CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 97

L’enigma del “Sacro” e la terrena concretezza del “Tempo”

Sono i temi al centro della recente mostra di Andrea Bianconi, raccontati in un libro-confessione presentato nella “Chiesa di Santa Marta” a Magnano di Biella

Venerdì 9 agosto, ore 18

Magnano (Biella)

A Elia che gli chiede Quali sono state le tue prime impressioni entrando nella Chiesa di Santa Maria?, Andrea risponde facendo, strada alla memoria, Appena entrato ho provato un forte senso di accoglienza … accoglienza insieme a una curiosità che si alimentava sempre più. Ma la cosa strana è che quando sono uscito ho provato chiarissima la sensazione del tempo … il tema della mostra è nato in quel momento lì … Il pensiero successivo sono stati i numeri, la prima cosa che ho collegato al tempo.

Elia ad Andrea Hai pensato a un arco temporale che possiamo definire quasi infinito. La freccia che ci accoglie all’ingresso, in alto, che quasi copre anche il quadro di Santa Marta, sembra indicare il tempo verso qualcosa. Tu lo hai ritmato, cioè lo hai quasi concretizzato attraverso i numeri.

Alla parola ‘ritmato’, Andrea sorride … Mi piace molto la parola ritmato. La freccia che va verso l’alto è sempre presente dentro di noi, cioè noi abbiamo sempre una tensione verso l’alto, una tensione verso l’oltre. In questa freccia luminosa c’è la tensione verso l’altro che accompagna tutta la nostra giornata, la nostra vita.

Così l’incipit della lunga conversazione fra l’artista vicentino Andrea Bianconi (classe ’74, nativo di Arzignano, oggi residente fra Brooklyn – New York e Vicenza) ed Elia Fiore, monaco del “Monastero di Bose”, al centro del libro “Andrea Bianconi 0 – 24” (144 pagine, in doppia versione italiano – inglese) che sarà presentato venerdì 9 agosto (ore 18) presso la “Chiesa di Santa Marta” (XV secolo) a Magnano, piccolo borgo in provincia di Biella (di cui Bose è nota frazione per la “Comunità Cristiana” lì fondata nel 1965 da Enzo Bianchi) sito sul crinale collinare della “Serra d’Ivrea” e appartenente alla “Comunità Montana Valle dell’Elvo”.

Il libro, contenente anche testi di Paola Bergamaschi e della storica dell’arte Irene Finiguerra, è stato realizzato grazie al contributo della “Fondazione Cassa di Risparmio di Biella” e per la parte grafica di Anna Pendoli. Si tratta di una sorta di report dell’esperienza vissuta da Bianconi in occasione della sua mostra (da cui il titolo del libro), tenuta proprio a Magnano dal 21 giugno al 14 luglio scorsi per il ciclo “Fuoriprogramma”.

In quell’occasione, per la prima volta, l’artista vicentino si è confrontato con uno “spazio sacro”, scegliendo di mettere al centro del lavoro realizzato per la mostra il “tema del tempo”. “La Chiesa per la sua natura profonda – è stato scritto – e anche per la sua funzione pubblica è un luogo dove si sperimentano due dimensioni del tempo: quello infinito legato alla convinzione che la vita abbia una proiezione nell’eternità, e quello circoscritto, scandito per secoli dal suono delle campane, al passare di ogni ora. Con le sue opere Bianconi ha voluto creare un cortocircuito tra queste due dimensioni del tempo”. Con suggestivi risultati sotto l’aspetto estetico, saggiamente fissati, oggi, in pagine scritte che vanno oltre la riflessione critica per tracciare la “corsa” , il “viaggio” faticoso, e non sempre facile, di un uomo alla ricerca quotidiana (“0 – 24”) della sua personale idea di “infinito” e “ultraterreno”.

Bianconi è artista che parla un linguaggio di assoluta e personale “contemporaneità”. I suoi lavori nascono attraverso intuizioni che lo relegano al centro dell’opera. Lui stesso diventa opera. In ogni suo gesto c’è l’urlo “silenzioso” del voler  essere, malgrado tutto, uomo fra uomini, sospeso in un cortocircuito inquietante di attualità e di ignoto futuro. Finito e infinito. Realtà che non ha gioco se non tende all’astratto, al salto nel buio di universi senza  certezza di voci e di forme.

Artista, performer. Di lui si sono date definizioni, le più disparate: “trasformista, funambolo, navigatore di epoche e corpi, attore in prima persona e regista di recite collettive”. Dal 2007 è rappresentato da “Barbara Davis Gallery” di Houston, USA. Nel 2018 è stato il primo artista italiano invitato a Davos (Svizzera), durante la 48^ edizione del “World Economic Forum” per presentare ai Capi di Stato, ai Grandi della Terra la sua performance “Voice to the Nature”, una forte denuncia sull’“ecocidio” in atto, per richiamarli all’urgenza di agire “ora e non dopo” per la salvaguardia e la difesa del Pianeta.

Per info su presentazione: fuoriprogramma.magnano@gmail.com

Gianni Milani

Nelle foto: Cover “Andrea Bianconi 0 – 24” e “Installazioni” nella Chiesa di Santa Marta (Ph. Anna Pendoli)

“La festa per chi resta” al Mausoleo della Bela Rosin con Assemblea Teatro

Da mercoledì 7 agosto

 

Assemblea teatro,  in collaborazione con le biblioteche civiche torinesi, promuove un mini festival estivo, la “Festa per chi resta”fino a  sabato 17 agosto negli spazi del Mausoleo della Bela Rosin, in strada Castello di Mirafiori 148/7.

Ad inaugurare il cartellone mercoledì 7 agosto il testo di Jean Giono  “L’uomo che piantava gli alberi”; nel corso della serata saranno festeggiati i 45 arbusti piantati dall’associazione Quaranta.

Giovedì 8 agosto spazio alle novità con la pièce dal titolo “Non esisto”, di cui Renzo Sicco e Giovanni Boni sono gli artefici della prima, tratta dal romanzo di Alberto Schiavone. La notte di San Lorenzo, sabato 10, sarà presente la suggestiva pièce intitolata “Il segreto del piccolo Newt” sullo sfruttamento dei minori. Il tema del ruolo delle donne  e del femminile sarà affrontato lunedì 12 agosto con “Note di donne”. Verrà anche dedicato uno spettacolo all’inscindibile coppia di Stanlio e Ollio, dal titolo “Un mondo di allegria”.

 

Mara  Martellotta

Elemental. Cinema nel Parco del Castello di Miradolo

Giovedì 8 agosto, ore 21.30

Appuntamento con il cinema nel parco storico, 7 maxi schermi, cuffie silent system, plaid e tutto intorno il suono della natura

“Cinema nel Parco” è un’immersione totale nella natura, al centro di un’arena di oltre 2.000 metri quadrati disegnata da sette maxi schermi, nel prato centrale del Castello di Miradolo (TO). Per non disturbare l’equilibrio del parco, l’audio è udibile solo attraverso cuffie silent system luminose. I film si possono ascoltare anche in lingua originale, multilingua e/o sottotitolati in italiano per ampliare le possibilità di fruizione. Non ci sono sedie, né posti assegnati: ogni spettatore dovrà portare da casa un plaid per sedersi sul prato e assistere alla proiezione dal proprio angolo preferito.

“Cinema nel Parco” sono 7 appuntamenti, dal 27 giugno all’8 agosto, tutti i giovedì alle ore 21.30. Giovedì 8 agosto, per l’ultimo appuntamento, è in programma Elemental (2023). Il lungometraggio targato Disney-Pixar ambientato a Element City, popolata da cittadini appartenenti ai 4 elementi essenziali, ovvero fuoco, acqua, terra e aria. Ember è una giovane donna tenace, brillante e impetuosa la cui improvvisa amicizia con Wade, un ragazzo spiritoso, accomodante e ipersensibile, finisce per scardinare le certezze e i punti di riferimento del mondo in cui vivono. Diretto da Peter Sohn, il film è prodotto da Denise Ream.   

De Amicis, il monumento grazie a un amico

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I monumenti di Torino    Ecco un nuovo appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere. Quest’oggi vorremmo parlarvi del monumento dedicato a Edmondo De Amicis, conosciuto da tutti per essere l’autore del libro Cuore

Situata in piazza Carlo Felice, all’interno dei Giardini Sambuy, l’opera è formata da due elementi su un’ampia piattaforma con scalini. In primo piano si erge la statua della “Seminatrice di buone parole”, rappresentata dalla “bella figura di una popolana dal largo gesto che diffonde la semente”(cit.), mentre sullo sfondo è situato un muro a esedra (incavo semi-circolare), decorato da un fitto altorilievo nel quale sono raffigurate scena di vita quotidiana, narranti episodi di “amor figliale, amor materno, amicizia, studio, amor di patria, carità e lavoro”(cit.). Sul piedistallo della statua è invece scolpito un medaglione con il profilo di Edmondo De Amicis.

 

Edmondo De Amicis nacque ad Oneglia il 21 ottobre 1846 da una famiglia benestante di origine genevose. Nel 1848 la sua famiglia si trasferì in Piemonte, dapprima a Cuneo e poi a Torino, dove Edmondo frequentò il liceo. All’età di 16 anni entrò al Collegio Militare Candellero di Torino, ma fu subito trasferito all’Accademia militare di Modena dove divenne ufficiale sottotenente. Nel 1866 partecipò alla battaglia di Custoza ma, l’anno dopo, decise di abbandonare l’esercito per dedicarsi alla carriera di giornalista. Divenne quindi giornalista militare e trasferitosi a Firenze, assunse la direzione della rivista “L’ Italia Militare”. Nel 1868, all’età di 22 anni, venne assunto dal giornale “la Nazione” di Firenze, dove continuò come inviato militare assistendo così, nel 1870, alla presa di Roma.

Dal 1879 (ma più permanentemente dal 1885) De Amicis si stabilì a Torino, andando ad abitare presso il palazzo Perini, davanti alla vecchia stazione ferroviaria di Porta Susa; qui (ispirato forse dalla vita scolastica dei suoi figli Ugo e Furio), terminò quella che fu considerata la sua più grande opera. Il 17 ottobre 1886 (primo giorno di scuola di quell’anno), venne infatti pubblicato Cuore, una raccolta di episodi ambientati tra dei compagni di una classe elementare di Torino, provenienti da regioni diverse, costruito come finzione letteraria di un diario di un ipotetico ragazzo: l’io narrante Enrico Bottini.

Il romanzo (nato come libro per ragazzi), ebbe subito un grande successo e venne molto apprezzato sia per il suo carattere educativo-pedagogico, sia perché ricco di spunti morali riguardanti i miti affettivi e patriottici del Risorgimento italiano. Il libro Cuore fece conoscere Edmondo De Amicis in tutto il mondo e lo suggellò autore attento alle problematiche della borghesia, del popolo e dell’educazione. Alcuni avvenimenti spiacevoli della sua vita, come ad esempio la morte suicida del figlio maggiore Furio (nel 1898 si sparò al Parco del Valentino), lo portarono ad abbandonare definitivamente la città sabauda. In seguito scrisse numerosi racconti nel corso dei suoi viaggi in Spagna, Francia, Inghilterra, Olanda, Costantinopoli e Marocco. Morì a Bordighera l’11 marzo del 1908 a causa di una improvvisa emorragia celebrale. Su iniziativa della Gazzetta del Popolo, per onorare la memoria di Edmondo De Amicis ad un anno dalla sua scomparsa, un Comitato propose di erigere un monumento a lui dedicato, che ne onorasse la memoria e ne esaltasse le “doti di educatore e autore immortale”(cit.) del libro Cuore.

L’esecuzione dell’opera venne affidata direttamente (non si proclamò nessun concorso) allo scultore e disegnatore Edoardo Rubino, caro amico di De Amicis, che si propose di realizzare il monumento a titolo gratuito come suo personale contributo. Ad un anno di distanza dall’iniziativa, nel 1910, Rubino presentò il bozzetto del progetto che trovò il consenso e l’approvazione di tutti. Il monumento venne terminato già nel 1914, ma la posa in opera con l’ufficiale inaugurazione, avvenne una decina di anni più tardi a causa di alcune questioni riguardanti la scelta del luogo. Su richiesta della commissione, l’inaugurazione avvenne il 21 ottobre 1923, volutamente dopo l’apertura delle scuole, in modo che “gli potesse essere intorno come aureola gloriosa l’affetto di centinaia di bimbi” (cit.).

Simona Pili Stella

Piero Chiara e la narrazione della provincia italiana

Il 23 marzo del 1913 nasceva a Luino lo scrittore Piero Chiara. Anni fa, in occasione del centenario dell’evento sul muro esterno dello storico Caffè Clerici, l’amatissimo locale e “ufficio” dello scrittore  che guarda sul porto vecchio, venne collocata una targa con una frase del celebre romanziere tratta da l’Avvenire del Verbano del 30 novembre1934. Vi si legge: “In Luino vi è qualche cosa di inesprimibile e di spirituale che non può andare vestito di parole; è qualche cosa di più che la tinta locale, è quel mistero di attrazione che fa innamorare di un luogo senza che ci si possa dar ragione del motivo”. Un ritratto di quest’angolo di provincia chiuso tra il lago Maggiore, i monti delle valli Dumentina e Veddasca e la frontiera con la Svizzera.

 

Un’immagine che, volendo, può essere estesa a buona parte dei paesi che si affacciano sulle due sponde del Verbano. Figlio di un siciliano immigrato al nord come impiegato delle Regie Dogane e di Virginia Maffei, originaria di Comnago, minuscola frazione di Lesa sulla sponda piemontese del lago Maggiore, Piero Chiara frequentò diversi collegi come il San Luigi di Intra e il De Filippi di Arona. Dopo una breve parentesi in Francia, terminati gli studi e vinto un concorso come “aiutante volontario cancelliere” svolse l’impiego statale in Veneto e nella Venezia Giulia, tornando poi nella sua provincia per approdare infine a Varese. In quegli anni, da autodidatta, s’impegnò nello studio e nella formazione letteraria senza rinunciare a frequentare i tavoli con il gioco delle carte e il biliardo dei vari caffè. E’ lì che trarrà gli spunti letterari su ambienti e persone che diventeranno molti anni più tardi i protagonisti dei suoi racconti e romanzi. Nel gennaio 1944, per sfuggire ad un ordine di cattura emesso dal Tribunale Speciale Fascista, Chiara varcò il confine, rifugiandosi in Svizzera dove visse l’esperienza di internato nei campi di Büsserach, Tramelan e Granges–Lens. Ricoverato all’ospedale di St.Imier, frequentò la casa cattolica di Loverciano nel distretto ticinese di Mendrisio. Finita la guerra restò per qualche tempo in territorio elvetico insegnando e pubblicando la prima opera, la raccolta di poesie Incantavi. Da quella silloge che nel titolo alludeva al toponimo dei cascinali sopra Luino emergevano le passioni, le affinità e il profilo di un giovale esule riflessivo, malinconico, dotato della stoffa necessaria per intraprendere un viaggio originale in campo letterario. Il 25 aprile 1945 dalla tipografia di Poschiavo nel canton Grigioni usciva il primo libro a firma di Piero Chiara. Il suo primo editore, don Felice Menghini (scomparso prematuramente nel ‘47 in un incidente di montagna a soli 38 anni, fra i principali autori della Svizzera italiana come poeta, traduttore ed elegante prosatore) ne fece tirare fino a 500 copie intuendone il valore. Al consenso della critica corrispose anche quello del pubblico: nonostante le frontiere ancora chiuse ne furono venduti 150 esemplari in un mese. Abbandonata negli anni ’50 l’amministrazione della giustizia Chiara si dedicò alla scrittura, al giornalismo (collaborando alla terza pagina del Corriere della Sera) e alla letteratura, come curatore di opere classiche, in particolare del Settecento, tanto da essere considerato un’autorità nel campo degli studi su Giacomo Casanova. Scrisse anche una seria e documentata biografia del Vate che riposa a Gardone Riviera nel mausoleo del Vittoriale, intitolata La vita di Gabriele D’Annunzio. Conobbe poi il successo con i racconti e i romanzi la cui ambientazione era quella della provincia che resterà lo scenario di tutta la sua esperienza di scrittore. Sui luoghi della sua piccola patria (il Lago Maggiore, le valli e i suoi paesi, Luino e la Svizzera italiana) spaziò con lo sguardo innamorato di chi li sentiva parte di sé. Erano i luoghi dell’anima e frequentandoli, come scrive l’associazione degli Amici di Piero Chiara, sembra quasi che “dietro un’insenatura del lago, da un angolo di strada di paese, da una valle a specchio dell’acqua o da un battello che cuce l’uno all’altro i pontili delle opposte sponde, debba comparire uno dei suoi personaggi: una delle sorelle Tettamanzi, magari sottobraccio a Emerenziano Paronzini, oppure l’Orimbelli con la Tinca, o il pretore di Cuvio Augusto Vanghetta”. E’ la provincia profonda con i suoi caffè e i giocatori di carte, le avventure di impenitenti flâneur che vagano oziosamente per le vie dei paesi, delle acque battute dai venti di tramontana, le piccole isole, i battelli e i tanti moli degli imbarcaderi, storie amare o scabrose vicende di corna e tradimenti. Offrendo un approdo letterario a questo mondo Piero Chiara raggiunse il successo con romanzi come Il piatto piange (1962), La spartizione (1964, Premio Selezione Campiello), Il balordo (1967, Premio Bagutta), L’uovo al cianuro(1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Le corna del diavolo (1977), Il cappotto di astrakan  (1978),Una spina nel cuore (1979) e tanti altri fino al postumo Saluti notturni dal Passo della Cisa. Molti di questi lavori vennero ridotti e sceneggiati per il grande schermo e per la tv, in qualche caso con delle fugaci apparizioni dello stesso Chiara per dei piccoli camei come in Venga a prendere il caffè da noi di Alberto Lattuada. In una intervista, parlando del suo rapporto con la scrittura, disse: “Scrivo per divertirmi e per divertire:se mi annoiassi a raccontare, starei zitto, come starei zitto se sapessi che i lettori si annoiano ad ascoltare o a leggere i miei racconti. Qualche volta faccio ridere, o meglio sorridere e qualche volta commuovo il lettore o lo faccio impietosire con le mie storie. Mi sembra giusto, anzi normale: se ride alle mie spalle o a quelle dei miei personaggi o se si impietosisce ai nostri casi, vuol dire che ho colto nel segno: mi sembra che raccontandogli la storia di un uomo, con le sue miserie, le sue fortune e la sua stoltezza, in fondo gli conto la sua storia”. Piero Chiara è stato a tutti gli effetti “il poeta delle piccole storie del grande lago”, il maestro di tutti coloro che si sono cimentati con quella che viene definita la letteratura della profonda provincia italiana.

Marco Travaglini

Un pinerolese alle Crociate

C’era anche un pinerolese sulle galee salpate da Venezia e dirette a Costantinopoli in quella sciagurata avventura passata alla storia come la Quarta Crociata del 1204.

Lungo la riva degli Schiavoni, a pochi passi da Palazzo Ducale, Amedeo Buffa s’imbarcò con Bonifacio I, marchese di Monferrato, capo dei crociati e comandante militare della spedizione che, diretta a Gerusalemme per liberare la città santa, cambiò improvvisamente percorso e puntò sulla capitale bizantina conquistandola dopo un orrendo massacro.
Un Buffa di Pinerolo, forse un Buffa di Perrero, che viene citato in vari documenti dell’epoca e da molti storici. Non esistono però testi scritti che comprovino la sua parentela con i Buffa di Perrero ma, come osserva lo storico torinese Francesco Cordero di Pamparato, “pensare che nella Pinerolo del 1200 vi fossero due famiglie di nome Buffa che non fossero imparentate tra di loro sembrerebbe molto azzardato. È quindi molto più probabile che si tratti della stessa famiglia”. Comunque sia, nella primavera del 1202, secondo gli studiosi delle crociate, raggiunse Venezia e partecipò in San Marco alla solenne cerimonia presieduta dal doge Enrico Dandolo. Poi 17.000 veneziani e oltre 30.000 crociati si imbarcarono sulla grande flotta cristiana che l’8 novembre partì per la quarta crociata che nel 1204 cacciò i bizantini da Costantinopoli. Nello stesso anno Amedeo Buffa prese parte anche alla conquista del regno di Tessalonica (oggi Salonicco) insieme a Bonifacio, fondatore del regno e suo primo sovrano, che ringraziò Amedeo concedendogli la baronia di Domokòs nella Grecia centrale. La morte del marchese del Monferrato nel 1207 in battaglia contro i bulgari aprì la crisi del regno che fu subito cavalcata da un gruppo di nobili italiani che puntavano alla separazione del regno di Tessaglia dall’impero latino di Costantinopoli. Con l’appoggio di un nutrito gruppo di cavalieri italiani tentò di consegnare il regno di Tessalonica al figlio di Bonifacio, Guglielmo IV del Monferrato, e magari portarlo sul trono a Bisanzio. L’imperatore Enrico di Hainaut corse ai ripari e dichiarò guerra agli insorti. Il conte Uberto di Biandrate e Amedeo Buffa furono i capi di una vera e propria rivolta che costrinse Enrico di Hainaut ad intervenire in Tessaglia. Fu proprio Buffa a organizzare la resistenza ma circondato dalle truppe dell’imperatore fu costretto alla resa. Unico tra i rivoltosi, Buffa fece la pace con Enrico che nel frattempo aveva stroncato la rivolta. Il pinerolese si sottomise e da allora rimase fedele all’imperatore il quale gli conferì la carica di connestabile, comandante dell’esercito, una delle più alte cariche dell’Impero. Poco tempo dopo, nel 1210, alla testa di cento cavalieri, cadde in un’imboscata e fu catturato dal tiranno dell’Epiro Michele Angelo Comneno, arcinemico del nuovo Impero latino, che lo fece crocifiggere. Una morte atroce per il pinerolese Amedeo Buffa, il cui supplizio è citato in una bolla di papa Innocenzo III.
Filippo Re

Il cinema Vittoria di Giovanni Rosso

L’ultima sala cinematografica casalese che vide passare intere generazioni di spettatori monferrini fu il cinema teatro Vittoria di Giovanni Rosso, classe 1932. Nel piccolo cinema del Valentino, Rosso ha potuto imparare il mestiere di operatore, la grande passione che lo ha accompagnato per oltre mezzo secolo. Il  Vittoria era proprietà del geometra Giovanni Bertinotti, calciatore del Casale campione d’Italia nel 1914  che assunse l’apprendista Rosso nel 1950, il quale divenne operatore del cinema teatro l’anno successivo. La svolta avvenne nel 1984 quando il locale fu rilevato dalla società Gemar con la gestione di Rosso, Piero Musso e Ada Alessio, entrambi suoi colleghi.
Lo staff comprendeva anche Siro Zorzan, anch’esso operatore come Rosso e Musso, la maschera Riccardo, le cassiere Pina e Neta, le addette alle pulizie Renata e Angela e dal 2002 Rosso fu gestore e direttore del cinema Vittoria. Ma la crisi cinematografica causata dall’avvento della TV e dalle videocassette era alle porte. Nonostante i grandi lavori di ristrutturazione degli anni precedenti che portarono il  Vittoria ad avere una acustica perfetta con il sistema Dolby e il progetto del marzo del 2000 che comprendeva la realizzazione di tre sale con circa 900 posti, la chiusura del locale nel gennaio del 2004 fu inevitabile. Nell’ottobre del 2003 a Casale Monferrato ci fu l’inaugurazione della Multisala Cinelandia che dispone di 1200 posti suddivisi in otto sale e Rosso, con grande coraggio, fu l’ultimo a tenere in vita la propria attività anche se per poco tempo, mentre le altre sale casalesi Nuovo Cine, Moderno e Politeama avevano già chiuso i battenti.
Nella cabina di proiezione del cinema, Rosso aveva ritrovato una pellicola in 16 mm risalente alla partita di calcio tra Casale e Torino del 27-1-1929 che rappresenta il filmato più antico della squadra granata, donato a Domenico Beccaria presidente del Museo Storico Grande Torino. L’altra grande passione di Rosso fu indubbiamente il Torino Club Giorgio Ferrini, da egli stesso fondato nel 1977. L’anno successivo Rosso ebbe l’onore di incontrare il presidente del Torino Calcio Orfeo Pianelli nella tribuna d’onore dello stadio comunale di Torino. Alla scomparsa di Rosso, avvenuta nel 2011, il club casalese è stato intitolato Torino Club Giovanni Rosso, il quale nel 1980 era stato nominato cavaliere della Repubblica Italiana dal presidente Sandro Pertini.
Armano Luigi Gozzano

Concerto di Ferragosto da Oscar con le musiche dei grandi film

Sarà una quarantaquattresima edizione del Concerto di Ferragosto da Oscar quella in programma all’Alpet Balma, a 1900 metri sul livello del mare, palcoscenico naturale sopra Prato Nevoso, luogo già noto al pubblico per aver ospitato l’evento negli anni passati. L’Orchestra Bartolomeo Bruni della Città di Cuneo, fondata nel 1953 dal Maestro Giovanni Mosca, suo infaticabile animatore e direttore per oltre mezzo secolo, ora diretta dal Maestro Andrea Oddone, proporrà un programma inedito con opere del compositore statunitense John Williams, colonne sonore del cinema internazionale, da Indiana Jones a Superman, da Harry Potter a Star Wars, protagoniste assolute della giornata. Il tradizionale concerto, gratuito e aperto a tutti, un evento partito in sordina nel 1981 che ha saputo ritagliarsi uno spazio importante tanto da diventare un appuntamento fisso della programmazione Rai, quest’anno torna a Fabrosa Sottana, nel cuneese. Come di consueto verrà trasmesso su Rai3, dalle ore 12,50 alle 14, di giovedì 15 agosto con uno Speciale Tgr Piemonte a cura di Francesco Marino, con la conduzione di Lorenza Castagneri e Gabriele Russo, per la regia di Maria Baratta dal Centro Produzione Rai di Torino. Sarà possibile raggiungere il prestigioso anfiteatro naturale con una passeggiata a piedi di circa un’ora, oppure utilizzare la Telecabina “La Rossa” di Prato Nevoso e proseguire con un breve avvicinamento a piedi all’area del concerto. Prato Nevoso dispone di circa 150 posti auto distribuiti in più piazzali e saranno disponibili anche navette dal mattino con partenza dal piazzale del Prel e dal piazzale Dodero. La novità di quest’anno è che gli spettatori potranno assistere alle prove già il giorno precedente a partire dalle ore 11. Igino Macagno

 

Marco Polo e Ibn Battuta, due grandi viaggiatori tra Duecento e Trecento

Il veneziano Marco Polo (1254-1324) e il marocchino Ibn Battuta (1304-1368) sono probabilmente i due più famosi scrittori di viaggi mai vissuti. Sono quasi contemporanei, quando Ibn nasce, Marco aveva cinquant’anni e visitano più o meno gli stessi luoghi. Marco Polo partì per la Cina nel 1271 e tornò nel 1291 mentre Ibn Battuta viaggiò in Africa e in Asia dal 1325 al 1354 tornando con un prezioso resoconto a ricordo di tante peregrinazioni. Il marocchino fu il più grande viaggiatore arabo del Medioevo, per trent’anni percorse migliaia di chilometri a piedi, sul cammello o per mare, dal Sahara alla Cina, dalla Russia all’India, viaggiatore infaticabile e osservatore attento. Percorrerà molta più strada di Marco Polo e di altri grandi viaggiatori medioevali ma sia il Marco Polo arabo sia il veneziano racconteranno l’esperienza dei loro viaggi nelle rispettive opere, la Rihla (il Viaggio) e il Milione, nel quale Marco narra le sue vicende in prigione a Rustichello da Pisa. Quest’ultimo, prigioniero a Genova, conobbe Marco Polo, viaggiatore, scrittore, ambasciatore e mercante, anch’egli fatto prigioniero dai genovesi nel 1298 in seguito alla sconfitta veneziana nella battaglia di Curzola, isola della Dalmazia. Ibn Battuta fa la stessa cosa con il poeta andaluso Ibn Juzayy. Tante peregrinazioni e due relazioni molto diverse. Poca fantasia e molto realismo nella Rihla di Ibn Battuta, grande fascino nelle pagine del Milione. A detta degli esperti l’opera di Marco Polo ha avuto un’influenza sulla cultura europea molto più forte di quanto il racconto del marocchino ha avuto su quella islamica. A Ibn Battuta interessa solo tutto ciò che è musulmano mentre il mondo non islamico quasi lo impaurisce come il suono delle campane o i cinesi che mangiano gli animali vietati dal Profeta Maometto per cui quando arriva in Cina si nasconde subito nei quartieri musulmani. In Marco Polo invece, che segue il padre e lo zio alla corte di Qubilay Khan, c’è un’ostilità più politica che religiosa verso i musulmani e mai drastica come quella di Battuta verso i cristiani. Il veneziano, che a differenza del marocchino è anche mercante e ambasciatore, tratta bene i non monoteisti come i mongoli di cui descrive usi, costumi e perfino battaglie contro i cristiani e i monaci buddisti dei quali apprezza il modo di vivere. Nei due volumi gli autori descrivono le città visitate, la gente del luogo, l’alimentazione, l’abbigliamento, le case e i mezzi di trasporto.
È invece molto più affascinante capire il modo, quasi opposto, in cui i due scrittori si avvicinano alle diverse culture che incontrano durante i loro viaggi. Mentre Ibn Battuta pensa esclusivamente alla cultura araba e al Corano e vede, viaggiando, solo i musulmani perché, per lui, conta solo il mondo islamico, Marco Polo è più attento alle curiosità e alla fantasia quando incontra usanze e tradizioni molto diverse dalla sua. Non è solo un viaggiatore ma anche un geografo e un etnografo. È vero che definisce “pagane” le altre religioni ma riporta nel libro i riti delle altre fedi. Ibn Battuta deve molto a un altro illustre viaggiatore, quel Ibn Jubayr, poeta arabo-andaluso (1145-1217) che viaggiò molto e inventò proprio la Rihla, un genere di letteratura di viaggio che divenne così famoso nel mondo arabo-islamico da essere utilizzato come modello per le successive generazioni di scrittori-viaggiatori e soprattutto per Ibn Battuta. I Polo ripartirono in nave dal porto di Quanzhou nel 1291per rientrare in patria toccando vari Paesi del sud-est asiatico fino all’India e allo Sri Lanka. Sappiamo tutto o quasi tutto su Marco Polo ma non sappiamo che faccia avesse come se il grande viaggiatore si fosse volatilizzato nell’aria di Venezia. Pur essendo un personaggio di fama mondiale si è dissolto in mille immagini tutte false e inventate. Di Marco non si ha nessun ritratto e non rimane un solo reperto autentico. Lo mette in evidenza la bella mostra su Marco Polo allestita, a 700 anni dalla sua morte, al Palazzo Ducale di Venezia fino al 29 settembre. Non c’è a Venezia un solo monumento dedicato al viaggiatore mentre tanti se ne trovano lungo la Via della Seta, dalla Mongolia al Turkmenistan, da Yangzhou alle sconfinate province cinesi e mongole. In numerosi ritratti dell’Ottocento compare raffigurato in modo solenne, con baffi e barba, giovane e bello nei film che gli sono stati dedicati, ma è tutta invenzione. Così come i ritratti di Marco Polo al Palazzo Doria-Tursi a Genova e a Villa Hanbury, a Ventimiglia, tutta invenzione. Nel Novecento il mito di Marco Polo trionfa tra cinema, fumetti, dischi, francobolli e videogiochi. Anche le sue spoglie sono andate perdute durante la ricostruzione della chiesa di San Lorenzo in cui sarebbe stato sepolto e la casa dei Polo andò distrutta durante un incendio nel 1598. La mostra, nella sede simbolo del potere dei Dogi, è suddivisa in varie sezioni arricchite da oltre 300 opere provenienti dalle collezioni veneziane e dalle maggiori istituzioni italiane ed europee fino a prestiti dei musei armeni, cinesi, canadesi e qatarini. Sono esposti reperti, manufatti, opere d’arte, ceramiche e porcellane, tessuti e tappeti, metalli, monete e manoscritti. Una sezione particolare è dedicata alla diffusione multilingue del Milione e al mito del grande viaggiatore tra Ottocento e Novecento.       Filippo Re 

Le mitiche origini di Augusta Taurinorum

Torino, bellezza, magia e mistero   Torino città magica per definizione, malinconica e misteriosa, cosa nasconde dietro le fitte nebbie che si alzano dal fiume? Spiriti e fantasmi si aggirano per le vie, complici della notte e del plenilunio, malvagi satanassi si occultano sotto terra, là dove il rumore degli scarichi fognari può celare i fracassi degli inferi. Cara Torino, città di millimetrici equilibri, se si presta attenzione, si può udire il doppio battito dei tuoi due cuori.

Articolo 1: Torino geograficamente magica
Articolo 2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum
Articolo 3: I segreti della Gran Madre
Articolo 4: La meridiana che non segna l’ora
Articolo 5: Alla ricerca delle Grotte Alchemiche
Articolo 6: Dove si trova ël Barabiciu?
Articolo 7: Chi vi sarebbe piaciuto incontrare a Torino?
Articolo 8: Gli enigmi di Gustavo Roll
Articolo 9: Osservati da più dimensioni: spiriti e guardiani di soglia
Articolo 10: Torino dei miracoli

Articolo 2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum

Nelle alte valli delle Alpi era usanza liberare una mucca prima di fondare una borgata; l’animale andava al pascolo tutto il giorno per poi trovare il punto in cui distendersi a terra e riposarsi. Quello sarebbe stato il luogo in cui i montanari avrebbero iniziato ad edificare il borgo: «la mucca può “sentire” cose che all’uomo sfuggono, se il posto è sicuro o meno e se di lì si irradiano energie benefiche o maligne».

Anche la fondazione di Torino potrebbe rientrare in una di tali credenze. Ma a questa versione, tutto sommato verosimile e riconducibile a qualche usanza rurale, fanno da controparte altre ipotesi, decisamente più complesse e letteralmente “divine”, poiché hanno come protagonisti proprio degli dei, Fetonte ed Eridano.  Avviciniamoci allora a queste due figure. Secondo il mito greco, Fetonte, figlio del Sole, era stato allevato dalla madre Climene senza sapere chi fosse suo padre. Quando, divenuto adolescente, ella gli rivelò di chi era figlio, il giovane volle una prova della sua nascita. Chiese al padre di lasciargli guidare il suo carro e, dopo molte esitazioni, il Sole acconsentì. Fetonte partì e incominciò a seguire la rotta tracciata sulla volta celeste. Ma ben presto fu spaventato dall’altezza alla quale si trovava. La vista degli animali raffiguranti i segni dello zodiaco gli fece paura e per la sua inesperienza abbandonò la rotta. I cavalli si imbizzarrirono e corsero all’impazzata: prima salirono troppo in alto, bruciando un tratto del cielo che divenne la Via Lattea, quindi scesero troppo vicino alla terra, devastando la Libia che si trasformò in deserto. Gli uomini chiesero aiuto a Zeus che intervenne e, adirato, scagliò un fulmine contro Fetonte, che cadde nelle acque del fiume Eridano, identificato con il Po. Le sorelle di Fetonte,, le Eliadi, piansero afflitte e vennero trasformate dagli dei in pioppi biancheggianti. Le loro lacrime divennero ambra. Ma precisamente, dove cadde Fetonte? In Corso Massimo d’Azeglio, proprio al Parco del Valentino dove ora sorge la Fontana dei Dodici Mesi.  In un altro mito, Eridano, fratello di Osiride, divinità egizia, era un valente principe e semidio. Costretto a fuggire dall’Egitto, percorse un lungo viaggio costeggiando la Grecia e dirigendosi verso l’Italia. Dopo aver attraversato il mar Tirreno sbarcò sulle coste e conquistò l’attuale regione della Liguria, che egli chiamò così in onore del figlio Ligurio. Attraversò poi l’Appennino e si imbatté in una pianura attraversata da un fiume che gli fece tornare alla mente il Nilo. Qui fondò una città, che dedicò al dio Api, venerato sotto forma di Toro.


Un giorno Eridano partecipò ad una corsa di quadrighe, purtroppo però, quando già si trovava vicino alla meta, il principe perse il controllo dei cavalli che, fuori da ogni dominio, si avviarono verso il fiume, ed egli vi cadde, annegando.  In sua memoria il fiume venne chiamato come il principe, “Eridano”, che è, come abbiamo detto, anche l’antico nome del fiume Po, in greco Ἠριδανός (“Eridanos”), e in latino “Eridanus”.  Questa vicenda ci riporta alla nostra Torino, simboleggiata dall’immagine del Toro, come testimoniano, semplicemente, e giocosamente, i numerosissimi toret disseminati per la città. Storicamente il simbolo è riconducibile alla presenza sul territorio della tribù dei Taurini, che probabilmente avevano il loro insediamento o nella Valle di Susa, o nei pressi della confluenza tra il Po e la Dora. L’etimologia del loro nome è incerta anche se in aramaico taur assume il valore di “monte”, quindi “abitanti dei monti”. I Taurini si scontrarono prima con Annibale e poi con i Romani, infine il popolo scomparve dalle cronache storiche ma il loro nome sopravvisse, assumendo un’altra sfumatura di significato, risalente a “taurus”, che in latino significa “toro”. È indubbio che anche oggi l’animale sia caro ai Torinesi, sia a coloro che per gioco o per scaramanzia schiacciano con il tallone il bovino dorato che si trova sotto i portici di piazza San Carlo, sia a quelli vestiti color granata che incessantemente lo seguono in TV. C’è ancora un’altra spiegazione del perché Torino sorga proprio in questo preciso luogo geografico, si tratta della teoria delle “Linee Sincroniche”, sviluppata da Oberto Airaudi, che fonda, nel 1975, a Torino, il Centro Horus, il nucleo da cui poi si sviluppa la comunità Damanhur. Le Linee Sincroniche sono un sistema di comunicazione che collega tutti i corpi celesti più importanti. Sulla Terra vi sono diciotto Linee principali, connesse fra loro attraverso Linee minori; le diciotto Linee principali si riuniscono ai poli geografici in un’unica Linea, che si proietta verso l’universo. Attraverso le Linee Sincroniche viaggia tutto ciò che non ha un corpo fisico: pensieri, energie, emozioni, persino le anime. Il Sistema Sincronico si potrebbe definire, in un certo senso, il sistema nervoso dell’universo e di ogni singolo pianeta. Inoltre, grazie alle Linee Sincroniche è possibile veicolare pensieri e idee ovunque nel mondo. Esse possono essere utilizzate come riferimenti per erigere templi e chiese, come dimostra il nodo centrale in Valchiusella, detto “nodo splendente”, dove sorge, appunto, la sede principale della comunità Damanhur. Secondo gli studi di tale teoria Torino nasce sull’incrocio della Linea Sincronica verticale A (Piemonte-Baltico) e la Linea Sincronica orizzontale B (Caucaso).Vi sono poi gli storici, con una loro versione decisamente meno macchinosa, che riferiscono di insediamenti romani istituiti da Giulio Cesare, intorno al 58 a.C., su resti di villaggi preesistenti, forse proprio dei Taurini. Il presidio militare lì costituitosi prese il nome prima di “Iulia Taurinorum”, poi, nel 28 a.C, divenuto un vero e proprio “castrum”, venne chiamato, dal “princeps” romano Augusto, “Julia Augusta Taurinorum”. Il resto, come si suol dire, è storia.
Queste le spiegazioni, scegliete voi quella che più vi aggrada.

Alessia Cagnotto