Il 4 maggio del 1919, esattamente cento anni fa, un aereo italiano, Caproni 450, decollato poco dopo le 8 della stessa mattina dall’aeroporto friulano di Campoformido, nella fase di atterraggio aviosuperficie di Vainorj, vicino a Bratislava, in vista del castello e del campanili della città slovacca (diventata dal 1 gennaio 1993 capitale della Repubblica di Slovacchia, Stato aderente all’Unione Europea), dopo aver sorvolato il Danubio e compiuto un ampio giro sulla città si schiantava al suolo

I soccorritori non potevano fare altro che costatare il decesso immediato delle quattro persone a bordo: il tenente pilota Gioiotto Mancinelli Scotti, il sergente Umberto Merlin, il motorista Umberto Aggiusti, tutti in forza alla Regia Aviazione Italiana e Milan Ratislav Stefanik, ministro della Guerra della prima repubblica Cecoslovacca, oltre che astronomo ed aviatore provetto, naturalizzato francese e per il Paese d’Oltralpe aveva raggiunto il grado di generale proprio durante il conflitto mondiale. La sua figura in Italia, nonostante il legame che ebbe con il nostro Paese durante la ‘Grande Guerra’ non è abbastanza nota, anzi è caduta quasi nell’obblio, eppure fu lui l’animatore del progetto che prese corpo con la costituzione della Legione Czeco-Slovacca (come si diceva allora) che fu il primo vero embrione del futuro stato cecoslovacco nato sulle ceneri della dissoluzione dell’Impero Asburgico. Fu lui che il 6 marzo 1918, ricevuto da Vittorio Emanuele Orlando, il docente di diritto che divenne il ‘Presidente della Vittoria’ (poi buttata alle ortiche a Versailles) disse “Io non voglio nulla. Vi sciolgo da qualsiasi vincolo morale. Non vi domando altro, se non che la mia gente muoia per il suo ideale”. E Orlando ricordo che “In quel momento io ero il presidente del consiglio d’un grande stato di 36 milioni di liberi cittadini e davanti a me c’era un esule, un uomo ramingo senza casa, senza patria, ma in quel momento sentìì l’animo mio inchinarsi per riverenza di fronte a quell’uomo di tanta grandezza morale, da rappresentare la forza più potente che v’era al mondo: la forza dell’idea”. Stefanik era legato anche sentimentalmente ad un’italiana, la marchesina Giuliana Benzoni, nipote prediletta di Ferdinando Martini, il ‘letterato prestato alla politica’, già governatore dell’Eritrea e ministro regio delle Colonie. Di questo legame ne parla pure, sia pure sommariamente, Giovani Amendola in un suo libro di memorie, nel quale ricorda come l’amica Giuliana avesse perso il suo compagno per quel tragico indicente. La sua morte, nonostante i rapporti ufficiali, anche italiani, lo escludessero, generò da subito sospetti e teorie di complotti, complice il fatto che il neonato governo cecoslovacco di Tomas Masaryk impose il segreto di Stato. Negli anni vi è stato chi ha visto come una delle possibili teorie complottiste il fatto che Stefanik, slovacco di nascita ed etnia, avrebbe chiesto, in sintonia con il protocollo firmato da Masaryk il 30 maggio 1918, una maggiore autonomia per gli slovacchi. Ma è altrettanto vero che con Masaryk ebbe sempre vicinanza. Al di là di teorie che possono essere più o meno fondate, potrebbe essere interessante vedere cosa disse il Re d’Italia, Vttiorio Emanuele III all’ambasciatore dello Stato slovacco costituito nel 1939 al momento della presentazione delle credenziali. Si dice che il sovrano avrebbe pronunciato una frase del tipo ‘Eh, il vostro Stefanik, le cose non sarebbero andate come è stato scritto’. Ma anche questo è un indizio troppo labile, da verificare nei verbali del protocollo diplomatico. Il generale-ministro venne seppellito nel memoriale nazionale a lui dedicato (come oggi gli è dedicato l’aeroporto di Bratislava) sulla collina di Bradlo che ammirava nella casa paterna da ragazzo, nella regione di Trencin. Con lui sono sepolti Merlin ed Aggiusti mentre le spoglie di Mancinelli Soctti vennero riportate in Italia dalla famiglia. Tra le opere che parlano di lui in italiano ci sono ‘La vita ribelle. Le memorie di un’aristocratica italiana tra belle epoque e repubblica’, di Giuliana Benzoni, raccolte da Viva Tedesco (il Mulino, 1985), il bel libro ‘Banditi o eroi ? Milan Ratislav Stefanik e la Legione Ceco-Slovacca’ di Sergio Tazzer (Kellerman, 2013) e ‘Milan Ratislav Stefanik, un breve profilo biografico’ (Associazione Tre Venezie-Slovacchia, 1995) di Milan Durica. Ed è proprio a quest’ultimo autore che voglio dedicare due parole. Teologo e docente all’Università di Padova, rientrato nel 1998 a vivere nel Paese natio, sul quale vorrei soffermarmi. Fu un colloquio avuto con lui in un pomeriggio di fine agosto del 2003, nella sua casa di Bratislava, ad aprirmi gli occhi sulla grandezza del ministro-astronomo-aviatore slovacco e a lui devo l’interesse, dopo aver letto proprio il profilo che ne aveva tracciato nel suo libro e l’interesse nell’approfondirne la figura.
Massimo Iaretti
La prima edizione venne stampata nella capitale francese da Sylvia Beach, fondatrice della leggendaria libreria “Shakespeare and Company”, uno dei principali centri della vita culturale parigina degli anni Venti, frequentato da artisti e romanzieri come Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald
La città in cui James Joyce visse fino al 1919 (seppur con diverse interruzioni per soggiorni a Pola, Roma e in Irlanda)fu l’austera, elegante e mitteleuropea Trieste. Città di carattere del tutto particolare ( come la descrisse Umberto Saba: “Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace. Con gli occhi azzurri e le mani troppo grandi per regalare un fiore;come un amore, con gelosia”), affascinò l’irlandese Joyce. Durante il suo lungo soggiorno triestino, oltre ad insegnare inglese alla Berlitz School, lo scrittore della “terra del trifoglio” completò la raccolta di racconti Gente di Dublino, pubblicando una seconda stesura della raccolta di poesie Musica da camera, scrisse il poema in prosa autobiografico Giacomo Joyce, ed iniziò, oltre al dramma Esuli, i primi tre capitoli del lavoro che gli diede fama internazionale: l’Ulisse, appunto. Dopo Trieste, Joyce visse per vent’anni a Parigi e morì in Svizzera, a Zurigo, a metà gennaio del 1941. A Trieste, oltre al museo a lui dedicato, si può ammirare la sua statua che si trova in uno dei luoghi più belli della città, il Ponterosso che attraversa il Canal Grande, nel quartiere teresiano. Il monumento in bronzo, raffigura lo scrittore mentre cammina sul ponte, assorto nei suoi pensieri, con un libro sottobraccio e il cappello in testa. La targa, riprendendo la “Lettera a Nora” del 1909, recita: “…la mia anima è a Trieste”. Alcune curiosità, tra le tante. Il 16 giugno è celebrato nelle maggiori città del mondo occidentale come “Bloomsday”. In occasione del centenario della giornata narrata nell’ Ulisse (il 16 giugno del 2004), a Dublino venne organizzato un pranzo per diecimila persone nella via principale. In Italia, a Genova, dal 2006 si celebra il “giorno di Bloom” con la lettura quasi integrale in italiano e brani in inglese dell’opera, dalle nove del mattino alla mezzanotte e in luoghi analoghi a quelli del romanzo. Chissà cosa ne penserebbe Joyce?!











Il 29 luglio 1890 Vincent Van Gogh si spegneva nella piccola camera dell’Auberge Ravoux che aveva raffigurato più volte nei suoi quadri durante i mesi trascorsi ad Auvers sur Oise, comune francese situato nel dipartimento della Val d’Oise, nella regione dell’Ile de France.
Il suo soggiorno durò dal mese di maggio fino al 29 luglio del 1890, giorno della sua morte.
accessibili delle città e dei villaggi, dei punti neri sulla carta di Francia? Se prendiamo il treno per andare a Tarascon oppure a Rouen, possiamo prendere la morte per andare in una stella”, un presagio di quello che sarebbe accaduto forse o, semplicemente, la lucida consapevolezza che soltanto la morte avrebbe potuto restituire la pace al suo corpo stanco e alla sua anima tormentata.
Visitare i cimiteri dove sono sepolti grandi poeti, scrittori e artisti suscita ricordi ed emozioni. Uno dei più importanti è senz’altro il “cimetìere du Sud” di Parigi, il grande camposanto di Montparnasse, secondo per grandezza e importanza solo al Père-Lachaise.
cambiamento”, nel 1890, venne aperta una strada ( la rueEmile-Richard) che divise i 19 ettari tra il piccolo e il grande camposanto. In questo museo a cielo aperto nel 14° arrondissement parigino, a lato dei viali tra cappelle e lapidi riposano le spoglie di anonimi cittadini a fianco di personaggi che hanno fatto la storia delle arti e della cultura. Per raccontare le biografie di chi s’incontra, vagando tra le tombe, non ci si può affidare ai 140 caratteri di un tweet. Nessun cinguettio elettronico può trasmettere la densità del pensiero, la profondità della poesia, l’emozione di opere d’arte che evocano incontri con pittori, poeti, drammaturghi, scrittori che dormono nel sonno eterno all’ombra di frondosi alberi di ogni specie. Nella porzione più piccola del cimitero s’incontrano subito le ultime dimore di André Citroén, fondatore dell’omonima e celebre casa automobilistica, di Charles Pigeon – inventore della lampada antiesplosione usata nelle miniere – che è sepolto con la moglie ed entrambi sono raffigurati nelle statue di bronzo coricate su un letto di marmo. Più avanti il pittore bulgaro JulesPascin e Auguste
Bartholdi, lo scultore che realizzo la Statua della Libertà situata all’ingresso del porto di New York. In una tomba di pietra con altri famigliari riposa invece Alfred Dreyfus, protagonista suo malgrado – perché innocente – dell’ affare Dreyfus , il più clamoroso caso politico scoppiato in Francia sul finire dell’800, ai tempi della Terza Repubblica, con l’ufficiale alsaziano di origine ebraica accusato di tradimento e complotto con il nemico tedesco. Dreyfus venne condannato alla prigionia sull’isola del Diavolo, nella Guyana francese. Il suo caso giudiziario divise l’opinione pubblica della Francia intera nel Paese e gran parte degli intellettuali, di fronte a quell’assurda
campagna d’odio razzista e antisemita si schierò dalla sua parte ( sul giornale L’Aurore, Émile Zolapubblicò il suo celebre J’accuse) fino alla sua piena, seppur tardiva,riabilitazione.Nella 26° divisione si trova il sepolcro di Guy de Maupassant, uno dei padri del racconto moderno, autore diBel Ami, mentre nella 30° è sepolto Léon Schwarzenberg, importante oncologo e protagonista dei più avanzati dibattiti sull’etica medica e scientifica, autore di “Changer la mort”, cambiare la morte. Nell’altra parte del cimitero di Montparnasse, la più grande, si possono fare incontri straordinari iniziando da Maurice Leblanc, creatore del ladro gentiluomo Arsène Lupin, la controparte francese dello Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle. Tra le varie “avenue” (Boulevart, du Nord, de l’Est e l’Ouest) e l’intrico di passaggi tra cappelle e lapidi è quasi impossibile non imbattersi in due grandi maestri del teatro dell’assurdo come Eugène Ionesco e
Samuel Beckett. Sulla tomba di quest’ultimo un anonimo ammiratore ha posato una carota, omaggio orticolo-letterario che richiama il suo capolavoro,“Aspettando Godot”( “Lui non saprà niente. Parlerà dei calci che si è preso e io gli darò una carota”). Da lì in avanti il visitatore curioso incrocerà i sepolcri di Susan Sontag, grande scrittrice e intellettuale statunitense, dei registi Joris Ivens – uno dei più grandidocumentaristi del XX° secolo – e Alain Resnais, ispiratore della “nouvelle vague”e autore di pellicole importanti come L’anno scorso a Marienbad e Mon oncle d’Amérique, oppure amati attori come Philippe Noiret (con la scultura del piccolo cane a vegliarne il riposo) e Serge Reggiani, uno degli amici più stretti di Jacques Prévert. Anche Serge Gainsbourg è lì con loro, dopo averci turbato con i suoi sussurri, accompagnati dai sospiri di Jane Birkin quando in coppia – era il 1969 e non s’erano ancora spenti gli echi del maggio francese – cantarono “Je t’aime..moi non plus”. Questo geniale e sulfureo protagonista dello spettacolo francese, non era certamente di una bellezza classica ma era dotato di un fascino in grado di sedurre donne straordinariamente avvenenti. In un angolo di seconda fila giace Chaïm Soutine, ebreo russo perseguitato, genio tormentato della pittura e compagno di Amedeo Modigliani e degli altribohémien e artisti maledetti degli “années folles” di Montparnasse. La sua piccola lapide squadrata, con il nome quasi illeggibile, provoca una stretta al cuore per l’incuria e l’indifferenza a cui è stato
condannato. Poco distante da lui anche l’ultima dimora di Charles Baudelaire va rintracciata scorrendo i nomi incisi sulla tomba di famiglia, quasi nascosto sotto l’iscrizione ingombrante del padre adottivo, Jacques Aupick, e senza alcun particolare epitaffio. Troppo poco per l’autore dei Fleurs du Mal, opera collocata fra le più alte espressioni della poesia di tutti i tempi e paesi. Ma almeno per lui non manca mai la consolazione di un fiore, un biglietto, un pensiero a tenergli compagnia. Lungo il muro che delimita il cimitero, da una parte e dall’altra dell’entrata principale su Boulevard Edgar Quinet, si trovano i sepolcri di Simone De Beauvoir e Jean-Paul Sartre – che
nella vita e nella morte sono ancora insieme – e Marguerite Duras, con l’omaggio delle decine di penne di ogni tipo e colore infilate nel vaso dei fiori. Con lo scrittore Julio Cortázar formano un formidabile quartetto letterario, unendo le pagine delle “Memorie di una ragazza perbene” con quelle dell’esistenzialista che scrisse “La nausea” e “Il muro” e la ribelle che, grazie a “L’amante”, vinse il premio Goncourt. Certamente ci saranno tanti altri prot


