CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 83

Sergio Unia: “Io sono il testimone del mio tempo”

Nel Giardino Medievale di Palazzo Madama, sino al 9 dicembre

S’intitola “In ascolto” la mostra curata da Paola Ruffino che Palazzo Madama e la Fondazione CRC di Cuneo dedicano all’arte dello scultore Sergio Unia – ottantunenne, nativo di Roccaforte Mondovì, allievo di Filippo Scroppo nel 1970 nei corsi liberi di nudo dell’Accademia, tra le innumerevoli mostre “La forma tra purezza e sensualità” con la Regione Piemonte e il Consolato Generale d’Italia ad Amburgo (2005), “Incontrare la forma” al castello medievale di Monastero Bormida (2020), “Bronzi e disegni” alla villa “La Colombaia” di Luchino Visconti a Ischia (2002), una grande mostra personale al Museo Manzù di Ardea organizzata dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma nel 2006, la partecipazione nel 2011 al Padiglione Italia della Biennale veneziana, la nomina ad accademico ad honorem della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon.

La scelta è oggi caduta su tredici opere (delle 35 proposte dal Maestro) nell’ambito del progetto “Donare”, attivo dal 2017, volto al perseguimento di scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico, con la raccolta, sul territorio di Cuneo, di donazioni di varia natura da parte di privati: “Cuneo come crocevia di cultura – ha sottolineato Maura Anfossi, consigliera generale della Fondazione, durante la presentazione della mostra -, un percorso sempre portato avanti senza far rumore, e la mostra di Unia ne è una prova, un saggio della scultura di un grande artista che è passaggio tra una generazione e l’altra, fatta di modernità e di un passato immerso nelle proprie radici, che immette nel visitatore il desiderio di bellezza pratica e interiore allo stesso tempo.”


È altresì un’occasione, la mostra di Sergio Unia, per l’unione verso altri frutti di due Fondazioni, come per instaurare un ampio dialogo con il territorio, l’idea di una selezione che trova ospitalità (sino al 9 dicembre prossimo) nel giardino del castello degli Acaia – quel giardino che ha visto nel 2011 un riallestimento prezioso e che trova il proprio passato nel lontanissimo 1402, eletto a luogo di delizie, ad angolo di lettura e conversazione della corte, un “giardino che si fa felicemente coprotagonista, con l’offerta di un percorso sorprendente.” All’esterno di quella porta Fibellona che da sede amministrativa, militare e giudiziaria si trasformava decennio dopo decennio in residenza cortese.

Si ritrovano, in quello che fu anche orto e frutteto, i temi propri dell’artista (con il garbo che rispecchia nelle proprie opere, “Io sono il testimone del mio tempo”, dice Unia), certe sculture in bronzo che s’ammirano nel suo studio torinese e nelle tante mostre da lui concepite in tempi recenti e in passato, il rapporto non soltanto con la natura ma anche con l’antico e l’infanzia, i giochi dell’adolescenza, i nudi femminili. E ovunque s’avverte la perfetta consonanza tra l’artista e la modella (il soggetto fermato in un gesto preciso, nella piena spontaneità, lontano da qualsiasi retorica), tra l’individuazione di un atteggiamento e lo sguardo dell’artista su quelle forme, la sensualità mai prevaricante, la dolcezza e la freschezza poste in comunione con i diversi giochi di luce che si alterneranno nel corso della giornata, le diverse atmosfere che si creeranno, ogni personaggio, sempre reso universalmente anche se le targhette esposte accanto danno nomi e riferimenti ben precisi; e un equilibrio che ci riaccompagna a tanti capolavori della storia dell’arte, dovuto omaggio ai maestri del passato, da Donatello a Manzù per arrivare pittoricamente a Degas, guardato con gli occhi di oggi, la leggerezza del tratto e la sensibilità rivolta alla celebrazione dell’eterno femminile, familiare e no, colto nella quotidianità. Opere che si scoprono a poco a poco, svelate passo dopo passo tra piccoli arbusti e foglie e vasi a cui si è ridato vita, o al riparo di un arco di rami o tra le rovine e i reperti dismessi da zone differenti del palazzo, a volte depositati alla rinfusa nel fossato, elementi – vasi e balaustre – smontati dalla facciata juvarriana per essere sostituiti da altri nuovi tra la fine dell’Ottocento e il secondo dopoguerra.

Non abbiate fretta nel girovagare per il giardino antico: catturati dallo sguardo sulla classicità vi imbatterete in un “Torso virile” del 1981 e nella “Musa” del 2005, che paiono usciti ieri da qualche scavo archeologico; delicatissimo, il “Bambino con la conchiglia”, dove Zoltan è in atto di ascoltare il rumore delle onde, “Adolescente con flauto” e l’aereo “Maia con l’aquilone” o la “Bimba sui pattini” o la plasticità di “Elena danzatrice”. Perfetto nella gioia del gioco che trasmette, e nell’immediatezza eccezionale del gesto tra le due bambine, “La cavallina” che fa parte della serie dei “giochi”.

Elio Rabbione

Nelle immagini di Giorgio Perottino, di Sergio Unia ”Torso virile”,  “Bimba sui pattini” (Zoltan), “Bambino con la conchiglia, “La cavallina (giochi)”.

“Megalopolis”, una scommessa (persa) lunga quarant’anni

Sugli schermi il controverso ultimo film di Francis Ford Coppola

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Era la metà degli anni Settanta e lui era alle prese con il napalm e i grandi incendi e le musiche wagneriane di “Apocalipse now”: è già schizzava disegni, prendeva appunti, annotava abbozzi, inventava grumi d’episodi, prendeva a organizzare questa grande ossessione e questa “favola”, come oggi suona sullo schermo, che affonda le proprie radici non soltanto nelle pagine di Svetonio con il suo “De coniuratione” ma altresì nella “Vita futura” di Wells (1930), una fantascienza lunga un secolo a venire. Uno script in bozzolo ci fu a coinvolgere, nelle prime letture – ed eravamo nell’estate del 2001, De Niro e Paul Newman e DiCaprio tra gli altri: ma poi furono le Torri Gemelle, la distruzione e la visione di un altro mondo, l’affacciarsi di una nuova Storia, nazioni che non sarebbero più state le stesse, non era più concepibile immergere New York in un’epoca di rovina al di là dell’immane tragedia.


Ma l’ossessione continuava a essere un’ossessione, le idee restavano, quello che la tragedia aveva interrotto l’avrebbe fatto rinascere (!) la pandemia, al suo indomani e il progetto avrebbe finalmente preso il largo nel mare immenso e folle del cinema di Francis Ford Coppola, capace anche di metterci 120 milioni di un personale patrimonio, pur di avere una libertà assoluta in ogni momento dell’operazione, magari privandosi di gran parte della fiorente industria vinicola di Napa Valley pur di veder realizzato questo “sogno” lungo non certo un solo giorno ma più di quarant’anni.

A tredici anni dall’ultimo “Twixt”, oggi nel (poco) bene e nel (tanto) male “Megalopolis” è sullo schermo, controverso e ignorato sin dalla giuria di Cannes e “recuperato” in festosissima anteprima e omaggi al Maestro alla Festa del Cinema di Roma. Laddove la Roma imperiale, corrotta, dissoluta, priva di qualsiasi freno morale e di costumi, quella che sta a grandi passi scivolando verso il proprio tramonto, invasioni e no a decifrarne il tracollo, è paragonata alla New York di un presente e di un prossimo futuro, in uno sguardo architettonico grandioso e non poche volte kitsch che ben le accomuna. Al centro, l’allampanato architetto Adam Driver – che altri non è se non l’alter ego dell’autore, la mano e l’intelletto demiurgici che tutto governano -, che di nome fa Cesare Catilina, l’ordine e la rivoluzione allo stesso tempo, che progetta in piena enfasi nuove costruzioni e al ralenti assiste alla distruzione dinamitata di quelle vecchie (ricostruiamo l’America tutta dalle proprie macerie, e forgiamo una nuova umanità che avrà sempre i suoi peccatucci ma profumerà almeno di nuovo e di fresco? o possiamo ampliare quell’utopia allo stesso Cinema, in un ultimo scatto di prepotente megalomania?) e che è capace con uno schiocco di dita di fermare il tempo e di guardare con esso allo spazio come a una componente dello spirito, padroni entrambi di se stessi: dopo essersi aggiudicato il Nobel per l’invenzione del “megalon” che del cemento armato se la ride e che è altrettanto capace di ricostruire volti umani devastati. Al suo opposto, il sindaco Giancarlo Esposito, che di nome fa Frankie Cicerone, rappresentante estremo dell’ordine costituito e del Grande Capitalismo, intrallazzato con chiunque e per qualunque cosa sino all’orlo dei capelli, per il quale la città che vede davanti ai suoi occhi non ha nessuna necessità di cambiar d’abito. In mezzo, tra i due contendenti, Nathalie Emmanuel, la Giulia che è prole della massima autorità, che cade d’amore per l’artefice ed è rimescolata tutta per i dubbi e il rispetto che deve al padre. Trama semplice semplicissima, che più non si potrebbe, perché poi il nocciolo sta tutto lì. Trattata male malissimo.

In un bailamme decostruito, che pare sia andato al cinema un paio d’anni fa a vedere l’orribile o ormai del tutto dimenticato “Babylon” di Damien Chazelle, in un’arroganza cinematografica rara, in un racconto che non poche volte scivola a occhi ormai chiusi nella noia, in un tripudio di tinte fosche che “Dracula” al suo confronto era il tripudio della luce (ma è innegabilmente interessante la fotografia di Mihai Mâlaimare jr, come non si può restare indifferenti all’immenso lavoro scenografico della coppia Beth Mickle/Bradley Rubin), Coppola gioca alla realtà e guarda mentre stancamente scommette sulla fantasia.

Mette, il Coppola arrivato agli ottantacinque anni, nel gran calderone il bagaglio dell’autostima (consolandosi che in passato anche altre sue opere sono state schiacciate e oggi rivivono di piena rivalutazione) e le citazioni che coinvolgono anche la famiglia (quelle tre damigelle che spuntano dal nulla, a chiacchierare di tutto e di niente, agghindate in costumi settecenteschi, non sono forse l’omaggio di un padre alla “Marie Antoinette” della figlia Sofia?), i rimandi letterari, alti e altissimi, che abbracciano non soltanto il pallido principe di Elsinore ma pure Marco Aurelio e Saffo, le innovazioni tecnologiche e l’artificio visivo che ci mostrano Driver svolazzante o con un piede poggiante nel vuoto, messo lui sulla cima del Chrysler che sembra essere il punto onnipresente della Grande Mela, le frasi a effetto che una volta le prendi sul serio e l’altra ti sembrano sfiorare il ridicolo, tutto annacquato in un clima falsamente teatrale, vecchiamente roboante, declamatorio. In più occasioni si rasenta il delirio da parte di colui che nonostante tutto rimane un Maestro, offensivo quasi nella spudoratezza del suo Cinema: nella costruzione intera, nei colori “sballati” che amano virare al giallo imperituro, all’andamento traballante e forse consapevole dell’operazione (perché credo che la dica lunga la scena in cui un gruppetto degli attori coinvolti visita l’embrione della nuova città che ancora poggia su assi di passaggio, tenute in piedi da funi chissà quanto resistenti), negli eccessi che circolano ad ogni fotogramma, alla cavalcata (con la stanchezza che si porta appresso) senza un attimo di sosta. Il trovare, continuo, mezzi d’espressione, il gioco che non è al servizio della storia ma della persona, l’”épater le bourgeois” instancabile che va comunque al di là di ogni scrittura per lo/dello schermo ma che fa comunque ripensare a quel che doveva apparire allo spettatore di fine Ottocento la sfida di un Méliès, con quel grande bastone ficcato lì, nell’occhio della luna.

Alla fine, mai così politicamente corretto, il grande costruttore si pone alla guida e al servizio delle folle che reclamano e trova altresì il tempo di stringere la mano al sindaco, tutto è ricomposto, un bebé che vedrà chissà quali futuri è già nelle braccia di maman mentre la nonna si spertica in truccatissimi sorrisi… Con un’ultima frase Coppola dedica “Megalopolis” alla moglie Eleonor, scomparsa l’aprile scorso, ancora un omaggio familiare e un ricordo a chi gli è stato sempre accanto. “Megalopolis” è di certo un prendere o lasciare, amare in tutto il suo avanzare tronfio o odiare, caricare di ogni difetto (innegabile qualcuno, al di là di qualsiasi “giudizio”, leggi in primis la sceneggiatura che nella propria vuotaggine fa acqua da ogni parte) o assolvere nel pensiero della grandezza assennata (?) che fu o nella convinzione che quella “grandeur” Coppola non l’abbandonerà mai. Gli auguriamo lunga lunghissima vita (ancora), ma ci spiacerebbe davvero se “Megalopolis” fosse il suo canto del cigno. Un po’ afono, incerto, traballante, ansimante nel vuoto pressoché completo.

Con Agis Piemonte Cinema al Cinema, terza edizione

 

 

Agis Piemonte Valle d’Aosta, grazie al sostegno della Regione Piemonte, prosegue il percorso di valorizzazione delle sale cinematografiche con attività rivolte al pubblico, alle scuole, agli studenti universitari e agli esercenti.

Giunge alla sua terza edizione il progetto di Agis Piemonte Valle d’Aosta “ Cinema al cinema, le sale del futuro per gli spettatori di domani” che mette al centro delle azioni progettuali le sale cinematografiche.

Nella sede di Fiom Commission Torino Piemonte sono state premiate le sei sale piemontesi che nella seconda edizione di Cinema al Cinema per famiglie hanno raggiunto i migliori risultati di presenza in sala.

Tra le sale Anec (Associazione nazionale esercenti di cinema) il primo premio è andato al Vittoria di Bra, il secondo al Margherita di Cuorgnè, il terzo all’Italia Movie Planet di Vercelli e tra quelle Acec (Associazione cattolica esercenti cinema) il Monterosa di Torino al primo posto, il Lumiere di Asti al secondo e al terzo l’Aurora di Sivigliano.

Per la terza edizione di Cinema al Cinema per famiglie saranno 140 le proiezioni di titoli per tutti, sempre con un biglietto a costo promozionale di 3.50 euro, che si svolgeranno nei weekend a partire da sabato 26 ottobre fino ad aprile 2025 nel circuito di 35 sale cinematografiche piemontesi. Gli esercenti potranno selezionare i titoli da proporre al loro pubblico da un catalogo di oltre 100 titoli che spaziano dai grandi classici dell’animazione a importanti film di recente uscita. Come nelle passate edizioni Cinema al cinema si articola in azioni che coinvolgono differenti destinatari, esercenti cinematografici, istituti scolastici di ogni ordine e appuntamenti per il pubblico torinese e piemontese.

‘Per Agis il bilancio di queste prime due edizioni è sicuramente positivo, la dimostrazione è che il pubblico della seconda edizione è quasi raddoppiato – afferma Luigi Boggio, presidente di Agis Piemonte e Valle d’Aosta. Poter contare su una prospettiva di più largo respiro, in questo caso triennale, consente di ideare modelli che si implementano anno dopo anno grazie ai risultati concreti raggiunti. È motivo di orgoglio per Agis far parte, grazie alla Regione Piemonte, che ha emanato il bando di valorizzazione delle sale cinematografiche, di un’azione di sistema che, di fatto, coinvolge la filiera nel suo insieme a livello nazionale”.

Mara Martellotta

Non perdiamo il filo: Alessandro Perissinotto porta la narrazione tra le vie di Chieri

Torino tra le righe

In occasione dell’evento “Non perdiamo il filo” per il ventesimo anniversario della Biblioteca Civica Francone di Chieri alla Tabasso, ho avuto il piacere di assistere a una straordinaria lettura itinerante lungo il centro storico della città. L’autore Alessandro Perissinotto ha presentato per l’occasione un racconto inedito dal titolo intrigante, La piccola lavanderia dei cuori infedeli. Questa lettura, arricchita dagli interventi musicali della BandaKadabra, ha trasformato Chieri in un teatro all’aperto, coinvolgendo i partecipanti in un viaggio tra letteratura e musica.
L’evento è stato organizzato per celebrare non solo la ricca tradizione culturale di Chieri, ma anche il ruolo centrale della Biblioteca Civica Francone, punto di riferimento per la comunità da ormai due decenni nell’ex cotonificio Tabasso. Lungo le vie della cittadina, Alessandro Perissinotto ha letto con la consueta ironia e maestria narrativa, immergendo i partecipanti in una storia fatta di humor, tradimenti e un’insolita ambientazione in una lavanderia.
Il racconto è stato suddiviso in quattro capitoli, ciascuno letto in una tappa diversa del percorso. La prima tappa ha avuto luogo in Piazza Umberto I alle ore 15, dove Perissinotto ha iniziato la narrazione con il primo capitolo, Seta. Successivamente, la lettura è proseguita in Piazza Duomo con il capitolo Lino, per poi spostarsi al Parco Pa.T.Ch dove è stato letto il terzo capitolo, Bambù. Infine, il percorso si è concluso presso la Biblioteca, dove l’autore ha letto l’ultimo capitolo, Lana.
Il pubblico ha seguito con interesse ogni tappa, mentre le note della BandaKadabra accompagnavano la camminata, creando un’atmosfera suggestiva che ha reso ancora più coinvolgente l’esperienza. Come gesto simbolico, i quattro capitoli del racconto sono stati distribuiti tra la gente e successivamente raccolti in un’elegante cartellina rossa, intitolata Non perdiamo il filo, chiusa con un ago di carta. Questo dettaglio ha voluto ricordare le origini dell’attuale sede della Biblioteca, che un tempo era un cotonificio, sottolineando così il legame tra la cultura e la tradizione tessile della città.
La piccola lavanderia dei cuori infedeli racconta la storia di Profiterol, un protagonista sui generis, figlio di una famiglia benestante di Chieri, che dopo anni, è costretto a gestire una lavanderia in seguito a una serie di vicende personali rocambolesche. Tra tradimenti e ironia, il racconto esplora le fragilità umane con toni leggeri ma incisivi. Una storia apparentemente simpatica e divertente, che cela tuttavia riflessioni profonde sulla fragilità umana e sulle piccole meschinità quotidiane. La lavanderia di Profiterol, “La lavanderia dei cuori infedeli”, diventa così una metafora dei legami spezzati, delle scappatelle amorose, e delle vite che si incontrano e si sfiorano nell’infedeltà e nel disincanto. La scelta di ambientare la storia in una lavanderia, tra macchinari rumorosi e abiti da lavare, sembra quasi un’ironica risposta alle tante narrazioni sentimentali moderne ambientate in romantiche librerie o caffetterie.
Come ha sottolineato Perissinotto nella premessa al racconto, la sua lavanderia non è popolata da “anime nobili”, ma da personaggi molto più ordinari e pieni di difetti, alle prese con tradimenti e bugie. È in questo quadro che si sviluppano le storie di vita, narrate con quella punta di sarcasmo che contraddistingue l’autore torinese. La camminata attraverso Chieri ha dato vita a una narrazione dinamica, in cui i partecipanti non solo hanno ascoltato la storia, ma ne sono diventati parte, immergendosi in essa mentre attraversavano luoghi simbolici della città. L’evento ha celebrato in modo unico i vent’anni della Biblioteca Civica Francone nell’attuale sede, confermandola come un centro vitale per la cultura e la comunità locale.
In conclusione, la lettura itinerante de La piccola lavanderia dei cuori infedeli è stata un’occasione perfetta per celebrare la cultura e la letteratura in un modo partecipato e originale. La Biblioteca Civica, continua a svolgere un ruolo fondamentale nel promuovere eventi che mettono in contatto gli scrittori e i lettori, creando spazi di condivisione e riflessione. È attraverso iniziative come questa che la cultura diventa viva, capace di uscire dai libri per mescolarsi con le persone e i luoghi, proprio come accaduto a Chieri durante questa magnifica giornata.
Marzia Estini
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Al via gli eventi culturali dei Lessona Days

Incontri, laboratori, lectio magistralis, passeggiate narrate ispirate a Michele Lessona

 

Parte l’iniziativa Lessona Days, che vedrà una prima fase di eventi snodarsi da giovedì 24 ottobre a domenica 27 ottobre. Un secondo appuntamento tra Venaria Reale e Torino è in programma sabato 9 novembre al Museo di Scienze Naturali. Michele Lessona è una figura curiosa, di uomo poliedrico, scrittore, giornalista, medico e naturalista, autore di un libro che alla sua epoca fu un vero e proprio bestseller “Volere e potere”.

In questo contesto Michele Lessona è stato pioniere della comunicazione scientifica. Nato a Venaria Reale il 20 settembre 1823, ha dedicato gran parte della sua vita di studioso e scienziato a diverse istituzioni cittadine come il Museo di Scienze Naturali, di cui fu direttore. Fu anche direttore dell’Accademia delle Scienze e senatore del Regno.

Città di Venaria Reale, Regione Piemonte, Museo Regionale di Scienze Naturali, Dipartimento di Scienze della vita e Biologia dei sistemi dell’Università degli Studi di Torino, Ente di Gestione delle aree protette dei Parchi reali, Consorzio delle Residenze Reali Sabaude la Vanaria Reale, l’Ordine dei Biologi di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta si sono uniti per un progetto di cittadinanza scientifica a partire dai Lessona days.

Un programma di attività che inaugurerà giovedì 24 ottobre alle ore 18 presso la biblioteca di Venaria Reale ‘Tancredi Milone’, con la conferenza di Beatrice Mautino, biotecnologa e divulgatrice scientifica, che racconterà quanto sia importante ‘prendere la scienza sul serio senza prendersi troppo sul serio’.

Venerdì 25 ottobre, presso la sede del CCR la Venaria Reale, inizia alle ore 18 l’incontro “Il restauro della lapide commemorativa di Carlo Lessona e la sua storia”. Interverranno Marie Claire Canepa, restauratrice e docente universitaria, responsabile del Laboratorio manufatti lapidei del Centro di Conservazione e Restauro La Venaria Reale e Andrea Scaringella, studioso di Lessona e autore del volume “Carlo Lessona e l’antico epitaffio. Un’indagine storica”.

Venerdì 25 ottobre, alle 21, nella cappella di Sant’Uberto, in programma la lectio magistralis del climatologo e giornalista Luca Mercalli sul tema “La comunicazione scientifica, Michele Lessona, un pioniere dell’Ottocento che parla al futuro”.

Sabato 26 ottobre due appuntamenti presso la Biblioteca Civica Tancredi Milone. Alle 10.30 Luca Mercalli condurrà un laboratorio per famiglie dal titolo “La comunicazione del cambiamento climatico, tra realtà scientifica e fake news”. Alle ore 18 Alfonso Lucifredi, naturalista, giornalista e scrittore di scienza e viaggi, parlerà su “Dal Belpaese alla giungla, avventure e disavventure dei grandi naturalisti italiani del XIX secolo”.

Il parco naturale della Mandria sarà protagonista di un intenso programma domenica 27 ottobre. Alle ore 11, nella sala degli Scudieri di Borgo Castello, Giorgio Volpi, chimico e laureato in scienze naturali, parlerà di quanto sia importante la capacità di adattamento nella conferenza “ La natura lo fa meglio e prima. Le sorprendenti invenzioni tecnologiche che la natura suggerisce all’uomo”.

Alle 12, con ritrovo a Borgo Castello, partenza della passeggiata narrata “Storia di un uomo che cammina tra gli alberi”, con lo scrittore e poeta Tiziano Fratus.

Alle 16, nella sala Scudieri, si terrà lo spettacolo “Michele Lessona. Un Soldato della scienza, dedicato all’avventurosa vita dello scienziato tratto dal libro di Andrea Scaringella “Il taccuino di Lessona. Avventure, scritti e pensieri di un protagonista dell’Ottocento”.

I Lessona days proseguiranno sabato 9 novembre. Il progetto è stato reso possibile grazie alla collaborazione di Silvia Lessona, pronipote dello scienziato, e di Pietro Passerin d’Entreves, studioso di Scienze della Vita e profondo conoscitore dell’opera e della figura di Michele Lessona.

 

Mara Martellotta

Gobetti liberale?

IL COMMENTO   di Pier Franco Quaglieni

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In una bella intervista inedita a Norberto Bobbio  fatta dal gobettiano fedelissimo Bruno Quaranta Bobbio sostiene che Gobetti era un liberale, correggendo lo stesso Quaranta che lo definiva “anomalo”. Gobetti, che secondo Bobbio – avendo avuto un rapporto con il liberista liberale Luigi Einaudi – sarebbe stato coerentemente  anti statalista e quindi antisocialista, contro Turati che fu anticomunista come Matteotti,  in nome della libertà.  Potrebbe essere oggetto di discussione il carattere liberale della gramsciana occupazione delle fabbriche torinesi, ma non può essere accolta l’interpretazione  in chiave di “Rivoluzione liberale” della rivoluzione bolscevica sorta nel 1917 e quasi subito trasformatasi in una rivoluzione marxista – leninista che guardava al giacobinismo francese e alla Comune di Parigi oltre che ai testi di Marx . Diceva Hegel che “le teste non si tagliano come i cavoli”. Quella rivoluzione ha mietuto più teste che spighe perché il terrore giacobino e leninista  insanguinò la grande  Russia. Gobetti visse fino al  1926 e quindi ebbe tempo di vedere e di patire il fascismo, ma anche di conoscere sia pure indirettamente il comunismo sovietico.
Come Turati e Matteotti denunciarono il vero volto demoniaco  della rivoluzione dei soviet, Gobetti esaltò in modo mitizzato ed acritico la Rivoluzione di ottobre che fu si’ liberatrice dal giogo zarista , ma fu profondamente illiberale  fin da subito. Essere antisocialista per Gobetti non significò essere antistatalista alla maniera di Einaudi. Gobetti fu antisocialista perché contrario nella sua intransigenza al riformismo  socialista  e  al Giolittismo. Anche Einaudi fu antigiolittiano come Gobetti.
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Le elezioni del 1919 con la proporzionale e il suffragio universale segnarono la crisi di Giolitti e dello Stato liberale con una forte ascesa di cattolici e socialisti. Il Biennio rosso impedì una democrazia compiuta in Italia dopo la guerra attraverso un rapporto tra liberali, socialisti e popolari che avrebbe scongiurato l’avventura del bolscevismo all’italiana e del fascismo, sfociata nella guerra civile. È  difficile orientarsi nella contemporaneità, ma Gobetti si perse nel labirinto delle utopie. La sua “Rivoluzione liberale”  fu assai poco liberale. Carlo Dionisotti colse l’ossimoro del Gobettismo: i liberali  non sono rivoluzionari  ma conservatori o riformisti e i rivoluzionari sono assolutamente illiberali perché coltivano e praticano la violenza rivoluzionaria. Questo è il motivo vero per cui il liberalismo di Gobetti si lasciò  contaminare e snaturare dal Gramscismo. In ogni caso appare con tutta evidenza che lo Stato dei soviet fu da subito oppressivo, totalizzante e sanguinario, in una parola assolutamente statalista. In modo meno esplicito e molto più timido maturò  negli anni  una mia  discussione con Bobbio che considero comunque un maestro. Senza l’ingombrante presenza di segretari il nostro dialogo si materializzò in tante occasioni  non pubbliche in cui il maestro ebbe la pazienza di ascoltare i miei dubbi sul liberalismo di Gobetti, dubbi  che ebbe anche Manlio Brosio.
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Bobbio mi ascoltò  con pazienza e poi mi disse che per lui Gobetti rappresentava il modello di una giovinezza che non aveva saputo vivere “eroicamente”.  E il discorso ebbe termine e tante altre volte venne ripreso su altri temi. Da quel dialogo rispettoso ho imparato molto , ma il culto di Gobetti non mi ha mai convinto. Dopo il fascismo i gobettiani diventarono quasi tutti comunisti , anche se i comunisti non divennero certo liberali . Basti pensare alla parabola di un gobettian comunista come Augusto Monti. Anzi  essi divennero stalinisti di stretta osservanza. A Bobbio non ebbi mai il coraggio di obiettarlo, ma questa è l’idea che ho  maturato nei decenni. Mi piacerebbe invece un dialogo  con Quaranta che ritengo un intellettuale onesto ed equilibrato che ho sempre stimato. In tempi in cui Filippo Burzio era ignorato e persino disprezzato ,con Quaranta abbiamo ricordato insieme il grande intellettuale demiurgico. Anche Burzio non amava Gobetti. Anche a Bobbio mi permisi di dirlo perché Bobbio aveva studiato Burzio e lo aveva considerato un conservatore illuminato e non solo un antifascista. L’intervista inedita di Quaranta consente di riprendere una riflessione che appare sempre importante come ogni scritto di Bobbio.

Raffaello Lucchese, professione antiquario

RITRATTI TORINESI 

Raffaello Lucchese, direttore artistico di Mattarte, galleria di antiquariato a Verolengo, in provincia di Torino, proviene da una famiglia di origine napoletana ed è cresciuto in un ambiente dai profumi antichi. Dopo aver compiuto studi classici entra nel mondo dell’antiquariato, e a conoscerlo in modo approfondito, grazie alla moglie Pinuccia Matta, erede della famiglia di proprietari di Mattarte.

 

La sua esperienza negli studi classici ha contribuito a innovare la professione dell’antiquario in quanto conoscitore dell’arte, dedito alla ricerca e allo studio.

È sua convinzione che il lavoro all’interno dell’antiquariato, senza un importante studio alle spalle, diventi impossibile proprio perché, rispetto all’arte contemporanea, l’antiquariato si basa sulla conoscenza e non sulla concettualizzazione dell’arte.

“Il modo in cui interpretiamo l’arte dell’antiquariato – afferma Raffaello Lucchese – risiede nello studiare e ricercare opere ‘dimenticate’, se così si può dire, e riproporle al mondo dei collezionisti e degli appassionati in modo tale da dare loro nuova vita. Gli oggetti che Mattarte commercializza maggiormente sono quadri, mobili di prestigio, che non cadono mai in disuso, e oggettistica di vario genere. Il mercato antiquario, negli ultimi dieci anni, è cambiato molto, e noi ci siamo adeguati a una richiesta improntata sempre più sulle opere importanti e di qualità. Personalmente ho sempre considerato, tra i miei primi amori, l’argenteria del Settecento piemontese e gli orologi, di cui sono molto richiesti quelli da camino, in bronzo dorato.

Successivamente sono rimasto affascinato dai pittori napoletani, genovesi e fiorentini del Seicento. Insomma, come antiquari cerchiamo oggetti che ci facciano sognare e il mondo dell’antiquariato è un progetto sempre futuribile: cercare un oggetto è una sfida, vedere qualcosa che altri non vedono o non considerano e poi riproporlo a chi lo desidera. Non potrei immaginare la mia vita senza arte, sento la necessità di immergermi nelle opere e attraversare storie altrui leggendo tanto”.

Mattarte, la galleria di cui Lucchese è direttore artistico, è presente sul territorio dal 1898, da quattro generazioni.

Raffaello Lucchese e Pinuccia Matta non solo trasmettono ai loro figli l’amore per l’antiquariato. Eleonora è una valida vocalist e Simone un bravissimo ballerino. Entrambi hanno vinto dei premi.

La galleria sarà presente alla Fiera AMART di Milano, che si svolgerà dal 6 al 10 novembre 2024, e a Modenantiquaria, a febbraio. Ad AMART verrà esposta un’opera di Barbara Longhi di Ravenna, pittrice di inizio Seicento, già molto apprezzata dal Vasari.

Raffaello Lucchese, oltre a essere uno stimato antiquario, svolge l’attività di perito sul mercato antico e moderno per il Tribunale di Torino e i più importanti musei nazionali.

 

Mara Martellotta

 

 

 

 

 

 

 

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Libri e libri nel segno dei colori nel Medioevo

A Saluzzo, motori accesi per la IV edizione “tutta a colori” della “Festa del libro medievale e antico”

Dal 25 al 27 ottobre

Saluzzo (Cuneo)

Quarta edizione e nuova curatela che passa da Marco Piccat (medievista, tra gli ideatori e fondatori della manifestazione e ottimo lavoro nelle precedenti edizioni) a Beatrice Del Bo (docente all’“Università degli Studi” di Milano)  che affianca Marco Pautasso (segretario generale del “Salone Internazionale del Libro” di Torino”). Nuovissimo anche il tema “I colori nel Medioevo” e l’immagine – guida firmata dall’illustratore bolognese Daniele Castellano che, a grafica rappresentazione del tema, ha voluto illustrare, attraverso un’icona fortemente associata al Medioevo, la diffusione dei colori in quell’epoca: “Un drago variopinto– spiega – che custodisce come un tesoro i pigmenti che si trasformeranno in colori … colori che si spargono nel mondo, dando vita a quella rivoluzione colorata che partì proprio dal Medioevo”. E con una vitale “esplosione di colori” si appresta, dunque, a partire, per il suo quarto anno consecutivo, la “Festa del libro medievale e antico” di Saluzzo (Cuneo), in programma da venerdì 25 a domenica 27 ottobre, promosso dalla “Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo” e dalla “Città di Saluzzo”, in collaborazione con il “Salone Internazionale del Libro di Torino” e la “Fondazione Amleto Bertoni”.

Cuore della Festa, “Il Quartiere – Casa della Partecipazione” (principale polo socio-culturale della Città), in piazza Montebello 1, dove, al ricchissimo programma di appuntamenti e ai tantissimi ospiti che interverranno (con spazi dedicati alla presentazione di libri, a lezioni magistrali, a spettacoli e performance fino a concerti, mostre, laboratori e proiezioni cinematografiche), si affiancherà, sabato 26 e domenica 27, la “parte espositiva” con “case editrici” specializzate e generaliste e “librerie antiquarie”, provenienti da tutta Italia, che offriranno al pubblico il meglio delle uscite editoriali che raccontano il Medioevo. Foltissimo il gruppone degli ospiti, che intratterranno il pubblico su temi improntati all’“Età di Mezzo”. Ricordiamone solo alcuni: da Licia Troisi (nota scrittrice di fantasy) a Nicola Campogrande (già direttore di “MiTo”) ad Anthony Bale (docente all’“Università di Cambridge”) via via fino al francese Jean-Claude Maire Vigueur (che tratterà dei colori delle città italiane medievali), al medievista spagnolo Igor Santos Salazar, a Marco Piccat e ad Amedeo Feniello (con un thriller ambientato nella Londra medievale), per chiudere, lunedì 28 ottobre (alle 21), con la scrittrice Chiara Valerio, che al Teatro “Magda Olivero” terrà una lezione su Marco Polo e “Il Milione”, a 700 anni dalla morte del grande viaggiatore scrittore ambasciatore e mercante veneziano. E poi ancora: concerti, sfilate in costume e a colori nel centro città, sbandieratori, la proiezione del film cult “Non ci resta che piangere” a trent’anni dalla scomparsa dell’indimenticato Massimo Troisi, mostre, caccia al tesoro digitale (realizzata da “CircolArte”) in giro per il centro storico saluzzese fino all’allestimento, sotto gli spazi dell’“Ala di Ferro” in centro città, dedicato alle “false credenze” sul Medioevo, per sfatare errati luoghi comuni e credenza su quell’epoca. Il tutto sotto il segno di una “Saluzzo a colori”, di un “Medioevo a colori”“Finalmente!”, sbotta compiaciuta la curatrice Beatrice Del Bo“Il verde della Fortuna, del veleno e dell’instabilità; il giallo dei discriminati e dello zafferano; il nero dei lupi e degli omicidi; il rosso delle eretiche, del kermes e delle vesti dell’aristocrazia; l’azzurro dell’acqua, del guado e del manto della Madonna; il bianco della castità e dell’unicorno. Di questo sentiremo parlare nella variopinta Saluzzo”.

Anche quest’anno, alla Festa parteciperanno anche gli “esercizi commerciali” della città esponendo nelle proprie vetrine titoli di libri selezionati sul “tema dei colori”: una “bibliografia medievale” che, a fine manifestazione, confluirà nel “Fondo del libro medievale” in continua espansione, nato nel 2021 con la prima edizione della Festa, custodito dalla “Biblioteca Civica” di Saluzzo “Lidia Beccaria Rolfi” per la fruizione libera e gratuita. Interessante anche la collaborazione stretta, quest’anno, con la “Fondazione Artea” all’insegna della Fotografia. I primi visitatori della “Festa” che acquisteranno libri presso gli espositori al “Quartiere” riceveranno un voucher per un ingresso ridotto alle mostre della “Fondazione” dedicate a due grandi maestri del bianco e nero: “Elliott Erwitt. L’ideale fuggevole” alla “Castiglia di Saluzzo” e “Robert Doisneau. Trame di vita” al “Filatoio di Caraglio”.

La maggior parte degli appuntamenti sono a ingresso libero e gratuiti. Per info e programma in dettaglio: www.salonelibro.it e www.visitsaluzzo.it

Gianni Milani

Nelle foto: Immagine guida di Daniele Castellano; Beatrice Del Bo e immagini di repertorio (ph. Marco Isaia)

La vita operaia di Giuseppe Granelli

Una vita operaia, libro scritto da Giorgio Manzini e pubblicato da Einaudi nella collana degli Struzzi Società nel 1976, non è evidentemente un libro nuovo e nemmeno si può dire sia stato all’epoca un bestseller anche se vendette parecchie copie. E’ comunque un libro importante e molto attuale. Giuseppe Granelli, classe 1923 (morto a novant’anni nel dicembre di dieci anni fa), colto operaio dell’acciaieria Falck di Sesto San Giovanni, era il protagonista di questo libro-inchiesta di Giorgio Manzini, giornalista mantovano prematuramente scomparso che fu per oltre trent’anni responsabile della redazione milanese di Paese Sera, storico quotidiano progressista romano. Granelli, cresciuto nel villaggio Falck divenne, grazie a Una vita operaia, l’emblema della condizione dei lavoratori metalmeccanici nell’Italia del secondo dopoguerra. Manzini lo interrogò a lungo dopo averlo scelto tra decine di migliaia di operai di Sesto San Giovanni perché era conosciuto come uno stimato sindacalista di fabbrica e una persona libera e intelligente. La sua era una vita come tante, chiusa in un giro ristretto ma anche investita “dai bagliori dei grandi avvenimenti politici”: la Resistenza, le illusioni dopo il 25 aprile del 1945, le difficoltà economiche del dopoguerra, la rottura del fronte operaio, la restaurazione, la caduta del mito di Stalin, la lenta riscossa sindacale che portò all’autunno caldo. Questo libro di Giorgio Manzini che potremmo definire allo stesso tempo un saggio, un’inchiesta o un romanzo verità – ripubblicato nel 2014 da Unicopli – assume oggi un significato ancora più profondo perché racconta di un uomo, quel Giuseppe Granelli, che per quarant’anni lavorò alla Falck di Sesto San Giovanni, acciaieria simbolo di una fase dell’industria italiana. La sua esistenza fu indissolubilmente legata a quella della città dove visse, ribattezzata la “Stalingrado d’Italia”, tra gli stabilimenti dell’acciaieria e il villaggio operaio al Rondò da dove partivano le grandi marce solidali. Vicende che sono diventate una parte della nostra storia nazionale: un simbolo altalenante di conquiste, di sconfitte, di risalite e di cadute, un microcosmo che può rispecchiare la vita dell’intero Paese. La fabbrica amata e odiata – il pane, la fatica, il conflitto – non c’è più. I resti dei vecchi capannoni (Concordia, Unione, Vittoria: si chiamavano così i vecchi stabilimenti della Falck), le fonderie, i laboratori, l’altoforno sono come ombre e fantasmi di un passato. Resta però la memoria di quella “vita operaia”, di Giuseppe Granelli che, una volta andato in pensione, diventò la “voce degli operai” e raccolse le biografie di quasi 490 sindacalisti della Fiom, militanti e semplici operai che avevano speso la vita in fabbriche come l’Alfa Romeo, la Falck, l’Innocenti, la Breda, la Pirelli, la Richard Ginori, la Magneti Marelli e tante altre di cui non ci si ricorda nemmeno più il nome. Un lavoro prezioso, svolto con una pazienza certosina, con la lucida coscienza che quelle vite raccolte a una a una, catalogate nell’Archivio del lavoro di Sesto San Giovanni, erano la sua eredità, la medaglie al valore che nessuno gli ha mai messo sul petto. Il padre di Granelli, Tone, aveva lavorato anche lui alla Falck Concordia per quarant’anni, manutentore al laminatoio. Lui, Giuseppe (detto Giuse, Tumìn, Granel) cominciò a faticare da ragazzo di fabbrica a 14 anni, per 84 centesimi l’ora a portar l’olio, scopare i trucioli di ferro, allungare gli stracci ai compagni alla macchina. Manzini con quel libro seppe fare di Granelli il simbolo di milioni di uomini di un passato ormai morto e sepolto. Questo libro appartiene, come scrisse Corrado Stajano, “alla letteratura industriale”, quella dei Carlo Bernari, Ottiero Ottieri, Paolo Volponi, Primo Levi, Vittorio Sereni. Granelli conservò nel portafoglio per anni una fotografia di Stalin, per lui l’uomo della guerra patriottica, il vincitore delle armate naziste. Il ventesimo Congresso del Pcus lo visse come un trauma, la rivolta di Budapest del 1956 come un colpo al cuore. Ma Granelli non indulgeva in nostalgie e tenne sempre fede ai suoi principi di giustizia sociale: tolse dal portafoglio la foto di Stalin e non ne rimise altre. Amava il dubbio e il confronto. Aveva un grande rispetto per il sapere ed era curioso, frequentò a Milano la Casa della Cultura diretta da Rossana Rossanda, fu attratto dal fascino di Cesare Musatti e lesse i grandi libri della storia e della letteratura. Il libro di Manzini lo rese felice. Gli fece capire che una vita come la sua, simile a quella di tanti altri, poteva e doveva essere ricordata. Le ultime tre righe del libro raccontano la sua pazienza, la tenacia e la saggezza di quest’operaio che sapeva fare “i baffi alle mosche”: “L’importante è continuare il rammendo, sostiene Granel, e avere fiducia. Se non si avesse fiducia si starebbe qui a diventar matti tutti i giorni?”. Manzini è morto giovane nel 1991. Granelli da due lustri non c’è più : è sepolto nel silenzio del cimitero del paese dei suoi genitori, a  Moio De’ Calvi in alta val Brembana, nella bergamasca. Rimane questo libro, Una vita operaia, troppo bello e troppo importante per non essere ripreso in mano, leggerlo e riflettere su cos’è stata e cos’è tuttora la “condizione operaia”.

Marco Travaglini

Al Conservatorio Verdi il concorso per direttori di coro Fosco Corti

Si è conclusa ieri al Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino la terza edizione del concorso internazionale per direttori di coro Fosco Corti, vetrina di riferimento per la direzione corale che quest’anno ha laureato la partecipante più giovane del concorso, la ventiquattrenne tedesca Maria Ravvina.

La manifestazione biennale promossa e organizzata da Feniarco, con ACP- Associazione cori piemontesi, Conservatorio G. Verdi e in partenariato con la European Choral Association si è affermata fin dalla prima edizione come un evento di alto livello nel panorama musicale internazionale. Lo dimostra il numero dei partecipanti, quasi raddoppiato rispetto alla precedente edizione: sono state infatti 104 le richieste di partecipazione, provenienti da 39 paesi del mondo. 18 candidati sono stati selezionati per il concorso e in tre intense giornate hanno messo alla prova le proprie capacità in repertori diversi e con la collaborazione di quattro cori laboratorio selezionati tra i migliori gruppi italiani (Coro Giovanile Italiano, coro femminile With Us di Roma, Coro da camera di Torino, coro maschile Polifonico di Ruda) e la prestigiosa collaborazione del S:t Jakobs Chamber Choir di Stoccolma per la finale di domenica.

Le esibizioni dei candidati sono state valutate dalla giuria internazionale formata da alcuni dei nomi più apprezzati della coralità nazionale e internazionale: Helene Stureborg (Svezia), Māris Sirmais (Lettonia), Basilio Astulez (Spagna, Paesi Baschi), Roberta Paraninfo e Piero Monti (Italia).

L’alta qualità espressa ha portato sul podio ben quattro giovani direttori grazie a un ex aequo al terzo posto tra l’ungherese Dávid Farkasházi e lo svizzero Tobias Stückelberger, mentre il direttore lettone Patriks Stepe ha conquistato il secondo posto, il premio del coro per la professionalità dimostrata e il premio del pubblico. La direttrice estone Ingrit Malleus ha ricevuto invece la borsa di studio Noël Minet come talento emergente.

Tutte le esibizioni sono state seguite e analizzate da uno study tour di direttori di coro per i quali il concorso è stato un’occasione di perfezionamento e studio. La soddisfazione per l’ottima sinergia che si è creata anche a livello istituzionale è stata confermata durante la cerimonia di premiazione dalle parole del direttore del conservatorio di Torino Francesco Pennarola e dal presidente Feniarco Ettore Galvani.

Il concorso è stato realizzato con il patrocinio di Regione Piemonte e Città di Torino, e il sostegno del Ministero della Cultura e di Fondazione CRT. Il Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino ospiterà la prossima edizione del concorso Fosco Corti nel 2026.