CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 98

Castello di Miradolo, Storie e storielle per futuri re e regine 

Domenica 10 novembre

 

Lettura nel Castello per bambini e visita guidata al parco storico tra i colori d‘autunno

 

 

Domenica 10 novembre alle ore 10.30 è in programma al Castello di Miradolo una mattinata incantata e avventurosa con “Storie e storielle per futuri re e regine”, dove i bambini potranno immergersi in un mondo di fiabe e racconti magici. Un evento speciale dedicato ai piccoli sognatori di età compresa tra i 2 e i 5 anni, che desiderano esplorare regni fantastici e incontrare personaggi straordinari. L’appuntamento, a cura di Fondazione Cosso, è all’interno della rassegna “Di Festa Teatrando 2024” di Nonsoloteatro.

Alle ore 15, con “La magia del foliage” e la guida di Emanuela Durand, naturalista e guida escursionistica, si scopriranno gli alberi centenari del parco e i ritmi biologici delle piante, osservando i cambiamenti che sopraggiungono nel giardino in queste settimane con l’avvento dei primi freddi e la preparazione al lungo inverno. Le foglie seccano e lentamente si tingono d’oro, di rosso e di arancione, come per mano di un abile pittore. Il giardino appare in una veste davvero insolita e affascinante.

INFO

Castello di Miradolo, via Cardonata 2, San Secondo di Pinerolo (TO)

Domenica 10 novembre, ore 10.30

Lettura nel Castello per bambini

Storie e storielle per futuri re e regine

Età: 2 – 5 anni

Costo: 6 euro a partecipante, per gli accompagnatori biglietto di ingresso alla mostra

Domenica 10 novembre, ore 15

La magia del foliage

Costo: 6 euro a partecipante + biglietto di ingresso al parco

Biglietti:

MOSTRA: 15 € intero mostra + parco, 12 € ridotto gruppi, convenzioni e over 65, 10 € 12-26 anni, studenti universitari | PARCO: 6 € intero parco, 4 € ridotto scuole, PineCult

Gratuito: bambini 0-11 anni, Disability card e accompagnatore, Passaporto culturale, Tessera Abbonamento Musei

Giorni e orari di apertura:

Sabato, domenica e lunedì ore 10-18.30

Informazioni: 0121 502761 prenotazioni@fondazionecosso.it

www.fondazionecosso.com

Torino tra architettura e pittura. Felice Casorati

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7  I Sei di Torino
8  Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

 

6) Felice Casorati (1883-1963)

Lungi da me sostenere che esistono periodi artistici di facile e immediata comprensione, ogni filone, ogni movimento e ogni tipologia d’arte necessita di un’analisi approfondita per penetrarne il senso, tuttavia mi sento di affermare che da una certa fase storica in poi le cose sembrano complicarsi.

Mi spiego meglio: siamo abituati a considerare “belle opere” le architetture classiche, così come le imponenti cattedrali gotiche o ancora i capolavori rinascimentali e gli spettacolari chiaroscuri barocchi; il comune approccio alla materia rimane positivo ancora per tutto il Settecento, ma poi, piano piano, con l’Ottocento le questioni si fanno difficili e lo studio della storia dell’arte inizia a divenire ostico. I messaggi di cui gli artisti sono portavoce diventano maggiormente complessi, entrano in gioco le rappresentazioni degli stati d’animo dell’uomo, del suo inconscio, si parla del rapporto con la natura e d’improvviso l’arte non è più quel “locus amoenus” rassicurante a cui ci eravamo abituati. La sensazione di spiazzante spaesamento raggiunge il suo apice con le opere novecentesche, le due guerre dilaniano l’animo degli individui e la violenza del secolo breve si concretizza in dipinti paurosi che di “bello” non hanno granché. I miei studenti, giunti a questo punto del programma, sono soliti lamentarsi e addirittura dichiarano che “potevano farli anche loro quei quadri” o che “sono lavori veramente brutti” e ci vuole sempre un lungo preambolo esplicativo prima di convincerli a seguire la lezione senza eccessivo scetticismo.
Nel presente articolo vorrei soffermarmi su di un autore che si inserisce nel difficile contesto del Novecento, un autore le cui opere sono cariche di inquietudine e rappresentano per lo più immote figure silenziose, come imprigionate in atemporali visioni oniriche.  Sto parlando di Felice Casorati, uno dei protagonisti indiscussi della scena novecentesca italiana, attivo a Torino, dove si circonda di ferventi artisti volenterosi di proseguire i suoi insegnamenti.


Ma andiamo per ordine e, come mi piace sempre ribadire in classe, “contestualizziamo” l’artista, ossia inseriamo l’artista in un “contesto” storico-culturale ben determinato per meglio definire il senso e il portato dell’opera.
Nei primi anni Venti del Novecento, grazie all’iniziativa della critica d’arte Margherita Sarfatti, si costituisce il cosiddetto gruppo del “Novecento”, di cui fanno parte sette artisti in realtà molto differenti tra loro: Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi e Mario Sironi. Le differenze stilistiche sono più che evidenti poiché alcuni sono esponenti vicini al Futurismo, altri invece si dimostrano orientati verso un ritorno all’ordine, altri ancora hanno contatti con la cultura mitteleuropea. La definizione di “Novecento”, con cui tali pittori sono soliti presentarsi, allude all’ambizione di farsi protagonisti di un’epoca, di esserne l’espressione significativa. Il gruppo si presenta alla Biennale di Venezia del 1924 come “Sei pittori del Novecento”(Oppi presenzia all’avvenimento con una personale). L’esposizione viene felicemente acclamata dalla critica, tanto che, sulla scia del successo ottenuto a Venezia, la Sarfatti si impegna ad organizzare in maniera più incisiva il movimento, quasi con l’intento di trasformarlo in una “scuola”. I risultati si manifestano chiaramente: nel 1926 al Palazzo della Permanente di Milano viene organizzata un’esposizione con ben centodieci partecipanti. Il movimento “Novecento” si è ormai allargato tanto da comprendere gran parte della pittura italiana: fanno parte della cerchia quasi tutti gli artisti del momento, da Carrà a De Chirico, da Morandi a Depero, da Russolo allo stesso Casorati.  Tra i soggetti prediletti rientrano la figura umana, la natura morta e il paesaggio. Presupposti comuni sono il totale rifiuto del modernismo e un continuo riferimento alla tradizione nazionale, soprattutto a modelli trecenteschi e rinascimentali.

Con il passare degli anni il gruppo si fa sempre più numeroso e l’organizzazione del movimento si trasforma, la direzione delle iniziative artistiche ricade anche nelle mani di artisti di prima formazione quali Funi, Marussing e Sironi, insieme a personalità conosciute come lo scultore Arnolfo Wildt e i pittori Arturo Tosi e Alberto Salietti. Diventano via via numerosi i contatti con centri espositivi internazionali; alcuni artisti italiani trasferitisi all’estero si fanno appassionati organizzatori di “mostre novecentesche”, come dimostra ad esempio l’iniziativa di Alberto Sartoris, architetto torinese residente in Svizzera, il quale si occupa di organizzare nel paese di residenza un’ampia esposizione artistica del gruppo. Nel 1930, addirittura, il “Novecento” espone a Buenos Aires, avvenimento doppiamente importante, poiché grazie a tale iniziativa la critica Sarfatti riesce a ricapitolare nel catalogo della mostra le molteplici tappe del movimento. Espongono in Argentina ben quarantasei artisti, tra cui Casorati, De Chirico e Morandi.

 


Come è evidente, l’eterogeneità del gruppo manca di direttive e connotati chiari e univoci. Il tedesco Franz Roth conia appositamente per gli artisti di “Novecento” l’espressione “realismo magico”, che indica una rappresentazione realistica –domestica, familiare- ma al tempo stesso sospesa, estatica, come allucinata. Esemplificativo per esplicitare tale concetto è il dipinto di Antonio Donghi, “Figura di donna”, opera in cui domina una straniante immobilità incantata, la scena è immobile e l’osservatore percepisce che nulla sta per accadere e nulla è accaduto precedentemente.
Ed ecco che di “realismo magico” si può parlare anche per Felice Casorati (1883-1963), artista attivo nella prima metà del Novecento e docente di Pittura presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino.
Egli nasce a Novara, il 4 dicembre del 1883; il lavoro del padre, che è un militare, comporta che la famiglia si sposti spesso. Felice trascorre l’infanzia e l’adolescenza tra Milano, Reggio Emilia e Sassari, infine la famiglia si stabilisce a Padova, dove il ragazzo porta avanti la sua formazione liceale. A diciotto anni inizia a soffrire di nevrosi, ed è costretto a ritirarsi per un po’ sui Colli Euganei; proprio in questo periodo, Felice inizia a dedicarsi alla pittura. A ventiquattro anni -siamo nel 1907- si laurea in Giurisprudenza, ma decide di non proseguire su quel percorso, per dedicarsi all’arte, nello stesso anno parte per Napoli per studiare le opere di Pieter Brueghel il Vecchio, esposte presso il Museo Nazionale di Capodimonte.


Nel 1915, si arruola volontario nella Prima Guerra Mondiale, lo stesso fanno molti suoi contemporanei come Mario Sironi, Achille Funi Filippo Tommaso Marinetti, Carlo Carrà, Gino Severini, Luigi Russolo e Umberto Boccioni.
Nel 1917, dopo la morte del padre, Felice si trasferisce a Torino, dove attorno a lui si riuniscono artisti e intellettuali della città. Tra questi vi è Daphne Maugham, che diventerà sua moglie nel 1930 e dalla quale avrà il figlio Francesco, anche lui futuro pittore.
Casorati a Torino ha molti allievi nella sua scuola e presso il corso di Pittura dell’Accademia Albertina. Gli artisti più noti legati al suo insegnamento sono riuniti nel gruppo “I sei di Torino”, tra questi Francesco Menzio, Carlo Levi, Gigi Chessa e Jessie Boswell.
La sua ascesa artistica è sostenuta da diverse amicizie, tra cui il critico d’arte Lionello Venturi, la critica milanese Margherita Sarfatti, gli artisti di Ca’ Pesaro, il mecenate Riccardo Gualino e l’artista di Torinese Gigi Chessa insieme al quale partecipa al recupero del Teatro di Torino.
L’artista non lascerà più il capoluogo piemontese, e qui morirà il 1 marzo del 1963 in seguito ad un’embolia.
L’autore è da considerarsi “isolato”, con un proprio personalissimo percorso, pur tuttavia incrociando talvolta le proprie idee con altre ricerche artistiche di gruppi o movimenti a lui contemporanei.
Secondo alcuni critici, le opere di Casorati sono intrise di intimità religiosa. Lo stile pittorico dell’autore si modifica nel tempo, i primi lavori sono infatti decisamente realistici e visibilmente ispirati alle opere della Secessione Viennese; negli stessi anni si può notare l’influenza di Gustav Klimt, che porta Felice ad abbracciare per un breve periodo l’estetica simbolista. L’influsso klimtiano è particolarmente evidente in un’opera del 1912, “Il sogno del melograno”, in cui una donna giace dormiente su un prato fiorito. Il prato intorno alla fanciulla è cosparso di una moltitudine di fiori di specie differenti, mentre dall’alto pendono dei grossi grappoli di uva nera. I riferimenti all’artista viennese sono concentrati nella figura della ragazza, con chiari rimandi ai decorativismi delle “donne-gioiello” protagoniste di raffigurazioni quali “Giuditta” (1901), “Ritratto di Adele Bloch-Bauer”(1907) o il celeberrimo “ll bacio” (1907-08).
La figura del soggetto ricorda inoltre le opere preraffaellite, nello specifico l’ “Ofelia” di Sir John Everett Millais.


Negli elaborati degli inizi del Novecento, invece, sono evidenti i riferimenti a capolavori italiani del Trecento e del Quattrocento; nello stesso periodo l’autore si concentra su una generale semplificazione del linguaggio e sullo studio di figure sintetiche. Intorno agli anni Venti del secolo scorso impronta il suo stile a una grande concisione lineare, anche se è nel primo dopo-guerra che egli definisce il suo stile peculiare, caratterizzato da figure immobili, assorte, rigorosamente geometriche, quasi sempre illuminate da una luce fredda e intensa. Appartengono a questi anni alcuni dei suoi capolavori, come “Conversazione platonica” o “Ritratto di Silvana Cenni”. Per quest’ultima opera Casorati si rifà al celebre capolavoro rinascimentale “Sacra Conversazione” di Piero della Francesca, di cui riprende l’atmosfera sospesa, quasi metafisica, ottenuta grazie alla rigidità con cui Felice ritrae la donna  –seduta, assorta e immobile-  alla resa scenografica del paesaggio e alla fittizia disposizione degli oggetti all’interno della stanza. Le figure di Casorati sono volumetriche, solide e immote, come pietrificate, l’artista ne esalta i valori plastici grazie al sapiente uso del colore tonale. Nelle ultime tele, le fanciulle ritratte risulteranno quasi geometrizzate, esito di una notevole sintesi formale.
L’illuminazione risulta artificiale e per nulla realistica, effetto sottolineato dal fatto che Casorati non mostra quasi mai il punto di provenienza della luce; il risultato finale è quello di un mondo sospeso, raggelato e senza tempo.
Negli anni Trenta Casorati si dedica a dipingere nature morte con scodelle o uova, soggetti che ben si prestano ad interpretare il suo linguaggio plastico semplificato; egli esegue inoltri diversi nudi femminili in ambienti spogli e alcune tele che presentano disturbanti maschere, tema a lui già caro, come testimonia l’opera “Maschere” del 1921.
Davanti ai lavori di Felice Casorati non possiamo che rimanere attoniti e pensosi, intrappolati nel suo mondo metafisico.
L’arte è così, lo vedo con i miei studenti, non finisce mai di metterci alla prova, continua a incentivare pensieri e confronti e per quanto possa essere “lontano da noi” essa è capace di stimolare discussioni su tematiche sempre inesorabilmente e meravigliosamente attuali.

Alessia Cagnotto 

Pio Carlo Barola, percorso di un artista

La rassegna antologica, nel castello di Casale Monferrato, è uno splendido omaggio all’intero percorso artistico di Pio Carlo Barola, pittore e incisore con all’attivo prestigiose esposizioni accompagnate da entusiastiche recensioni di importanti critici tra cui Albino Galvano, Raffaele de Grada, Angelo Dragone oltre a incisori famosi quali Remo Wolf, Andrea Disertori e Francesco Tabusso.

Con originalità e stile personale Barola è riuscito, affidandosi ad una tecnica sperimentata di linea e colore, a conciliare molteplici suggestioni dell’arte del passato con le avanguardie storiche e le provocazioni dell’arte contemporanea. Avvolte in un sottile divertimento, che a sua volta Albino Galvano definì “scanzonato”, si armonizzano tra loro linee liberty avvolgenti e decorative accanto allo svettante dinamismo futurista, colori fauves accanto a chiaroscuri luministici come nella trasposizione del “S.Girolamo” di Caravaggio trasferito ai giorni nostri con un pacchetto di sigarette e un orologio al polso a simbolo di memento mori. Interessante anche il dipinto “omaggio a Zurbaran”, a cui toglie sacralità e misticismo secentesco risolvendolo nel clima novecentesco del realismo magico.

Da rilevare il suo grande impegno come organizzatore, insieme ad Antonio Barbato e a Gianpaolo Cavalli, riguardo la Biennale di grafica ed ex libris che da tempo si svolge con successo nella sala Chagall del castello Paleologo di Casale Monferrato.

Giuliana Romano Bussola

Emanuele Luzzati tra Fiaba e Fantasia

 

Nelle sale di “Palazzo Salmatoris” a Cherasco, si ricorda, con un’esaustiva retrospettiva, l’eclettico artista genovese

Dal 9 novembre al 23 febbraio 2025

Cherasco (Cuneo)

Di fronte alle oltre 80 opere a firma di Emanuele Luzzati, presentate da sabato 9 novembre a domenica 23 febbraio 2025 nel seicentesco “Palazzo Salmatoris” di Cherasco (Cuneo), i torinesi, soprattutto, non potranno non andare subito, con occhi cuore e memoria, al magico fiabesco “Presepe” – abitato dai Santi, dagli Angeli e dai personaggi della tradizione mescolati a colorati vivaci protagonisti delle fiabe, dipinti su tavole di legno e adornati con pezzi di stoffa – che dal 1997 (fu allora la prima delle “Luci d’Artista” volute dall’indimenticato assessore comunale alla “Cultura”, Fiorenzo Alfieri) inaugura le subalpine feste natalizie in alcuni delle più iconiche location della Città, a partire, solo per citarne alcune, dal “Giardino Sambuy” di piazza Carlo Felice fino al “Borgo Medievale” e agli interni ed esterni del “Teatro Regio” in piazza Castello, dopo aver traslocato per un anno nella Capitale.

Luzzati, dunque, e il suo magnifico, unico e fantastico, “Presepe”. Ma Emanuele (Lele) Luzzati, nato nel 1921 in “quella Genova – scriveva – dove si entra dai tetti delle case … labirintica come un bosco, la mia migliore musa” e a Genova scomparso, nel 2007, fra le mura di quella casa di via Caffaro dove ha abitato quasi tutta la vita, è stato nel mondo dell’arte tante e tante e tante altre “cose”. Così tante da rendere comprensibilmente non poco impegnativo e faticoso un adeguato allestimento espositivo come quello realizzata dalla Città di Cherascoin collaboborazione con l’“Associazione Cherasco Eventi”, sotto la curatela di Cinzia Tesio e Rino Tacchella. Artista in ogni settore dell’arte applicata e fedele “portatore sano” di uno stile personalissimo, “solo apparentemente ‘bambinesco’ – si è scritto – ma partecipe di una cultura figurativa vastissima” (in cui possono ravvisarsi riferimenti al surrealismo di Ghagall o al “Cavaliere Azzurro” di Kandinsky fino alla coinvolgente emozionalità di certo “espressionismo tedesco”), Luzzati, attraverso tecniche le più diverse (dalla terracotta allo smalto, dall’intreccio di lane per arazzi all’incisione su supporti vari, fino ai collage di carte e tessuti), è stato infatti un abile scenografo e costumista teatrale (più di 500 le scenografie realizzate per Prosa, Lirica e Danza nei principali teatri italiani e stranieri), ha illustrato libri per bambini (fra cui le “Fiabe Italiane” di Calvino) e storie per adulti, con regolarità ha prodotto opere in ceramica, sculture e pannelli di grandi dimensioni, ha progettato e prodotto film d’animazione (fra cui “La Gazza Ladra” e “Pulcinella” che gli valsero due nominations agli “Oscar”), ha progettato e decorato interni di case e chiese, ha reinventato graficamente i “mezzari” genovesi, fino a ridisegnare giocosi parchi per bimbi e adulti.

Infinito dunque il materiale a disposizione – proveniente da Collezioni private, dal “Centro Studi Teatro Stabile” di Torino e dalle Gallerie “Il Bostrico” di Albisola e “Il Vicolo” di Genova – che ha indotto gli organizzatori dell’attuale retrospettiva cheraschese ad articolare lo spazio espositivo in tre sezioni tematiche.

La prima dedicata a “ceramica” e scultura” dove sono raccolti dipinti su ceramica e sculture ritagliate nel legno o plasmate con l’argilla o, ancora, vasi inutilizzabili perché bucati con porte o finestre da cui si affacciano i suoi personaggi. A seguire, la sezione dedicata al “teatro”, con progetti di scenografie, costumi dei personaggi disegnati a pastello o costruiti a collage e alcuni esempi di “manifesti” teatrali, come quello realizzato per lo “Stabile” di Torino, datato ’63 e annunciante la messa in scena de “Il bugiardo” di Goldoni. Terza sezione, infine, le “illustrazioni dei libri”,  quasi tutte eseguite con la tecnica del collage utilizzata per l’abbigliamento dei personaggi, mentre gli arti e i volti, estremamente espressivi, sono realizzati con pastelli a cera. In questa sezione, si potranno anche ammirare i “lavori grafici” realizzati con la “tecnica dell’acquaforte” che hanno come caratteristica la lastra non quadrata o rettangolare, ma ritagliata secondo il profilo del personaggio.

Ovunque, e in ogni modo, “racconti” mandati, mano nella mano, con “sogni” improbabili e un’infinita, poetica “fantasia”. A comporli quel “surrealismo dei padri del surrealismo”, come scriveva su “L’Unità” (22 aprile 1979) Edoardo Sanguineti. Racconti, eh sì, perché “la memoria – scriveva Luzzati – è una cosa fredda. Il racconto invece è caldo: è tutta la vita che racconto, io che sono così avaro di parole”.

Gianni Milani

“Emanuele Luzzati tra Fiaba e Fantasia”

Palazzo Salmatoris, via Vittorio Emanuele 31, Cherasco (Cuneo); tel. 0172/427050

Fino al 23 febbraio 2025

Orari:dal merc. al ven. 14,30/18,30; sab. dom. e festivi 9,30/12,30 e 14,30/18,30

Nelle foto: Emanuele Luzzati “Il viaggio (verso il Castello), pastelli su cera, 1997; “Pinocchio e la Fata Turchina”, pastelli a cera su carta, anni ’80; “La casa con sette persone”, scultura in ceramica, 1968; “Il bugiardo”, manifesto originale, 1963

“Interferenze” nello storico Teatro di Barriera

Al via a Torino la stagione teatrale allo “Spazio Kairòs”, nell’ex fabbrica tra “Aurora” e “Barriera di Milano”

Dal 9 novembre

In scena il Collettivo napoletano di “Generazione Disagio”, con il trio Luca Mammoli, Enrico Pittaluga e Graziano Siressi, impegnati nella commedia “Art” scritta dalla drammaturga francese (e tradotta in circa trenta lingue) Yasmina Reza. Si apre, sabato 9 novembre, con questa pièce “crudele e divertente sull’amicizia”, la nuova stagione teatrale, dal titolo “Interferenze”, organizzata dalla Compagnia torinese “Onda Larsen” (con il contributo di “Fondazione CRT”, “Compagnia di San Paolo” e “Regione Piemonte”)  allo “Spazio Kairòs”, ex fabbrica convertita in teatro, situata in via Mottalciata 7, tra “Barriera di Milano” ed “Aurora”. “Interferenze”, perché questo titolo?  “Abbiamo chiamato così la nostra stagione – spiega Riccardo De Leo, vicepresidente di ‘Onda Larsen’ – perché vogliamo distinguerci come qualcosa di positivo che va a interferire, appunto, nella routine quotidiana delle persone. L’interferenza è vista come un cambiamento positivo che spezza i meccanismi di tutti i giorni, una bellezza inaspettata che coinvolge tutti, dai bambini agli adulti. Ma l’interferenza è intesa anche come sovrapposizione, perché noi entriamo nelle vite delle persone grazie al teatro e, senza accorgercene, creiamo bellezza, tutti insieme. Questa è una stagione diversa dalle altre con proposte inaspettate.

La rassegna di quest’anno, infatti, proporrà, fino a sabato 10 maggio, ben 15 titoli di qualità, mescolando monologhi e commedie, testi sull’attualità e spettacoli musicali. Una  stagione che è frutto di una ricerca di spettacoli provenienti da tante regioni italiane con particolare attenzione, laddove possibile, a ospitare “Compagnie” che promuovano spettacoli innovativi, con linguaggi attuali e alte capacità di intrattenimento. Genova,Parma, Cagliari, Modena, Livorno, Roma, Trento eBrescia: queste sono le città da cui arriva il settanta per cento delle “Compagnie” coinvolte, attraverso una scelta fatta mediante lunghe selezioni e in prima persona, cercando spettacoli in linea con l’idea di “Interferenza” di “Onda Larsen”.

Due le anteprime nazionali, “Tekken drama”per adulti e “Animal perfezione?” per i bambini. “Abbiamo poi riproposto – spiega Lia Tomatis di ‘Onda Larsen’ – un ‘format’ molto inclusivo della scorsa stagione che è unospettacolo ‘al buio’ dove viene presentato un grande classico del teatro per una capienza ridotta di spettatori che possono assistere bendati alla ‘performance’. La sensibilizzazione su un tema così delicato è un argomento che ci sta molto a cuore ma che esalta soprattutto un grande classico diShakespeare attraverso una compagnia giovane, ‘under 35’. In questo caso parliamo davvero di innovazione e tradizione. L’interferenza sta in ciò che non si vede. Naturalmente, nel ricco programma in agenda, non mancherà “Onda Larsen” con le sue produzioni “Resti Umani”, “Io, me e Lupin” e “Il sogno di Bottom”.

Ultimo aspetto: i “Generi”. “Ospitiamo – continua Tomatis – dal drammatico alla commedia, passando per la ‘stand up comedy’ e chiudendo con i ‘Moderni’, il concerto di una ‘band’ rinomata del torinese composta da artisti che hanno avuto anche un piccolo successo nazionale grazie ad ‘X Factor’”. Insomma “abbiamo cercato di spaziare su tutto per non avere etichette precise ma solo dare la certezza che a ‘Spazio Kairòs’ il tempo sarà sempre ben speso perché come dice il nome, Kairòs, la nostra è la casa del tempo di qualità.

Per info sul programma dettagliato: tel. 351/4607575 o biglietteria@ondalarsen.org

g.m.

Nelle foto: Generazione Disagio in “Art”; Immagine guida della Rassegna; Onda Larsen in “Il sogno di Bottom”

“Il risveglio” di Pippo Delbono, tra malinconia e suggestioni e ricordi

Sino a domenica 10, all’Astra

 

La malinconia. Qualcuno ci costruisce attorno una vita o tanti momenti o una parte di essa, “è uno di quei giorni che ti prende la malinconia” prende a cantare l’Ornella, già molto prima dei novanta, quelli con l’aspirazione sempiterna del bicchierino di whiskey serale e della cannetta, là sullo schermo, sul palcoscenico dell’Astra, alle spalle del protagonista. Il teatro come un viaggio, come la summa delle emozioni e del periodo buio che si è trascorso, dei dolori che per due anni ti hanno completamente chiuso in casa, i segni evidenti di un logoramento, la depressione feroce e le manciate di antidepressivi, la morte di Bobò che avevi tirato fuori dal manicomio di Aversa e che da anni lavorava con te, lui capace di buttare all’aria soltanto mugolii sconnessi e di ballare ma anche di riempire la scena, per te padre e fratello e maestro, la scomparsa di Bobò come un dolore fortissimo, per cui per cinque lunghi anni “non ho più potuto sentire la sua voce, non ho più potuto vedere una sua immagine”; e il ragazzo afgano e un innamoramento finito e la scomparsa della grande Pina Bausch che a lui e a Bobò era tanto affezionata.

Poi i ricordi e la solitudine si ampliano, “sette anni chiuso in un frigidaire” e la strada che s’incammina verso la vecchiaia, disseminata di Covid e di guerre alle porte di casa che quasi non interessano più perché c’è “la mia guerra” che mi assorbe e mi sconvolge.

Pippo Delbono, seduto al centro del palcoscenico vuoto, una landa beckettiana quasi, è il punto di contatto con il suo “Risveglio” tra il Festival delle Colline e la stagione del TPE – Fondazione Teatro Piemonte Europa. Per alcuni tratti, alle sue spalle, struggente sempre, il violoncello di Giovanni Ricciardi. Parla, racconta, rivive momenti, anche storie antiche come una fuga in moto nei Settanta per andare a sentire il concerto dei Who in Svizzera portandosi dietro un tomo “alto cosi” per preparare diritto privato a Legge, mentre la voce di Roger Daltrey – ricordate il Tommy di Ken Russell? – intona “See me Feel me” e lui, oggi, segue con i movimenti spezzati del corpo, muovendosi, ballando. “La vecchiaia” si potrebbe intitolare lo spettacolo, ma con un gran guizzo felice è diventato “Il risveglio”, legato invisibilmente al precedente “Amore” dove nel finale l’uomo andava a sdraiarsi sotto un albero secco che improvvisamente s’era ricoperto di fiori. Un dormire, quel dormire, che anticipava la chiusura, il quasi annientamento all’interno di un luogo fisico. Quella fuga, dentro gli anni Settanta, dove si facevano le rivoluzioni, liberi e innovativi, dice Delbono, dove si costruivano credo, “mi ricordo una volta”, mentre ora “sono solo canzonette”, inutili, eguali, piatte.

C’è il tempo che passa, c’è la malattia, c’è la vecchiaia che corre intorno e che tutti coinvolge, c’è l’io e la collettività, c’è la paura sempre più forte (“ho paura della vita, dell’amore, di restare senza amore, la paura di restare solo”) che si può combattere con un solo grido, “voglio gente! I want People!”. Perché la morte ha preso a circondarci, i compagni di scena – Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Margherita Clemente, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo e Grazia Spinella – portano in scena sacchi e rovesciano sabbia e ne fanno mucchi che prolungheranno ombre scure e che accoglieranno croci. “Quando passerà il tempo di soffrire?” si chiede Delbono, laddove con più convinzione Eduardo diceva che la “nuttata” – ma a un certo punto anche lui ci buttò dietro un punto interrogativo, a ripensarci – doveva prima o poi passare. “Voglio la pace”, ripete, mentre si ascolta ancora il crepitìo delle armi: e quella pace non può che passare attraverso l’abbraccio dei suoi attori, dei suoi compagni di lavoro, di quella che è la sua famiglia. Forse soltanto così il viaggio intrapreso potrà continuare. Perché in fondo la vita è “en rose” e ci si può mettere ancora una volta ad accennare passi di danza. Come sta facendo Bobò, ormai (da) lontano, sullo schermo. “È passato il tempo di soffrire, ora aspetto il tempo di rinascere senza più paura, come un’aquila che sta a lungo nel nido e poi spicca il volo”.

Uno spettacolo coinvolgente, un prima persona che può espandersi attimo dopo attimo anche all’intero pubblico, una poesia alta fatta delle cose normali dell’esistenza, l’umanità e il dolore e la gioia, il risveglio che accomuna dopo un sonno troppo lungo. “Il risveglio” è struggente, è bello anche nei suoi gesti scomposti, imperfetti, è intriso di ricordi e di suggestioni, di lampi che potrebbero portare in mille altre direzioni, sciogliersi e ricomporsi, senza mai perdersi di forza. E di bellezza. Da vedere.

In occasione dello spettacolo, il Cinema Massimo organizza un ciclo dei film di Pippo Delbono: “Guerra” (8 novembre ore 21), “Grido” (9, ore 21), “Amore carne” e “Vangelo” (domenica 10 ore 18,45 e ore 20,30, con introduzione in sala dell’autore).

Elio Rabbione

Il codice del volo. Uno spettacolo su Leonardo

Dal mondo fantasioso di “Peter Pan” alle musiche del “Lago dei cigni” al talento di Amy Winehouse

Sui palcoscenici di Alfieri e Gioiello

 

Grande ritorno – all’Alfieri dal 7 al 10 novembre – di uno dei musical più amati dal pubblico: “Peter Pan – Il Musical” è pronto ad accompagnare nuovamente i suoi spettatori in un entusiasmante viaggio verso l’isola-che-non-c’è. Tratto dal romanzo di James Matthew Barrie, con la regia di Maurizio Colombi e una colonna sonora d’eccellenza firmata da Edoardo Bennato, lo spettacolo vede soprattutto il ritorno in scena del Capitan Uncino originale, ovvero Claudio Castrogiovanni, talentuoso attore che già nel 2006 aveva affascinato il pubblico per la sua interpretazione ironica e trascinante. Al suo fianco, a dare viso e voce al bambino che non voleva crescere sarà il giovane performer Luca Nencetti, Martha Rossi tornerà in scena nel ruolo della dolce Wendy, Renato Converso quale goffo e simpatico Spugna, Raffaella Alterio e Laura Fiorini nei panni dei fratelli del protagonista. Attorno a loro, nove strepitosi attori/cantanti/ ballerini che animano il mondo fatato di Peter Pan.

Cuore pulsante dello spettacolo la colonna sonora, uno straordinario viaggio in musica nel mondo fantastico di Peter Pan, con alcune tra le più famose canzoni di Edoardo Bennato tratte dall’album del 1980 “Sono solo canzonette” affiancate tra le altre da “Il rock di Capitano Uncino”, “La fata” e “Viva la mamma”, sino alla celeberrima “L’isola che non c’è” e ad uno splendido inedito che è “Che paura che fa Capitan Uncino”. Fantasia e divertimento, colori e canzoni per uno spettacolo che è pronto a far rivivere la magia dell’infanzia e il mondo dell’avventura senza tempo anche con i tanti effetti speciali come il volo del protagonista, l’utilizzo di tecnologie laser per il personaggio di Trilly, le imponenti scenografie che trasporteranno magicamente gli attori dalla cameretta di Wendy al rifugio dei Bambini Sperduti. Repliche giovedì 7 e venerdì 8 ore 20,45, sabato 9 ore 15,30 e 20,45, domenica 10 ore 15,30.

Ancora all’Alfieri, in prima nazionale, dal 14 al 17 novembre, una eccezionale produzione Fabrizio Di Fiore Entertainment per Roma City Ballet Company con la regia e le coreografie di Luciano Cannito, musiche di Pëtr Čaikovskij da Marius Petipa. “Il lago dei cigni” è il titolo di balletto più rappresentato al mondo, una storia d’amore, tradimento e trionfo del bene sul male, su una delle partiture musicali più belle mai scritte. Una versione dove per la prima volta nella storia del balletto classico l’Intelligenza Artificiale sarà utilizzata per ricreare il mondo immaginifico del Principe Sigfrid e della sua amata Odette, dando modo allo spettatore di scoprire come si siano potute elaborare le informazioni universalmente condivise per riprodurre il castello, il bosco e il lago più famosi della danza classica di ogni tempo. L’edizione del “Lago” che debutterà all’Alfieri si avvale della partecipazione di artisti ospiti internazionali del Berlin Staatsballet. Orari: giovedì e venerdì ore 20,45, sabato ore 19,30 e domenica ore 15,30.

Sul palcoscenico del Gioiello, drammaturgia di Tato Russo, scene e regia di Livio Galassi, titolo “Un letto per due” ovvero a elencare “la storia di un matrimonio, tra gioie e dolori, speranze e rimpianti” (sabato 9 ore 19,30 e domenica 10 ore 16). Interpreti Riccardo Polizzy Carbonelli e Marina Lorenzi, già coppia consolidata nella vita reale, lui acclamato ‘cattivo’ di “Un posto al sole”, mettono in scena la storia di Riccardo e Marina, il cui matrimonio dopo 35 anni è forse alla fine, tra difficoltà e tribolazioni, speranze e delusioni, gioie e ripensamenti, contraddizioni ed emozioni. Lui è un marito dolce e disincantato infedele seppur ancora innamorato di lei, lei una moglie premurosa e disattenta, feroce e disperata allo stesso tempo. Unica ambientazione la loro camera da letto, un grande letto centrale a scandire in movimenti rotatori da un quadro scenico all’altro la vita serena e imprevista di Marina e Riccardo, ogni atto pensato e rivisto attraverso i vari momenti di una vita a due, dal fidanzamento felice alla nascita del primo figlio, il successo di lui come scrittore alla sua relazione extraconiugale, dal matrimonio della figlia al dolore per la salute del figlio maschio.

Con la regia di Daniele Salvo, Melania Giglio compone e interpreta “L’amore è un gioco a perdere” ovvero le tappe umane e musicali più significative di Amy Winehouse, incredibile voce e talento straordinario. Talento fragile, votato all’autodistruzione. “Amy odiava essere famosa. Non accettava la fama, che era come una prigione. Cercava di sottrarsi a tutto quello che la fama comportava. Desiderava trovare un modo di fuggire. Nella vita conta solo essere felici e l’amore. Più di ogni altra cosa voleva una famiglia, essere moglie e desiderare dei figli. Tutto quello che desiderava era la normalità”, sottolinea l’attrice. Lo spettacolo, che vede anche l’apporto di Marco Imparato e Lorenzo Patella (autori degli arrangiamenti musicali), andrà in scena al Gioiello mercoledì 13 novembre alle 21.

Stesso luogo, sabato 16 novembre (ore 19,30) e domenica 17 (ore 16), “La felicità” scritto da Eric Assous, con Gianfelice Imparato (che ne cura anche la regia) e Alessandra D’Ambrosi. La storia di Luisa e Alessandro, non più giovani, dopo il loro primo incontro hanno passato la notte insieme. Al risveglio si trovano ad affrontare le tipiche insicurezze di chi non sa se la loro prima colazione sia l’inizio di un rituale che condivideranno nel tempo o l’epilogo di un incontro casuale. L’amore dopo gli “anta”, in un susseguirsi di bugie, colpi di scena e situazioni paradossali, descritto e assaporato in una pièce estremamente divertente.

Nelle immagini: un momento di “Peter Pan” (foto di Chiara Lucarelli), “Un letto per due” eMelania Giglio e Marco Imparato nel ritratto di Amy Winehouse.

Marciano: “I SuOni delle ParOle OnOmatOpee a tre dimensiOni”

Giovedì 7 novembre presso la residenza universitaria CStudio inaugura alle 18.30 la mostra

L’Auditorium del CStudio presso la Piccola Casa della Divina Provvidenza Cottolengo di via Ariosto 9 a Torino ospiterà  la mostra “ I SuOni delle parOle OnOmatOpee a tre dimensiOni” di Antonio Marciano. Verrà inaugurata  il 7 novembre prossimo alle 18.30. L’esposizione, curata da Ermanno Tedeschi, comprende una ventina tra disegni e quadri realizzati con i celebri chiodini pixelart di Quercetti. Si tratterà  di un’occasione, oltre che per vedere l’esposizione,  anche per conoscere uno spazio splendido e nuovissimo nel cuore della città.

“Le opere – racconta il curatore Ermanno Tedeschi- hanno un  carattere educativo e sono incentrate sul segno grafico  e sull’importanza della comunicazione della diversità  e disabilità,  in quanto  l’artista stesso utilizza i chiodini a causa di una malattia che ne limita il movimento,  tanto da essere costretto su una sedia a rotelle. Oltre alle onomatopee Antonio Marciano rappresenta anche i supereroi, protagonisti dei fumetti che, con i loro superpoteri, riescono a superare le avversità  e rispecchiano l’artista, che si sente un po’ supereroe tutti i giorni e ha una duplice identità: quella non comune viene tenuta ben celata sino a quando non si mette in mostra. I chiodini di Quercetti diventano un pennello nelle sue mani e ogni chiodino rappresenta una pennellata di colore. Solo vedendoli accostati gli uni agli altri si ottiene la visione di insieme, un divisionismo estremamente moderno e materico”.

L’intento di Marciano non è  quello di fare un gioco o di legarsi semplicemente all’immaginario infantile.  L’interesse artistico  è  legato alla gestualità  dell’infilare i chiodini, rituale che elogia il lento scorrere del tempo come cura per alleviare la frenesia del quotidiano. Attraverso queste opere Marciano esprime la voglia di essere vivo e di appuntare la realtà e bloccarla sulla tavola con i chiodini.

“Le persone avvicinandosi- spiega l’artista Antonio Marciano – e percorrendo le lunghe linee dei chiodini risentiranno i colori punto a punto  e faranno quei pensieri  brevi e gioiosi come quando spunta un fiore. Vorrei che le mie opere permettessero all’osservatore una piccola fuga spirituale, per non dimenticare l’importanza delle cose che hanno una forza e una bellezza straordinaria pur essendo semplici, temporanee e fugaci “.

Secondo alcuni studi l’utilizzo regolare del gioco dei  chiodini Quercetti rappresenta una formidabile ginnastica motoria per la mano e si è scoperto che attraverso la mano e il chiodino colorato si possono avere ripercussioni benefiche sul cervello avvantaggiando le nostre abilità linguistiche. Questo è lo scopo dei laboratori e workshop che affiancheranno la mostra e coinvolgeranno gli studenti della vicina scuola elementare, gli ospiti dello studentato e la cittadinanza che vorrà partecipare.

Ingresso gratuito prenotazione obbligatoria 

antoniomarciano75@gmail.com

associazione.acribi

a@gmail.com

Mara Martellotta

Lerici, il Castello dei poeti

Girandosi indietro più volte lungo il sentiero che da Lerici porta a San Terenzo non seppe resistere alla tentazione. Preso dall’entusiasmo si fermò, tirò fuori la sua tavolozza e dipinse una veduta del castello San Giorgio di Lerici che gli apparve in tutta la sua maestosità e bellezza.
Fu scambiato per una spia del re di Sardegna, arrestato e rinchiuso nel maniero che due secoli prima imprigionò Francesco I, Re di Francia, sconfitto nella battaglia di Pavia (1525) dagli spagnoli di Carlo V. È quanto accadde a metà Settecento al pittore piemontese Francesco Belgini e al suo amico Giovanni Robert di Bordeaux. Erano due artisti, tutt’altro che spie, che rimasero semplicemente affascinati dallo splendore del castello che oggi attrae folle di visitatori e turisti provenienti da ogni parte del mondo che, per arrivare alla fortezza, percorrono una delle passeggiate più belle d’Italia che tocca alcuni luoghi straordinari come Portovenere, La Spezia, e appunto, San Terenzo, Lerici, Tellaro e il Golfo dei Poeti. Mille anni fa, dove oggi il castello domina il borgo, c’era solo una torre accanto alla quale fu poi eretto il maniero vero e proprio.
I Pisani sconfissero i Genovesi nella battaglia del Giglio (1241) e costruirono il primo nucleo della fortificazione che in seguito subì numerosi interventi di restauro. La battaglia della Meloria (1284), al largo di Livorno, sancì la supremazia di Genova sul Mediterraneo occidentale mentre Pisa perse la sua forza navale e commerciale. Il castello fu per secoli una prigione genovese e le celle hanno rinchiuso importanti prigionieri tra i quali Francesco I. Andrea Doria invece si trincerò al suo interno per difendersi dagli assalti della flotta francese che tentò di catturarlo quando il grande ammiraglio passò al servizio di Carlo V. Molti ribelli corsi furono imprigionati e condannati a morte. Il castello di Lerici è stato più volte elevato e fortificato per resistere agli attacchi con le armi da fuoco con una “scarpa” inclinata che in alcune parti supera lo spessore di sei metri. All’interno spicca la cappella di Santa Anastasia, costruita in forme gotiche. È un gioiello medievale, intatta dal 1200. La muratura di pietra è tipicamente medioevale con un’alternanza di fasce bianche e nere riproposte anche sul soffitto.
Nella chiave di volta compare San Giorgio con il drago mentre una croce templare domina il portale di ingresso. Il castello ospita mostre d’arte e ricorda che per secoli poeti, artisti e scrittori come l’inglese Mary Shelley, Lord Byron e tanti altri fino a Mario Soldati, hanno soggiornato varie volte nella baia di Lerici trovando nel fascino del castello e nello splendido tratto di costa sul golfo di La Spezia o golfo dei Poeti l’ispirazione per i loro romanzi. Il castello di Lerici è aperto dal martedì al venerdì dalle 10 alle 12,30 e dalle 15,00 alle 17,30, sabato e domenica con orario 10-12,30 e 15-18.
Filippo Re