Spoon River, la cittadina dell’Illinois nei pressi di Springfield con il suo piccolo cimitero sulla collina dove “tutti dormono, dormono”, resa immortale da Edgar Lee Masters, ha una consorella sulle sponde canavesane della Dora Baltea. Basta leggere “Le voci del silenzio” (Impremix, Torino) il bel libro di Barbara Castellaro, per rendersene conto. E’ lì che, tra i viali della memoria, si riallacciano le storie e le vite di persone straordinariamente normali per i più e del tutto speciali per la giovane scrittrice nata a Ivrea. Se c’è, scorrendo le pagine del libro, il bisogno di strappare dall’oblio i profili di alcuni protagonisti c’è anche, tanto prepotente quanto garbato, il desiderio di risarcire alcuni di loro che – in vita – non hanno avuto fortuna e – in alcuni casi – nemmeno la considerazione degli altri. O almeno non quanta, forse, ne avrebbero meritato. In quattordici capitoli si snoda una sorta di “lessico familiare”, dalla triste storia di Antonio – il nonno materno dell’autrice – all’orgogliosa e libera personalità di Lia, dal povero caldarrostaio Quasimodo allo zio Pierone e alla “nonna” Sila che costruiva zoccoli intagliandoli nel legno. E’ davvero una “Spoon River” molto personale ma forse proprio per questo non solo “sua” perché, come scrive nell’introduzione lo storico Gianni Oliva, si tratta del “recupero delle memorie passate che compongono una realtà emotiva presente”. Barbara Castellaro, pagina dopo pagina, mette a nudo le proprie insicurezze, i suoi punti di forza, il personale percorso formativo, i traguardi raggiunti al prezzo di piccole e grandi lotte: tutto ciò “passeggiando”
tra i ricordi delle persone più care. Anche la storia, quella con la “esse” maiuscola, s’intreccia con quella dei protagonisti quando uno di loro perde la vita nella strage della stazione di Bologna, il 2 agosto del 1980. Le rievocazioni delle vite dei personaggi del libro offrono così al lettore l’occasione per intraprendere anch’esso una “passeggiata interiore” lungo i propri viali della memoria. In fondo, quelle narrate con grande sincerità ne “Le voci del silenzio” potrebbero essere le storie di ognuno di noi. La morte viene affrontata e smitizzata, rendendola una cosa naturale, del tutto normale e in questo va dato merito all’autrice (con un suo personalissimo stile linguistico degno d’attenzione) di essersene cimentata con un certo coraggio. Un’ultima annotazione: dal tema trattato si potrebbe pensare ad un libro triste. Niente di più sbagliato: è un libro che, pur senza nascondere una vena di malinconia, è – per così dire – pieno di vita. E leggerlo può rivelarsi un vero piacere.
Marco Travaglini
Ancora una prima europea alla
trasmettere, attraverso un forte senso delle forme, “forme nelle forme”, abilmente giocate in solide, rigorose quasi scientifiche geometrie, una singolare ricerca stilistica che è per lui nuova sintassi-Sintax e “lingua specifica”, la sua e “solo” sua, fatta dal ripetersi maniacale di gesti carambolati sulla tela, in virtù di tecniche e processi assolutamente singolari legati alle magie della multimedialità e attingendo da realtà esterne-Reflux, di comune quotidianità: cose, oggetti, persone, architetture urbane, segnaletica stradale o pubblicitaria, immagini che si fanno concetti mentali, ma anche emozioni istinto empatia o sgarbi per l’occhio e per l’anima su cui val la pena fissare racconti di potente impatto cromatico. E c’è anche Torino (e perfino frammenti di Langa) nelle opere del giovane Shaw. La città va cercata – raccontano in Galleria- con occhio attento, ma c’è. E dalla tela ne emergono atmosfere e particolari (i ponti, lo scorrere del fiume) inaspettatamente decodificabili. Le opere, una decina in tutto, sono state infatti realizzate “site-specific” per la Galleria di San Salvario, durante un recente soggiorno
dell’artista sotto la Mole. Soggiorno che certamente è servito a regalargli spunti tematici particolarmente utili e nuovi nel solco di quell’ “Hard edge painting” (“pittura a contrasti netti”) che fonda le sue radici negli Anni ’60 in forte reazione al dilagare dell’espressionismo astratto e dell’action painting e che Shaw ha fatto sua seguendo percorsi al passo coi tempi privilegiando l’assoluta “visività” alla mera “espressività”, attraverso un astrattismo “prodotto di un articolato procedimento pittorico che avanza su susseguenti gradi di stratificazione di forme e colori”. Punto di partenza è uno schizzo, realizzato con i tools di editing dello smartphone, che Shaw riporta sulla tela dipingendo a mano con l’uso di pittura vinilica e acrilica. Quotidianamente poi fotografa il lavoro svolto e ridisegna sull’immagine digitale acquisita, riportando quindi sulla tela le sagome inserite e, ripetendo più volte quest’operazione (che alterna passaggi di tecnica analogica con quella digitale), così da creare
un’ingegnosa, impattante stratificazione di figure.“Il risultato è un intricato sistema di codici rappresentati da forme che, sebbene piatte e bidimensionali, rendono un sorprendente effetto di profondità, amplificato ulteriormente dal contrasto delle sagome sovrapposte e dei colori complementari”. Il tutto in certosini giochi astratti di elementare essenzialità o di più complessa strutturazione, come nella laboriosa e fitta all’inverosimile “Cornucopia” o in quell’“Ebb and Flow” (Flusso e Riflusso), omaggio forse all’omonimo brano dei Pink Floyd, dove il “fiume che corre senza fine” (“The Endless River”) è quello della musica, di una vita in note che continua oltre le leggi della vita. E, per Eric Shaw, della voglia incontenibile di fare arte. Comunque ovunque sempre. Le sue prossime personali sono già programmate a Sao Paulo in Brasile e a Tel Aviv, “capitali in grande fermento artistico– sottolinea Silvia Borella – nuovi riferimenti dell’arte contemporanea e del panorama culturale su scala mondiale”.
LE TRAME DEI FILM
Kline, Stanley Tucci e Dan Stevens. Bella finisce prigioniera nel castello governato da un giovane principe tramutato in bestia come punizione del suo cuore senza sentimenti e per il suo egoismo. Fa amicizia con i servitori anch’essi divenuti un candelabro, un pendolo, una teiera, un clavicembalo, uno spolverino. Insieme a loro, saprà guardare al di là dell’aspetto orribile del principe che a sua volta svelerà un animo gentile. Durata 129 minuti. (Reposi, The Space, Uci)
ricostruzione, tra immagini di repertorio e ricostruzioni perfette, dell’attentato che sconvolse la città di Boston il 15 aprile 2013, durante la 117ma Maratona, ad opera di due fratelli kirghizi e che fece tre vittime e più di duecento feriti. Durata 133 minuti. (Greenwich sala 2, Reposi, The Space, Uci)
testi “insegnano ai giovani a pensare con le proprie teste”, due figli, al giro di boa dei sessanta, si ritrova a fare i conti con un marito che ha deciso di abbandonarla per una più giovane amante, l’età avanzata della madre con il bisogno continuo di attenzioni, un editore che non ha più bisogno di lei e dei suoi saggi. Con la vicinanza e la complicità intellettuale di un giovane ex studente, dovrà reinventarsi un percorso per il futuro. Durata 102 minuti. (Centrale anche in V.O., Due Giardini sala Nirvana, F.lli Marx sala Harpo, Romano sala 2)
Huppert che a detta di molti avrebbe ben avuto diritto a tenere per il ruolo un luccicante Oscar tra le mani. È una scalpitante imprenditrice di mezza età nel ramo videogiochi, obbligata a gestire una più che variopinta compagine familiare, a cominciare da un ex marito di poca fama nel campo letterario, da una madre che vede non di buon occhio l’età che avanza, da un figlio che non vive certo secondo le sue aspettative, di un amante che le è venuto a noia. Da un padre che in passato con un gesto sanguinoso ha cambiato la sua esistenza. Anche la sua vita ha un segreto, lo scopriamo fin dall’inizio: un uomo mascherato, una sera, si introduce nel suo appartamento e la violenta. Chi è quell’uomo? E perché la donna non va alla polizia per una denuncia, continuando la vita di sempre? Durata 140 minuti. (Ambrosio sala 3)
Clémence Poésy. Ancora un’avventura per l’interprete un po’ sballato e dal cuore d’oro di “Quasi amici”. Questa volta, in quattro e quattr’otto, abituato all’allegria dell’animatore turistico, si ritrova padre di una neonata, sua figlia, il frutto di una relazione improvvisa quanto frettolosa. Che sulle prime non vorrebbe, ma poi l’amore di un padre ha il sopravvento e con l’amore i piccoli gesti della vita di ogni giorno: fino a che mamma, dopo otto anni, non si ripresenta l’uscio a reclamare la creatura. Con la vecchia domanda: di chi sono i figli, di chi li alleva o di chi li mette al mondo? Con la modernissima massima secondo cui l’amore c’è dove c’è famiglia. Durata 118 minuti. (Massaua, Eliseo Grande, F.lli Marx sala Groucho, Ideal, Lux sala 3, Reposi, The Space, Uci)
Mariano Rigillo, Valentina Cervi e Max Gazzè. Una famiglia allargata, molto moderna, tre sorelle con i loro amori e loro separazioni, Viola e un figlio da festeggiare con una grande festa, il desiderio di raggruppare tutti, una ospitale villa all’Elba, arrivi e partenze, difetti e pregi, baccano e riflessioni, unioni civili e musica, affetti vecchi e nuovi, passioni sempre respinte, ex e attuali compagni, forse un po’ di autobiografia. Durata 92 minuti. Massara, Ideal, The Space, Uci)
omanzo di Milena Agus, ambientato dalle terre di Sardegna alle pianure di lavanda della Provenza. Gabrielle è spinta dalla famiglia a sposare un operaio spagnolo, Juan, rifugiatosi in Francia a seguito della guerra civile, ma il matrimonio dopo il soggiorno della donna in una clinica per curare i calcoli renali da cui affetta naufraga: con la malattia ha incontrato un ufficiale reduce dall’Indocina e là ricoverato. Durata 116 minuti. (Due Giardini sala Ombrerosse)
Favino. Sofia e Andrea, lei conduttrice tv lui neurochirurgo, sposati da dieci anni, un esperimento scientifico non proprio riuscito fa capitare lei nel corpo e nei panni di lui e viceversa. Due vite ormai interscambiabili, le abitudini che passano da uno all’altra, con i tic, le azioni quotidiane, le relazioni, gli affetti, le comprensioni, le ansie, le antipatie. Durata 100 minuti. (Massaua, Greenwich sala 1, Reposi, The Space, Uci)
fine degli Trenta, le due sorelle Laura e Kate, sensitive, incontrano a Parigi un potente produttore cinematografico che le scritturerebbe per un film sui fantasmi. Ma Laura scoprirà ben presto che le intenzioni dell’uomo sono ben diverse. Durata 105 minuti. (Romano sala 3)
Victoria – Drammatico. Regia di Sebastian Schipper, con Laia Costa, Frederick Lau e Burak Yigit. Victoria, una ventenne spagnola che vive da qualche tempo a Berlino, incontro una sera fuori di un locale notturno Sono e i suoi amici. Sono berlinesi “veri”, così si definiscono e possono mostrarle la città che gli stranieri non conoscono. Victoria li segue divertita fino a quando qualcuno si fa vivo per esigere dal gruppo un credito: devono compiere una rapina all’alba in una banca. Cosa deciderà di fare la ragazza. Durata 93 minuti. (Classico)
LE POESIE DI ALESSIA SAVOINI
Ritornano per l’immancabile appuntamento del giovedì con Zelig Lab i comici presentati da Elisabetta Gullì. Seguendo il filo delle risate si è giunti al penultimo incontro dedicato alla comicità tutta italiana: 
Le serie TV sono davvero considerate i romanzi del terzo millennio? Hanno cambiato il nostro modo di essere fruitori di una storia come vero e proprio nuovo fenomeno di “lettura”?
Vince il Mondello Internazionale. Dialogherà con Ernesto Ferrero


chimera, però, certe scelte di campo dipendono anche dai giornalisti, oltre che dai direttori ,non solo dagli editori: se essi sono schierati politicamente e addirittura partiticamente, non possono svolgere quel ruolo a cui diceva di pensare Ottone. Il mio amico e maestro Emilio R. Papa, allora docente di Storia dei partiti a Torino, parlava del “Corriere della sera” ottoniano, come di un modello di giornalismo attento alla completezza delle notizie. A me, già allora, non sembrava così e anche adesso non ritengo che storicamente, a tanti anni di distanza, si possa considerare il “Corriere” della diarchia Ottone -Fiengo un modello di giornalismo a cui guardare. Resta l’attenuante dei tempi difficilissimi in cui Ottone ha operato, ma il fatto che Montanelli avesse scelto in un’età già avanzata di fondare un giornale a difesa di certi valori, senza adeguarsi al clima, resta a testimonianza che anche altre scelte erano possibili. Era un uomo elegante, misurato e gentile, forse non adatto ai tempi di ferro e di fuoco in cui si trovò ad operare. “La Repubblica”, dove approdò dopo il 1977, ebbe il merito di dire subito che era un giornale di parte. Gli anni successivi lo dimostrarono e continuano a dimostrarlo pienamente. 