave, con gli  zigomi alti, occhi grandi e chiari, sguardo orgoglioso e fiero. Non più giovani, entrambe sono state “partizanke” con Tito, combattendo nelle divisioni dell’esercito popolare di liberazione tra la Drina e la Neretva, scacciando i nazisti e riconquistandosi, coi denti e le unghie, il diritto di vivere libere. Mi stupisce la loro vitalità e si comprende quanto bene vogliano al loro adorato Goran che, per parte sua, ricambia l’affetto unendolo a una grande, e da noi rarissima,  reverenza. Ci fanno accomodare e, vistici visibilmente accaldati, ci offrono una birra fredda ( hladno pivo), ovviamente SarajevskoL’appartamento – tre stanze e i servizi – è piccolo ma ben curato e dalla cucina provengono profumi deliziosi. Goran dice che le zie hanno preparato dei piatti tradizionali, la Begova čorba – zuppa di pollo con verdure, riso, tuorli d’uovo e panna – e il bosanski ćimbur, un piatto a base di manzo e agnello immersi nel brodo e ricoperti da spinaci e uova. Nonostante la curiosità che mi porta ad assaggiare tutto ciò che trovo nel piatto, sul mio volto si deve notare una certa preoccupazione sulla digeribilità della cucina bosniaca. Goran, al quale non sfugge nulla, mi rassicura. “Tranquillo.La cucina bosniaca è leggera e non particolarmente speziata; i piatti si basano essenzialmente su legumi, frutta e vegetali come pomodori, zucchine, spinaci e fagiolini. E sul latte, utilizzato in una crema che noi chiamiamo pavlaka”. Mi fido. Si pranza. Si beve voda (acqua) e un vino bianco, fruttato che emana una luce verde-oro: lo Zilavka, prodotto in Erzegovina, nella valle della Neretva. Samira e Zeina portando in tavola anche la pita, un involucro di pasta fine ripieno di vegetali, carni, formaggi e erbe. La propongono nei tre diversi tipi: il burek, con la carne di vitello; la sirnica , con il Trávnićki Sir,formaggio di pecora originario di Travnik, dal gusto deciso e piuttosto salato che richiama un po’ la Feta greca, e la zeljanica , con gli spinaci. Hanno anche preparato i ražnjići , deliziosi spiedini di carne d’agnello, e i  classici čevapčići, le  polpettine di carne bovina e di montone tritata, passati alla griglia e serviti con cipolla cruda. Sono le specialità della cucina sarajevese. Ma le zie, che stravedono per il nipote e lo vorrebbero rimpinzare fino al collo, questa volta non esagerano e hanno preparato delle confezioni da asporto, così potremo gustarle per cena o in occasione del pranzo di domani. Per buon peso hanno aggiunto anche delle robuste porzioni di musaka alla turca, il timballo di carne tritata con melanzane (o patate, o zucchine) e cotto al forno. Ai dolci, invece, non si può dir di no. E’ proibito il rifiuto e nessuno di noi si sogna di trasgredire la regola. Alla faccia di carie e diabete, compaiono sul desco razioni impegnative di baklava , pita od jabuka ( praticamente uno strudel di mele), savijača od oraha ( altra strudel ma di noci),le palačinke , piccole e gustose frittelle e pasticcini di pasta lievitata aromatizzati al limone o alla vaniglia. Stop. Ci arrendiamo. Prima io e poi Goran. Alziamo bandiera bianca. C’è posto solo  per  il caffè , la bosanska kafa servita alla turca e una lašljivovica di prugne. Siamo stati in loro compagnia per quasi quattro ore. Ci congediamo tra tanti saluti, un passar di mano di pacchetti ( i nostri pasti futuri…) e la promessa che se tornerò da queste parti, sarò ancora loro ospite. La luce del pomeriggio si è fatta più scura quando varchiamo l’uscio e nubi cariche di pioggia s’apprestano a scendere  dai fianchi del Trebevic, stendendo un grigio e lattiginoso mantello su Sarajevo. E’ davvero l’ora del commiato. Un abbraccio, una stretta di mano. E, mentre ci stiamo allontanando sull’acciottolato, due mani s’alzano in un saluto. Un gesto semplice che ci accompagna, come i loro sguardi,  fino alla svolta dell’isolato. Non ci sono parole adatte per descrivere il senso dell’ospitalità. Penso solo che da noi, a malapena,  ci si guarda in faccia anche tra persone che si conoscono da una vita.

Marco Travaglini