CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 812

"Il caso Spotlight": assolutamente da vedere, l’avvincente ricostruzione di un’inchiesta

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a cura di Elio Rabbione
 
 

Nel luglio del 2001 Marty Baron passò dal Miami Herald al Boston Globe (oggi è alla direzione del Washington Post, il quotidiano del Watergate, il grande salone e le poche luci accese sino a tardi, le ricerche e l’inchiesta di Tutti gli uomini del Presidente) e vi trovò il team di Spotlight, un gruppo di giornalisti d’assalto, in un periodo di stanca. Andò a rispolverare un articolo che a metà degli anni Novanta era stato relegato alle pagine cittadine, ritenuto di poca importanza (e che già avrebbe potuto segnare un punto di partenza se qualcuno gli avesse prestato un’attenzione maggiore, riconoscerà anni dopo il capo equipe), quello su di alcuni sacerdoti accusati di abusi su minori, mai approfondito a sufficienza, mai scavato per venire a conoscenza se tra i vari casi successi ci fosse un legame, per comprendere se la Chiesa fosse a conoscenza e se se ne fosse occupata. Esiste un altro caso di pedofilia, quello che coinvolge padre John Geoghan, su cui l’arcivescovo Bernard Francis Law, a capo dell’intera comunità cattolica bostoniana, pur al corrente, ha sempre fatto di tutto perché non si indagasse, forte della tanta documentazione secretata. La squadra si mette a indagare, scopre vittime e documenti, soprattutto l’omertà di un’intera comunità che è ben lontana dalla volontà di far piena luce sull’accaduto. Grazie all’apporto dell’avvocato chiamato a salvaguardare i diritti delle parti lese, si comprende come i casi si moltiplichino, una decina in un primo tempo, poi dilaghino smoderatamente, coinvolgendo un’ottantina di sacerdoti.

Abusi sistematicamente praticati con le gerarchie ecclesiastiche pronte a mettere ogni cosa a tacere. Il lavoro risultò frenetico, le prove finalmente si susseguivano alle prove, anche se gli attentati alle Torri Gemelle arrestarono per alcune settimane indagini e risultati, alla fine, nel gennaio dell’anno successivo, il primo articolo venne dato alla stampa. In seguito nacquero più di seicento articoli per raccontare e per condannare, per raccogliere quelle prove per cui l’arcidiocesi di Boston pagò circa 85 milioni di dollari come risarcimento nei confronti di molte delle vittime di abusi e fu indotta a pubblicare una lista con i nomi di 159 preti accusati di pedofilia.

Il caso Spotlight, diretto da Thomas McCarthy, è uno dei film più significativi di questa stagione, raccontato senza retorica, con un ottimo ritmo incalzante, appassionante, che non sarebbe così coinvolgente se anche non potesse contare su un gruppo d’attori in vero stato di grazia forse sopra tutti Lev Schreiber, perfetto Baron a tenere i fili a volte esilissimi dell’intera operazione: ma tutti quanti sono davvero eccezionali -, candidato a sei premi Oscar (tra cui miglior film e miglior regia, ma pure miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio auspicabilissimo -, migliori attori non protagonisti, Mark Ruffalo e Rachel McAdams), fedele all’inchiesta che portò il team ed il giornale alla vittoria del Pulitzer nel 2003, ricostruita passo passo con le ricerche affannose, con la lettura dei tanti dossier o la riscoperta dei vecchi articoli troppo in fretta dimenticati, con le sconfitte e quei successi in cui nessuno aveva più il coraggio di sperare, con il sostegno dovuto alle vittime e lo sconcertante incontro con alcuni individui, incapaci di dare un peso giusto e umano alle proprie colpe, con le chiacchiere dolciastre con quanti avevano tutto l’interesse a far sì che ogni cosa continuasse a rimanere sepolta.

A Sarajevo il 28 giugno

 Iniziò di fatto il Novecento, il secolo breve e del sangue. Se si guardano da vicino, quelle ore traversate da un invisibile con­fine,  appaiono come un groviglio di piccoli fatti, incidenti, fuggevoli sensazioni, incontri determinati dal caso

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Una domenica di giugno, a Sarajevo, avvenne il fatto che divise in due la storia del ventesimo secolo: l’at­tentato in cui furono uccisi l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este e sua moglie, Sofia Chotek von Chotkowa. Dopo quel giorno, il 28 giugno, nulla fu come prima e, scardinata in un battibaleno la  belle époque – dilapidandone il patrimonio culturale ed artistico che aveva fatto grande l’Europa – iniziò di fatto il Novecento, il secolo breve e del sangue. Se si guardano da vicino, quelle ore traversate da un invisibile con­fine,  appaiono come un groviglio di piccoli fatti, incidenti, fuggevoli sensazioni, incontri determinati dal caso. Gilberto Forti, giornalista e traduttore dall’inglese, tedesco e svedese oltre che dei grandi autori della tradizione mitteleuropea, nel suo stupendo “A Sarajevo il 28 giugno” ha guardato dentro quella giornata, estraendone undici «storie in versi», poesie narrative in endecasillabi di straordinaria sobrietà. A parlare sono, di volta in volta, personaggi immaginari che raccontano la real­tà di quella giornata-spartiacque. Leggendole vengono incontro sarajevo fortivoci e figure diverse, dal­l’Im­pe­ratore Francesco Giuseppe, che “si dà pensiero per i funerali / come se tutto il resto non contasse”, all’ufficiale Max von Lenbach, che si sottrae ai creditori fuggendo a Montecarlo con una nobildonna, dai dignitari di Corte a Gavrilo Princìp, l’attentatore, da una vecchia duchessa a un ingegnere ungherese. E gesti, episodi, parole si dispongono come d’incanto tutt’attorno ad un fatto centrale: l’uniforme troppo stretta di Francesco Ferdinando che ancora oggi si può vedere, con le macchie di sangue, al Museo di storia militare a Vienna. Una catena infinita dei casi, di  volontà inconsce, di consapevoli disegni portano a quei colpi di pistola quasi fossero una calamita,  cambiando il corso della storia, all’incrocio del ponte Latino di Sarajevo. L’unica figura che nel libro non parla è la vittima principale, Franz Ferdinand, ma non occorre che lo faccia: sono gli altri  che parlano di lui. E, dal sovrapporsi delle voci, Gilberto Forti riuscì a evocare con magistrale nettezza la sua fisionomia ( il libro uscì nella Piccola Biblioteca Adelphi nel 1984 ): l’arciduca cacciatore seriale (più di trecentomila animali furono uccisi da lui ), appassionato di fio­ri (stupendi i suoi roseti a Konopischt), erede senza poteri, costretto dall’etichetta a un matrimonio morganatico ( Sofia era di rango sociale inferiore e questo impediva il passaggio alla moglie dei titoli e dei privilegi del marito), uomo con difetti e pregi. sarajevo eccidioL’arciduca finì dissanguato sotto i colpi del giovane Gavrilo anche perché nessuno seppe aprirgli subito l’uni­forme, che gli era stata cucita addosso a filo doppio per celare l’in­ci­piente obesità. Un eccesso di vanità e di “etichetta” che gli fu fatale. Ripercorrendo e scandagliando  gli eventi della giornata che fece da detonatore alla Prima guerra mondiale, Gilberto Forti utilizza la figura dell’arciduca erede al trono come metafora della complessità e delle fragilità dell’Impero alla vigilia del conflitto che lo portò alla dissoluzione. Chi l’ha definita, acutamente, una sorta di Spoon River in terra balcanica ha colpito nel segno.  Nelle parole che Forti fa pronunciare al  sergente Koppenstatter, si trova una delle metafore più intense  del libro: “Francesco Ferdinando se ne va, e con lui se ne va la disciplina, la stessa disciplina che l’ha ucciso, la disciplina delle cuciture che tenevano assieme il vecchio impero”.

Marco Travaglini

Addio a Umberto Eco, il grande scrittore "mandrogno"

eco umberto2Eco nacque ad Alessandria il 5 gennaio del 1932, senza mai dimenticare le sue origini e abbandonare i suoi tratti caratteriali “mandrogni”
 

Umberto Eco, celebre scrittore, filosofo e semiologo è morto a 84 anni, ieri sera, nella sua abitazione. La famiglia ne ha dato notizia al quotidiano “la Repubblica”, con il cui gruppo editoriale ha collaborato per decenni (sull’Espresso con la rubrica ‘storica’ “La bustina di Minerva”). Eco nacque ad Alessandria il 5 gennaio del 1932, senza mai dimenticare le sue origini e abbandonare i suoi tratti caratteriali e l’accento “mandrogni”. Nella città piemontese, dove lo scrittore frequentò il Liceo Classico “Plana”, il suo ricordo è ancora vivo. “Baudolino”, una delle sue opere è intitolata al santo patrono della città. A Torino  studiò al Collegio universitario Renato Einaudi. Immortale tra i suoi libri ‘Il nome della rosa’ scritto nel 1980 (da cui venne tratto l’omonimo film che divenne successo mondiale) e ‘Il pendolo di Foucault’, nel 1988). Il suo ultimo lavoro, ‘Numero zero’, è stato pubblicato lo scorso anno. Eco ha scritto, inoltre, saggi di semiotica, estetica medievale, e filosofia.

Chiacchiere sull'amore con Valeria Parrella

L’appuntamento per l’intervista è nella hall dell’albergo ed è subito coup de foudre. Usciamo a fumare, poi mi offre un tè davanti al camino e via con una lunga chiacchierata sull’amore. Il suo modo di essere è abbagliante: sorride e ride spesso, emana simpatia e semplicità, intanto i suoi occhi, bellissimi e intensi, mandano lampi di intelligenza e profondità di pensiero

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E’ grazie al Circolo dei Lettori di Torino che la scrittrice napoletana Valeria Parrella è planata nel capoluogo subalpino, per salire sul palco del festival organizzato (dal circolo) per San Valentino.

L’appuntamento per l’intervista è nella hall dell’albergo ed è subito coup de foudre. Usciamo a fumare, poi mi offre un tè davanti al camino e via con una lunga chiacchierata sull’amore. Il suo modo di essere è abbagliante: sorride e ride spesso, emana simpatia e semplicità, intanto i suoi occhi, bellissimi e intensi, mandano lampi di intelligenza e profondità di pensiero.

Per lei «L’amore muove il sole e le altre stelle. E’ un dilatatore dell’Io: perché quando ci innamoriamo, finalmente non siamo più chiusi in noi stessi, l’Io perde i suoi confini e ci si unisce con qualcosa di più grande». E sa bene di cosa sta parlando questa scrittrice di 42 anni, 2 matrimoni (quello attuale con il regista teatrale Davide Iodice) e un figlio. Dall’esordio nel 2003, l’amore (e le sue molteplici forme) l’ha raccontato in libri di successo e testi teatrali; e il suo romanzo “Lo spazio bianco” ha ispirato il film diretto da Francesca Comencini, protagonista Margherita Buy.

Parafrasando un tuo libro, quanta importanza si dà oggi all’amore?

«Ultimamente, specie in Europa si fa un gioco sporco: si tende a sminuirlo, mentre a livello personale è una cosa che ci onora e la si racconta in giro. L’amore inteso in un orizzonte più ampio. Per esempio, mia sorella che lavora per “Medici senza frontiere” non ha un uomo fisso, ma sicuramente è innamorata dell’umanità».

Oggi è più difficile amare?

«Non lo è mai e non è una questione di tempi, ma di come si è predisposti. Se si nasce aperti e curiosi si è pronti ad amare in qualunque momento».

La protagonista di “Lo spazio bianco” dice di essere troppo vecchia per le pene d’amore. C’è un timer?

«Con gli anni si diventa sempre meno dipendenti dall’amore. Più delusioni hai avuto e più sai che ce la farai, certo soffri, ma sai anche che puoi sopravvivere. Poi il primo amore è quello per se stessi e se si ha un’esistenza soddisfacente si para qualunque colpo».

Istruzioni per l’uso di questo sentimento?

«E’ una fregatura e il manuale non te lo danno, inoltre è specie/specifico e persona /specifico. Un po’ ci si roda con l’esperienza, ma dipende anche dall’altro. Il vero problema dell’amore e soprattutto di una relazione di coppia è che tu puoi arrivare solo fino ad un certo punto nel controllo e nella conoscenza; poi comincia il partner e la verità è che di lui non saprai mai nulla veramente».

L’amore si può anche imparare?

«Si va per prove ed errori, è sempre un esperimento cartesiano: al 5° sbaglio diventi un po’ più bravo. Ma il sentimento è così avvolgente che quando lo provi ti dimentichi tutto quello che hai imparato. In tal senso è auto rigenerante e in maniera sempre diversa».

Matrimonio o convivenza?

«Ho percorso entrambe le strade, comunque sono per il matrimonio: perché va benissimo sperimentare la convivenza, ma quando ti sposi sul tavolo da gioco metti una fiche più alta».

Oggi – tra famiglie allargate, coppie gay e discussione sulla stepchild adoption- la famiglia qual è?

«Io sono d’accordo con tutte le forme possibili e immaginabili di legame, anche gay e con figli, sono favorevole pure all’utero in affitto. I figli non sono mai cresciuti solo dai genitori: ci sono nonni, zii, tate, insegnanti e tante altre figure. E’ una bugia che ci sia solo la coppia uomo-donna. Poi puoi avere una famiglia tradizionale e a 16 anni andare già dallo psicologo; mentre magari hai 2 meravigliose zie, che sono come una coppia gay, che ti faranno crescere in maniera meravigliosa».

Hai detto che proibire i matrimoni gay è da Medioevo, perché?

«Perché è così bella l’idea di amarsi e proiettare questo amore su un piccolo essere da crescere. Poi vogliamo parlare della famiglia tradizionale? Non è mica perfetta: spesso ci sono genitori che litigano o si picchiano e che dire di genitori distanti, ognuno con i suoi amanti, mentre i figli crescono con la bambinaia?»

L’amore può essere per sempre?

«Sarei portata a dirti di no, ma ho l’esempio dei miei suoceri. 82 anni lei, 88 lui e sono ancora innamorati, teneramente gelosi l’uno dell’altra. Si sono sposati per amore, giovanissimi, lei rapita dalla bellezza di lui e viceversa. E sono ancora bellissimi. Forse non hanno neanche avuto il tempo di farsi venire dei dubbi».

In “Ma quale amore” citi l’inerzia che si impara dalle nonne per non sfasciare i matrimoni “…3 cose sono importanti: che la donna abbia la tavola apparecchiata, le veste pronta e la parola mancante”. Funzionerebbe ancora?

«E’ una formula maschilista che nessuno reggerebbe più, l’anticamera delle aggressioni e del femminicidio. Con l’emancipazione femminile si è guadagnato moltissimo ed è indiscutibile che sia meglio litigare e lasciarsi piuttosto che fare buon viso a cattivo gioco sperando di tenersi il marito».

Ma c’è un segreto per far durare più a lungo un legame?

«Una buona formula sarebbe notificare i cambiamenti in atto: in un matrimonio o lunga convivenza si cambia e se non lo manifesti vai in crisi, meglio discuterne».

In “Troppa importanza all’amore” hai scritto: “Un marito è una scelta fideistica e i guai cominciano se ti accorgi che Dio non esiste”. Usi l’ironia, ma il vero problema qual è?

«Nelle relazioni lunghe si deve sempre inventare qualcosa, ci deve essere una molla stimolante. Io   devo sentirmi un po’ preda e cacciatore: scappo io, scappi tu e poi ci si ritrova a casa. Ma conosco coppie che invece funzionano proprio perché entrambi sanno tutto l’uno dell’altro e si fidano al 100%».

La fedeltà esiste ancora o come ha detto una tua amica “…i fidanzati non si cambiano, piuttosto si aggiungono”?

«Le donne possono anche avere interiorizzato un concetto che era appannaggio solo maschile. La fedeltà è bellissima se è naturale, non se diventa imposizione. Paura e sensi di colpa sono campanelli d’allarme: se di fronte a un tentativo di seduzione provi disagio e senso di colpa, allora non sei pronta a quella liaison extraconiugale».

In un’intervista hai detto di essere stata molto libertina e che ti è piaciuto conoscere tanto della sessualità e dell’amore. Sesso ed amore si possono scindere?

«Si può fare magnifico sesso senza essere innamorati; ma non ci si può innamorare senza aver prima fatto sesso e aver capito come il partner vive la sessualità».

Consigli per quando un amore sta finendo?

«Quasi mai è bilaterale: finisce perché uno dei due si stufa. Se sei quello che vuole lasciare, devi accorciare le distanze. La formula me la suggerì ai tempi dell’università un’amica che studiava psicologia, l’ho utilizzata solo una volta ma è stata utilissima. “Se non l’ami più, vai e diglielo perché è l’unico modo di lasciarlo libero; magari così ti sembra di ucciderlo, invece è solo così che può ripartire”».

E per chi viene lasciato?

«Soffri moltissimo, però ricominci e il taglio netto è l’ideale in entrambi i casi».

Sei ospite del Circolo   dei lettori, i tuoi libri preferiti sull’argomento?

«Di Gustave Flaubert ”Madame Bovary”, Dino Buzzati “Un amore” e di Alice Munro la raccolta di storie “Amica della mia giovinezza”

 

Laura Goria

"La morte di Danton" al Carignano, i fiumi di sangue di ogni rivoluzione

Nel testo di Georg Büchner opera di un autore ventunenne, invischiato in una rivolta in Assia e fuggitivo -, scritto in poco più di cinque settimane, tra il gennaio e il febbraio del 1835, si descrive con estrema lucidità, in un variopinto affresco corale, come un moto rivoluzionario sfoci prima o poi in una arrogante quanto feroce e sanguinaria dittatura, quanto divergano le concezioni ormai agli antipodi di due uomini un tempo amici, Danton e Robespierre

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C’è, alle spalle della fatica odierna di Mario Martone, una strada recente, percorsa a cavallo tra cinema e teatro, che lo ha spinto a gettare uno sguardo approfondito, a comporre una precisa visione della Storia, ad analizzare i meccanismi di costruzione e di distruzione che coinvolgono gli uomini di questo o quel secolo: una strada che ha le sue tappe precise nelle Operette morali, in Noi credevamo, nel Giovane favoloso. Tappe che, dal canto loro, non sono momenti incrostati a quel preciso momento storico ma coinvolgono l’oggi che noi viviamo, andando a toccare i nervi dolorosamente scoperti della condizione umana, a farci ripensare alle ragioni rivoluzionarie e alle loro immancabili storpiature, al nichilismo, alle promesse gettate via, agli integralismi e al terrore. Assistendo oggi, sul palcoscenico torinese del Carignano per la stagione dello Stabile, alla messa in scena della Morte di Danton, senza alcuna forzatura registica, ci si accorge, nella limpidezza dello svolgersi dei fatti, nella frenesia della parola, nelle arringhe e nei tradimenti, nelle apparizioni di un popolo maldestramente vociante, nell’ammasso di teste rotolate giù dalla ghigliottina, quanto di rassomigliante esista a mettere a specchio epoche anche lontane tra loro. danton

Nel testo di Georg Büchner opera di un autore ventunenne, invischiato in una rivolta in Assia e fuggitivo -, scritto in poco più di cinque settimane, tra il gennaio e il febbraio del 1835, si descrive con estrema lucidità, in un variopinto affresco corale, come un moto rivoluzionario sfoci prima o poi in una arrogante quanto feroce e sanguinaria dittatura, quanto divergano le concezioni ormai agli antipodi di due uomini un tempo amici, Danton e Robespierre, quanto il primo tenti, pur con le mani grondanti sangue per le uccisioni di cui nei mesi precedenti s’è macchiato anche lui, di cancellare o per lo meno di allontanare gli eccessi di violenza dell’antico compagno, divenuto incorruttibile e implacabile, un leone pronto a negarsi ad ogni legame d’affetto e d’amicizia e a scagliarsi contro chiunque. Dalle parole di Büchner nascono due personalità possenti, splendidamente messe a fuoco, l’uno ormai legato ad ogni effetto della vita quotidiana, pronto a rendere una vita ormai inconsistente, quasi ieratico l’altro nella sua violenza senza ritorno, incastonate in una Storia più grande di loro, pronta ad agguantarli e a stritolarli, in un confronto spietato che non conosce più pause, ricordi, realtà eccessive con cui placidamente confrontarsi. Ai loro piedi i compagni dell’ultima ora e non soltanto, il popolo (qui affetto da troppa napoletaneità ad ogni costo, che forse ha il pregio di raggiungere ogni tempo e ogni luogo o il difetto d’accontentare gran parte della compagnia) arruffato, pronto a cadere in braccio a questo o a quell’altro, inconsapevolmente, disgustosamente.

In una perfetta cornice “teatrale”, La morte di Danton si muove entro un palcoscenico inventato da Martone stesso, cinque sipari di velluto rosso in continue aperture e chiusure, ove si concretizzano (e ricordiamo qui l’apporto non indifferente dell’intera squadra tecnica alla riuscita a tutto tondo dello spettacolo: corale, dicevamo, inevitabilmente quindi ancora bisognoso di ritocchi, di un riordino in certi passaggi, di briglie a questo o a quello per un amalgama maggiore, penso per esempio alla scena del carcere all’inizio della seconda parte, a certe “invasioni” popolane) tribunali, salotti, interni domestici, prigioni, strade che invadono con un bel colpo d’occhio per lo spettatore l’intera platea, fiumi in piena che nella loro corsa trascinano tutto e tutti. Una compagine di trenta attori a ricoprire un grumo della Storia del mondo nei bei costumi di Ursula Patzak, tra cui almeno vorremmo citare un veemente quanto amorevole Denis Fasolo che è Desmoulins, Fausto Cabra implacabile Saint-Just, perfetto nell’urlo della propria arringa, Irene Petris rassegnata Lucile, Paolo Graziosi un Thomas Payne ragionatore perfetto, Giuseppe Battiston che è Danton e soprattutto l’eccellente prova di Paolo Pierobon, per il ritratto che regala del suo Robespierre, chiuso nella torre d’avorio della propria sanguinolenta volontà di uccidere.

(foto: Mario Spada)

Elio Rabbione

 

Debutto europeo al Regio per la Tosca di Daniele Abbado

tosca regio teatroUn cast di livello internazionale per l’opera coprodotta dal Teatro comunale di Bologna

È un esempio di lirica di alto livello musicale la Tosca in scena dal 9 al 21 febbraio prossimo al teatro Regio, presentata in un nuovo allestimento in prima europea, coprodotta insieme al teatro Comunale di Bologna, e originariamente creata per lo Hyogo Performing Arts Center di Nishinomiya, per la regia di Daniele Abbado. Orchestra e Coro del Teatro Regio e del Conservatorio Giuseppe Verdi, sotto la direzione di Renato Palumbo, con Claudio Fenoglio maestro del Coro.

Il melodramma di ambientazione storica e dalle forti tinte drammatiche, rappresentato per la prima volta il 14 gennaio del 1900 al teatro Costanzi di Roma, vanta un cast di solisti di fama internazionale: Maria José Siri nel ruolo della protagonista, Roberto Aronica in quello di Mario Cavaradossi e Carlos Arvarez nei panni del malvagio barone Scarpia.

Il regista ha immerso le vicende dell’opera in un’atmosfera metafisica, senza rinunciare, però, ai simboli propri del libretto di Illica e Giacosa, tratto dal dramma omonimo di Victorien Sardou,  dalla chiesa romana di Sant’Andrea a Palazzo Farnese, fino alla celebre statua di Castel Sant’Angelo. Tosca, come tutto il teatro il teatro di Puccini, è concepita come un “dramma musicale”, un genere operistico nel quale non è il testo a adattarsi a un sistema di pezzi, quali arie, duetti o concertati preordinati secondo uno schema determinato da convenzioni, ma è la musica, invece, a adeguarsi al decorso del libretto.

In Tosca Puccini, ultimo grande esponente della tradizione italiana, fa prevalere, invece, la condotta discorsiva e dialogica, che spazia dal declamato all’arioso, sulla base di un discorso sinfonico basato sull’elaborazione di un nucleo ristretto di temi trattati, in modo piuttosto simile alla tecnica wagneriana del Leitmotiv.

Con Tosca il compositore nativo di Lucca affronta una drammaturgia lontana da quella presente in Manon Lescaut e nella Boheme, opere dallo sviluppo frammentario, dove l’approfondimento psicologico prevale sull’intreccio. Tosca, invece, si avvicina a una drammaturgia analoga a quella della tradizione incarnata da Verdi e proseguita poi dagli autori veristi,  grazie al confronto dei personaggi, nell’ambito di un’azione serrata e lineare, in cui sono esaltate le passioni elementari e esasperata la tensione emotiva, su uno sfondo storico capace di suggerire letture in chiave etico-politica. Nel libretto viene portato in primo piano il personaggio di Scarpia, che diventa l’eroe negativo per eccellenza, affidato al registro del baritono. Nel suo sadismo, efferato e al tempo stesso devoto, sensuale e aristocraticamente distaccato, sono stati riconosciuti dai critici un carattere dell’arte “fin de siecle” e la rappresentazione dell’emozione erotica nella sua dimensione patologica.

 
(Foto: il Torinese)

Mara Martellotta

Adriana Zarri, la “vita compiuta” di una ribelle di Dio

zarri 3zarri 2zarri4Scrittrice, teologa, eremita, se n’è  andata nella notte tra il 17 e il 18 novembre 2010, a 91 anni. La frase riportata è l’epigrafe che aveva scritto per se stessa e che venne pubblicata nel 1971 nel volume “Tu. Quasi preghiere

 

“Non mi vestite di nero:è triste e funebre. Non mi vestite di bianco:è superbo e retorico. Vestitemi a fiori gialli e rossi e con ali di uccelli. E tu, Signore, guarda le mie mani. Forse c’è una corona. Forse ci hanno messo una croce. Hanno sbagliato. In mano ho foglie verdi e sulla croce,la tua resurrezione.E, sulla tomba,non mi mettete marmo freddo con sopra le solite bugie che consolano i vivi. Lasciate solo la terra che scriva, a primavera, un’epigrafe d’erba.E dirà che ho vissuto,che attendo. E scriverà il mio nome e il tuo,uniti come due bocche di papaveri”.Adriana Zarri, scrittrice, teologa, eremita, se n’è  andata nella notte tra il 17 e il 18 novembre 2010, a 91 anni. La frase riportata è l’epigrafe che aveva scritto per se stessa e che venne pubblicata nel 1971 nel volume “Tu. Quasi preghiere”. Sulla sua tomba – nel cimitero canavesano di Crotte, una frazione di Strambino, dove si trova il suo eremo di Ca’Sassino– venne seminato del trifoglio nano, in obbedienza alla richiesta di Adriana di avere “un’epigrafe d’erba”. Anche la sua salma venne composta rispettando il suo pensiero, come dissero gli amici più cari: “Le abbiamo messo una gonna con roselline molto delicate, una camicetta chiara ed un gilet che richiamava il colore tenue delle roselline. In mano un ramo e poi la Bibbia aperta al brano della Samaritana come ci aveva chiesto”. Dal settembre del 1975 si era trasferita in quella“vecchia cascina solitaria, dove conto di trascorrere i restanti anni della mia vita nella preghiera e nel silenzio”. Una decisione, quella di praticare l’eremitismo, comunicata agli “amici carissimi” con una lettera spedita da Albiano d’Ivrea  il primo settembre di quarant’anni fa.

 

Qualcuno dice che mi sono “ritirata” in un eremo; e io puntualmente reagisco. Un eremo non è un guscio di lumaca, e io non mi ci sono rinchiusa; ho solo scelto di vivere la fraternità in solitudine. E lo preciso puntigliosamente per rispondere all’obiezione che concepisce questa solitudine come un tagliarsi fuori dal contesto comunitario. E invece no. L’isolamento è un tagliarsi fuori ma la solitudine è un vivere dentro”. Così precisò, nel suo “Un eremo non è un guscio di lumaca”. Un libro che, come scrive Rossana Rossanda nella sua prefazione, è “ da leggere in silenzio,da ascoltare”. Lo è perché la voce che vi echeggia, forte e chiara, è quella “di un eremita che parla al mondo”. Perché dentro quelle pagine “ ci sono tanti suoni: lo stormire degli alberi, il gracidare delle rane, il rumore dell’acqua, le parole degli amici. E colori: il giallo di un limone, il rosso di un gatto, il bianco della neve che fiocca. C’è l’amore per il mondo e per la sua bellezza. C’è la voglia di capire e lottare, di raccontare e sentire”. Rossana Rossanda, giornalista, tra i fondatori del Il Manifesto, era legata alla Zarri da un’amicizia che durava da trent’anni e più volte ha sottolineato come “dal silenzio del suo eremo” faceva scaturire parole nuove ed incisive “che richiamano ad una fede essenziale o, per chi come me non è credente, a ritrovare una dimensione nuova all’agire per l’uomo“. Adriana Zarri, nella sua vita intensa, è stata tante cose. Dirigente dell’Azione cattolica prima e giornalista poi, teologa conciliare già prima del Vaticano II e scrittrice, anima nomade ( visse in diverse città italiane, soprattutto a Roma) e poi eremitica, tra Albiano, Fiorano e, infine, Strambino.

 

Nei suoi eremi, Adriana pregava, coltivava, si dedicava agli animali (amava moltissimo i gatti), accoglieva quanti passavano, e scriveva. La sua è stata una voce profondamente cattolica e profondamente dissenziente (collaborava  sia all’Osservatore Romano che al Manifesto), prima laica ammessa nel direttivo dell’Associazione teologica italiana nel 1969. Così è stata ricordata  qualche mese fa sul quotidiano edito nella Città del Vaticano: “Adriana Zarri è stata una donna libera, legata forse solo a un senso del sacro restituito dall’intreccio tra fede nuda,giustizia sociale, Vangelo,femminismo e amore per gli indifesi, i deboli e i perseguitati”. Un bel ritratto, in linea con lo stile di vita sobrio ed austero e l’atteggiamento esigente nei confronti della sua chiesa, amata e contestata per amore. Dei suoi inediti ricordi di vita, recuperati da articoli e carte personali, sono stati raccolti e pubblicati, postumi,  in “Con quella luna negli occhi” ma è “Un eremo non è un guscio di lumaca” il libro al quale Adriana Zarri lavorò con passione fino alla sua conclusione, potendone vedere le bozze definitive. Bozze che teneva ancora vicine sul suo comodino quando, la notte tra il 17 e il 18 novembre 2010, la sua “vita si è compiuta”.

 

Marco Travaglini

Seicentomila No

seicentomilaLa resistenza degli Internati militari italiani

 

“Vent’anni di dittatura fascista, alleata del nazismo, sono alla base di tutte queste tragedie che si incrociano e che sono commemorate con il Giorno della Memoria e il Giorno del Ricordo. Sono convinto che dobbiamo continuare sulla strada tracciata con il Comitato Resistenza e Costituzione, in questi ultimi decenni, per non far cadere nell’oblio la Memoria e per fare chiarezza quando necessario. Come vicepresidente delegato al Comitato sono fiero di tutto questo”.

 

Con queste parole il vicepresidente del Consiglio regionale, Nino Boeti, ha chiuso la presentazione del volume “Seicentomila NO. La resistenza degli Internati militari italiani”, che si è tenuta presso la Biblioteca Civica “Primo Levi”, alla Circoscrizione 6 della Città di Torino. La presidente della Circoscrizione e consigliera regionale, Nadia Conticelli, aveva aperto l’incontro spiegando quanto fosse “utile per mantenere il filo della Memoria unire le due ricorrenze allo scopo di evitare che fatti del genere possano ripetersi. Oggi parliamo di un’opera realizzata in onore dei soldati italiani che sono stati fedeli al loro Paese”.

 

Prima del dibattito è stata proiettata una versione ridotta del film-documentario “600.000. La resistenza degli internati militari italiani”, realizzato nel 2007 dall’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza (Ancr). Secondo quanto spiegato da Corrado Borsa dell’Archivio, il libro è un “unicum con il video” ed è uno dei pochi lavori che siano stati fino ad ora realizzati per contrastare l’oblio dell’epopea degli internati militari italiani.

 

Al dibattito hanno partecipato: Pensiero Acutis, presidente dell’Associazione nazionale ex internati (Anei) di Torino; Alessandra Fioretti consigliera nazionale dell’Anei; Palmiro Gonzato, partigiano presidente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi) di Torino; Paola Olivetti dell’Ancr; Antonio Vatta, presidente della Consulta regionale Piemonte dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (Anvgd).

 

Dalle toccanti testimonianze è emersa la drammaticità dei fatti storici e l’ingiusto oblio di tante vicende della nostra storia delle quali si dovrebbe fare tesoro per trasmettere i valori di identità, tolleranza, democrazia e libertà alle giovani generazioni, oltre alla consapevolezza del coraggio che tantissimi italiani hanno dimostrato riscattando, almeno moralmente, la sconfitta della Seconda guerra mondiale e il ventennio fascista.

 

Il libro, edito da Kaplan, è stato realizzato con l’appoggio del Consiglio regionale attraverso il Comitato Resistenza e Costituzione e curato da Pier Milanese, Andrea Spinelli e Paolo Favaro per la parte video, Corrado Borsa, Paola Olivetti e Cristian Pecchenino per la ricerca storica e Ferdinando Boccazzi Varotto per la parte multimediale.

 

www.cr.piemonte.it

L'epoca naive dei manifesti hard degli anni '70 e '80

hard2Al Fun.Kiglia  la mostra “Ginger @ Glamour” rappresenta un tuffo in un’epoca non lontana

 

“Ginger @ Glamour” è il titolo della mostra che ripropone un’ ampia collezione di manifesti vintage di pellicole cinematografiche a luci rosse risalenti agli anni Settanta e Ottanta, che fanno parte della collezione dell’artista Max Briga. Si tratta non soltanto di oggetti pop e glamour, ma di veri e propri documenti di cronaca e di analisi sociologica di un’epoca a noi ancora vicina, ma particolarmente naive.hard3

 

I soggetti del materiale promozionale della prima cinematografica hard possono essere fotografie o illustrazioni e sono sempre allusive,  ammiccanti, quasi mai esplicite, testimoni di un periodo in cui esisteva la trasgressione, a differenza dell’epoca contemporanea in cui tutto appare lecito.hard1

 

Oggi, infatti, la nudità,  come la diffusione della pornografia, non è più vissuta come oggetto di censura o tabù, ma è favorita, anzi spesso esasperata, dal progresso tecnologico rappresentato dai mass media. L’industria pornografica ha rappresentato nell’ultimo trentennio un grande boom economico,  andando di pari passo con la mutazione del senso del pudore e della morale. I film per adulti degli anni Settanta e Ottanta erano, al di là di tutto, un esempio di una forma di comunicazione che appare molto lontana da quella di oggi, ma che, proprio per questo motivo, merita di essere riscoperta attraverso i suoi manifesti. Francesca Canfora ha collaborato alla curatela della mostra.

 

Mara Martellotta

 

La mostra inaugura giovedì 11 febbraio presso i locali di Fun.Kiglia,  in via degli Artisti 13.

Le rime migranti

POZZI LIBROIl tratto distintivo di queste composizioni è rappresentato dall’uso della lingua e di quello che, volgarmente, viene definito dialetto ma che – a ben guardare – , essendo “una varietà della lingua”, ne ha la stessa dignità, trasmette emozioni e calore, traduce i sentimenti in parole spesso più appropriate di quanto possano fare le lingue ufficiali

 

Le rime migranti” di Paolo Pozzi –  poeta, studioso di culture ed espressioni dialettali – sono raccolte in un piccolo, minuscolo e prezioso libricino di cento pagine che  si può definire, non a torto, un “breviario poetico”. Il tratto distintivo di queste composizioni è rappresentato dall’uso della lingua e di quello che, volgarmente, viene definito dialetto ma che – a ben guardare – , essendo “una varietà della lingua”, ne ha la stessa dignità, trasmette emozioni e calore, traduce i sentimenti in parole spesso più appropriate di quanto possano fare le lingue ufficiali.  Del resto, come dice il famoso linguista americano Noam Chomsky, le lingue “sono dialetti con un esercito, una marina e una bandiera”. Paolo Pozzi  usa le “varietà dellaconvento 2 chiesa suore lingua” che ben conosce con garbo e maestria, sia quella “bosina” – che svela la radice paterna, legata al territorio della provincia di Varese – che quelle friulane e istriane, rispettivamente della madre e della moglie, frutto del pluralismo linguistico che si trova sulla linea del confine orientale, dove la tradizione mitteleuropea sfuma nei Balcani.

 

Lì si toccano due mondi: l’Occidente, dove la verità è adeguamento della cosa all’intelletto; e l’Oriente, dove la verità è ciò che sembra che la cosa sia. Con un velo di malinconia perché, come ha scritto Paolo Rumiz, “in Europa l’Oriente non c’è più, l’hanno bombardato a Sarajevo, espulso dal nostro immaginario, poi l’hanno rimpiazzato con un freddo monosillabo astronomico: ‘Est’. Ma l’Oriente era un portale che schiudeva mondi nuovi, l’Est è un reticolato che esclude”. Nella poesia di Paolo Pozzi non c’è nulla di freddo, non esistono reti diverse da quelle dei pescatori e l’acqua salata dell’Adriatico si mescola con quella dolce del Maggiore.  Nella silloge “Le rime migranti” prendono corpo le atmosfere del Verbano, dove sente “l’acqua che sciaborda contro i sassi” ( vive a Brisino, sopra Stresa, dove si può spaziare con lo sguardo sul lago Maggiore) e dei monti che lo circondano ( “come stirate dalle dita del vento, delle nuvole grigie si strappano sulle cime della Val Grande”), così come quelle della Varese d’antan, della “dolce e aspra” Istria e del mare che ama (“Non si può solo camminare sulla riva per capire cosa vuol dire Mare! Ma con l’impeto di un’onda che ti spinge a vele tese, prova a navigare..”). L’amore – per Marisa, la moglie – è declamato un po’ ovunque, quasi fosse il lievito dell’impasto dei suoi pensieri, e così anche per la natura, sia che si presenti come l’immagine del cielo , sotto le spoglie di uno stelo di acetosella o nelle foglie che, sottovento, girano su se stesse in vortice, “macinate dalla tramontana”.

 

convento 1 chiesaStupendo il parallelo tracciato nelle due poesie intitolate “controvento” – una in dialetto bosino, l’altra in friulano – dedicate al Convento delle Romite Ambrosiane sulla cima del Sacromonte di Varese (“Erta e dritta, alta sul bastione una croce di ferro antico,battuto e arricciolato, par che ti inviti a cercare Dio e a fermarsi:non è tempo sprecato..”) e al Convento sull’isola di San Francesco del Deserto, nella Laguna di Venezia ( “Una croce ti aspetta sulla riva fatta di legno, antico a tarlato, pare che ti invogli a cercar Dio e a fermarsi..non è tempo buttato”). Ci sono anche riflessioni sociali, immagini d’attualità sull’Europa e sul dramma dei migranti – segno di una sensibilità ricca, profonda, mai banale – in questo peregrinare tra le brume e le nebbie del lago e l’ombra del campanile “dritto e aguzzo” di Pinguente (la croata Buzet di oggi, che fu sede del potere veneziano in Istria). Da quel paese d’origine, la moglie – con la madre, due fratelli e tre sorelle – dovette emigrare durante il dramma dell’esodo forzato degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia. Grazie ai consigli per “facilitare la lettura del dialetto bosino”, Paolo Pozzi invita non solo  a leggere questo prezioso “breviario poetico” ma a farlo ad alta voce perché – come scrive nell’introduzione Silvia Metzeltin – “la poesia dialettale, anche scritta, si può decifrare più facilmente con il ricorso dell’oralità, alla lettura a voce alta o sommessa”.

 

Marco Travaglini