CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 79

A teatro “Lo Spiegone” di Eliza G

Sabato 4 gennaio – ore 21

TEATRO ATLANTIC – Borgaro Torinese (TO)

Con oltre 18 milioni di visualizzazioni sui social, la rubrica cultural-musicale “Lo Spiegone” di Eliza G

sbarca finalmente live a teatro con la produzione di Dimensione Eventi.

Un’entusiasmante, divertente ed emozionante viaggio musicale tra racconti e curiosità.

On-stage con Eliza il Maestro Nicola Sciarpa e un’incredibile band. Regia di Claudio Insegno.

Gli Oblivion tornano in scena con il nuovo spettacolo Tuttorial

Domenica 5 gennaio ore 20.30
Lunedì 6 gennaio ore 18

OBLIVION
Tuttorial
Guida contromano alla contemporaneità

Regia di Giorgio Gallione
Poltronissima € 35,00 / Poltrona € 29,50 / Galleria € 24,50 / Ridotto under 16 € 31,00

Graziana Borciani, Davide Calabrese, Francesca Folloni, Lorenzo Scuda e Fabio Vagnarelli ovvero gli Oblivion tornano in scena con il loro nuovo spettacolo Tuttorial, una realtà alternativa dove Galileo Galilei è una star di TikTok, Leonardo da Vinci non riesce a produrre contenuti virali e Marco Mengoni canta all’Ikea. Senza senso e senza tempo, personaggi di varie epoche allietano le giornate dei loro follower in cambio dell’agognato successo. Spaziando dai litigi tra Bell e Meucci sull’invenzione del telefono, al presentarci le creature tipiche delle modernità come l’infaticabile Rider e il pavido Leone da Tastiera fino ad arrivare alla satira di costume, alla politica e all’attualità. TUTTORIAL è un vero e proprio strumento di orientamento grazie al quale in poche e semplici note, i grandi interrogativi umani avranno risposte alla portata di tutti; uscirete dal teatro più saggi di Siri, più fluidi di D’Annunzio, più caldi del riscaldamento globale.


Oblivion “Tuttorial” – foto di Laila Pozzo

Note di Classica: Anastasia Kobekina, il Quartetto di Cremona e Sergey Khachatryan le “stelle” di gennaio

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Giovedì 9 alle 20.30 e venerdì 10 alle 20 all’ Auditorium Toscanini, l’ Orchestra Rai diretta da

Andrea Battistoni e con Anastasia Kobekina al violoncello, eseguirà musiche di Sinigaglia,

Cajkovskij e Saint-Saens. Sempre venerdì 10 per LingottoMusica, all’Auditorium Agnelli, l’Orchestra

dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretta da Myung-Whun Chung e con Sergey Khachatryan

al violino, eseguirà musiche di Brahms e Beethoven. Lunedì 13 alle 20 al teatro Vittoria per la stagione dell’Unione Musicale, il Delirium Amoris con Benedetta Mazzetto contralto, eseguirà un programma interamente dedicato a Vivaldi. Sempre per l’Unione Musicale mercoledì 15 alle 20.30 al Conservatorio G. Verdi, Andrea Lucchesini al pianoforte, eseguirà musiche di Berio, Liszt, Chopin.

Giovedì 16 alle 20.30 e venerdì 17 alle 20 all’Auditorium Toscanini, l’Orchestra Rai diretta da John Axelrod e con il coro femminile del teatro Regio diretto da Ulisse Trabacchin, eseguirà musiche di Berio e Holst. Mercoledì 22 alle 20.30 al Conservatorio, Alessia Tondo canto e tamburo, Avi Avital mandolino, Giovanni Sollima violoncello, Luca Tarantino chitarra barocca e romantica, eseguiranno musiche tradizionali salentine, macedoni, sefardite e di Scarlatti, Sollima, Castello, Frescobaldi. Sabato 25 alle 18 al teatro Vittoria per l’Unione Musicale, Antonio Valentino pianoforte e relatore, presenta “Lo Swing E’ Iniziato con Beethoven?” il ritmo sincopato con musiche di Beethoven, Gershwin, Joplin, Piazzolla, Chopin. Martedì 28 alle 20 al teatro Vittoria, Olivia Manescalchi attrice e Achille Lampo pianoforte, eseguirà musiche di Gounod, Debussy, Massenet, Chabrier, Satie, Faurè.(il concerto sarà preceduto alle 19.30 dall’aperitivo.) Sempre martedì 28 alle 20 al teatro Regio, debutto de “L’Elisir D’Amore”di Doninzetti. Melodramma giocoso in 2 atti. L’Orchestra del teatro Regio sarà diretta da Fabrizio Maria Carminati. Repliche fino a mercoledì 5 febbraio. Mercoledì 29 alle 20.30 al Conservatorio per l’Unione Musicale, il Quartetto di Cremona eseguirà musiche di Wolf Ravel Beethoven. Giovedì 30 alle 20.30 e venerdì 31 alle 20 all’Auditorium Toscanini, l’Orchestra Rai diretta da Patrick Hahn e con Truls Mork al violoncello, eseguirà musiche di Sostakovic e Stravinskij.

Pier Luigi Fuggetta

I libri più letti e commentati del mese

Finisce l’anno ma non finiscono i libri da leggere e consigliare. Nel nostro gruppo FB Un Libro Tira L’Altro Ovvero Il Passaparola Dei Libri i titoli più discussi del mese di dicembre sono stati: Il Canto Dei Cuori Ribelli di Thrity Umrigar che racconta la condizione femminile  in India; I Miei Giorni Alla Libreria Morisaki di Satoshi Yagisawa, un libro  che parla di libri e di librerie, sempre molto amato dai nostri lettori; Figlia Del temporale di Valentina D’Urbano, saga familiare di ambientazione albanese.

Incontri con gli autori

Sul nostro sito potete leggere le interviste a Domenico Barone, autore esordiente de  La Vita Ritrovata (Edizioni Clandestine, 2024) un giallo sullo sfondo della Roma degli anni Ottanta con molte sfumature introspettive.

 

Allegra Bonaccorsi anche lei esordiente autrice di  Pac-Man Non Puoi Scappare, un  romanzo sul nostro rapporto con il caso e le opportunità che ci offre.

Per questo mese è tutto: vi ricordiamo che se volete partecipare ai nostri confronti, potete venire a trovarci su FB e se volete rimanere aggiornati sulle novità in libreria e gli eventi legati al mondo dei libri e della lettura, visitate il nostro sito ufficiale all’indirizzo www.unlibrotiralaltroovveroilpassaparoladeilibri.it

 

Malammore, “Una chimera tra i vicoli di Napoli”

Ogni lunedì “in albis” i femminielli napoletani, vanno in processione al Santuario della Madonna dell’Arco. Questo rito pagano affiancato a quello religioso dell’ “ermafrodita sacro”, dell’ uomo che è anche donna, è considerato porta fortuna e viene celebrato in diverse pubbliche manifestazioni con finalità apotropaiche.
Uno di questi femminielli che ho descritto in senso etnologico, trasmigra letterariamente nelle belle pagine del romanzo giallo di Anna Vera Viva ( Malammore, “Una chimera tra i vicoli di Napoli”, Garzanti 2024, pagg.268, €.18 ).


Anna è una scrittrice che risiede da dieci anni a Napoli, ci abita da quaranta, ma è nata in Salento a Galatina. Nel testo che avvince fin dalle prime pagine, l’autrice vuole superare la barriera della narrazione monodimensionale all’inglese ( vedi Christie ) per dare profondità, corpo e maggiore introspezione psicologica e collocazione sociale ai personaggi. Il testo è ambientato nel rione napoletano della Sanità. Un basso fatto a imbuto, con una sola entrata e un fondaco cieco (antico lazzaretto risalente alla peste partenopea del 1656) che la scrittrice ha conosciuto dopo vent’anni su quaranta dal suo trasferirsi a Napoli, in occasione di una sua visita casuale, dovuta a motivi personali. Si è innamorata di questo quartiere, dove le guide turistiche non vi portano e vi consigliano di entrarvi, portando dietro poco denaro contante e ne ha fatto il fulcro geografico del suo racconto, che ruota attorno alla figura un po’ chestertoniana, un po’ dickensiana e un po’ manzoniana, di padre Raffaele. Prete detective. Ormai giunto al suo terzo caso. Un sacerdote con un forte senso di giustizia, col fratello camorrista. Entrambi nativi del basso.

Con una storia triste di solitudine ed emarginazione alle spalle. Indimenticabile la figura della perpetua Assuntina (unico personaggio di ispirazione reale come mi ha dichiarato Anna). Grande lettrice e soprattutto pettegola imbattibile, che fa da costante informatore, su ciò che succede nel basso, al prete investigatore. Ne viene fuori una narrazione limpida e ben scandita, dove la descrizione ambientale del quartiere, si intreccia con le vicende legate a due efferati omicidi, con i dialoghi a fare da ponte alla descrizione dei ceti sociali, colti nel loro tran tran quotidiano e professionale. Il lettore è spinto e risospinto, dall’ambivalenza morale e dal degrado umano delle situazioni, ma ne è coinvolto fino alla chiusa finale del ristabilimento della giustizia terrena, da parte di don Raffaele. Sempre lontano come uomo, da quella divina, troppo ardua per tutti. Per chi non è napoletano un occasione per essere introdotti al suo ambiente, al suo ritmo di vita, alla mentalità della sua gente. Per chi è napoletano forse per conoscersi meglio, per sapere di più sulla propria città e la sua magia.


« Sapete don Raffae’, che qua è come stare su un isola. La Sanità, pure se sta al centro della città, e’ come se c’avesse il mare intorno. Che dalla Sanità non ci passi, non ci capiti. Ci devi venire apposta. Quel ponte che ci hanno fatto passare da sopra sapete che significa? Significa che non ci volevano parte della città, significa. Significa che ci hanno detto: “Voi siete il cuore di Napoli? E noi vi passiamo da sopra e voi diventate un isola”.» Così si esprime un personaggio del romanzo, con il sacerdote detective. Così nascono i ghetti etnici, mentali, culturali, purtroppo.
Grazie quindi Anna Vera Viva, di averci “abbattuto” quel ponte per conto di noi lettori e recensori, un velo di ignoranza che andava sollevato, per coscienza civile, amore per la gente partenopea e soprattutto per la fiducia che ci hai trasmesso, nelle formidabili capacità rigeneratrici del genere umano.

Aldo Colonna

I giochi di parole da Gianni Rodari a Ersilia Zamponi

E’ passato più di mezzo secolo da quando, nel 1973, veniva pubblicata la Grammatica della fantasia di Gianni Rodari.

Un libro che rappresentava, come veniva precisato nel sottotitolo, una “introduzione all’arte di inventare storie“. È l’unico volume del più noto scrittore per l’infanzia, nato sul lago d’Orta a Omegna nel 1920, non dedicato alle storie, agli indovinelli e alle poesie, proponendo un contenuto teorico, dovuto alla paziente trascrizione a macchina da parte di una stagista di Reggio Emilia di appunti rimasti a lungo dimenticati. Le note in questione, scritte nelle seconda metà degli anni ’40, facevano parte della raccolta il Quaderno della fantasia. La Grammatica della fantasia è  una sorta di manuale utile a stimolare la creatività, dove Rodari offre spunti, suggerimenti e strumenti per chi crede in questa pedagogia , attribuendo il giusto valore educativo e didattico all’immaginazione. Partendo dalle parole o dalle lettere che le compongono, Gianni Rodari suggerisce 42 giochi attraverso immagini, nonsense, indovinelli e favole. Ogni gioco ha un forte valore simbolico che offre una infinità di possibilità creative, sia per il bambino che per l’insegnante, semplicemente mettendo in moto la propria fantasia. Attraverso questa Grammatica si apprende che le fiabe non sono intoccabili, che si può giocare con esse, smontandole e ricreandole, coinvolgendo i bambini  in prima persona nel loro processo formativo. La prova migliore della possibilità di imparare l’italiano in un modo divertente e creativo attraverso i giochi di parole, in piena continuità con il lavoro rodariano, è offerta da un altro libro molto bello, diventato ormai un classico: i Draghi locopei di Ersilia Zamponi, anch’essa omegnese. Pubblicato la prima volta nel 1986 da Einaudi, il libro dell’allora docente di lettere presso la Scuola media Gianni Rodari di Crusinallo esplicita bene l’uso intelligente fantasioso dei giochi di parole ( già il titolo dell’opera è l’anagramma dell’espressione “giochi di parole”).Il piacere dell’invenzione linguistica, l’emozione dell’intuire e dell’indovinare, la trasgressione del nonsense, l’intelligenza dell’ironia vengono stimolate magistralmente. Scriveva la Zamponi: “Giocando con le parole, i ragazzi arricchiscono il lessico; imparano ad apprezzare il vocabolario, che diventa potente alleato di gioco; colgono il valore della regola, la quale offre il principio di organizzazione e suggerisce la forma, in cui poi essi trovano la soddisfazione del risultato“. Un modo strepitoso di raccogliere l’eredità di Rodari, facendola vivere e respirare, rendendola più attuale che mai.

Marco Travaglini

Alla Reggia di Venaria il Maestro di Cappella di Domenico Cimarosa

La Reggia di Venaria ospita l’ultimo appuntamento del festival Sports et Divertissements, una rassegna di concerti ideata dal Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino nell’ambito del progetto ‘International Routes: Arts Creating Future’ ed organizzata in occasione delle Universiadi invernali di Torino 2025.

All’interno dell’elegante contesto barocco della cappella di Sant’Uberto, l’orchestra degli studenti del Conservatorio Giuseppe Verdi, diretta dal maestro Giuseppe Ratti, si esibirà nell’esecuzione del ‘Maestro di Cappella’ di Domenico Cimarosa e nella Sinfonia n. 35 Haffner KV 385 di Wolfgang Amadeus Mozart.

Il concerto sarà domenica 2 febbraio alle ore 18, l’ingresso è compreso in tutte le tipologie del biglietto della Reggia, fino a esaurimento posti.

Per prenotazioni prenotazioni@lavenariareale.it

 

Mara Martellotta

Linea Cadorna, la Maginot italiana

Il sistema di fortificazioni che si  estende dall’Ossola alla Valtellina. Un enorme reticolo di trincee, postazioni di artiglieria, luoghi d’avvistamento, ospedaletti, strutture logistiche e centri di comando, collegate da centinaia di chilometri di strade e mulattiere, realizzato durante il periodo della prima guerra mondiale

Linea Cadorna” è il nome con cui è conosciuto  il sistema di fortificazioni che si  estende dall’Ossola alla Valtellina. Un enorme reticolo di trincee, postazioni di artiglieria, luoghi d’avvistamento, ospedaletti, strutture logistiche e centri di comando, collegate da centinaia di chilometri di strade e mulattiere, realizzato durante il periodo della prima guerra mondiale. Un’opera fortemente voluta dal generale Luigi Cadorna, capo di Stato Maggiore dell’Esercito (originario di Pallanza, sul lago Maggiore), con lo scopo di contrastare una eventuale invasione austro-tedesca proveniente dalla Svizzera.

Lo scoppio della guerra – il 23 luglio del 1914 –  e gli avvenimenti successivi tra cui l’invasione del Belgio neutrale e i cambi di alleanze tra le varie potenze europee, accentuarono i dubbi sulla volontà del governo elvetico di far rispettare la neutralità del proprio territorio. Così, una volta che l’Italia entrò in guerra  contro l’Austria  – il 24 maggio 1915 – , il generale Cadorna, per non incorrere in amare sorprese, ordinò di avviare i lavori difensivi, rendendo esecutivo il progetto di difesa già predisposto. Da quasi mezzo secolo erano stati redatti studi, progettazioni, ricognizioni, indagini geomorfologiche, pianificazioni strategiche, ricerche tecnologiche. E non si era stati con le mani in mano: a partire dal 1911 erano state erette le fortificazioni sul Montorfano, a difesa degli accessi dalla Val d’Ossola e dal Lago Maggiore,  e gli appostamenti per artiglieria sui monti Piambello, Scerré, Martica, Campo dei Fiori, Gino e Sighignola, tra le prealpi varesine e la comasca Val d’Intelvi. Anche la Svizzera, dal canto suo,  intensificò i lavori di fortificazione al confine con l’Italia, realizzando opere di sbarramento a Gordola, Magadino, Monte Ceneri e sui monti di Medaglia, nel canton Ticino. In realtà,tornando alla Linea Cadorna,quest’opera, nella terminologia militare dell’epoca, era definita come ” Frontiera Nord” o, per esteso, “sistema difensivo italiano alla Frontiera Nordverso la Svizzera”. E, ad onor del vero, più che una fortificazione collocata a ridosso della frontiera si tratta di una linea difensiva costruita in località più arretrate rispetto al confine, con lo scopo di presidiare  i punti nevralgici. Un’impresa mastodontica.

 

Basta scorrere, in sintesi,  la consistenza dei lavori eseguiti e delle spese sostenute per la loro realizzazione: “Sistemazione difensiva – Si svolge dalla Val d’Ossola alla Cresta orobica, attraverso le alture a sud del Lago di Lugano e con elementi in Val d’Aosta. Comprende 72 km di trinceramenti, 88 appostamenti per batterie, di cui 11 in caverna, mq 25000 di baraccamenti, 296 km di camionabile e 398 di carrarecce o mulattiere. La spesa complessiva sostenuta, tenuto conto dei 15-20000 operai ( con punte fino a trentamila, nel 1916, Ndr) che in media vi furono adibiti, può calcolarsi in circa 104 milioni”. Le ristrettezze finanziarie indussero ad un utilizzo oculato delle materie prime,recuperate sul territorio. Si aprirono cave di sabbia, venne drenata la ghiaia negli alvei di fiumi e torrenti; si produsse calce rimettendo in funzione vecchie fornaci e furono adottati ingegnosi sistemi di canalizzazione delle acque. Gli scalpellini ricavarono il  pietrame, boscaioli e falegnami il legname da opera, e così via. I requisiti per poter essere arruolati come manodopera, in quegli anni di fame e miseria, consistevano nel possedere la cittadinanza italiana, il passaporto per l’interno e i necessari certificati sanitari. L’età non doveva essere inferiore ai 17 anni e non superiore ai sessanta e, in più, occorreva che i lavoratori fossero muniti di indumenti ed oggetti personali. A dire il vero, in ragione della ridotta disponibilità di manodopera maschile, per i frequenti richiami alle armi, vennero assunti anche ragazzi con meno di 15 anni, addetti a mansioni di manovalanza, di guardiani dei macchinari in dotazione nei cantieri o di addetti alle pulizie delle baracche.  La manodopera femminile, definita con apposito contratto, veniva reclutata nei paesi vicini per consentire alle donne, mentre erano impegnate in un lavoro salariato, di poter badare alla propria famiglia e di occuparsi dei lavori agricoli. Il contratto era diverso a seconda dell’ente reclutante: l’amministrazione militare o le imprese private.

 

Quello militare garantiva l’alloggiamento gratuito, il vitto ( il rancio)  uguale a quello delle truppe, l’assistenza sanitaria gratuita, l’assicurazione contro gli infortuni, un salario stabilito in relazione alla durata del lavoro da compiere, alle condizioni di pericolo e commisurato alla professionalità e al rendimento individuale. Il salario minimo era fissato, in centesimi, da 10 a 20 l’ora per donne e ragazzi; da 30 a 40 l’ora per sterratori, manovali e braccianti; da 40 a 50 per muratori, carpentieri, falegnami, fabbri e minatori; da 60 ad una lira per i capisquadra. L’orario di lavoro era impegnativo e  prevedeva dalle 6 alle 12 ore giornaliere, diurne o notturne, per tutti i giorni della settimana. Delle paventate truppe d’invasione che, come orde fameliche, valicando le Alpi, sarebbero dilagate nella pianura padana, non si vide neppure l’ombra. Così, senza il nemico e senza la necessità di sparare un colpo, con la fine della guerra,  le fortificazioni vennero dismesse. Quelle strutture, negli anni del primo dopoguerra, furono in parte riutilizzate per le esercitazioni militari e , negli anni trenta, inserite in blocco e d’ufficio nell’ambizioso  progetto del “Vallo Alpino”, la linea difensiva che avrebbe dovuto – come una sorta di “grande muraglia” –  rendere inviolabili gli oltre 1800 chilometri di confine dello Stato italiano. Un’impresa titanica, da far tremare le vene ai polsi che, forse proprio perché troppo ardita, in realtà, non giunse mai a compimento. Anche nella seconda guerra mondiale, la Linea Cadorna non conobbe operazioni  belliche, se si escludono i due tratti del Monte San Martino (nel varesotto, tra la Valcuvia e il lago Maggiore) e lungo la Val d’Ossola dove, per brevi periodi , durante la Resistenza, furono utilizzati dalle formazioni partigiane. Infine, come tutte le fortificazioni italiane non smantellate dal Trattato di pace siglato a Parigi nel febbraio 1947, a partire dai primi d’aprile del 1949, anche la “linea di difesa alla frontiera nord” entrò a far parte del Patto Atlantico istituito per fronteggiare il blocco sovietico ai tempi della “guerra fredda”. Volendo stabilire una data in cui ritenere conclusa la storia della Linea Cadorna, almeno dal punto di vista militare, quest’ultima può essere fissata con la caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 1989.

 

Da allora in poi, le trincee, le fortificazioni e le mulattiere sono state interessate da interventi di restauro conservativo realizzati dagli enti pubblici che hanno permesso di recuperarne gran parte  alla fruizione turistica, lungo gli itinerari segnalati. La “Cadorna” si offre oggi ai visitatori come una  vera e propria “Maginot italiana”,  un gigante inviolato, in grado di presentarsi senza aloni drammatici, come un sito archeologico dove è possibile vedere e studiare reperti che hanno subito l’ingiuria degli uomini e del tempo ma non quella dirompente della guerra. Tralasciando la parte lombarda che si estende fino alla Valtellina e restando in territorio piemontese, sono visitabili diversi percorsi, dal forte di Bara  – sopra Migiandone, nel punto più stretto del fondovalle ossolano –  alle trincee del Montorfano, dalle postazioni in caverna del Monte Morissolo al fitto reticolo di trincee e postazioni di tiro dello Spalavera  ( la sua vetta è uno splendido belvedere sul Lago Maggiore e le grandi Alpi), dalle trincee circolari con i camminamenti e la grande postazione per obici e mortai del Monte Bavarione fino alle linee difensive del Vadà e del monte Carza, per terminare con quelle  della “regina del Verbano”, un monte la cui vetta oltre i duemila metri, viene ostentatamente declinata al femminile dagli alpigiani: “la Zeda”.

Marco Travaglini

Quando i “lusciàt” si trovavano in piazza a Capodanno

La zona collinare situata nelle province del Verbano Cusio Ossola e di Novara, comprende i comuni in costa alla sponda orientale del lago Maggiore,  da Arona a Baveno, e una piccola parte di comuni che si trovano salendo sulle pendici del massiccio del Mottarone. Rimanevano mesi e mesi lontani da casa, risparmiando il risparmiabile per sostenere le famiglie,  ricorrendo il più delle volte – per il cibo e l’alloggio – a soluzioni di fortuna

I “lusciàt”, cioè gli ombrellai ambulanti, hanno sempre fatto un mestiere duro, macinando chilometri su chilometri su strade polverose o in mezzo al fango, lontano da casa, arrangiando il loro magro guadagno riparando ombrelli e parasole. La maggior parte proveniva dal Vergante, la zona collinare situata nelle province del Verbano Cusio Ossola e di Novara, comprende i comuni in costa alla sponda orientale del lago Maggiore,  da Arona a Baveno, e una piccola parte di comuni che si trovano salendo sulle pendici del massiccio del Mottarone. Rimanevano mesi e mesi lontani da casa, risparmiando il risparmiabile per sostenere le famiglie,  ricorrendo il più delle volte – per il cibo e l’alloggio – a soluzioni di fortuna. Spesso non riuscivano a mettere insieme il pranzo con la cena e dormivano dove capitava, appisolandosi, stanchi morti, sotto un cielo stellato nella buona stagione o in qualche fienile, quando tirava vento o scrosciava la pioggia. La loro vita era così, prendere o lasciare. Già da piccoli s’apprendeva  il mestiere, girovagando al seguito degli ombrellai adulti per le pianure piemontesi e lombarde, cercando di sfuggire alla miseria. Giravano come dei nomadi gridando a gran voce “donne, donne.. à ghè l’ ombrelè!”, portando a tracolla la  “barsèla”, la cassetta nella quale erano riposti  tutti i “sápitt” , i ferri del mestiere del lusciàt: dai “ragozz”,le stecche degli ombrelli, a lusùra, flignànza, tacugnànza e tacòn, ramé, cioè forbici,  rocchetti di refe, pezze varie, bastoni di legno. Con quell’armamentario erano in grado di cucire, limare, intagliare il legno, incollare, sagomare stoffe. Se c’era da riparare un ombrello lo accomodavano, racimolando qualche soldo; se invece si trattava di confezionarne uno nuovo, era festa grande. Girovagavano per le vie guardando porte e finestre, in attesa del cenno di chi era disposto ad affidar loro un parapioggia tartassato dai troppi acquazzoni, contorto dal vento o vittima della voracità delle tarme. Ogni lavoro era buono e non si rifiutava mai, mettendosi subito alacremente al lavoro, e in silenzio. Per arrotondare il magro guadagno, spesso accompagnavano il mestiere con la costruzione e la vendita di altri manufatti in legno e in fil di ferro , come gabbie, trappole per topi, insalatiere, setacci. Come da tradizione il giorno di Capodanno, sulla piazza di Carpugnino, si trovavano a parlar d’affari e preparare la nuova annata degli ombrellai. In quell’occasione, le famiglie più povere affidavano i loro figli piccoli agli artigiani ambulanti, nella speranza  che avrebbero imparato un mestiere, sconfiggendo la povertà e l’indigenza. “Al prumm dal lungon a Carpignin, a truà l’ Casér senza an bergnin“, che tradotto equivale a “il primo dell’anno a Carpugnino, a cercar padrone, senza un soldino” , come recita un’epigrafe che fa mostra di sé ancor oggi  nella piazza di Carpugnino. Reclutata così la manodopera  gli ombrellai si mettevano in cammino alla ricerca di quei guadagni che potessero garantir loro un futuro migliore. Bisogna dire che l’apprendista entrava quasi a pieno titolo nella  famiglia dell’ombrellaio che provvedeva a lui in tutto e per tutto. Così, lontano da casa e dai propri cari, si accompagnavano nei lunghi tragitti con i loro canti in quella particolare lingua che si parlava tra lusciàt: il “tarùsc”. Sì, perché tra di loro, per tradizione e abitudine,  comunicavano in quel gergo difficile, quasi del tutto incomprensibile, dalla pronuncia piuttosto secca e dura. Secondo alcune ricerche etimologiche, più che  plausibili, basate sulla presenza di termini derivati dal tedesco nel tarùsc, e pensando a parole come  tarnen (maschera) e tarnung (mascheramento), è intuibile la volontà di crearsi una lingua tutta loro, adatta a  camuffare i loro discorsi. Facilitati dalla stessa provenienza territoriale, cioè dai paesi dell’alto Vergante, gli ombrellai potevano così comunicare con  rapidità e segretezza , scambiandosi notizie e commenti nella certezza di non essere capiti. L’idioma era un misto di dialetto e parole di altre lingue, dallo spagnolo al francese al tedesco, rielaborate con arguzia e duttilità. Così, tanto per fare due esempi, l’avvocato era un “denciòn” ed il cuoco un “brusapignat“. “Al lusciàt caravaita a gria i lusc”, dicevano, riferendosi al fatto che  “L’ombrellaio ambulante ripara gli ombrelli”.  Pensando alla vita comoda, scuotevano la testa sentenziando “la repenta ha biò l’elban in su la frisa” (la gallina ha fatto l’uovo sulla paglia). Era una critica, e guai a contraddirli, perché la “ghéna”, la fame, era tanta e ci si poteva considerare “brisòld” (ricchi) solo quando si riusciva a metter su la prima bottega con un banchetto e l’insegna di due cupole d’ombrello a spicchi bianchi e rossi e la scritta “luscia, el lusciat piòla” che, più o meno, si può tradurre così: piove, l’ombrellaio si prende una sbornia. Infatti, quando il cielo diventava scuro, la terra cambiava odore e l’acqua iniziava a scrosciare , fosse temporale estivo o pioggia autunnale, si brindava alla fortuna perché con la pioggia si lavorava di più. Quando veniva chiesta all’ombrellaio quale fosse la ragione di quel nome così strano, veniva raccontata anche la leggenda che individuava nel Tarùsc uno gnomo scontroso e permaloso che viveva  alle pendici del Mottarone e sulla Motta Rossa.  Poco incline a tollerare i forestieri ,si teneva ben nascosto nei boschi. Era lui che, in un tempo remoto, aveva insegnato agli uomini come costruire gli ombrelli, oltre a  trasmetter loro la sua lingua. Alto circa mezzo metro, dal pelo rosso ( come la sue scarpe), con un copricapo a forma di tricorno, era sempre vestito di verde. Combinare piccoli dispetti era uno dei suoi passatempi. Ma c’era un rimedio infallibile, qualora si era presi di mira da un Tarùsc: rovesciare sul pavimento alla sera un sacchetto di riso o di segale. Essendo lo gnomo un tipo  ordinato e pignolo, era costretto a passare l’intera nottata  a raccogliere granello per granello quanto versato. Ai Tarùsc  piacevano i rospi ma non è dato a sapere il perché. Oltre alle storie e alle leggende, quando tornavano a casa, raccontavano le avventure della loro vita randagia. E manifestavano un certo orgoglio  per quel lavoro dove la fatica e i sacrifici erano ricompensati dalla passione per un mestiere che richiedeva non solo molta abilità ma anche una buona dose di creatività. Soprattutto quando l’ombrello andava costruito nuovo di zecca e s’usavano le sagome per tagliare le stoffe. Qui la differenza di censo balzava all’occhio immediatamente: i benestanti e i nobili  sceglievano la seta, per gli altri tutt’al più c’era il cotone.  Molti di questi ombrelli fanno mostra di se nel museo a loro dedicati, a Gignese. Questo museo è l’unico al mondo dedicato al tema dell’ombrello e del parasole e vi sono conservati oltre mille pezzi fra ombrelli, parasole e impugnature di varie fogge e materiali. Nelle sale espositive sono ospitati pezzi curiosi e di notevole valore storico-culturale: dall’ombrello della regina Margherita di Savoia a quello appartenuto a Giuseppe Mazzini, tra i tanti. Gli esemplari nelle vetrine sono di rara fattura e squisitamente lavorati. Nel settore dedicato alla vita degli ombrellai si possono vedere le foto dei “pionieri” di quest’attività, i loro rudimentali attrezzi recuperati dalle antiche botteghe e quelli che li accompagnavano per le strade d’Italia e del mondo. Un itinerario storico, ricco di immagini e di testimonianze di un lavoro antico che gli ombrellai nati nel Vergante hanno saputo far conoscere e apprezzare un po’ ovunque. Non molto distante, a Massino Visconti, nel centro del paese, si può ammirare il monumento dedicato agli ombrellai. Realizzato nel 1972 dallo scultore Luigi Canuto, è stato eretto a ricordo dei molti “lusciàt” che, dalla fine del Settecento fino al primo Novecento, praticarono questo mestiere.

Marco Travaglini

 

La “Baracca”… arte “resiliente” in Aurora

Nel torinese “Cortile del Maglio”, l’Associazione “Club Silencio” presenta l’opera site-specific realizzata da Roberto Alfano con i giovani del Quartiere

Fino a martedì 7 gennaio

Un’opera collettiva. Che racconta un pezzo di storia quotidiana di uno dei Quartieri più vivi e “vivaci”, spesso additato fra i più “annaspanti” e “imbrigliati” in gravose quotidiane difficoltà, non sempre ascoltate con la giusta attenzione, della nostra Città. Parliamo del Quartiere o Borgo “Aurora” sviluppatosi intorno al mercato alimentare di Porta Palazzo e del suo Balon – confinante con il centro storico torinese – e dell’installazione site-specific “Baracca (n. 4) /Narrazioni al margine” realizzata dall’artista lodigiano Roberto Alfano con il coinvolgimento di giovani “Aurorini” under 30 e cuore pulsante del progetto partecipativo “Aurora Sogna”, percorso creativo promosso dall’Associazione Culturale “Club Silencio” (impegnata sempre più negli anni in progetti esperienziali che stimolino la partecipazione attiva dei giovani alla vita socio-culturale del proprio territorio) con “Innesto APS”spin-off sociale di “Club Silencio”, nato due anni fa con l’obiettivo di fornire ai giovani risorse, strumenti e spazi necessari per metterli in grado di creare significativi output artistici .

Inaugurata giovedì 19 dicembre all’“Hub della Creatività” (ex arsenale) del “Cortile del Maglio”, al civico 18 di via Andreis, l’opera, costruita utilizzando materiali di recupero raccolti girovagando un po’ qui e un po’ là (nei primi giorni dello scorso dicembre) per le strade del quartiere e visitabile fino a martedì 7 gennaio“dà forma alle identità e alle memorie locali, raccontando storie di fragilità e resilienza”. Racconta lo stesso Alfano, ideatore del metodo “arte contemporanea generativa”“‘Baracca (n.4”) affronta il tema dell’abitare gli spazi informali, dando voce a vissuti marginali che trovano nell’arte un mezzo per emergere. L’opera celebra la capacità dell’individuo e della comunità di trasformare le difficoltà in opportunità, raccontando la ricchezza umana e creativa nascosta nel Quartiere ‘Aurora’”. Le tecniche di autocostruzione e le narrazioni raccolte sono state guidate dallo stesso Alfano, che ha vissuto per dieci giorni il quartiere, immergendosi nelle sue dinamiche, nel suo vissuto e nei suoi racconti.

Accanto all’installazione, il fotografo torinese Filippo Bortolotti (Filtenso) presenta una mostra che documenta ogni fase del progetto. Protagoniste assolute dei suoi scatti, intensi e spontanei, sono le “mani”“simbolo di costruzione, trasformazione e speranza”. Quelle “mani” che tutto possono: raccogliere, costruire, inventare, fare lunghi esaltanti passi o inciampare in pericolosi sentieri, creare spazi nuovi attraverso i resti di un passato più o meno remoto. Più o meno amico. E dare, altresì, nuova forma a sogni, speranze, visionarietà (più o meno utopiche) di quanti vivono ogni giorno “Aurora”, giovani, anziani, pensionati, commercianti, immigrati, gente per bene e gente che fatica a mantenere i giusti sentieri della legalità e della convivenza. Quella “Baracca” può essere allora una “stanza” o, più in grande, un enorme specchio teso a riflettere positività e negatività, di fronte a cui immaginare un futuro di alternative e spazi “rinnovati”, possibilmente migliori, da lasciare in dono, a torto e spesso inatteso, alle nuove generazioni.

Partiti nell’ottobre scorso i lavori di “Aurora Sogna” hanno trasformato il Quartiere in una vera e propria fucina creativa, attraverso laboratori,workshop ed eventi molteplici, dando sempre particolare spazio ai più giovani chiamati “a raccolta” per esprimere le proprie voci e i propri desideri.

“‘Baracca (n.4)’ rappresenta – sottolineano i responsabili – il risultato simbolico di questo processo, un’opera che non solo narra storie, ma invita la comunità a guardare il quartiere con occhi nuovi e a riscoprire il valore del processo partecipativo e il significato profondo delle storie raccolte. Attraverso l’arte, il Quartiere Aurora diventa un luogo di scambio, dialogo e speranza”. Un luogo dove i tanti “sogni”, linfa vitale di “Aurora Sogna”, possano davvero, almeno in parte, trasformarsi in atti e in forme di concreta e benefica “realtà”.

Gianni Milani

“Baracca (n.4) /Narrazioni al margine”

Hub della Creatività “Cortile del Maglio”, via Andreis 18, Torino.

Per info: www.clubsilencio.it

Fino a martedì 7 gennaio

 

Nelle foto di Filippo Bortolotti (Filtenso): “Baracca (n.4)” immagini dell’allestimento e dell’inaugurazione