Dall Italia e dal Mondo- Pagina 27

Mantova, aperte le iscrizioni alla Scuola di Palazzo Te

Sono aperte fino al 15 maggio 2019 le iscrizioni alla Scuola di Palazzo Te, il percorso di ricerca residenziale della Fondazione Palazzo Te dedicato alle arti e alla progettualità culturale, in programma nel periodo estivo a Palazzo Te
I programmi didattici 2019, articolati nei due moduli “Studiare Arte” e “Fare Arte”, sono aperti a studenti, professionisti e mediatori della cultura italiani ed internazionali. La mission della Scuola di Palazzo Te è di accrescere le capacità di azione, di pensiero e di sviluppo nel campo della produzione culturale contemporanea. L’intervento si concentra in particolare sulla relazione tra patrimonio, tradizione, linguaggi ereditati, cultura contemporanea e capacità di progetto, con l’intento di ispirare visione, nuove prospettive di ricerca, nuovi progetti culturali e formare alle capacità necessarie alla loro attuazione.
Studiare Arte
È un percorso residenziale di 5 giorni dal 17 al 21 giugno 2019. Organizzato in collaborazione con il Courtauld Institute of Art di Londra, il corso è dedicato agli studenti interessati a sviluppare le proprie competenze visive e analitiche attraverso il contatto diretto con un monumento complesso come Palazzo Te di Giulio Romano (1525-1535). Insieme al Prof. Guido Rebecchini, gli studenti spenderanno cinque giorni esplorando il Palazzo, con pieno accesso ai suoi spazi. Durante la residenza del gruppo a Mantova, gli studenti esamineranno in modo innovativo questa straordinaria villa cinquecentesca in cui architettura, pittura e scultura convivono e si relazionano in maniera profonda.  La classe sarà formata da circa 15 studenti, dottorandi di ricerca e studiosi.
Fare Arte
È un percorso residenziale di 9 giorni dal 25 giugno al 3 luglio 2019, quest’anno alla seconda edizione. Si terrà a Palazzo Te sotto la guida di tre esperti di arte contemporanea e produzioni culturali: Stefano ArientiMariangela Gualtieri e Stefano Baia Curioni. Il corso prevede 2 seminari monografici condotti dai due artisti, e una sessione comune pomeridiana sull’implementazione e lo sviluppo progettuale guidata dal Direttore della Fondazione Baia Curioni.
Il corso si rivolge a un gruppo di 35 artisti, operatori e mediatori culturali.

Stefanik, il ministro-astronomo-aviatore slovacco

Il 4 maggio del 1919, esattamente cento anni fa, un aereo italiano, Caproni 450, decollato poco dopo le 8 della stessa mattina dall’aeroporto friulano di Campoformido, nella fase di atterraggio aviosuperficie di Vainorj, vicino a Bratislava, in vista del castello e del campanili della città slovacca (diventata dal 1 gennaio 1993 capitale della Repubblica di Slovacchia, Stato aderente all’Unione Europea), dopo aver sorvolato il Danubio e compiuto un ampio giro sulla città si schiantava al suolo

I soccorritori non potevano fare altro che costatare il decesso immediato delle quattro persone a bordo: il tenente pilota Gioiotto Mancinelli Scotti, il sergente Umberto Merlin, il motorista Umberto Aggiusti, tutti in forza alla Regia Aviazione Italiana e Milan Ratislav Stefanik, ministro della Guerra della prima repubblica Cecoslovacca, oltre che astronomo ed aviatore provetto, naturalizzato francese e per il Paese d’Oltralpe aveva raggiunto il grado di generale proprio durante il conflitto mondiale. La sua figura in Italia, nonostante il legame che ebbe con il nostro Paese durante la ‘Grande Guerra’ non è abbastanza nota, anzi è caduta quasi nell’obblio, eppure fu lui l’animatore del progetto che prese corpo con la costituzione della Legione Czeco-Slovacca (come si diceva allora) che fu il primo vero embrione del futuro stato cecoslovacco nato sulle ceneri della dissoluzione dell’Impero Asburgico. Fu lui che il 6 marzo 1918, ricevuto da Vittorio Emanuele Orlando, il docente di diritto che divenne il ‘Presidente della Vittoria’ (poi buttata alle ortiche a Versailles) disse “Io non voglio nulla. Vi sciolgo da qualsiasi vincolo morale. Non vi domando altro, se non che la mia gente muoia per il suo ideale”. E Orlando ricordo che “In quel momento io ero il presidente del consiglio d’un grande stato di 36 milioni di liberi cittadini e davanti a me c’era un esule, un uomo ramingo senza casa, senza patria, ma in quel momento sentìì l’animo mio inchinarsi per riverenza di fronte a quell’uomo di tanta grandezza morale, da rappresentare la forza più potente che v’era al mondo: la forza dell’idea”. Stefanik era legato anche sentimentalmente ad un’italiana, la marchesina Giuliana Benzoni, nipote prediletta di Ferdinando Martini, il ‘letterato prestato alla politica’, già governatore dell’Eritrea e ministro regio delle Colonie. Di questo legame ne parla pure, sia pure sommariamente, Giovani Amendola in un suo libro di memorie, nel quale ricorda come l’amica Giuliana avesse perso il suo compagno per quel tragico indicente. La sua morte, nonostante i rapporti ufficiali, anche italiani, lo escludessero, generò da subito sospetti e teorie di complotti, complice il fatto che il neonato governo cecoslovacco di Tomas Masaryk impose il segreto di Stato. Negli anni vi è stato chi ha visto come una delle possibili teorie complottiste il fatto che Stefanik, slovacco di nascita ed etnia, avrebbe chiesto, in sintonia con il protocollo firmato da Masaryk il 30 maggio 1918, una maggiore autonomia per gli slovacchi. Ma è altrettanto vero che con Masaryk ebbe sempre vicinanza. Al di là di teorie che possono essere più o meno fondate, potrebbe essere interessante vedere cosa disse il Re d’Italia, Vttiorio Emanuele III all’ambasciatore dello Stato slovacco costituito nel 1939 al momento della presentazione delle credenziali. Si dice che il sovrano avrebbe pronunciato una frase del tipo ‘Eh, il vostro Stefanik, le cose non sarebbero andate come è stato scritto’. Ma anche questo è un indizio troppo labile, da verificare nei verbali del protocollo diplomatico. Il generale-ministro venne seppellito nel memoriale nazionale a lui dedicato (come oggi gli è dedicato l’aeroporto di Bratislava) sulla collina di Bradlo che ammirava nella casa paterna da ragazzo, nella regione di Trencin. Con lui sono sepolti Merlin ed Aggiusti mentre le spoglie di Mancinelli Soctti vennero riportate in Italia dalla famiglia. Tra le opere che parlano di lui in italiano ci sono ‘La vita ribelle. Le memorie di un’aristocratica italiana tra belle epoque e repubblica’, di Giuliana Benzoni, raccolte da Viva Tedesco (il Mulino, 1985), il bel libro ‘Banditi o eroi ? Milan Ratislav Stefanik e la Legione Ceco-Slovacca’ di Sergio Tazzer (Kellerman, 2013) e ‘Milan Ratislav Stefanik, un breve profilo biografico’ (Associazione Tre Venezie-Slovacchia, 1995) di Milan Durica. Ed è proprio a quest’ultimo autore che voglio dedicare due parole. Teologo e docente all’Università di Padova, rientrato nel 1998 a vivere nel Paese natio, sul quale vorrei soffermarmi. Fu un colloquio avuto con lui in un pomeriggio di fine agosto del 2003, nella sua casa di Bratislava, ad aprirmi gli occhi sulla grandezza del ministro-astronomo-aviatore slovacco e a lui devo l’interesse, dopo aver letto proprio il profilo che ne aveva tracciato nel suo libro e l’interesse nell’approfondirne la figura.

Massimo Iaretti

 
 

James Joyce, l’Ulisse e Trieste

 
 
La prima edizione venne stampata nella capitale francese da Sylvia Beach, fondatrice della leggendaria libreria “Shakespeare and Company”, uno dei principali centri della vita culturale parigina degli anni Venti, frequentato da artisti e romanzieri come Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald
 

Il 2 febbraio del 1922 cadeva di giovedì e a Parigi veniva pubblicato l’Ulisse, uno dei romanzi più importanti del Novecento e capolavoro del modernismo, scritto dall’irlandese James Joyce tra il 1914 e il 1921. Ad onore del vero, dal marzo 1919 al dicembre 1920, l’Ulisse uscì a puntate sulla rivista letteraria americana The Little Review, dedicata all’arte e alla letteratura sperimentale internazionale. Non senza suscitare clamori. Infatti, alcuni episodi vennero accusati di oscenità e indecenza, tanto che il romanzo fu bandito nel Regno Unito fino agli anni Trenta e lo stesso accadde anche negli Stati Uniti, finché nel 1933 un tribunale stabilì che il libro non era pornografico né osceno. La prima edizione venne stampata nella capitale francese da Sylvia Beach, fondatrice della leggendaria libreria “Shakespeare and Company”, uno dei principali centri della vita culturale parigina degli anni Venti, frequentato da artisti e romanzieri come Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald. Per risalire ad una edizione italiana bisogna invece arrivare al 1960 quando, per la prima volta, venne pubblicato da Mondadori nella collana della Medusa, diretta da Elio Vittorini. Il libro, piuttosto complesso e non esattamente di facile lettura, ambientato a Dublino, in Irlanda, racconta le vicende e il girovagare nella città di Leopold Bloom – una sorta di eroe moderno – in un’unica giornata, il 16 giugno del 1904. Giornata importante per l’autore che in  quella data conobbe la donna della sua vita, Nora Barnacle (divenuta ufficialmente sua moglie ventisette anni dopo,nel 1931).

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Insofferente al provincialismo bigotto di Dublino, Joyce lasciò la città nell’ottobre del 1904 con Nora. La città in cui James Joyce visse fino al 1919 (seppur con diverse interruzioni per soggiorni a Pola, Roma e in Irlanda)fu l’austera, elegante e mitteleuropea Trieste. Città di carattere del tutto particolare ( come la descrisse Umberto Saba: “Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace. Con gli occhi azzurri e le mani troppo grandi per regalare un fiore;come un amore, con gelosia”), affascinò l’irlandese Joyce. Durante il suo lungo  soggiorno triestino, oltre ad insegnare inglese alla Berlitz School, lo scrittore della “terra del trifoglio” completò la raccolta di racconti Gente di Dublino, pubblicando una seconda stesura della raccolta di poesie Musica da camera, scrisse il poema in prosa autobiografico Giacomo Joyce, ed iniziò, oltre al dramma Esuli, i primi tre capitoli del lavoro che gli diede fama internazionale: l’Ulisse, appunto. Dopo Trieste, Joyce visse per vent’anni a Parigi e morì in Svizzera, a Zurigo, a metà gennaio del 1941. A Trieste, oltre al museo a lui dedicato, si può ammirare la sua statua che si trova in uno dei luoghi più belli della città, il Ponterosso che attraversa il Canal Grande, nel quartiere teresiano. Il monumento in bronzo, raffigura lo scrittore mentre cammina sul ponte, assorto nei suoi pensieri, con un libro sottobraccio e il cappello in testa. La targa, riprendendo la “Lettera a Nora” del 1909, recita: “…la mia anima è a Trieste”. Alcune curiosità, tra le tante. Il 16 giugno è celebrato nelle maggiori città del mondo occidentale come “Bloomsday”. In occasione del centenario della giornata narrata nell’ Ulisse (il 16 giugno del 2004), a Dublino venne organizzato un pranzo per diecimila persone nella via principale. In Italia, a Genova, dal 2006 si celebra il “giorno di Bloom” con la lettura quasi integrale in italiano e brani in inglese dell’opera, dalle nove del mattino alla mezzanotte e in luoghi analoghi a quelli del romanzo. Chissà cosa ne penserebbe Joyce?!

Marco Travaglini

 

Con una mazza chiodata ferisce un transessuale

DALLA CAMPANIA
Un uomo è stato arrestato dai Carabinieri a Varcaturo (Napoli) con l’ accusa di atti persecutori e lesioni aggravate nei confronti di un transessuale e della sua compagna, una donna di 58 anni. L’aggressore trentenne  con un bastone di legno, che recava conficcati chiodi arrugginiti e’ riuscito a colpire il transessuale. Da un paio di mesi l’aggressore e la moglie avrebbero rivolto al transessuale ed alla sua convivente insulti e minacce verbali ed attraverso i “social”.

Orange-County. Paradiso di surfisti e skater

California dreaming… se sognate uno spicchio di paradiso soleggiato tutto l’anno, in cui sfidare le onde, skateare ed attivare la modalità divertimento assicurato, la meta è l’Orange County, (per popolazione seconda contea Californiana e quinta degli Stati Uniti d’America)

E’ al centro della Tech Coast, tra Los Angeles e San Diego (il confine col Messico è palpabile) e vanta alcune delle spiagge più cool d’America.
Chilometri e chilometri di sabbia frustati dalle onde dell’oceano Pacifico. Magari non c’è la famosa onda Hawayana Pipeline, ma anche qui i surfisti arrivano a frotte, si salutano col classico “Haloa” e poi via alla maniera di “Point Break” (film cult degli anni 90), cercando il punto di takeoff (l’attimo giusto in cui prendere il cavallone). Le spiagge dell’Orange County, oltre ad essere mete di veri e propri surf trip, di fatto, incarnano uno stile di vita. Il fitness impera: si corre, si cammina, si gioca a beach volley. E volendo più relax, si portano ombrelloni e sdraio da casa (concept agli antipodi di quello dei nostri litorali brulicanti di chioschi, stabilimenti balneari e masse di bagnanti). La scoperta delle spiagge più belle e gettonate dell’Orange County può partire dalla confinante Los Angeles che non è solo la mecca del cinema. La scalinata della Hollywood Highschool è infatti lo spot più ambito degli skater e sul suo corrimano hanno compiuto prodezze tutti i campioni della disciplina. Uno sport che in California sta appassionando anche le ragazzine, sempre più numerose nei contest, con spericolati trick (manovre). La spiaggia per eccellenza è quella di Santa Monica. Lunga circa 3miglia e mezzo, non ha bisogno di presentazione perché è l’esempio icona dei lidi californiani. Punto di riferimento il suo molo, animato da negozi, parco divertimenti e ristoranti. Al Pier, costruito nel 1909, si accede grazie ad una serie di ponti, passerelle e scale che lo collegano alla città; e dietro al molo c’è un’altra rampa di scale leggendaria per gli skater, il Santa Monica Triple Set. Invece, per mangiare tra mito cinematografico e american life style, la meta è il Bubba Gump Shrimps Co. (fa parte di una catena di ristoranti sparsi in più città USA). Qui tutto parla di Forrest Gump, con tantissimi cimeli del film ed ottimi gamberi declinati in tutte le portate possibili.
 
Huntintong Beach: soprannominata “Surf City” perché nei 14 chilometri della sua spiaggia si vola sulle onde con kite surf e surf, di cui ogni anno qui si disputa il campionato mondiale. Il petrolio racchiuso nelle falde marine è la principale risorsa, ma subito dopo nel bilancio c’è la voce turismo legato a questo sport. E intorno a tanta passione, shopping di alto livello, Resort di lusso, l’International Surfing Museum e il porto, con all’ancora parte della Flotta Militare Statunitense. Anche qui c’è un importante skatepark, punto di ritrovo per gli skater di tutto il mondo.
 
Laguna Beach: è stata il set della serie tv “O.C.” (The Real Orange County) un mix tra reality show e fiction che documentava la vita dei teenager del luogo (trasmessa da Mtv Italia dal 2004 al 2008). E’ soprattutto un centro ad alto tasso di creatività, con numerose gallerie ed il Festival of Art che ogni anno richiama il meglio di artisti e collezionisti. I residenti di Laguna Beach sono tra i più ricchi d’America e, tra i tanti Paperoni, qui ha casa anche la mamma di Leonardo di Caprio. Le ville sul mare -prezzo di partenza intorno ai 10 milioni di dollari- si sprecano, per lo più protette in comprensori con tanto di spiaggia privata.

Dana Point: è una delle 34 cittadine incorporate nella contea di Orange (area scoperta dagli spagnoli che nel 1776 vi eressero il primo insediamento europeo, la Missione di San Juan Capistrano). Ha uno dei pochi porti lungo la costa dell’Orange County, punto di partenza di mini crociere per ammirare balene e delfini. E’ un porto turistico, con negozi e ristoranti: consigliato l’ottimo menù a base di pesce dell’Harbour Grill Restaurant.Tra le sue spiagge la più bella è Strands Beach, una lunga lingua di sabbia sulla quale si affacciano ville miliardarie con piscine a sfioro… e costante sorveglianza di lifeguard.

E se surfisti e skater si infortunano?…Ecco dove sanare le ferite. Al South Coast Spine Center del Dr. David Sales, a Capistrano Beach. Clinica di eccellenza, prima al mondo specializzata in riabilitazione avanzata per surfisti, skater e snowbordisti che, tra una prodezza e l’altra, impattano con acqua, terra o neve. Tra chiropratica e biofisica, tecnologia e strumentazione all’avanguardia, integrazione con la pratica clinica e trattamenti estremamente specialistici, è qui che i campioni mondiali di questi sport estremi vengono rimessi in piedi e ricatapultati nell’agone sportivo. Ed imparano non solo a prevenire infortuni, ma anche a fare la giusta manutenzione del loro corpo sottoposto a stress decisamente fuori dal comune. Se poi volete immergervi ad oltranza nello spirito più profondo del surf …il libro da leggere è: William Finnegan “Giorni selvaggi: una vita sulle onde” (66Thand2Nd.) 25,00 Euro. L’autore -giornalista, scrittore e soprattutto appassionato di surf- con questo “memoir” ha vinto il Premio Pulitzer 2016. E nel libro c’è tutta la sua vita alla ricerca degli spot più famosi del mondo, spiagge dell’Orange County incluse.
 

Laura Goria


 
 

MIGRAZIONE: ACTIONAID, VIOLENZA DI GENERE SPINGE DONNE NIGERIANE NELLA RETE DELLA TRATTA

È la violenza di genere il fattore principale che spinge le donne nigeriane a lasciare il proprio Paese per raggiungere l’Italia, diventando vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Un vero e proprio “fattore di espulsione” che relega la donna ai margini della società nigeriana fino a costringerla alla partenza. È quanto emerge dal rapporto “Mondi connessi. La migrazione femminile dalla Nigeria all’Italia e la sorte delle donne rimpatriate”, realizzato da ActionAid insieme a BeFree, cooperativa contro tratta, violenze e discriminazioni, analizzando 60 verbali di audizioni di donne nigeriane segnalate come presunte vittime di tratta presso la Commissione territoriale di Roma, tra il 2016 e il 2017, per il riconoscimento della protezione internazionale.

 

Nel 61% dei casi analizzati la ragione principale dell’espatrio è proprio la violenza di genere (tra cui violenza dentro e fuori le mura domestiche e tentativi di matrimonio forzato). Il 33,3% delle donne fugge da situazioni di estrema povertà. Nel 66% dei casi sono donne con un’età compresa tra i 19 e i 24 anni e il loro arrivo in Italia è molto recente (l’86,7%), tra il 2015 e il 2017. Nella quasi totalità provengono dallo Stato di Edo, dove la tratta è un fenomeno strutturale ed endemico dovuto alle condizioni economiche, politiche e socio-culturali.

 

Le differenze di genere divengono, spesso indipendentemente dai contesti, disuguaglianza di genere: essere donne significa avere meno potere, risorse più scarse, maggiori ostacoli nell’accesso all’istruzione, all’occupazione; all’essere donna è attribuito uno status di inferiorità, di mancanza, di disvalore – dichiara Livia Zoli, Responsabile dell’Unità Global Inequality & Migration di ActionAid – Per questi motivi, parlare di migrazione non è un fatto neutro. L’approccio di genere è indispensabile per comprendere le diverse forme di espulsione dalla società, sia nel contesto d’origine che in quello d’approdo. Questo è uno degli aspetti cruciali del rapporto: la tratta si configura come uno degli strumenti in mano al potere maschile nell’esercitare violenza, quale parte di un sistema di dominio basato sul genere, che rende la violenza contro donne e ragazze estremamente redditizia e contribuisce a sancire l’abuso strutturale dei diritti delle donne”.

 

La ricerca evidenzia dunque un complesso dispositivo di subordinazione di genere che si alimenta di violenza e di tratta ai fini dello sfruttamento sessuale. Un sistema in cui l’emigrazione appare come una delle poche possibilità, se non la sola, di mobilità sociale per la componente femminile normalmente relegata ai margini o vittima di violenza di genere.

 

La tratta e lo sfruttamento sessuale delle giovani donne nigeriane sono drammaticamente aumentati negli ultimi anni in Italia. Secondo il rapporto dell’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), nel 2016 le donne di nazionalità nigeriana sbarcate sulle nostre coste sono state 11.009 rispetto alle circa 5.000 del 2015 e le 1.500 del 2014. L’OIM stima che circa l’80% di queste ragazze sono potenziali vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Secondo i dati forniti dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, nel 2016 il 59,4% delle donne sopravvissute alla tratta inserite nei programmi di protezione sociale era nigeriano.

 

Il rapporto “Mondi connessi” si concentra anche sulla sorte delle donne rimpatriate in Nigeria dall’Italia e dall’Europa, con interviste a donne inserite nei due progetti condotti dal Committee for the Support of the Dignity of Woman (COSUDOW), sia a Lagos che a Benin City. Alcune, nonostante le difficoltà del contesto, sono parse soddisfatte dal rientro perché sono tornate a casa e perché si sono trovate in condizioni talmente difficili in Europa che il ritorno nel Paese di origine è vissuto come una decisione obbligata e non una scelta. Altre hanno dichiarato invece che vorrebbero tornare in Italia. In realtà, non esistono dati ufficiali sulle condizioni delle donne rimpatriate non intercettate dalle Ong attive nel Paese e, se si pensa che nel 2016 sono state deportate 198 persone nigeriane e 246 nel primo semestre 2017, si può affermare che la grande maggioranza non viene raggiunta da percorsi di reinserimento, è generalmente stigmatizzata e rischia di ricadere nella rete della tratta. La ricerca evidenzia che le donne rimpatriate, anche in caso dei cosiddetti rimpatri volontari e assistiti, vivono una doppia espulsione (in Italia e in Nigeria), che aggrava ulteriormente le condizioni di vulnerabilità che le aveva spinte a lasciare il proprio Paese. Subiscono quindi un’espulsione, innanzitutto di ordine burocratico e amministrativo, dalla nostra società, che mostra il fallimento del sistema italiano di accoglienza e protezione e che si somma all’allontanamento dalla comunità d’appartenenza in Nigeria per ragioni economiche, sociali, culturali ed individuali.

 

Inadeguatezza delle normative, insufficienza di posti nelle strutture protette, ricorso sistematico al rimpatrio, svilimento del “binario sociale” per l’ottenimento del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale ai sensi dell’articolo 18 del Testo Unico sull’immigrazione a causa dell’esclusivo uso del binario giudiziario da parte delle Questure, concorrono a far sì che il sistema italiano non sia in grado di garantire la necessaria protezione e il rispetto dei diritti umani delle donne trafficate. E il quadro è evidentemente peggiorato con l’introduzione del Decreto Sicurezza. L’abrogazione della protezione umanitaria, il riassetto del sistema di accoglienza, il trattenimento legalizzato negli hotspot, le nuove procedure di frontiera e le norme ostative relative alle richieste di protezione reiterate sono alcuni degli aspetti del decreto che colpiscono anche le donne vittime o potenziali vittime di tratta.

 

Alla luce dei risultati emersi, ActionAid chiede a Governo e Parlamento italiani di applicare pienamente l’articolo 18, prevedendo inoltre una maggiore durata del permesso di soggiorno e rafforzando il sistema di protezione anti-tratta sostenuto dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio; aumentare la disponibilità alloggiativa per le  donne trafficate, aggiungendo la possibilità di accoglienza nel SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati, ex-SPRAR) per le richiedenti asilo presunte o potenziali vittime di tratta; migliorare le procedure di identificazione, evitando rimpatri forzati. Secondo ActionAid è necessario in generale un cambio radicale del Decreto Sicurezza, per garantire alle donne migranti irregolari di rivolgersi agli enti giudiziari e alle forze dell’ordine senza il timore di essere detenute o rimpatriate; disporre la chiusura delle strutture di detenzione amministrativa e trattenimento dei migranti perché violano gravemente la Costituzione, le norme internazionali e la Direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio degli stranieri in condizione di soggiorno irregolare; eliminare il criterio e la lista dei cosiddetti paesi sicuri; istituire un osservatorio che verifichi le condizioni di accoglienza riservate alle donne richiedenti asilo e titolari di protezione nelle diverse strutture, comprese quelle detentive.

A questo link https://drive.google.com/file/d/1xC2leh9Ju0TlcMhtg3iRqM92IDI-Okzh/view?usp=sharing il report completo.

Polveriera Nord Africa

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Sembra seduto su un vulcano in eruzione il nord Africa, dalla Libia all’Algeria. Sulla sponda sud del Mediterraneo solo l’Egitto sembra reggere l’urto dell’attacco terroristico e del vasto malcontento popolare. Con il pugno di ferro e con una repressione spietata

 La Libia è in guerra, l’Algeria senza presidente teme il contagio del caos libico mentre il Marocco osserva le crisi nordafricane preoccupato dalle vicende che scuotono Algeri. E tutto ciò a poche miglia di distanza dalle coste italiane ed europee. Centinaia di migliaia di persone continuano a manifestare nelle città algerine con alla testa i giovani che rappresentano il 60% della popolazione, assoluti protagonisti dei movimenti di protesta che hanno portato alle dimissioni del presidente Bouteflika. Le proteste sono continuate anche dopo le dimissioni di Abdelaziz Bouteflika, al potere da vent’anni, e l’annuncio di nuove elezioni presidenziali previste per il 4 luglio. Si chiedono riforme radicali, democrazia, pluralismo politico e fine della corruzione dilagante. Non solo ma si pretendono anche le dimissioni del presidente ad interim Abdelkader Bensalah e del premier Noureddine Bedoui, ritenuti troppo vicini a Bouteflika. C’è di più perchè una parte delle opposizioni non vuole andare alle urne con l’attuale sistema politico per cui gli islamisti del Partito della Giustizia e dello sviluppo e al-Nahda hanno deciso di boicottare le elezioni presidenziali. Le proteste, per ora, sono pacifiche e controllate dall’esercito ma il timore generale è che le manifestazioni possano degenerare in violenza da un momento all’altro, come già accaduto nei Paesi limitrofi. Gli algerini conoscono bene gli orrori della guerra civile vissuta sulla propria pelle negli anni Novanta. Lo scontro tra lo Stato e i terroristi islamisti provocò quasi 150.000 morti e molti ricordano che nel 2001 il malcontento popolare esploso nella Cabilia berbera contro il caro vita fu duramente represso dai militari con un centinaio di morti e migliaia di feriti. Con la guerra libica a est e la tensione sempre viva con il Marocco sul versante occidentale l’Algeria del dopo Bouteflika si scopre più debole e più vulnerabile. Algeri guarda con preoccupazione al caos libico e al pericolo di infiltrazioni terroristiche nel suo territorio. Alle tensioni sul lato orientale si aggiungono quelle al confine ovest con il regno di Maometto VI. Da quasi mezzo secolo l’Algeria rivendica il Sahara Occidentale, ex colonia spagnola, il cui territorio è stato occupato dal Marocco che deve fronteggiare la ribellione armata del Fronte Polisario creato e armato da Algeri. Si intrecciano così in modo drammatico le vicende delle due entità statali nordafricane, entrambe alla ricerca di riforme economiche e riconciliazione nazionale. Ma i veri pericoli si annidano proprio nella mancanza di stabilità e nel vuoto di potere. Sullo sfondo di un contesto regionale assai precario il grande incubo si chiama fondamentalismo religioso. Nel conflitto libico gli estremisti salafiti prevalgono nettamente nel fronte di al Sarraj ma sono presenti, pur in misura minore, anche in alcune brigate che appoggiano Haftar nell’assalto a Tripoli. In Algeria la Fratellanza musulmana cavalca sempre di più la protesta popolare contro il regime. Ciò significa che l’estremismo religioso e politico potrebbe un giorno andare al potere nelle due nazioni maghrebine. Siamo alla vigilia di una primavera islamista ad Algeri? La guerra libica contagia pericolosamente il Paese nord africano dove il nuovo stenta a decollare. Mentre il sistema politico resta saldamente nelle mani del regime e dell’esercito che controlla l’intero Paese dall’indipendenza nel 1962, l’opposizione è molto divisa lasciando così spazio ai movimenti estremisti e fondamentalisti. L’uscita di scena dell’ultraottantenne Bouteflika non ha placato la piazza che continua a chiedere la fine dell’attuale sistema di potere. Ma l’alternativa potrebbe essere peggiore e il caso dell’Egitto insegna. Mohammed Morsi, del partito islamista vicino ai Fratelli Musulmani vinse le elezioni presidenziali nel 2012, rimase in carica quasi un anno e poi fu deposto da colpo di Stato militare con il plauso dell’Occidente che non poteva consentire a un estremista islamico di trasformare il grande Paese del Nilo in un Stato confessionale retto dalla rigida applicazione della sharia, la legge coranica. Secondo analisti e osservatori del mondo arabo-maghrebino l’Algeria è a rischio infiltrazione di terroristi islamici provenienti dalla Libia e dal Mali come i seguaci di “al Qaeda nel Maghreb” (Aqim) e dell’Isis oltre ad altri gruppi radicali che combattono contro i governi locali nel Mali e in Ciad. La preoccupazione è diffusa anche tra i pochi cristiani presenti nel Paese (appena lo 0,2% , tra cui solo 8.000 cattolici, su 40 milioni di musulmani) per la presenza dell’Isis e di altri gruppi islamisti nella vicina Libia. L’Algeria è stata classificata dal Rapporto di “Open Doors” al 42° posto nella lista dei Paesi del mondo in cui è più difficile essere cristiani. Per evitare che la situazione in Algeria precipiti verso la destabilizzazione con un eventuale ritorno dei fondamentalisti islamici e del terrorismo diventa urgente lavorare per una transizione democratica con l’appoggio diplomatico della comunità internazionale e dell’Italia in particolare che deve essere pronta a svolgere un ruolo attivo nell’area. Dal gas alle migrazioni per noi italiani ci sono in ballo interessi vitali e nel caso di una crisi migratoria provocata da un possibile caos politico o per l’insorgere della minaccia terroristica ci troveremmo particolamente esposti per la vicinanza geografica. Le forniture di gas e petrolio dall’Algeria giungono regolarmente e non sono a rischio anche se la concitata Primavera algerina rischia di rallentare il rinnovo dei contratti energetici. Il tacito compromesso tra il governo nazionalista e laico di Bouteflika e i Fratelli Musulmani ha reso possibili vent’anni di stabilità dopo la lunga stagione del terrorismo. Ma la Fratellanza musulmana non ha mai rinunciato al potere e oggi alimenta la protesta popolare con l’obiettivo di conquistare il potere e insediare un regime fondamentalista sulla sponda meridionale del Mediterraneo sostenuto da Qatar e Turchia (gli stessi Paesi che appoggiano il governo di al Sarraj a Tripoli) e, dall’Algeria, destabilizzare l’intera regione nord africana.

dal settimanale “La Voce e il Tempo”

Tra i campi di grano di Auvers sur Oise…

Il 29 luglio 1890 Vincent Van Gogh si spegneva nella piccola camera dell’Auberge Ravoux che aveva raffigurato più volte nei suoi quadri durante i mesi trascorsi ad Auvers sur Oise, comune francese situato nel dipartimento della Val d’Oise, nella regione dell’Ile de France.
Oggi, a distanza di 128 anni dal suicidio del grande artista olandese, tutto ad Auvers sur Oise continua a parlare degli ultimi mesi della vita tragica e intensa di Vincent, il genio visionario che stravolse l’arte e che riuscì, in pochi anni, a passare dalle cupe atmosfere fiamminghe dei “Mangiatori di patate” ai gialli intensi dell’abbacinante Provenza, dai paesaggi di chiara influenza impressionista ai rami di mandorlo in fiore che richiamano le stampe giapponesi, dono per un altro Vincent, il piccolo figlio dell’amato fratello Theo, fino all’ultimo quadro, il lascito testamentario, “Campo di grano con volo di corvi” dipinto poco prima di spararsi.

Fu Paul Gachet, medico, pittore dilettante e appassionato collezionista, a far conoscere all’artista di Zundert Groot, Auvers sur Oise, località dove possedeva una casa e dove avrebbe potuto aiutarlo a riprendere una vita normale dopo il periodo di internamento nel manicomio di Saint Remy a seguito del taglio dell’orecchio.
Van Gogh rimase colpito dalla bellezza bucolica della cittadina sull’Oise e andò ad alloggiare dai Ravoux, una famiglia che gestiva un albergo di fronte al municipio, con la quale si accordò per occupare una piccola stanza e consumare i pasti nella sala al piano terreno.
Il suo soggiorno durò dal mese di maggio fino al 29 luglio del 1890, giorno della sua morte.

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In questi mesi, Van Gogh dipinse in un modo frenetico e disperato che può essere perfettamente descritto da una frase contenuta nell’ultima lettera al fratello Theo che non potè mai spedire e che gli venne trovata in una tasca della giacca che indossava il giorno del suicidio: “…Per il mio lavoro rischio ogni giorno la vita e la ragione vi è naufragata a metà”. Del resto l’arte era stata la sua unica ragione di vita e Vincent sembrava sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di più grande, con lo sguardo rivolto lontano, troppo lontano su altri mondi dove le stelle sono vortici e controvortici, dove i colori sono tanto intensi da diventare abbacinanti, da fare male agli occhi, dove tutto si deforma e gli oggetti diventano vivi, come se il Pigmalione Vincent vi avesse trasfuso la sua stessa essenza e la sua stessa ragione, dove le sedie vuote diventano persone e le persone simboli di qualcosa di più alto, della disperazione, della malinconia, del dolore, un mondo che soltanto lui poteva vedere, che soltanto le sue tele potevano rappresentare con una forza devastante.

L’arte, dopo aver preteso metà della ragione arrivava a chiedere a Van Gogh l’estremo sacrificio e il perdere la vita non era più soltanto un rischio, ma una necessità ineluttabile. Perché l’arte potesse sopravvivere, l’uomo, l’artista doveva scomparire.

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Nel 1889 Van Gogh si chiedeva “Perché i punti luminosi del firmamento ci dovrebbero essere meno accessibili delle città e dei villaggi, dei punti neri sulla carta di Francia? Se prendiamo il treno per andare a Tarascon oppure a Rouen, possiamo prendere la morte per andare in una stella”, un presagio di quello che sarebbe accaduto forse o, semplicemente, la lucida consapevolezza che soltanto la morte avrebbe potuto restituire la pace al suo corpo stanco e alla sua anima tormentata.
Il viaggiatore che si reca ad Auvers sur Oise si trova, in modo naturale e spontaneo, a percorrere la via dolorosa dell’artista: esce dall’auberge Ravoux, si immerge nei boschi, costeggia la vecchia chiesa, resa immortale dall’“immagine in cui la costruzione sembra viola contro un cielo blu scuro, cobalto puro” e in cui “le finestre sembrano come macchie di blu oltremare, il tetto è violetto e in parte aranciato”, e i campi ancora coltivati a grano, raggiunge le tre strade raffigurate in “Campo di grano con volo di corvi”, poi, lentamente, entra nel piccolo camposanto di campagna.

In questo luogo di pace, in un angolo, contro il muro grigio, ci sono due tombe unite dall’edera, due lapidi di pietra grezza. Su una è inciso: “Ici repose Vincent Van Gogh, 1854-1890”, sull’altra “Ici repose Theodore Van Gogh, 1857 – 1891”. I due fratelli che si sono adorati in vita e che la morte ha potuto separare soltanto per pochi mesi, riposano qui, tra i campi di grano di quest’angolo remoto di Francia dove forse hanno raggiunto la pace ricercata e mai trovata nelle loro brevi esistenze.

Barbara Castellaro

 

A Montparnasse dove riposano poeti, scrittori e artisti

Visitare i cimiteri dove sono sepolti grandi poeti, scrittori e artisti suscita ricordi ed emozioni. Uno dei più importanti è senz’altro il  “cimetìere du Sud” di Parigi,  il grande camposanto di Montparnasse, secondo per grandezza e importanza solo al Père-Lachaise. Situato nel XIV arrondissement della capitale francese, sulla rive gauche della Senna, un tempo era un terreno agricolo occupato da tre fattorie appartenenti a istituzioni caritatevoli come l’Hotel Dieu e Les Frères de la Charité. Già ai tempi della Rivoluzione francese gli appezzamenti vennero confiscati e a Montparnasse cominciarono ad essere seppelliti i poveri morti negli ospedali dei quali nessuno reclamava le spoglie. Successivamente, all’inizio del 1800, il prefetto del dipartimento della Senna, Nicolas Frochot, acquisì questi terreni per destinarli al cimitero e la prima inumazione ebbe luogo il 25 luglio 1824. Sul finire del “secolo del cambiamento”, nel 1890, venne aperta una strada ( la rueEmile-Richard) che divise i 19 ettari tra il piccolo e il grande camposanto. In questo museo a cielo aperto nel 14° arrondissement parigino, a lato dei viali tra cappelle e lapidi riposano le spoglie di anonimi cittadini a fianco di personaggi che hanno fatto la storia delle arti e della cultura. Per raccontare le biografie di chi s’incontra, vagando tra le tombe, non ci si può affidare ai 140 caratteri di un tweet. Nessun cinguettio elettronico può trasmettere la densità del pensiero, la profondità della poesia, l’emozione di opere d’arte che evocano incontri con pittori, poeti, drammaturghi, scrittori che dormono nel sonno eterno all’ombra di frondosi alberi di ogni specie. Nella porzione più piccola del cimitero s’incontrano subito le ultime dimore di André Citroén, fondatore dell’omonima e celebre casa automobilistica, di Charles Pigeon – inventore della lampada antiesplosione usata nelle miniere – che è sepolto con la moglie ed entrambi sono raffigurati nelle statue di bronzo coricate su un letto di marmo. Più avanti il pittore bulgaro JulesPascin e Auguste Bartholdi, lo scultore che realizzo la Statua della Libertà situata all’ingresso del porto di New York. In una tomba di pietra con altri famigliari riposa invece Alfred Dreyfus, protagonista suo malgrado – perché innocente – dell’ affare Dreyfus , il più clamoroso caso politico scoppiato in Francia sul finire dell’800, ai tempi della Terza Repubblica, con l’ufficiale alsaziano di origine ebraica accusato di tradimento e complotto con il nemico tedesco. Dreyfus venne condannato alla prigionia sull’isola del Diavolo, nella Guyana francese. Il suo caso giudiziario divise l’opinione pubblica della Francia intera  nel Paese e gran parte degli intellettuali, di fronte a quell’assurda campagna d’odio razzista e antisemita si schierò dalla sua parte (  sul giornale L’AuroreÉmile Zolapubblicò il suo celebre J’accuse) fino alla sua piena, seppur tardiva,riabilitazione.Nella 26° divisione si trova il sepolcro di Guy de Maupassant, uno dei padri del racconto moderno, autore diBel Ami, mentre nella 30° è sepolto Léon Schwarzenberg, importante oncologo e protagonista dei più avanzati dibattiti sull’etica medica e scientifica, autore di “Changer la mort”, cambiare la morte. Nell’altra parte del cimitero di Montparnasse, la più grande, si possono fare incontri straordinari iniziando da Maurice Leblanc, creatore del ladro gentiluomo Arsène Lupin, la controparte francese dello Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle. Tra le varie “avenue” (Boulevart, du Nord, de l’Est e l’Ouest) e l’intrico di passaggi tra cappelle e lapidi è quasi impossibile non imbattersi in due grandi maestri del teatro dell’assurdo come Eugène Ionesco e Samuel Beckett. Sulla tomba di quest’ultimo un anonimo ammiratore ha posato una carota, omaggio orticolo-letterario che richiama il suo capolavoro,“Aspettando Godot”( “Lui non saprà niente. Parlerà dei calci che si è preso e io gli darò una carota”). Da lì in avanti il visitatore curioso incrocerà i sepolcri di Susan Sontag, grande scrittrice e intellettuale statunitense, dei registi Joris Ivens – uno dei più grandidocumentaristi del XX° secolo – e Alain Resnais, ispiratore della “nouvelle vague”e autore di pellicole importanti come L’anno scorso a Marienbad e Mon oncle d’Amérique, oppure amati attori come Philippe Noiret (con la scultura del piccolo cane a vegliarne il riposo) e Serge Reggiani, uno degli amici più stretti di Jacques Prévert. Anche Serge Gainsbourg è lì con loro, dopo averci turbato con i suoi sussurri, accompagnati dai sospiri di Jane Birkin quando in coppia – era il 1969 e non s’erano ancora spenti gli echi del maggio francese – cantarono “Je t’aime..moi non plus”. Questo geniale e sulfureo protagonista dello spettacolo francese, non era certamente di una bellezza classica ma era dotato di un fascino in grado di sedurre donne straordinariamente avvenenti. In un angolo di seconda fila  giace Chaïm Soutine, ebreo russo perseguitato, genio tormentato della pittura e compagno di Amedeo Modigliani e degli altribohémien e artisti maledetti  degli “années folles” di Montparnasse. La sua piccola lapide squadrata, con il nome quasi illeggibile, provoca una stretta al cuore per l’incuria e l’indifferenza a cui è stato condannato. Poco distante da lui anche l’ultima dimora di Charles Baudelaire va rintracciata scorrendo i nomi incisi sulla tomba di famiglia, quasi nascosto sotto l’iscrizione ingombrante del padre adottivo, Jacques Aupick, e senza alcun particolare epitaffio. Troppo poco per l’autore dei Fleurs du Mal, opera collocata fra le più alte espressioni della poesia di tutti i tempi e paesi. Ma almeno per lui non manca mai la consolazione di un fiore, un biglietto, un pensiero a tenergli compagnia. Lungo il muro che delimita il cimitero, da una parte e dall’altra dell’entrata principale su Boulevard Edgar Quinet, si trovano i sepolcri di Simone De Beauvoir e Jean-Paul Sartre – che nella vita e nella morte sono ancora insieme – e Marguerite Duras, con l’omaggio delle decine di penne di ogni tipo e colore infilate nel vaso dei fiori. Con lo scrittore Julio Cortázar formano un formidabile quartetto letterario, unendo le pagine delle “Memorie di una ragazza perbene” con quelle dell’esistenzialista che scrisse “La nausea” e “Il muro” e la ribelle che, grazie a “L’amante”,  vinse il premio Goncourt. Certamente ci saranno tanti altri prot
agonisti della storia e della cultura che giacciono a Montparnasse, nei luoghi che – insieme alla butte di Montmartre – rappresentavano il cuore della vita culturale parigina tra gli anni ’20 e gli anni ’30, dove si incontravano pittori e intellettuali. Un buon motivo per tornarci ancora per porgere un saluto e magari lasciare un segno, un omaggio a dei grandi che hanno lasciato un segno nella nostra vita con le loro opere.

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Marco Travaglini

(le foto sono di Barbara Castellaro)

La lezione dei Walser

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Da questa straordinaria storia si possono trarre ancora oggi utili insegnamenti per la tutela del territorio, il rispetto dei delicati equilibri della montagna, la promozione di uno sviluppo turistico ordinato, rispettoso della natura e del paesaggio, l’attenzione a non sfruttare oltre misura le risorse di un’area limitata

Inospitali, misteriose, ricettacolo di luoghi paurosi da evitare. In passato le montagne non furono ritenute abitabili oltre certi limiti. Lo storico romano Tacito le definì “Infames frigoribus Alpes”, considerando le Alpi un ostacolo al commercio ed al passaggio degli eserciti. Ne passò del tempo fino ad arrivare a poco prima dell’anno Mille quando, nell’Alto Vallese, nell’attuale Svizzera, iniziò la colonizzazione delle alte quote, la conquista della montagna da parte del contadino medioevale nel periodo in cui tutti aspettavano la fine del mondo. Protagonisti principali furono i Walser (il nome deriva da una contrazione di Walliser, vallesano) discendenti di un popolo “alemanno”, penetrato nell’alto medioevo a ridosso delle Alpi centrali. Acclimatati alle grandi altitudini dell’alto Vallese, a partire dalla seconda metà del XIII secolo, i Walser colonizzarono le zone più elevate delle Alpi ed in particolare le valli intorno al Monte Rosa, dando vita alle comunità d’Alagna, Gressoney, Issime, Rimella, Rima, Macugnaga e Ornavasso. Un’altra spinta migratoria portò, attraverso il Passo del Gries, alla conquista della Val Formazza (Pomattal), da dove fu poi raggiunto Bosco Gurin, nell’elvetico Canton Ticino. Questi coloni, arroccati e isolati nell’aspro ambiente dell’alta montagna, programmarono e realizzarono la vasta opera di bonifica di zone a quei tempi perlopiù disabitate, creando villaggi autosufficienti in grado di sopravvivere ai rigori di lunghi inverni. I prodotti del loro lavoro erano soprattutto di tipo caseario: il latte, il burro e il formaggio, provenienti dagli allevamenti bovini degli alpeggi. Poi fu realizzata la “Alpwirtschaft”, un’economia che consisté nell’unire agricoltura e allevamento. Da questa straordinaria storia si possono trarre ancora oggi utili insegnamenti per la tutela del territorio, il rispetto dei delicati equilibri della montagna, la promozione di uno sviluppo turistico ordinato, rispettoso della natura e del paesaggio, l’attenzione a non sfruttare oltre misura le risorse di un’area limitata. Averne cura non solo è un dovere ma è anche un fattore strategico per lo sviluppo economico e turistico delle “terre alte”. L’abate valdostano Aimé Gorret, nella seconda metà dell’Ottocento scriveva: “Un viaggiatore che parta per la montagna lo fa perché cerca la montagna, e credo che rimarrebbe assai contrariato se vi trovasse la città che ha appena lasciato”. Parole sagge delle quali tener conto.

Marco Travaglini