IL RACCONTO di Marco Travaglini
Il silenzio è rotto solo dal fischio delle marmotte e dai campanacci delle ultime vacche al pascolo. L’acqua scorre attraversando il prato, sgorgando chiara e fresca da una sorgente ai piedi di un enorme masso erratico, circondato dai larici. S’incanala, in fretta e con un allegria vivace, in rivolo per poi rapidamente crescere in poche centinaia di metri, gorgogliando via veloce. Evitiamo il guado con i sassi e i ciottoli resi scivolosi dal muschio bagnato. Attraversiamo il ponticello, costituito da due malferme travi di legno, risalendo il
pendio erboso , segnato dalle tracce del passaggio delle vacche, fin sopra le baite. Da lì è un attimo guadagnare rapidamente quota, entrando nell’ampio valloncello che conduce al Lago Nero. Martino si rivolge me con uno sguardo che sembra d’implorazione ma non parla. Ha le gambe dure, pesanti ma dalla sua bocca non esce un solo lamento. Vorrebbe fermarsi, posare lo zaino, magari togliersi gli scarponi mezzo sfondati e sdraiarsi sull’erba. Vorrebbe tirare il fiato, mettersi lì di schiena, a pancia in su, con le braccia sotto la testa a guardare quelle nuvole che viaggiano veloci, spinte dai venti in quota. Lo vorrebbe tanto ma è consapevole che non si può. Per quattro volte in tre giorni abbiamo rischiato di farci beccare dei tedeschi che cercano di tagliarci la strada, presidiando i sentieri che vanno verso il confine con la Svizzera. La zona libera dell’Ossola è caduta. A Domodossola hanno mandato i bambini oltre confine, al riparo, nel “paese del pane bianco”. In Svizzera ci sono andati anche una parte dei cittadini e i fascisti avranno un’amara sorpresa:troveranno la città semivuota, fredda, ostile. Per parte nostra ci siamo battuti con onore ma non potevamo fare di più ed ora, insieme a Gianni , Riccardo e Carmine cerchiamo di sganciarci e di guadagnare il passaggio della frontiera. Un tempo qui attorno, sotto le testate dei monti, si vedevano parecchie bestie al pascolo. Non moltissime, per la verità, ma in numero sufficiente per garantire agli alpigiani di che vivere. Le praterie di alta quota sfoggiano ancora una rigogliosa flora ma le vacche si possono contare sulla
dita di una mano, forse due, non di più. In questi tempi di fame guerra la miseria è cosa seria. Il sentiero diventa un corridoio sassoso e s’avverte la ghiaia scricchiolare sotto gli scarponi. Si sale, arrancando, con il mitra a tracolla e lo zaino che, zuppo d’acqua, è diventato pesante al punto che verrebbe voglia di toglierselo di dosso e lasciarlo lì. Il temporale di ieri ha buttato giù pioggia a secchiate e quando abbiamo trovato riparo eravamo già fradici fino al midollo. Buttar via lo zaino, liberarsi del suo peso sarebbe una gran cosa ma non si può e , stringendo i denti, bisogna tener duro. Passo dopo passo, masticando fiato e fatica, ci lasciamo alle spalle i monti di Devero. Quelli che hanno scelto l’alta Formazza saranno già in salvo, oltre Passo San Giacomo, in Val Bedretto. Noi invece ci siamo infilati quassù e non possiamo deviare verso est. Martino è il più giovane di noi, con i suoi diciassette anni ancora da compiere. Si volta e tira un lungo sospiro. Con la manica della camicia si frega gli occhi ma non riesce a nascondere le lacrime. Anch’io sento un nodo in gola. Mi dice: “Marco, torneremo ancora a vedere le aguzze cime del Cornera? E il Cervandone, al fianco dalla Punta della Rossa? E là dietro,la mole nera e incombente dell’Helsenhorn? E il Cistella?Ho
paura che queste montagne, le nostre Lepontine, non le vedremo più”. La sua voce si spezza nel pianto. Gli stringo le spalle. Cerco di consolarlo ma non ho una risposta. I crucchi sono dappertutto e noi siamo rimasti in pochi. Io e Martino della IIª Divisione d’Assalto Garibaldi “Redi”, Carmine della “Valdossola” e i due fratelli Grondini della “Valtoce”. In giro ce ne saranno senz’altro degli altri, ma dove? Faccio segno ai miei compagni di fermarci. Martino ha bisogno di riprendere fiato. Il larice al quale m’appoggio emana una fragranza di resina che inebria. Più in là, dove la macchia arborea è più fitta, la luce disegna dei giochi in chiaroscuro. Giù, più in basso, il grande ovest del Devero pare ci voglia salutare con dei colori da brivido in quest’autunno che sembra non voler lasciare il passo alla cattiva stagione. La sosta è breve e , doloranti, si riparte. Davanti a noi ci sono la Scatta d’Orogna e il Passo di Valtendra. Solo le cime più alte hanno già incontrato la neve ma sappiamo bene che basta un vento malefico ad ammassare nuvole e aria fredda. Si sale ancora e poi, dal
passo si scende lungo il ripido pendio di erba e detriti fino al Pian Sass Mor. Non c’è tempo per fiatare e via, verso la sorgente dove possiamo bere e riempirci le borracce. E poi giù ancora, veloci e col passo lungo verso il Pian dul Scricc e da lì, in mezzo ai faggi, in direzione del grande pianoro dell’Alpe Veglia. E’ l’ora del Vespro, la luce s’affievolisce nel crepuscolo e siamo sfiniti. “In campana, ragazzi. I tedeschi non si fidano a venir qui ma non si può esserne del tutto certi. Prima delle case di Cornù bisogna tenere gli occhi aperti. Aspettiamo a muoverci dopo il tramonto, scendiamo all’alpe e ci attestiamo vicino alla sorgente dell’acqua minerale”. Così facciamo. Con cautela, attenti a dove mettiamo i piedi prendiamo possesso, se così si può dire, della vecchia casera del Nando Denti, un alpigiano di Varzo che conosco da prima della guerra. Il tetto è malmesso ma per fortuna non piove. L’acre odore selvatico delle capre è tremendo ma nemmeno noi, dopo una marcia forzata di giorni, profumiamo di bucato. Gianni e Riccardo crollano sulla poca paglia del pavimento e quasi all’istante ronfano come due gattoni. Martino sembra in catalessi e, qualche minuto dopo, con la schiena appoggiata al muro, s’addormenta pure lui. Carmine e io montiamo di guardia. Dei crucchi non c’è nemmeno l’ombra, a quanto pare. Ma è meglio non fidarsi. Ho ancora del trinciato forte e, sinceratomi che il tabacco non s’è bagnato, mi arrotolo una sigaretta. La fumo tenendo le braci nascoste tra le mani. Carmine, intanto, mi racconta di quando i ferrovieri avevano sabotato la ferrovia giù a Villadossola, qualche mese dopo l’insurrezione popolare dell’8 novembre 1943. Lui ed altri tre si erano dati da fare, sbullonando i binari dalle traversine appena fuori della stazione, e la locomotiva
era deragliata, portandosi appresso i primi due vagoni del convoglio che trasportavano materiale bellico della Wehrmacht, rovesciandosi su un fianco tra le stoppie del granoturco appena tagliato nel campo del Giosuè Merico.“I tedeschi hanno fatto un casino del boia, minacciando di fucilare tutti ma poi, convintisi che era opera dei partigiani di Barbarossa, hanno pensato che in fondo noi ferrovieri gli tornavamo utili per far girare i treni”. Carmine era “salito al Nord” da piccolo, dalla Campania, quand’aveva due o tre anni ed era “figlio d’arte” essendo anche il padre un macchinista ferroviere. E così, pure lui, era entrato a far parte della grande famiglia dei “musi neri”. Sempre in piedi nella piccola cabina aperta, a far correre la macchina a vapore in ogni stagione e con qualsiasi clima. Il volto esposto al calore del forno e al vento della corsa, sotto la luce accecante del sole o nell’oscurità della notte, con l’occhio sempre vigile ai segnali e nelle orecchie il possente respiro della macchina e il continuo martellare dei giunti. Carmine, ad un certo punto, aveva scelto di salire in montagna perché non ce la faceva più a starsene lì con le mani in mano. Ed era diventato partigiano con Superti. Fazzoletto verde al collo, fucile a tracolla, zaino affardellato e via, con passo lesto sui sentieri di montagna a “dar filo da torcere” ai fascisti e ai loro amici germani. La preoccupazione più grande era però legata a sua moglie, Antonietta. Infermiera al San Biagio, aveva scelto di rimanere nel nosocomio domese per curare i feriti che riempivano i reparti. Era una donna coraggiosa e Carmine era orgoglioso di lei, anche se la sua decisione di non salire sull’ultimo treno verso la Svizzera l’aveva reso nervoso, preoccupato. La stanchezza si fece sentire e un poco alla volta la voce di Carmine s’affievolì e, di punto in bianco, s’addormentò anche lui. Con il mitra tra le gambe, seduto sull’uscio della casera, guardai le stelle. Un’infinità di astri luccicanti riempiva ogni angolo del cielo. Erano talmente tante e tanto luminose che sembrava potessero riscaldare l’aria di questa notte di fine ottobre. Così, ricorrendo i pensieri fin quasi alle prime luci dell’alba, anche i miei occhi si
fecero pesanti e, ricevuto il cambio da Riccardo, il più giovane dei fratelli Grondini, m’addormentai come un sasso. Tre ore più tardi, Gianni, mi svegliò scuotendomi un braccio. Suo fratello e Carmine avevano perlustrato la zona e non c’era ombra dei nemici. Così, decidemmo cosa fare. Gianni ,Riccardo e Martino sarebbero saliti alla bocchetta d’Aurona e da lì, scendendo sulle pietraie fino al Passo del Sempione, avrebbero raggiunto l’Ospizio dove i canonici della Congregazione del Gran San Bernardo non rifiutavano di certo l’accoglienza che s’usava con viandanti e pellegrini. E lì si era già in territorio svizzero. Ma bisognava far presto perché la neve aveva appena incipriato le vette ma di lì a poco sarebbe stata un’altra storia e, con le prime nevicate vere, il passaggio sarebbe diventato pressoché impossibile. Io e Carmine, invece, saremmo scesi per il sentiero verso Ponte Campo e da lì, costeggiando la strada, a San Domenico e Varzo. Ci accomiatammo con un lungo abbraccio, reprimendo a fatica l’emozione e ricacciando indietro le lacrime che invece scesero a fiotti sul volto disperato di Martino che voleva tornare a valle per combattere. Non volli sentir ragioni e dopo un’ultima stretta di mano, ci separammo. Senza fare brutti incontri, dopo una marcia di alcune ore, anche noi due, raggiunta la periferia di Varzo, ci salutammo, imboccando strade diverse. Carmine, grazie ad alcuni suoi amici ferrovieri, intendeva recarsi a Domodossola e da lì, con sua moglie, salire in Valle Vigezzo dove, passato il confine a Ribellasca, si sarebbero consegnati alle guardie rossocrociate di Camedo. Io, dopo aver preso contatto con due boscaioli che appoggiavano la resistenza, avevo un ordine da eseguire: raggiungere il capitano Mario e i suoi uomini della 85° brigata Garibaldi “Valgrande Martire”. Iniziava una nuova avventura. O forse, più semplicemente, era quella di prima che non era ancora finita.
La stagione lirica 2017-18 del Regio di Torino si apre nel segno e sulle note di Wagner, con quella che si preannuncia una vera e propria sfida operistica, il “Tristano e Isotta”?, che inaugurerà il 10 ottobre prossimo, alle 19, il cartellone di quest’anno.
compositore, nasce come progetto nella mente di Wagner già dal lontano 1864, quando egli ne parlò all’amico Liszt e, dopo aver letto il componimento cavalleresco “Tristan” di Von Strassburg, decise di mettere in musica il soggetto medievale, seppure in dimensioni ridotte. In realtà l’opera coinvolgerà totalmente Wagner, dopo la lettura di “Il mondo come volontà e rappresentazione” di Schopenhauer, filosofo tedesco anti idealista. L’opera, anche per la fine della burrascosa relazione del compositore con Mathilde Wasendonck, esprimerà la sublime infelicità dell’amore più elevato e i lamenti del più doloroso rapimento. Oggi il Tristano è considerato un insieme di musica romantica e, al tempo stesso, l’inizio di un’era nuova per la musica e per le sue atonalità. Nel ruolo di Tristan, nipote di Marke e amante di Isolde, il tenore Peter Seiffert; in quello di Isolde, la principessa irlandese promessa di Marke, la soprano Ricarda Merbeth, nel ruolo di Marke, re di Cornovaglia, il basso Steven Humes. L’allestimento dell’opera, nella sua prima italiana al Teatro Regio, è dell’Opernhaus Zurich. L’Orchestra e il Coro del Teatro Regio.
Il Museo Nazionale del Risorgimento è in assoluto il museo di Torino in cui si respira più profumo di storia
In occasione delle celebrazioni per i centocinquanta anni dell’unità d’Italia è stato studiato un allestimento che, anche a distanza di qualche tempo, continua ad essere accattivante e si contraddistingue perché riesce a combinare alla perfezione rigore scientifico e esigenze divulgative. La scelta vincente di dare vita a un racconto cronologico scandito dalla successione delle sale, ciascuna delle quali di un colore differente dalle altre, si accompagna all’utilizzo di contributi multimediali e nuove tecnologie che rendono la visita più coinvolgente. Oltre alla sala cinema, lungo il percorso sono presenti video e tavoli interattivi che consentono di approfondire i temi trattati, mentre i contenuti dell’app, scaricabile gratuitamente in museo e disponibile in ben nove differenti lingue, rappresentano una efficace evoluzione delle più tradizionali schede di sala.
due secoli scorsi. Dalla quarta sala ha inizio invece la narrazione degli eventi che hanno segnato la storia piemontese, italiana e internazionale, a partire dalle grandi rivoluzioni della seconda metà del Settecento, quella industriale inglese e quella politica francese, che costituiscono le basi da cui si sviluppano i movimenti nazionali ottocenteschi. Il viaggio nelle pagine della storia continua con il racconto delle imprese di Napoleone Bonaparte che, occupando anche la penisola italiana, riesce a dare vita a un vero e proprio impero, della cui estensione rende conto la bellissima carta d’Europa intagliata nel pavimento della settima sala. Le sale successive raccontano invece la Restaurazione, seguita al crollo dell’impero di Napoleone nel 1814, la nascita delle società segrete e le prime insurrezioni che anticipano i moti del 1830 e poi degli anni 1848-1849.
Subalpino si riunisce in Palazzo Madama, le sedute dei deputati si tengono a Palazzo Carignano nella splendida aula della Camera Subalpina, visibile esattamente a metà del percorso. Le sale successive alla grande aula parlamentare raccontano le vicende che determinato la nascita dell’Italia unita e gli eventi che segnano i primi anni di vita della nazione, dal 1861 sino alle soglie della Prima guerra mondiale. A chiudere la visita è l’immensa sala che avrebbe dovuto ospitare la Camera dei Deputati del Regno d’Italia e che invece oggi conserva le gigantesche tele dedicate all’epica militare, osservando le quali non si può non condividere il pensiero di Alessandro Manzoni che, in apertura dei Promessi Sposi, definisce la storia come «una guerra illustre contro il Tempo».

LE TRAME DEI FILM NELLE SALE DI TORINO
partner che ormai subodorano con quasi completa certezza incessanti tradimenti. Successo, s’è detto: e presto avremo la versione italiana. Farsaccia o elegante satira di costume, questo lo vedremo poi. Durata 90 minuti. (Uci)
oggi. L’infermiera Fatima ha visto qualcosa di troppo e il giovane cuoreduro Ciro, sicario nel libro paga di Don Vincenzo, viene comandato di farla sparire. Ma la dolce fanciulla canterina è il primo amore di Ciro e il primo “ammore” non si scorda mai. E allora il boss che fa? Decide di sparire, con tanto di funerale, sotto gli occhi che più lacrime non possono di della consorte donna Maria. Chi vincerà? Durata 134 minuti. (Eliseo Rosso, Reposi, The Space)
Gleeson. Da una vicenda vera, quella di un uomo che molto disinvoltamente scelse di passare da attività ad attività, prima pilota di linea poi contrabbandiere della droga al servizio del cartello di Medellin come della Dea, più all’occasione dare una mano alla Cia in questioni poco chiare a Panama ai tempi di Noriega. Passaggi spregiudicati che lo fecero vittima nel 1986 di due sicari inviati dalla Colombia. Durata 107 minuti. (Massaua, Lux sala 3, Uci)
piena solitudine, senza ricordi o la fittizia ricostruzione di essi, è l’unione con una compagna virtuale che in qualsiasi momento può esser fatta scomparire, è il disordine e la violenza del cieco scienziato Wallace, che tende a eliminare i vecchi replicanti rimasti per poter creare nuovi esempi, è l’incontro con l’antico agente Harrison Ford, rinato dal cult di Ridley Scott, dall’ormai lontano 1982. Un film che occhieggia ancora verso l’autore Philip K. Dick, che s’impone nella grandezza dei propri ambienti scenografici, che non teme i tempi lunghi, che già le critiche inglesi e provenienti da oltre oceano definiscono come un capolavoro. Durata 163 minuti. (Ambrosio sala 1, Centrale V.O., Massaua, Due Giardini sala Nirvana, F.lli Marx sala Groucho e Harpo, Ideal, Lux sala 1 e 2 e 3, Reposi, The Space anche in 3D e V.O., Uci anche in 3D e V.O.)
120 battiti al minuto – Drammatico. Regia di Robin Campillo, con Nahuel Pérez Biscayart e Arnaud Valois. Gran premio della Giuria a Cannes e pronto a rappresentare la Francia nella corsa agli Oscar. Opera per larga parte autobiografica, a descrivere le imprese dell’Act Up nella Parigi dei primi anni Novanta per far conoscere non soltanto alla nazione francese ma al mondo intero il destino dei malati di Aids, a sensibilizzare una platea più vasta dinanzi all’indifferenza generale, riunioni e manifestazioni, storie private come il rapporto che nasce tra Nathan e Sean, sieropositivo. Durata 140 minuti. (Nazionale sala 1)
Giannini. Ancora due esistenze, diversissime, tratteggiate dall’autore di “Pane e tulipani”. Un giovane sciupafemmine, decisamente in carriera, una agenzia du pubblicità che riempie le sue giornate, dall’altro lato Emma, una ragazza cieca a rimettere in sesto corpi nella sua professione di osteopata: avranno l’occasione per incrociare le loro storie. Durata 112 minuti. (Romano sala 1)
alleate – francesi e inglesi uniti nella disfatta – sotto il fuoco tedesco che avanzava sul fronte Nord della Francia nel maggio 1940. Una trappola sulle spiagge di Dunkerque, una ritirata che coinvolse circa 350 mila uomini, qui raccontata da Nolan nello spazio di sette giorni, con un triplice sguardo pronto a posarsi sulle cronache e sugli eroismi accaduti tra mare e terra e cielo: i giovani soldati che su quella costa tentano di tutto per non essere travolti dalla guerra e morire, i civili che mettono a disposizione le loro imbarcazioni, un eroe del volo che combatte contro la furia della Luftwaffe. Durata 106 minuti. (Ambrosio sala 2, Lux sala 1, Uci)
Oppenheimer è quella di creare appetitosi contatti tra i mondi finanziario e politico newyorkesi, di mettersi in bella e lucrosa luce con quella comunità ebraica americana che tesse parecchi fili. Più o meno preso sul serio, più o meno veramente in relazione con tutti quelli con cui afferma di essere in contatto. E la vita andrebbe avanti così, se un giorno non s’imbattesse in un deputato israeliano in odore di divenire premier. Che cosa accadrà quando questi, raggiunta la carica, offrirà a Norman un caldo abbraccio proprio davanti a chi conta? Ancora il culto dell’”immagine” (e dei quattrini): ma siamo sicuri che il potere paga (e appaga) sino in fondo? Durata 112 minuti. (Due Giardini sala Ombrerosse, Romano sala 2, Uci)
interprete Clint Eastwood. La storia di John McBurney, caporale dell’esercito dell’Unione, ferito e scovato in piena guerra di Secessione in Virginia, nella piantagione che è accanto ad un collegio di ragazze, dove Kidman è la direttrice, Dunst una delle insegnanti, Fanning una allieva, tutte colpite dal fascino del bel militare. Il nemico non verrà consegnato, ma curato e inserito nella piccola comunità: ma quando sarà l’uomo a voler guidare il gioco della seduzione che inevitabilmente s’inserisce tra lui e le donne della casa, ecco che ne uscirà vittima. Riproposta dell’autrice davvero inutile, a tratti persino ridicola e imbarazzante (salveremmo soltanto l’interpretazione della Dunst) cui una distratta giuria ha consegnato a Cannes un Premio per la regia. Durata 94 minuti. (Ambrosio sala 3, Eliseo Grande, F.lli Marx sala Chico, Greenwich sala 2, Reposi, Uci)
Bond 007, camuffati dietro una sartoria londinese che nasconde il gruppo capitanato da un molto british Harry Hart, decisamente redivivo se nella puntata precedente il cattivo di turno era riuscito a mandarlo a miglior vita. Questa volta, guerrescamente rimesso in sesto, se la deve vedere con la narcotrafficante Moore, feroce e sorridente, che ha delle soluzioni finali di tutto rispetto per i propri nemici. Una gran bella dose d’ironia, inseguimenti e lotte come raramente se ne vedono, un ritmo invidiabile, una ferocissima Moore troppo amante del tritacarne e di hamburger sui generis. Divertimento assicurato. Un po’ troppo lungo ma ti siedi poltrona e non pensi a nient’altro. Durata 141 minuti. (Massaua, Ideal, Reposi, The Space, Uci)
Michelle Pfeiffer. Prova innegabile che il cinema dell’autore del “Cigno nero” e di “Noah” o lo si ama o lo si respinge. Gran guazzabuglio a Venezia, salvata la sola Jennifer ma i buuu non sono certo mancati. Nella casa solitaria in cui vivono uno scrittore in cerca d’ispirazione e la moglie entra un’intrigante e sconosciuta e misteriosissima coppia. La loro vita non sarà più quella di prima. Certo Aronofsky esce da ogni schema, rivoluziona, azzarda ma crea un film che spinge ancora alla discussione, e questo non è affatto male in questa nostra epoca quantomai piatta. Durata 117 minuti. (Ideal, Uci)
Delevingne. Una storia che vediamo soltanto oggi sugli schermi ma alla quale l’autore di “Nikita” pensava da almeno due decenni. In un lontanissimo futuro, Valerian e Loreline sono incaricati di una missione presso Alpha, metropoli immersa negli spazi galattici. Creature dai lunghi arti, con contorno di cattivi di vario genere e mostri famelici. Tecniche di ultimissima generazione, musiche assordanti, scenografie pronte a infiammare ogni immaginazione. Durata 140 minuti. (Massaua, Reposi, The Space, Uci anche in 3D)
composto da Marco Calabrese, Alessandro Scali, Mauro Gottardo illustra prove di passaggio dal digitale all’analogico e al “pensiero manuale”, attraverso un apparecchio steampunk come il Giphoscope creato e fabbricato dai primi due e gli stupefacenti disegni a penna a sfera di Gottardo: per loro la polis è quella sovrappopolata e degradata, così come si è configurata dagli anni ’60, ed è destinata a essere occupata da nuove comunità di mosche, piccioni e topi. E ancora Mary Tremonte, attivista lesbica discepola della studiosa femminista Silvia Federici, turba e delizia con le sue risografie e serigrafie per Queer Scouts; Franco Ferrero ironizza su certo immaginario maschile e Andrea Vecera denuncia vere violenze sulle donne. Quattro autori rialzano bandiere: in quella rossa di Leandro Agostini della falce e del martello restano solo i manici, e l’inno diventa Avanti pop; nella stampa lenticolare di Jorrit Tornquist la vista del nostro stellone è turbata da un’ambigua percezione di emblemi rosso-neri; negli stendardi di Nicolò Tomaini e Andrea Mariscotti i simboli dei “nuovi regimi” social del web interferiscono con quelli totalitari di un tempo, del comunismo e del nazismo. Una simile direzione di ricerca è imboccata anche da Massimiliano Zoggia con un assemblage “omografico”. La FIAT poi, in una esposizione di questa natura allestita a Torino, non poteva mancare: così Mario Benvenuto celebra la vecchia cosiddetta Officina Stella Rossa nella quale erano concentrati i “sovversivi”, mentre i Diversi Associati ridisegnano la pianta, e indicano una futura e insieme antica destinazione a parco di Mirafiori. Di altri artieri si affiggeranno manifesti per partiti d’invenzione e polemici verso le politiche urbane e
culturali correnti con i loro slogan, a partire dal non
Mirò da oggi, 4 ottobre,è protagonista a Torino con la mostra di Palazzo Chiablese “ Mirò! Sogno e colore” e domani, 5 ottobre, alla Galleria Salomon con le sue litografie originali.
ritrova infatti lo stesso linguaggio espressivo, vivace, colorato, surreale, visionario. I soggetti delle litografie sono soli, lune, stelle, occhi, figure femminili, uccelli. Figure stilizzate che però nascondono, come spiegano alla Galleria, “ dietro un’apparente semplicità e leggerezza, un’essenza più complessa, espressione di riflessioni profonde e costantemente in ricerca della dimensione surreale”. A questo proposito ci sovviene la frase di André Breton : “ Mirò è “ il più surreale di noi tutti”. E il rapporto con i suoi contemporanei è testimoniato ad esempio
dall’influenza che esercitò su di lui Gaudì. Ma non solo l’arte contemporanea lo affascinò : basti pensare alla passione per la grandiosità delle manifestazioni artistiche delle culture preistoriche; per la pittura rupestre; per l’arte pre-colombiana; per gli affreschi romanici della Catalogna… I decenni conclusivi della sua attività rivelano collegamenti con la pittura astratta americana e il potere su di lui esercitato dall’estetica e dalla filosofia orientale ( nel 1966 è in Giappone, a Tokyo e a Kyoto) . Gli ultimi anni ( 1956-1981) sono gli anni della revisione e del rinnovamento, in cui intensifica il grado di espressività, approdando a nuove forme di scrittura , attraverso
l’utilizzo della ceramica, del disegno, della realizzazione di arazzi, dell’illustrazione di libri. E’ in questa fase – quella rappresentata nella sezione della mostra di Palazzo Chiablese intitolata “ Metamorfosi plastica” che si rivela un Mirò ribelle e anticonformista, un Mirò sperimentatore e innovatore al di là degli schemi.
Sono già diverse centinaia di persone che si sono immerse nell’incredibile progetto di GPL alla Cavallerizza Reale di Torino. Sui tre spazi di questo stupendo palazzo del regno sabaudo è stato srotolato un lungo nastro in foglio di alluminio
argentato ne raccoglie diciotto presenze, selezionate ognuna attraverso un piccolo manufatto rappresentativo. Una spilla, un orsetto, un fiore di plastica sono alcuni degli oggetti che in forma archeologica ritornano presenze in questo luogo antico.
Progetti Leggeri) che Anna Ippolito e Marzio Zorio hanno attivato in collaborazione con la sezione delle Arti Visive della Cavallerizza Irreale. Il progetto è il primo di una rassegna che si svilupperà nei prossimi mesi con iniziative uniche ed irripetibili. Un incredibile progetto dell’artista Domenico Olivero sui tre piani di questo maestoso palazzo. 300 metri di nastro in alluminio, che passano nelle decine di stanze, creando un percorso circolare. Le relazioni fra lo spazio e il progetto crea un’atmosfera diafana che sensibilizza le nostre memorie.
Ben 130 opere, quasi tutti olii di grande formato, prestate dalla Fundaciò Pilar i Joan Mirò di Maiorca per illustrare l’attività del maestro catalano in un lungo periodo che corre tra gli anni 1956 e 1983, l’anno della sua morte, novantenne. 
“Radici”, “Principali influenze artistiche di Mirò”, “Maiorca, gli ambienti in cui creava”, “La metamorfosi plastica (1956 – 1981)”, “Vocabolario di forme”. Partendo quindi da un legame spirituale che l’artista instaura con la natura, intravedendo l’importanza delle culture primitive e della pittura rupestre, la purezza di linee che affonda nei dipinti preistorici, la visione delle costruzioni dell’isola di Pasqua e le opere dell’arte precolombiana, il vasto campo degli affreschi romanici della sua Catalogna. Non ultima l’importanza della figura di Antonio Gaudì nel proprio universo artistico. E ancora lo spazio che la poesia viene ad occupare nell’intera produzione, il predominio delle parole, delle iscrizioni e dei segni utili a stabilire la magia che sfocia in complessi significati e in sorprendenti catene d’associazioni; o ancora quello occupato dalla pittura astratta americana, l’uso del colore inteso come esplosione è uno dei tanti legami.
Il tutto ricreato nell’ampio spazio – in mostra in parte rappresentato – affidato all’amico architetto Josep Lluis Sert o nella grande casa settecentesca, Son Poter, in cui possono anche trovar posto via via la ceramica, come l’incisione e la litografia, la scultura monumentale e le opere più grandi, o la sperimentazione che abbraccia graffiti, statuette di arte popolare, cartoline, ritagli di giornale, sassi, conchiglie e altro ancora. Un angolo di espressione e di tranquillità in cui ancora Mirò può dedicarsi a rivedere le proprie opere degli anni Quaranta e Cinquanta e a ricavarne nuove suggestioni, può confrontarsi con l’arte orientale, può sperimentare quel nuovo gesto innalzato e acuito nella propria espressività: per abbandonarsi, al termine di una vita, a cieli stellati, a nude linee femminili, a personaggi ibridi in opere costellate da teste, occhi e uccelli, ineguagliabili espressioni di libertà.