L’uomo, un suo cliente, è stato ricattato fino a commettere il suicidio. La prostituta, una donna romena di 42 anni, residente a San Giorgio del Sannio è stata arrestata dai Carabinieri con l’ accusa di induzione al suicidio, estorsione e tentativo di estorsione. Ai domiciliari anche un uomo di 63 anni, di Benevento, per favoreggiamento della prostituzione. Era l’ottobre 2017 quando la vittima fu trovata impiccata in un capannone, dopo i continui ricatti della romena, che minacciava di raccontare alla moglie i rapporti avuti con lui.
Correva l’anno 1683 quando Vienna – capitale dell’Impero d’Asburgo – venne circondata dalle truppe ottomane che, partite da Istanbul, serravano l’Europa in una morsa dalla Spagna fino ai Balcani. La battaglia che ne conseguì divenne il punto di svolta, a favore degli europei, nelle guerre austro-turche, segnando l’arresto della spinta espansionistica ottomana nel continente.
E questa, come s’usa dire, è la storia. L’evento fu accompagnato da tante leggende e alcune di queste sono davvero curiose. Le due parti in lotta basarono le sorti dello scontro anche sulla disponibilità delle scorte alimentari. L’assediato cercava di demoralizzare gli assedianti sfoggiando le provviste come se ne disponesse in abbondanza mentre gli assedianti, a loro volta, per sfiancare l’avversario, cercavano di tagliare le vie di rifornimento ai generi alimentari di prima necessità. Si narra che i viennesi, per intaccare il morale dei turchi, s’ingozzavano platealmente con paste a base di burro e farina. Erano i kipferl , gli antenati dei croissant, modellati a mezzaluna, molto simili al simbolo delle insegne arabe. Una scelta, quella della forma, voluta dai fornai viennesi per sbeffeggiare le insegne ottomane e festeggiare lo scampato pericolo e la vittoria. Un’idea tanto semplice quanto straordinaria fino al punto di condizionare abitudini e gusti culinari di mezza Europa. La ricetta e il nome del croissant ( “crescente”, come la luna) per come è giunta a noi trae origine dalla Francia dove, nel 1736, un ufficiale austriaco – August de Zong – importò l’arte della pasticceria viennese, compresa la preparazione dei famosi kipferl, aprendo una Boulangerie Viennoiseal numero 92 della parigina rue de Richelieu. Un vero successo va comunque sudato e il croissant dovette attendere un bel po’ ( fino al 1891) prima di essere menzionato in un libro di ricette e ancor oltre (nel 1938 ) per fare la sua comparsa ufficiale sul testo fondamentale della cucina francese: la
Larousse gastronomique. Così, con tenacia e perseveranza, sbocconcellato o divorato in quattro e quattr’otto, il croissant si è fatto largo nella parte più dolce dell’arte culinaria. Le leggende legate alla battaglia di Vienna non si esauriscono nei panetti a mezzaluna ma ci raccontano anche di come i turchi , ormai in fuga, si lasciarono alle spalle le loro scorte di caffè. Un ufficiale polacco di origini ungheresi – Jerzy Franciszek Kulczycki – apprezzando l’aroma dei chicchi che bruciavano negli incendi della battaglia, decise di utilizzare i sacchi di caffè abbandonati dall’esercito ottomano per aprire la prima caffetteria viennese, una rarità nell’Europa del tempo. Altra storia è quella che indica lo scontro consumatosi sul Monte Calvo come un’occasione in qualche modo
decisiva anche per l’invenzione del “cappuccino”, intestandola a Marco da Aviano, frate dell’ordine dei cappuccini, inviato dal Papa a Vienna con l’obiettivo di convincere le potenze europee ad una coalizione contro i Turchi che stavano assediando la città. Pare che durante il soggiorno viennese il religioso entrò nella già citata caffetteria e, gustando un caffè dall’aroma piuttosto deciso, chiese un po’ di latte per addolcirlo . Chi lo servì esclamò “Kapuziner!” , guardando lo strano intruglio bevuto dal frate. Vero o falso, storia o leggenda che sia, resta un fatto: prendere al mattino un cappuccino – o anche un caffè – con un croissant , equivale ad un ottimo avvio di giornata.
Marco Travaglini
DALLA TOSCANA Era originario del Marocco ma residente a Brescia, il 50enne morto ieri sera a causa dei traumi riportati dopo essere stato investito da un’automobile su un cavalcavia a Viareggio (Lucca). Si trovava sul vecchio cavalcavia che porta dalla periferia al centro città, e si muoveva a piedi. Pare abbia scavalcato il parapetto ai lati della carreggiata e abbia attraversato mentre stava arrivando una vettura che lo ha investito. E’ stato trasferito in codice rosso al pronto soccorso dell’ospedale Versilia dove successivamente è deceduto.
L’ultimo rifugio di Jacques Prévert
“Il faudrait essayer d’être heureux, ne serait-ce que pour donner l’exemple”.Bisognerebbe tentare di essere felici, non fosse altro per dare l’esempio.Così diceva Jacques Prévert. E’ possibile che una parte di felicità la trovò davvero a Omonville-la-Petite, piccolo borgo di case in pietra poco distante dal Cap de la Hague, la parte estrema del Cotentin, in bassa Normandia. E’ lì che il grande poeta francese , uno dei più popolari del XX° secolo, scelse di vivere gli ultimi suoi anni in una casa circondata da un giardino fiorito. L’ultima dimora del poeta dell’amore, della libertà, della fantasia e della satira pungente contro i potenti, si trova lì. A poca distanza della casa c’è la piccola chiesa di Saint-Martin con il suo minuscolo cimitero dove riposano, insieme, i Prévert : Jaques,la moglie Janine e la figlia Michelle. A settant’anni, nel 1970
( il poeta era nato nel 1900 a Neuilly-sur-Seine,alle porte di Parigi), decise di comprare questa
casa nel luogo dove il suo grande amico, lo scenografo Alexandre Trauner, abitava già da qualche tempo.Un anno più tardi, i Prévert si stabilirono lì. Jaques aveva frequentato quelle zone già nei primi anni ’30, amando l’oceano e quei paesaggi selvaggi, spazzati dai venti, con i pascoli delimitati dai muretti a secco, a fianco di vertiginose falesie e splendide insenature. A Omonville-la-Petite, con i suoi 128 abitanti, la vita scorre tranquilla. La zona è poco conosciuta perché bisogna proprio scegliere di andarci, deviando decisamente dalle solite mete turistiche. I colori di questa terra sono talmente forti da stordire. Il cielo è cangiante e passa dal celeste intenso al grigio ferro delle nuvole che, sulla Manica, portano a tratti pioggia e vento. Le viuzze tra campi, giardini e vecchie mura, sono strette e dall’entroterra scendono verso le rocce e le spiagge. Un
paesaggio, quello della Hague, capace di sedurre chiunque. Anche il poeta dell’amore. Per capire la magia di questi luoghi basterebbe recarsi sulla punta di La Hague, accarezzata dal raz blanchard, l’ondata “biancastra”, una delle più forti correnti di marea del mondo. La vita di Prévert, in quegli anni, venne scandita da un tempo lento, dedicato alle passeggiate, agli ultimi lavori, alle visite degli amici più stretti come Yves Montand, Juliette Greco, Raymond Queneau, Joseph Losey e Serge Reggiani. Appassionato dei collage, compose e regalò questi montaggi d’immagini di volta in volta spassosi, satirici o decisamente sovversivi. Le sue ultime pagine, “tra gravità e tenerezza”, ne descrivono la ricerca sui temi dell’infanzia e dell’amore, del confine stretto tra la vita e la morte,
con quel segno indelebile che ne accompagnò tutta l’esistenza e la produzione poetica e letteraria: l’irriducibile desiderio di rivolta e d’insubordinazione nei confronti delle ingiustizie. Fino alla fine, divorato da un cancro ai polmoni causato dalle immancabili, troppe sigarette, continuò a scrivere e lavorare. Morì lì, in quella casa, l’11 aprile del 1977. Nella “maison Jacques Prévert” – al n.3 Hameau Le Val , aperta solo di pomeriggio – si possono visitare le stanze, il suo atelier, il giardino e vedere un film sulla sua vita. Un incredibile percorso artistico, quello di Prévert. Dagli anni del surrealismo alle scenografie per il cinema, dove collaborò con Jean Renoir, Andrè Cayatte, Claude Autant-Lara e soprattutto Marcel Carné (un sodalizio, il loro, che ci ha
regalato, film-capolavoro come Il porto delle nebbie e Alba tragica) fino alle sue poesie che in molti casi sono state tradotte in canzoni. Un’esistenza intensa che sintetizzò in un aforisma: “La vita è una ciliegia. La morte il suo nòcciolo. L’amore il ciliegio”. Negli scaffali del suo studio ampio e luminoso si ammirano le varie edizioni – tantissime – delle sue opere: le raccolte di versi di maggiore successo, come Parole (1945), La pioggia e il bel tempo(1955), Alberi (1976); le antologie tradotte in italiano Le foglie morte e Poesie d’amore. Mentre calano le prime ombre della sera, bagnate da una pioggerella fine e insistente, viene quasi voglia di attendere il buio e rileggere le Trois allumettes: “Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte/Il primo per vederti tutto il viso/Il secondo per vederti gli occhi/L’ultimo per vedere la tua bocca/E tutto il buio per ricordarmi queste cose/Mentre ti stringo fra le braccia”.
Marco Travaglini
L'ultimo rifugio di Jacques Prévert
“Il faudrait essayer d’être heureux, ne serait-ce que pour donner l’exemple”.Bisognerebbe tentare di essere felici, non fosse altro per dare l’esempio.Così diceva Jacques Prévert. E’ possibile che una parte di felicità la trovò davvero a Omonville-la-Petite, piccolo borgo di case in pietra poco distante dal Cap de la Hague, la parte estrema del Cotentin, in bassa Normandia. E’ lì che il grande poeta francese , uno dei più popolari del XX° secolo, scelse di vivere gli ultimi suoi anni in una casa circondata da un giardino fiorito. L’ultima dimora del poeta dell’amore, della libertà, della fantasia e della satira pungente contro i potenti, si trova lì. A poca distanza della casa c’è la piccola chiesa di Saint-Martin con il suo minuscolo cimitero dove riposano, insieme, i Prévert : Jaques,la moglie Janine e la figlia Michelle. A settant’anni, nel 1970
( il poeta era nato nel 1900 a Neuilly-sur-Seine,alle porte di Parigi), decise di comprare questa
casa nel luogo dove il suo grande amico, lo scenografo Alexandre Trauner, abitava già da qualche tempo.Un anno più tardi, i Prévert si stabilirono lì. Jaques aveva frequentato quelle zone già nei primi anni ’30, amando l’oceano e quei paesaggi selvaggi, spazzati dai venti, con i pascoli delimitati dai muretti a secco, a fianco di vertiginose falesie e splendide insenature. A Omonville-la-Petite, con i suoi 128 abitanti, la vita scorre tranquilla. La zona è poco conosciuta perché bisogna proprio scegliere di andarci, deviando decisamente dalle solite mete turistiche. I colori di questa terra sono talmente forti da stordire. Il cielo è cangiante e passa dal celeste intenso al grigio ferro delle nuvole che, sulla Manica, portano a tratti pioggia e vento. Le viuzze tra campi, giardini e vecchie mura, sono strette e dall’entroterra scendono verso le rocce e le spiagge. Un
paesaggio, quello della Hague, capace di sedurre chiunque. Anche il poeta dell’amore. Per capire la magia di questi luoghi basterebbe recarsi sulla punta di La Hague, accarezzata dal raz blanchard, l’ondata “biancastra”, una delle più forti correnti di marea del mondo. La vita di Prévert, in quegli anni, venne scandita da un tempo lento, dedicato alle passeggiate, agli ultimi lavori, alle visite degli amici più stretti come Yves Montand, Juliette Greco, Raymond Queneau, Joseph Losey e Serge Reggiani. Appassionato dei collage, compose e regalò questi montaggi d’immagini di volta in volta spassosi, satirici o decisamente sovversivi. Le sue ultime pagine, “tra gravità e tenerezza”, ne descrivono la ricerca sui temi dell’infanzia e dell’amore, del confine stretto tra la vita e la morte,
con quel segno indelebile che ne accompagnò tutta l’esistenza e la produzione poetica e letteraria: l’irriducibile desiderio di rivolta e d’insubordinazione nei confronti delle ingiustizie. Fino alla fine, divorato da un cancro ai polmoni causato dalle immancabili, troppe sigarette, continuò a scrivere e lavorare. Morì lì, in quella casa, l’11 aprile del 1977. Nella “maison Jacques Prévert” – al n.3 Hameau Le Val , aperta solo di pomeriggio – si possono visitare le stanze, il suo atelier, il giardino e vedere un film sulla sua vita. Un incredibile percorso artistico, quello di Prévert. Dagli anni del surrealismo alle scenografie per il cinema, dove collaborò con Jean Renoir, Andrè Cayatte, Claude Autant-Lara e soprattutto Marcel Carné (un sodalizio, il loro, che ci ha
regalato, film-capolavoro come Il porto delle nebbie e Alba tragica) fino alle sue poesie che in molti casi sono state tradotte in canzoni. Un’esistenza intensa che sintetizzò in un aforisma: “La vita è una ciliegia. La morte il suo nòcciolo. L’amore il ciliegio”. Negli scaffali del suo studio ampio e luminoso si ammirano le varie edizioni – tantissime – delle sue opere: le raccolte di versi di maggiore successo, come Parole (1945), La pioggia e il bel tempo(1955), Alberi (1976); le antologie tradotte in italiano Le foglie morte e Poesie d’amore. Mentre calano le prime ombre della sera, bagnate da una pioggerella fine e insistente, viene quasi voglia di attendere il buio e rileggere le Trois allumettes: “Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte/Il primo per vederti tutto il viso/Il secondo per vederti gli occhi/L’ultimo per vedere la tua bocca/E tutto il buio per ricordarmi queste cose/Mentre ti stringo fra le braccia”.
Marco Travaglini
E’ morta dopo esser stata investita da un’automobile sull’Aurelia a Savona. La donna, di 77 anni, era in bici e stava pedalando sulla corsia dedicata ai mezzi a due ruote quando è stata travolta da una utilitaria. E’ stata sbalzata e ha sfondato il parabrezza della vettura rotolando a terra. Trasportata in codice rosso al pronto soccorso dell’ospedale è morta dopo alcune ore per le gravi ferite riportate.
Alla fine del Trecento Bisanzio è accerchiata, sta per cadere nelle mani dei turchi. I crociati europei cadono rovinosamente sotto i colpi degli Ottomani. In terra bulgara, prima a Nicopoli nel 1396 e poi a Varna sul Mar Nero nel 1444 si spengono le ultime speranze dei cavalieri cristiani di respingere gli Ottomani che avanzavano nei Balcani senza incontrare resistenza. La situazione è drammatica e l’Europa sembra sul punto di rispondere alla minaccia che arriva da Oriente. L’ombra dei sultani comincia a riflettersi sulle acque dorate del Corno d’Oro nella capitale bizantina sul Bosforo. Tocca a Manuele II Paleologo, imperatore di Bisanzio, giocare l’ultima disperata carta e chiedere l’aiuto dell’Europa. Si imbarca su una galea veneziana e parte con l’obiettivo di convincere i sovrani europei a coalizzarsi e aiutare militarmente Costantinopoli prima che sia troppo tardi. Accolto dal doge, Venezia è la prima tappa e, dopo la regina dei mari, raggiunge Milano, Parigi e Londra in un lungo viaggio
compiuto tra il 1399 e il 1403 portando con sé rari e pregiati doni diplomatici e religiosi destinati ai sovrani europei e ai due Papi residenti a quel tempo a Roma e ad Avignone. Tra questi importanti regali spicca “l’icona di San Luca” di Freising (città presso Monaco di Baviera), opera bizantina che
raffigura la Madonna con il capo reclinato e le braccia protese in avanti nell’atto di pregare, dal titolo “La speranza dei disperati”, un simbolo del tragico momento in cui si trovava Costantinopoli tra la fine del Trecento e il Quattrocento, con i turchi alle porte. Ebbene, per la prima volta dopo oltre sei secoli l’icona di San Luca, custodita da sempre in Germania, è tornata a Venezia, la città della sua prima destinazione in Europa. È esposta nei saloni della Biblioteca Marciana della città lagunare nella mostra “Gli ultimi giorni di Bisanzio. Splendore e declino di un Impero”. Il prezioso oggetto, che risale al X secolo e, secondo l’antica tradizione cristiana, sarebbe stato dipinto dallo stesso apostolo Luca, è l’anima della mostra alla Biblioteca Marciana suddivisa in otto sezioni che illustrano il contesto storico e politico che portò alla caduta di Costantinopoli, il significato del viaggio di Manuele II in Europa e le testimonianze dell’intenso scambio culturale e commerciale tra Venezia e Bisanzio all’inizio dell’Umanesimo. Quando, nel 1402, il sultano Bayezid I, detto la Folgore, fu sconfitto ad Ankara da Tamerlano, il terribile condottiero dei Mongoli e l’incubo ottomano fu improvvisamente scacciato da Bisanzio, Manuele II interpretò l’inaspettata vittoria come un dono della Madonna “dei senza speranza”. Un breve documentario presenta la drammatica situazione di Bisanzio negli ultimi decenni prima della caduta di Costantinopoli. Nonostante l’acuirsi del conflitto bizantino-ottomano non mancarono tentativi di incontro pacifico tra le due culture e religioni, come dimostra il famoso manoscritto dei “Dialoghi con un musulmano” di Manuele II. Nella mostra si possono vedere le carte geografiche dell’epoca che presentano Costantinopoli e Venezia, luoghi di partenza e di approdo dell’imperatore nel suo tour in Europa. Tra i doni visibili nell’esposizione ci sono il reliquiario con una bolla imperiale donato all’antipapa Benedetto XIII e il reliquiario delle Spine della corona di Cristo dal Duomo di Pavia. L’icona di San Luca fu donata a uno degli uomini più potenti del tempo, Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano. Entrò poi in possesso dei veronesi della Scala e nel 1440 Nicodemo della Scala, vescovo di Freising, la regalò al Duomo della città. Le ultime sezioni della mostra illustrano la lunga tradizione di stretti rapporti tra Bisanzio e Venezia, già provincia dell’Impero romano d’Oriente, attraverso pezzi di grande valore realizzati a Bisanzio e giunti in laguna in epoche diverse come le cinque legature per libri liturgici della Biblioteca Marciana, la stauroteca (il reliquiario con frammenti di legno della croce di Cristo) del cardinale Basilio Bessarione proveniente dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia e il cofanetto per reliquie di Trebisonda conservato nel Tesoro di San Marco. Venezia si conferma città “bizantina” per eccellenza. Non solo per i legami storici ma anche per ciò che conserva da secoli, come l’icona della Madonna Nikopeia (portatrice di vittoria), conservata nella Basilica di San Marco, che gli imperatori portavano in battaglia come amuleto o come l’icona di San Luca che a Venezia non poteva mancare, almeno per qualche mese. L’esposizione, nata da una cooperazione tra il Museo diocesano di Freising e la Biblioteca Marciana di Venezia, è aperta al pubblico nelle sale monumentali della Biblioteca Nazionale Marciana fino al 5 marzo 2019, tutti i giorni, 10.00-17.00, con ingresso dal Museo Correr.
Filippo Re
Alla fine del Trecento Bisanzio è accerchiata, sta per cadere nelle mani dei turchi. I crociati europei cadono rovinosamente sotto i colpi degli Ottomani. In terra bulgara, prima a Nicopoli nel 1396 e poi a Varna sul Mar Nero nel 1444 si spengono le ultime speranze dei cavalieri cristiani di respingere gli Ottomani che avanzavano nei Balcani senza incontrare resistenza. La situazione è drammatica e l’Europa sembra sul punto di rispondere alla minaccia che arriva da Oriente. L’ombra dei sultani comincia a riflettersi sulle acque dorate del Corno d’Oro nella capitale bizantina sul Bosforo. Tocca a Manuele II Paleologo, imperatore di Bisanzio, giocare l’ultima disperata carta e chiedere l’aiuto dell’Europa. Si imbarca su una galea veneziana e parte con l’obiettivo di convincere i sovrani europei a coalizzarsi e aiutare militarmente Costantinopoli prima che sia troppo tardi. Accolto dal doge, Venezia è la prima tappa e, dopo la regina dei mari, raggiunge Milano, Parigi e Londra in un lungo viaggio
compiuto tra il 1399 e il 1403 portando con sé rari e pregiati doni diplomatici e religiosi destinati ai sovrani europei e ai due Papi residenti a quel tempo a Roma e ad Avignone. Tra questi importanti regali spicca “l’icona di San Luca” di Freising (città presso Monaco di Baviera), opera bizantina che
raffigura la Madonna con il capo reclinato e le braccia protese in avanti nell’atto di pregare, dal titolo “La speranza dei disperati”, un simbolo del tragico momento in cui si trovava Costantinopoli tra la fine del Trecento e il Quattrocento, con i turchi alle porte. Ebbene, per la prima volta dopo oltre sei secoli l’icona di San Luca, custodita da sempre in Germania, è tornata a Venezia, la città della sua prima destinazione in Europa. È esposta nei saloni della Biblioteca Marciana della città lagunare nella mostra “Gli ultimi giorni di Bisanzio. Splendore e declino di un Impero”. Il prezioso oggetto, che risale al X secolo e, secondo l’antica tradizione cristiana, sarebbe stato dipinto dallo stesso apostolo Luca, è l’anima della mostra alla Biblioteca Marciana suddivisa in otto sezioni che illustrano il contesto storico e politico che portò alla caduta di Costantinopoli, il significato del viaggio di Manuele II in Europa e le testimonianze dell’intenso scambio culturale e commerciale tra Venezia e Bisanzio all’inizio dell’Umanesimo. Quando, nel 1402, il sultano Bayezid I, detto la Folgore, fu sconfitto ad Ankara da Tamerlano, il terribile condottiero dei Mongoli e l’incubo ottomano fu improvvisamente scacciato da Bisanzio, Manuele II interpretò l’inaspettata vittoria come un dono della Madonna “dei senza speranza”. Un breve documentario presenta la drammatica situazione di Bisanzio negli ultimi decenni prima della caduta di Costantinopoli. Nonostante l’acuirsi del conflitto bizantino-ottomano non mancarono tentativi di incontro pacifico tra le due culture e religioni, come dimostra il famoso manoscritto dei “Dialoghi con un musulmano” di Manuele II. Nella mostra si possono vedere le carte geografiche dell’epoca che presentano Costantinopoli e Venezia, luoghi di partenza e di approdo dell’imperatore nel suo tour in Europa. Tra i doni visibili nell’esposizione ci sono il reliquiario con una bolla imperiale donato all’antipapa Benedetto XIII e il reliquiario delle Spine della corona di Cristo dal Duomo di Pavia. L’icona di San Luca fu donata a uno degli uomini più potenti del tempo, Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano. Entrò poi in possesso dei veronesi della Scala e nel 1440 Nicodemo della Scala, vescovo di Freising, la regalò al Duomo della città. Le ultime sezioni della mostra illustrano la lunga tradizione di stretti rapporti tra Bisanzio e Venezia, già provincia dell’Impero romano d’Oriente, attraverso pezzi di grande valore realizzati a Bisanzio e giunti in laguna in epoche diverse come le cinque legature per libri liturgici della Biblioteca Marciana, la stauroteca (il reliquiario con frammenti di legno della croce di Cristo) del cardinale Basilio Bessarione proveniente dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia e il cofanetto per reliquie di Trebisonda conservato nel Tesoro di San Marco. Venezia si conferma città “bizantina” per eccellenza. Non solo per i legami storici ma anche per ciò che conserva da secoli, come l’icona della Madonna Nikopeia (portatrice di vittoria), conservata nella Basilica di San Marco, che gli imperatori portavano in battaglia come amuleto o come l’icona di San Luca che a Venezia non poteva mancare, almeno per qualche mese. L’esposizione, nata da una cooperazione tra il Museo diocesano di Freising e la Biblioteca Marciana di Venezia, è aperta al pubblico nelle sale monumentali della Biblioteca Nazionale Marciana fino al 5 marzo 2019, tutti i giorni, 10.00-17.00, con ingresso dal Museo Correr.
Filippo Re
DALLA CAMPANIA Tragico bilancio di due morti e un ferito in uno scontro tra due auto avvenuto sulla fondovalle Isclero, nei pressi dello svincolo per Airola, nel Beneventano, forse a causa del fondo stradale viscido per la pioggia. Coinvolte una vettura su cui viaggiavano un uomo e una donna sessantenni di Casoria (Napoli), morti sul colpo, e un’altra utilitaria, guidata da una donna di Cervinara (Avellino) che è rimasta ferita e ora è ricoverata in ospedale.
Campagna elettorale permanente
Il vicepremier Luigi di Maio, a oltre 70 anni di distanza, si accorge che c’è un franco francese (CFA ) che fa da scudo per 15 Paesi africani che, liberamente, lo vogliono soppesandone pro e contro e attacca nuovamente la Francia
Questo perché, dovendo rincorrere il suo alleato Matteo Salvini, non trova di meglio che prendersela con i cugini francesi in modo scomposto, generico e senza senso. A questo si aggiunge il ritorno di Alessandro Di Battista che gli dà man forte; “rentré” (per dirla alla francese) di cui non sentivamo affatto la mancanza. C’è da sperare che Di Battista che ha in programma una scampagnata in India lo tengano là come hanno fatto con i due Marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone . Continuare così a farci nemici da tutte le parti senza cercare alleanze per tutelare i nostri interessi ci porterà alla rovina. Se da un lato siamo convinti che le frontiere debbano essere controllate e non si portare portare 2 miliardi di africani in Italia, dall’altro lato, crediamo che attaccare sempre tutti e in particolare i francesi, senza essere “giustificati” da un fallo di reazione ci mette dalla parte del torto.
La Francia ha molte colpe, ma attaccarla così è controproducente Se per merito di Luigi Di Maio, noi siamo stati rozzi negli attacchi, i francesi sono stati più scaltri. Il richiamo dell’ambasciatrice italiana in Francia, Teresa Castaldo non è infatti avvenuto da parte del ministro degli Esteri, ma bensì da parte di Nathalie Loiseau, ministro per gli Affari Europei francesi.È inutile dire che per i due ambasciatori (Christian Masset a Roma e Teresa Castaldo a Parigi) non è un compito facile mantenere il dialogo e al contempo rappresentare i rispettivi governi. È già capitato che alcuni ambasciatori venissero convocati in passato, per esempio dal ministro Tremonti quando Lactalis comprò Parmalat (2011) o dalla Farnesina in occasione dell’incidente a Bardonecchia (marzo 2018), così non s’era mai visto. Si possono far valere le proprie ragioni, ma la classe non è acqua! Tralasciando l’immagine Di Battista che strappa la banconota francese (CFA), purtroppo in Italia è sempre campagna elettorale. Il voto europeo di primavera si avvicina e sarà una guerra senza esclusioni di colpi e, come in guerra, i morti ci saranno da tutte le parti,ma sarebbe ora che il buon senso facesse capolino da tutte le parti, in Italia, ma anche Oltralpe. In fatto di buon senso, l’accordo di Francia e Germania stipulato ad Aquisgrana che richiama il ricordo alla Linea Sigfrido non ne dimostra molto!
Tommaso Lo Russo