Nel cuore antico di Torino, tra le strette vie del quadrilatero romano, è possibile compiere un vero e proprio viaggio alla scoperta delle culture e delle tradizioni dei paesi asiatici. Per farlo è sufficiente varcare la porta di ingresso del Museo di Arte Orientale, oltre la quale si respirano i profumi e le atmosfere di mondi geograficamente e culturalmente lontani dal nostro. Il museo, gestito dalla Fondazione Torino Musei, conserva una collezione di oltre duemila opere provenienti da ogni parte dell’Asia. Una selezione di tali opere, realizzate con le tecniche più disparate e in moltissimi materiali differenti, è stata esposta in una sezione del Museo Civico d’Arte Antica di Palazzo Madama fino al 1988 quando, dalla volontà di valorizzare e accrescere la collezione orientale di proprietà della città di Torino, si è progressivamente concretizzata l’idea di dare vita a un museo dedicato esclusivamente al continente asiatico.
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Così è nato il MAO, acronimo di Museo di Arte Orientale,
che, sin dalla sua apertura nel 2008, si trova in Palazzo Mazzonis, elegante edificio di via San Domenico costruito alla fine del XVII secolo. Il palazzo prende il nome dalla nobile famiglia che, dopo una serie di passaggi di proprietà, lo acquisì nel 1870. Il cavaliere Paolo Mazzonis, oltre a farne la sua residenza privata, impiegò alcune stanze del palazzo come uffici di rappresentanza della sua industria tessile. Con la cessazione delle attività della Manifattura Mazzonis nel 1968, il palazzo è rimasto inutilizzato sino al 1980, quando il comune di Torino lo ha acquistato ed ha avviato importanti lavori di restauro. Grazie a tali interventi è stato possibile recuperare le cornici in stucco e gli affreschi del piano nobile dell’edificio, che oggi dialogano con le opere asiatiche esposte nelle sale.
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La visita del museo ha inizio al piano terreno dove, oltre ad uno spazio riservato alle mostre temporanee, c’è un piccolo e grazioso giardino coperto che, concepito seguendo i principi della cultura giapponese, trasmette una immediata sensazione di pace e armonia. Al piano nobile dell’edificio sono invece raccolte le opere che raccontano le tradizioni, le religioni e le culture delle popolazioni dell’Asia meridionale, del sud-est asiatico, della Cina e del Giappone. La scoperta della cultura giapponese continua al secondo piano dove, oltre alle preziose armature dei Samurai, è presente la ricostruzione di una tradizionale stanza da tè e sono raccolti numerosi kakemono, vale a dire dipinti e calligrafie realizzati su rotoli destinati ad essere appesi. Attraversando le sale al terzo piano di Palazzo Mazzonis si compie un viaggio nella regione Himalayana, mentre l’ultimo piano del museo racconta i paesi islamici attraverso preziosi volumi, tessuti, tappeti, bronzi, vasi e piastrelle ornamentali dai colori sgargianti.
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Una delle opere più curiose e straordinarie che si incontrano lungo il percorso di visita è
certamente la scultura rappresentante il Kongo Rikishi, uno dei guardiani chiamati a vegliare l’ingresso dei monasteri buddisti. Proveniente dal Giappone, è stata realizzata nella seconda metà del XIII secolo in legno di cipresso dipinto e, con la base di roccia su cui poggia, supera i due metri di altezza. Oltre alla sua notevole imponenza, il Kongo Rikishi colpisce per il brutto aspetto che, quasi automaticamente, spinge noi occidentali a ritenere che si tratti di una figura cattiva ma, come spesso accade, l’apparenza inganna. Percorrendo le sale del museo si scopre infatti che, non solo a questo guardiano, ma a molte divinità del mondo orientale che hanno tratti lontani dal canone di bellezza dell’occidente sono riconosciute funzioni positive. In altre parole, ciò che è diverso e brutto non necessariamente è anche cattivo: questa è solo uno dei numerosi e saggi insegnamenti che la visita al MAO è in grado di regalare a chiunque abbia voglia di spingersi oltre i confini.
Giulia Amedeo


IL TEMPO, LA LUCE, LA TERRA, LA MEMORIA. FINO AL 21 OTTOBRE
natura in tutte le sue forme e rappresentazioni, attraverso quell’amata pittura en plein air, ancora oggi praticata alla soglia ormai raggiunta, con piglio decisamente pimpante, degli 89 anni. Mario Chianese, nato a Sampierdarena (Genova) nel 1928, è sicuramente fra i maggiori artisti figurativi del secondo Novecento, come ben palesa la sua personale davvero imperdibile, organizzata con grande acutezza selettiva ed ospitata fino al prossimo 21 ottobre nelle sale del torinese “Spazio Don Chisciotte” della Fondazione Bottari Lattes. Trentacinque, fra dipinti a olio (in prevalenza di grande formato) e incisioni, sono le opere esposte sotto il titolo de “Il tempo, la luce, la terra, la memoria”: opere che documentano oltre sessant’anni di pittura, datate fra il 1947 e il 2015 e dominate in toto o quasi dal tema della “natura”, documentata con attenta passione “nei suoi momenti stagionali, nella realtà come nella memoria”. E in cui gran parte gioca anche il territorio piemontese, se si considera – come scrive lo stesso Chianese nel volume autobiografico “Tra parola e immagine” edito nel 2016 da De Ferrari- che molte di esse
sono state eseguite proprio “oltre il nostro Appennino, a Gavi e dintorni”. Stupendo, in proposito, quel “Fine settembre nello Scrivia”, olio su tela del 2015, con il letto del fiume in primo piano, cristallizzato in un ampio desolante e malinconico scenario pietroso, appena ravvivato in prospettiva da lievi strisce d’acqua incorniciate da fitte chiome di alberi verdi e dal lieve declinare di lontane, solo intraviste, colline. E’ una natura dai toni bassi e un po’ crepuscolari, quella raccontata da Chianese. Pur nel saggio equilibrio di chiaroscuri, in cui la luce – comunque emergente – pare ancor di più accentuare l’immagine rocciosa e immutabile di un paesaggio colto in archi temporali che preferibilmente alludono al tramonto o al “Prima del levar del sole”(olio su tela del 2016), con presenze di tronchi caduti (esemplare “Dopo la piena
d’inverno” del 2011) su ruvidi terreni raccontati con certosino rigore di segno e l’uso sapiente di una cromia nitida e pastosa che nulla lascia di indefinito e incompiuto all’interno della narrazione. Fra gli Anni Sessanta e Settanta (dal ’72 all’‘81 Chianese vive a Monterosso – Cinque Terre), si colloca il momentaneo “sbandamento” dell’artista, curiosamente ma moderatamente attratto dal canto ammaliante delle “avanguardie” del tempo. Quello che egli stesso definisce “Riflessioni di natura” e che si traducono in dipinti di ancor maggiore dimensione rispetto ai precedenti e realizzati in studio spesso su tele volutamente rese più lisce attraverso vari strati di talco in cui affondare geometriche ed essenziali teorie di colore. Con risultati di pura astrazione (incantevole il “Disgelo” del ’63), dove la luce rende spesso evanescente e magico il ritmo silente delle cose. Ma “le pulsioni del vero erano troppo forti”, scrive ancora l’artista. “Da qui il ritorno negli Anni
Ottanta a quella attenta, problematica dedizione che ha caratterizzato tutto il mio percorso”. Un lungo fil rouge che va ad abbracciare anche le incisioni presentate in rassegna. Opere magistrali, che ben spiegano il premio alla carriera conferitogli nel 2003 alla Biennale dell’Incisione Polanski e in cui l’artista accentua sempre più il suo interesse verso una natura “immutabile nei suoi cicli e nelle sue cadenze astrali” ma spesso “mortificata dall’uomo”, su cui il pittore sembra volgere lo sguardo perplesso in quel singolare trittico – autoritratto “Luci d’inverno, nello studio dell’artista” (olio su tela del 2010) che è un vero capolavoro introspettivo della “natura umana”.

Barry Seals – Una storia americana – Azione. Regia di Doug Liman, con Tom Cruise e Domhnall Gleeson. Da una vicenda vera, quella di un uomo che molto disinvoltamente scelse di passare da attività ad attività, prima pilota di linea poi contrabbandiere della droga al servizio del cartello di Medellin come della Dea, più all’occasione dare una mano alla Cia in questioni poco chiare a Panama ai tempi di Noriega. Passaggi spregiudicati che lo fecero vittima nel 1986 di due sicari inviati dalla Colombia. Durata 107 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 1, Reposi, The Space, Uci)
importante membro della Lega Anti Cattivi, Gru viene avvertito di avere un fratello gemello, Dru: con lui andrà alla ricerca di Balthazar, il cattivo ossessionato dalla fama e fanatico degli anni Ottanta. Durata 96 minuti. (Massaua, Ideal)
Chi m’ha visto? – Commedia. Regia di Alessandro Pondi, con Beppe Fiorello, Pierfrancesco Favino e Dino Abbrescia. E’ il mondo di oggi. Tutto si basa sul culto della propria immagine, figuriamoci il mondo dello spettacolo. È quindi la mancanza di “immagine” a rattristare il chitarrista Martino/Fiorello, banda Jovanotti, che non si vede per nulla realizzato. C’è l’amico Favino a tentare di risollevare le risorse umane, pronto ad accogliere il disadattato nella tranquillità delle Murge, lasciando credere al mondo in un rapimento che potrebbe trovare spazio, ricerca e pubblicità soprattutto in una seguitissima trasmissione televisiva, c’è magari la prostituta dal cuore d’oro a rimettere a posto le cose. Durata 105. (Eliseo Blu, Greenwich sala 3, Reposi, The Space, Uci)
Hardy e Kenneth Branagh. “Un colossale disastro militare” definì Churchill la disfatta delle truppe alleate – francesi e inglesi uniti nella disfatta – sotto il fuoco tedesco che avanzava sul fronte Nord della Francia nel maggio 1940. Una trappola sulle spiagge di Dunkerque, una ritirata che coinvolse circa 350 mila uomini, qui raccontata da Nolan nello spazio di sette giorni, con un triplice sguardo pronto a posarsi sulle cronache e sugli eroismi accaduti tra mare e terra e cielo: i giovani soldati che su quella costa tentano di tutto per non essere travolti dalla guerra e morire, i civili che mettono a disposizione le loro imbarcazioni, un eroe del volo che combatte contro la furia della Luftwaffe. Durata 106 minuti. (Ambrosio sala 3, Massaua, Eliseo Blu, F.lli Marx sala Harpo, Lux sala 2, Uci)
Gainsbourg, Steve Buscemi, Lior Ashkenazi e Michael Sheen. La professione di Norman Oppenheimer è quella di creare appetitosi contatti tra i mondi finanziario e politico newyorkesi, di mettersi in bella e lucrosa luce con quella comunità ebraica americana che tesse parecchi fili. Più o meno preso sul serio, più o meno veramente in relazione con tutti quelli con cui afferma di essere in contatto. E la vita andrebbe avanti così, se un giorno non s’imbattesse in un deputato israeliano in odore di divenire premier. Che cosa accadrà quando questi, raggiunta la carica, offrirà a Norman un caldo abbraccio proprio davanti a chi conta? Ancora il culto dell’”immagine” (e dei quattrini): ma siamo sicuri che il potere paga (e appaga) sino in fondo? Durata 112 minuti. (Due Giardini sala Ombrerosse, Romano sala 2, The Space, Uci)
Antoinette” traduce ancora per lo schermo The Beguiled, il romanzo scritto da Thomas Cullinan e trasposto da un vigoroso Don Siegel nel 1971, qui da noi “La notte brava del soldato Jonathan”, interprete Clint Eastwood. La storia di John McBurney, caporale dell’esercito dell’Unione, ferito e scovato in piena guerra di Secessione in Virginia, nella piantagione che è accanto ad un collegio di ragazze, dove Kidman è la direttrice, Dunst una delle insegnanti, Fanning una allieva, tutte colpite dal fascino del bel militare. Il nemico non verrà consegnato, ma curato e inserito nella piccola comunità: ma quando sarà l’uomo a voler guidare il gioco della seduzione che inevitabilmente s’inserisce tra lui e le donne della casa, ecco che ne uscirà vittima. Riproposta dell’autrice davvero inutile, a tratti persino ridicola e imbarazzante (salveremmo soltanto l’interpretazione della Dunst) cui una distratta giuria ha consegnato a Cannes un Premio per la regia. Durata 94 minuti. (Ambrosio sala 1, Centrale V.O., Eliseo Grande, F.lli Marx sala Chico e Groucho, Greenwich sala 2, Reposi, Uci)
Bond 007, camuffati dietro una sartoria londinese che nasconde il gruppo capitanato da un molto british Harry Hart, decisamente redivivo se nella puntata precedente il cattivo di turno era riuscito a mandarlo a miglior vita. Questa volta, guerrescamente rimesso in sesto, se la deve vedere con la narcotrafficante Moore, feroce e sorridente, che ha delle soluzioni finali di tutto rispetto per i propri nemici. Una gran bella dose d’ironia, inseguimenti e lotte come raramente se ne vedono, un ritmo invidiabile, una ferocissima Moore troppo amante del tritacarne e di hamburger sui generis. Divertimento assicurato. Un po’ troppo lungo ma ti siedi poltrona e non pensi a nient’altro. Durata 141 minuti. (Massaua, Ideal, Reposi, The Space, Uci anche in V.O.)
madre! – Thriller. Regia di Darren Aronofsky, con Javier Bardem, Jennifer Lawrence, Ed Harris e Michelle Pfeiffer. Prova innegabile che il cinema dell’autore del “Cigno nero” e di “Noah” o lo si ama o lo si respinge. Gran guazzabuglio a Venezia, salvata la sola Jennifer ma i buuu non sono certo mancati. Nella casa solitaria in cui vivono uno scrittore in cerca d’ispirazione e la moglie entra un’intrigante e sconosciuta e misteriosissima coppia. La loro vita non sarà più quella di prima. Certo Aronofsky esce da ogni schema, rivoluziona, azzarda ma crea un film che spinge ancora alla discussione, e questo non è affatto male in questa nostra epoca quantomai piatta. Durata 117 minuti. (Ambrosio sala 2, Eliseo RossoIdeal, Lux sala 3, The Space, Uci anche in V.O.)
The Teacher – Commedia. Regia di Jan Hrebejk, con Zuzana Maurery. Tratto da una storia vera. Maria, vedova di un ufficiale, è un’insegnante nella Bratislava del 1983 con metodi e idee tutti propri circa l’insegnamento. Non appena i nuovi alunni arrivano in aula, ecco che le prime fare un’unica domanda: “Che mestiere fa tuo padre” ed ecco che ai più “sostanziosi” inizia a chiedere aiuti e interessamenti di vario tipo. Per quelli che non hanno nulla da offrire, è una lunga sequela di votazioni non proprio eccellenti e discriminazioni. Ma a qualche genitore quel metodo non va assolutamente bene. Durata 102 minuti. (Due Giardini sala Nirvana)
Delevingne. Una storia che vediamo soltanto oggi sugli schermi ma alla quale l’autore di “Nikita” pensava da almeno due decenni. In un lontanissimo futuro, Valerian e Loreline sono incaricati di una missione presso Alpha, metropoli immersa negli spazi galattici. Creature dai lunghi arti, con contorno di cattivi di vario genere e mostri famelici. Tecniche di ultimissima generazione, musiche assordanti, scenografie pronte a infiammare ogni immaginazione. Durata 140 minuti. (Massaua, Greenwich sala 1, Reposi, The Space, Uci anche in 3D)
I Longobardi riconquistano la loro capitale quindici secoli dopo. Una grande mostra fa rivivere il mito e le gesta di questo popolo al Castello Visconteo di Pavia
voluta da Rotari fino alla politica di integrazione tra barbari e romani portata avanti da Liutprando tra il 712 e il 740. Nelle scuderie del Castello pavese sono esposte oltre 300 opere provenienti da 80 musei italiani e stranieri. In vetrina si possono ammirare ricche collezioni museali con armi di vario tipo, spade, lance e coltelli, fibule a staffa, corredi funerari, gioielli, manoscritti
antichissimi con le leggi dei Longobardi come l’Editto di re Rotari del 643, epigrafi commemorative dei sovrani, bracciali, anelli, lastre funerarie e sculture. C’è la leggendaria spada in ferro damaschinato di re Alboino di cui parla Paolo Diacono nella sua “Historia Langobardorum”, si vedono lapidi, bronzetti con figure di militari, speroni, vasi, metalli e ceramiche da cucina. Dalla necropoli
longobarda di Collegno sono giunti alcuni crani mentre dal sepolcreto di Bardonecchia e Cesana sono arrivati altri oggetti funerari di epoca franca risalenti al VI secolo. Le sepolture sono state determinanti per conoscere il mondo funerario longobardo, in pratica l’unica fonte disponibile, a parte qualche cenno contenuto nei sei volumi di Diacono. In realtà l’uso di mettere nella tomba il corredo funerario del defunto è un rito antichissimo ma con i longobardi in Italia aumenta il numero delle tombe abbellite con oggetti e monili. Non mancano il cofanetto reliquiario in osso della Novalesa e quello della cattedrale di Susa del VI-VII secolo conservati nel locale museo diocesano di arte sacra. Molti oggetti di oreficeria longobarda e ostrogota sono stati trovati nel Ticino e durante i lavori di scavo per costruire la ferrovia e l’Università di Pavia. Ma
tutta la città pavese profuma di storia longobarda. Prima di vedere la mostra è consigliabile una visita alla cripta di Sant’Eusebio nel centro cittadino, la testimonianza longobarda pavese più attraente, e alla chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro eretta nel VI secolo da re Liutprando le cui spoglie riposano sotto il pavimento, vicino alle quali si trovano le reliquie di Sant’Agostino che il sovrano longobardo aveva fatto traslare dalla Sardegna perchè minacciate dalle incursioni saracene sull’isola. Il regno dei Longobardi, la cui storia è stata scritta da Paolo Diacono, un
monaco benedettino longobardo, durò fino al 774 quando re Desiderio, sconfitto l’anno prima dal re dei Franchi Carlo Magno alle Chiuse di Susa, fu inseguito fino a Pavia dove fu fatto prigioniero al termine di un lungo assedio. Fu rinchiuso in un monastero francese dove morì. Con lui finì la dominazione longobarda durata due secoli, eccetto che nella “Langobardia minor”, dove il Ducato di Benevento rimarrà in vita fino alla conquista dei Normanni nella seconda metà dell’XI secolo. La mostra “I longobardi, un popolo che cambia la storia” curata da Gian Pietro Brogiolo e Federico Marazzi, è aperta al Castello Visconteo di Pavia fino al 3 dicembre, da martedì a domenica, dalle 10.00 alle 18.00, lunedì dalle 10.00 alle 13.00 ma solo per visite guidate autorizzate dal Museo civico. Il bookshop della mostra è fornitissimo di libri sulla storia dei longobardi. Prossime tappe della mostra, dal 15 dicembre al 25 marzo 2018 al Museo archeologico di Napoli e da aprile a giugno all’Ermitage di San Pietroburgo.
“Pogolotti oltre il Novecento”: è questo l’argomento della mostra che verrà inaugurata a Torino, nella Biblioteca della Regione Piemonte “Umberto Eco” (via Confienza 14), mercoledì 4 ottobre 2017,alle ore 17.
“Un piemontese brillante, innovatore, attento alle esigenze dei più deboli. Dalle sue esperienze, comprese quelle umili di cameriere e facchino negli Stati Uniti, seppe trarre ispirazione e insegnamento dimostrando la tenacia (ma al tempo stesso la sensibilità) che è caratteristica della gente di Piemonte. Qualità che seppe trasferire anche al figlio Marcelo. Questi, in viaggio verso Cuba iniziò a maturare la consapevolezza, che si sarebbe tradotta in arte nell’età matura, dellepovere condizioni degli emigranti” sottolinea il presidente del Consiglio regionale Mauro Laus nel suo intervento pubblicato nel catalogo della mostra.
“Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma e ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi”, diceva Cesare Pavese.
dell’area torinese che associandosi nel consorzio, con la condizione fondamentale di non appartenere a nessuna catena editoriale, si sostengono reciprocamente promuovendo le loro attività: la partecipazione a fiere, la creazione di eventi e di incontri con gli autori, la vendita online dei libri, tocco di modernità al passo coi tempi che non tradisce né sostituisce il magico mondo degli scaffali, il profumo della carta e il libraio appassionato pronto ad aiutarci e guidarci all’acquisto.
attraverso il contatto più stretto con la carta, l’odore del passato rinchiuso nelle versioni dei piccoli editori e inoltre il gusto, in alcune librerie infatti è possibile sedersi e assaporare un caffè immersi nella cultura e nel sapere.
“Il silenzio delle cose” è il titolo della mostra antologica di Paca Ronco che s’inaugura domenica 1 ottobre – ore 16,30 – nella sede dell’associazione LaborArt a Piedimulera (Vb).
delle prime opere, poi si sono susseguiti altri argomenti, con vere e proprie mostre a tema come “Le maschere”, “L’amore”, “Tempo sospeso”, “40 varianti sull’opera di Vermeer”,”Ritratti” e le varie nature morte ( “Le tazze”, “Oggetti inchiodati”, “A metà”, “Le mele”) fino alle ultime opere, “Pavimenti e parole”. Come ha scritto Danila Tassinari, “ i quadri di Paca Ronco sono storie che ci guardano e aspettano di essere messe in movimento”. La mostra sarà visitabile fino al 30 ottobre, dal giovedì alla domenica, dalle 16.00 alle 19.00, nello spazio espositivo di via Leponzi 27-29 a Piedimulera.