CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 76

La Fontana Angelica tra bellezza e magia

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Oltre Torino. Storiemitileggende del torinese dimenticato.

Torino e lacqua

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Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Il fil rouge di questa serie di articoli su Torino vuole essere lacquaLacqua in tutte le sue accezioni e con i suoi significati altrilacqua come elemento essenziale per la sopravvivenza del pianeta e di tutto lecosistema ma anche come simbolo di purificazione e come immagine magico-esoterica.

1. Torino e i suoi fiumi

2. La Fontana dei Dodici Mesi tra mito e storia

3. La Fontana Angelica tra bellezza e magia

4. La Fontana dellAiuola Balbo e il Risorgimento

5. La Fontana Nereide e lantichità ritrovata

6. La Fontana del Monumento al Traforo del Frejus: angeli o diavoli?

7. La Fontana Luminosa di Italia 61 in ricordo dellUnità dItalia

8. La Fontana del Parco della Tesoriera e il suo fantasma

9. La Fontana Igloo: Mario Merz interpreta lacqua

10. Il Toret piccolo, verde simbolo di Torino

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3. La Fontana Angelica tra bellezza e magia

Maestosa e non vista la Fontana Angelica si erge in Piazza Solferino, nel pieno centro storico di Torino. Lopera architettonica prende il nome da Angelica Cugiani moglie di Tommaso Bainotti e madre del ministro Grande Ufficiale Pietro Bainotti. Questultimo alla sua morte decise di devolvere un lascito di 150.000 lire  alla città di Torino, affinché la cittadinanza acconsentisse al suo desiderio di far erigere una fontana in memoria dei genitori. Pietro chiese inoltre che tale opera venisse costruita in stile gotico medievale e che fosse collocata in Piazza San Giovanni davanti al Duomo. La commissione appositamente incaricata per la costruzione del monumento, costituita da Carlo Francesetti di Mezzenile, Leonardo Bistolfi, Giovanni Chevalley, Edoardo Rubino e Enrico Tovez, si oppose ad alcune indicazioni e non esaudì del tutto il volere di Pietro Bainotti. Le personalità coinvolte e lo stesso architetto e scultore Giovanni Riva, incaricato del progetto, identificarono come luogo urbanisticamente più adatto proprio Piazza Solferino. La Fontana fu inaugurata martedì 28 ottobre 1929, data molto significativa per il Regime Fascista che in quel giorno celebrava lottavo annuale dalla Marcia su Roma. La giornata era stata resa ancora più solenne dalla visita del Quadrumviro Italo Balbo, ministro dellAeronautica; in quello stesso giorno, oltre alla Fontana Angelica, vennero inaugurate case popolari e asili. Sulla cronaca de La Stampa si poteva leggere: In piazza Solferino, alle ore 17,30, si inaugura pure la Fontana Angelica. Molta folla è radunata intorno. Giungono le autorità: i due vice-podestà prof. Silvestri e avv. Gianolio, il senatore Di Rovasenda, lon. Bagnasco, lon. Ferracini, il comm. avv. Edoardo Agnelli, vice-presidente al Consiglio dellEconomia, il Rettore della Universitàcomm. prof. Pivano, il gen. Fasolis, ling. Porporato, lavv. Maccari ed altri. Lo scultore Riva, il quale da anni lavora ad ultimare la fontana che in seguito a concorso gli èstata aggiudicata, si trova fra le autorità che vivamente lo complimentano per lopera sua. Egli raccoglie il premio del suo faticoso lavoro. Dalla fontana monumentale con le sue quattro statue in bronzo che rappresentano le stagioni, si sprigiona dun tratto un alto pennacchio dacqua ed altri due veli dacqua convergono dai lati e si rovesciano nella vasca centrale. I giuochi dacqua completano leffetto decorativo della Fontana Angelica finalmente liberata dallo steccato che per tanto tempo ha ingombrato la piazza(La Stampa, 29 ottobre 1930).

Siamo immersi nel centro della città, circondati da alti palazzi eleganti, da macchine e pullman rumorosi e dalle rotaie del tram, curve come asole luccicanti che ricamano le strade torinesi. La piazza in cui ci soffermiamo è ariosa, lascia un raffinato gioco al sole perché la illumini, si prende i suoi spazi e tiene alla giusta distanza gli edifici che la circondano.
Piazza Solferino èuna grande piazza del centro storico della città sabauda, limitata da via Pietro Micca, via Santa Teresa, via Cernaia e via dellArcivescovado. Essa prende il nome dal comune di Solferino in provincia di Mantova, dove il 24 giugno 1859 si svolse unimportante battaglia, che vide la vittoria delle truppe franco- piemontesi contro lesercito austriaco durante la II guerra di indipendenza italiana. Fino alletà napoleonica la piazza era conosciuta come la piazza del mercato del legno, oppure come piazza del boscopiazza dei combustibili. Era inizialmente di forma irregolare e si trovava alla periferia della cittàottocentesca e delimitava i confini meridionali dellantico Castrum romano (lattuale via Cernaia). Il progetto definitivo, che portòla zona ad avere laspetto che oggi possiamo ammirare, risale al 1853, ad opera dellarchitetto Carlo Promis, successivamente vennero aggiunte le aiuole centrali.  Per quel che riguarda gli edifici, ancora oggi, uno di quelli piùnoti è il Palazzo dei telefonidi via Meucci, che oggi ospita lAgenzia del Territorio, inoltre non possiamo non nominare il Teatro Alfieri, uno degli luoghi culturali più amati dai torinesi, quando si desidera trascorrere una serata allinsegna dellarte e della cultura. Se queste sono le notizie ufficiali che ci riposta la cronaca urbana della città, non dobbiamo scordarci che a Torino si viaggia sempre su piani paralleli, e alla dimensione reale corrisponde e controbilancia sempre una versione non ufficialedei fatti. Anche il monumento della Fontana Angelica, come tanti altri edifici e angoli torinesi, pare nascondere qualcosa di più di una semplice dedica amorevole nei confronti della famiglia. Alcuni sostengono che in realtà si tratti di unopera complessa pregna di misteriosi simbolismi massonici.

La Fontana si presenta costituita da quattro imponenti figure scultoree ispirate alle quattro stagioni, due femminili e due maschili, Primavera, Estate, Inverno e Autunno. E se ai più basta incantarsi davanti alla maestria della fusione del bronzo, alla bellezza della torsione dei corpi, alleleganza e alla sontuosità che lopera emana nella sua interezza, c’è chi strizza gli occhi e decide di soffermarsi a cercare qualcosaltro.  E se la Primavera in realtàfosse la rappresentazione simbolica della virtù e lEstate quella dei vizi amorosi e degli aspetti più profani della vita? Se le due figure maschili in realtà fossero Boaz e Joaquim, guardiani leggendari delle colonne dErcole? Domande che scorrono nella mente dei curiosi come trascinate dal vortice dellacqua che esce dalle otri delle due figure centrali, quella stessa acqua che secondo alcuni è rappresentazione della conoscenza. Ancora unosservazione prima di andare via: allontanandoci piano piano dalla fontana ci si rende conto che viene a crearsi uno spazio perfettamente rettangolare nel centro dellopera architettonica, a metà tra i due guardiani; guardando con attenzione non può che essere un passaggio, lingresso per la via della conoscenza, che ovviamente ai più è precluso. Unultima cosa, intanto che si volgono le spalle allimponente Fontana, sappiate che si racconta che lo steso Giovanni Riva abbia modificato il progetto originale, muovendo il volto della statua dellInverno verso oriente, dove sorge il sole: semplice licenza artistica o attenzione verso simbologie altre? 

Alessia Cagnotto

 

“Sid”, “Apocalisse” e “Cassandra”il maggio del TPE teatro Astra

Nell’ambito della stagione TPE 2023/2024 dedicata alla Cecità, dal 2 al 5 maggio andrà in scena Alberto Boubakar Malanchino, nella pièce “Sid – Fin qui tutto bene”. Alberto Boubakar Malanchino, vincitore del Premio Ubu 2023 come miglior attore under 35, è l’interprete adrenalinico di un racconto urbano, ma anche di frontiera, che veste i panni di un giovane figlio della periferia che, per rincorrere il sogno del successo, ha intrapreso la via sbagliata, quella della violenza, e ora si ritrova a fare i conti con il proprio passato. Sid è italiano di origini algerine, 15 o 16 anni, che veste sempre di bianco, in quanto colore del lutto per i musulmani. Vive come tanti ragazzi in una delle tante periferie dell’occidente, nel mondo drogato della società dello spettacolo. Per uscire dalla disperazione e dalla noia, di nascosto legge, ascolta musica, vede film e recita sempre, fino a dimenticare di essere Sid. Colleziona sacchetti di plastica, tessuto e materiale biodegradabile, tutti rigorosamente firmati. Bello, intelligente e raffinato lettore, perfettamente padrone delle sfumature della lingua, ha ucciso. Probabilmente per noia. Sicuramente per uno scopo più alto. Uccide soffocando le sue vittime nei sacchetti di plastica alla moda. La sua storia è un film senza montaggio dove scorrono schegge di vita, di bullismo, consumo, noia, droga, desolazione e vagabondaggi nei templi del consumismo. La regia e la drammaturgia sono firmate da Girolamo Lucania.

Sempre nell’ambito della Stagione TPE, dal 7 al 12 maggio, sarà in scena Lucilla Giagnoni in “Apocalisse”. La storia della rivelazione di un uomo solo, Edipo, il Re, che lotta invano contro un destino tragico e ineluttabile, si intreccia alla rivelazione dell’umanità intera, racchiusa nel libro dell’Apocalisse di Giovanni. Il vero significato di “apocalisse” non è catastrofe, bensì rivelazione. Ritorna in scena Lucilla Giagnoni, di casa al TPE del Teatro Astra, per una versione attualizzata del suo “Apocalisse”, che si ispira all’ultimo libro della Bibbia. “Guarda, racconta ciò che hai visto”, sono le indicazioni più frequenti date a Giovanni, testimone e narratore. In un mondo di ciechi che credono di vedere, dunque di sapere, il mistero si rivela solo a chi dimostra di saper guardare. Cecità e rivelazione fanno pensare a un personaggio totemico del teatro occidentale, Edipo: l’Apocalisse e l’opera teatrale che dà inizio a ogni forma di indagine sull’uomo sono poste in parallelo per raccontare che la fine dei tempi è in realtà un nuovo inizio per chi impara a vedere, è la storia dell’evoluzione della coscienza: un bambino appena nato vede il mondo come un fenomeno incredibile, in cui le cose si riempiono di senso. L’Apocalisse è l’ultimo capitolo di una trilogia spirituale composta dallo spettacolo “Vergine madre”, ispirato al percorso di salvezza raccontato nella Divina Commedia, e dallo spettacolo “Big Bang” che, a partire dall’ultima parola della Divina Commedia, “stelle”, e dai primidue capitoli del libro della Genesi indaga sull’inizio e sulla Creazione, facendo dialogare il linguaggio della scienza con quello della teologia e del teatro. Apocalisse indaga sul vero significato della fine.

Dal 14 al 31 maggio 2024 sarà in scena la pièce “Cassandra” tratta dal libro di Christa Wolf, che vive un doloroso conflitto tra il presente della guerra e un futuro di pace, legata a lunghe funielastiche sul palco, la principessa troiana vaticina sul destino di tutti noi. Cassandra, la veggente figlia di Ecuba e Priamo, racconta il tramonto e la rovina della sua città. Dalla sua memoria emerge tutto il suo passato, la traversata dell’Egeo in tempesta, l’arrivo a Troia delle Amazzoni, i delitti di Achille, la rottura con il padre Priamo, accecato dal meccanismo inarrestabile della guerra, la vita delle comunità femminili sulle rive del fiume Scamandro e l’amore per Enea. Christa Wolf, tra le più importanti scrittrici contemporanee in lingua tedesca, scrive il suo “Cassandra” nel 1983 e sceglie di dare una visione differente da quella omerica classica, recuperando lo sguardo e la voce della sacerdotessa troiana per darci il resoconto della liberazione femminile e del bisogno di pace, testimoniando il passato, perché in futuro non vengano ripetuti gli stessi errori. In scena Cecilia Lupoli. La regia è firmata da Carlo Cerciello.

 

Mara Martellotta

Note di Classica: Yulianna Avdeeva, Dindo e Jurowski le “stelle” di maggio

Giovedì 2 alle 20.30 e venerdì 3 alle 20 alle all’auditorium Toscanini, l’Orchestra Rai diretta da Robert Trevino e con Yulianna Avdeeva al pianoforte, eseguirà musiche di Stravinskij, Adams e Bernstein. Sabato 4 alle 20 al teatro Regio per la stagione d’opera, debutto de “The Tender Land”. Opera in 3 atti, musica di Aaron Copland. Alessandro Palumbo dirigerà l’orchestra. Repliche fino a martedì 7. Domenica 5 alle 16.30 al teatro Vittoria per l’Unione Musicale, l’Orchestra da Camera Accademia con Enrico Dindo nel doppio ruolo di violoncellista e direttore, eseguirà musiche di Dvorak e Cajkovskij.

Lunedì 6 alle 20 al teatro Vittoria, Mirabilia eseguirà musiche di Cima, Merula, de Victoria, Bertali, Falconieri, Valentini, Marini, Rossi. Mercoledì 8 alle 20.30 al Conservatorio per l’Unione Musicale, Gabriele Carcano al pianoforte eseguirà musiche di Grieg, Brahms e Schumann. Giovedì 9 alle 20.30 e venerdì 10 alle 20 all’auditorium Toscanini, l’Orchestra Rai diretta da Andrès Orozco-Estrada e con Emanuel Ax al pianoforte eseguirà musiche di Beethoven e Berlioz. Martedì 14 alle 20 al teatro Vittoria, il trio Quiròs eseguirà musiche di Hahn, Weill, Piazzolla, Ramirez, Angulo, Gershwin, Bernstein. Venerdì 17 alle 20 al teatro Regio debutto di “Der fliegende Hollander”. Opera in 3 atti. Musica di Richard Wagner. L’Orchestra sarà diretta da Nathalie Stutzmann. Repliche fino a domenica 26. Giovedì 16 alle 20.30 e venerdì 17 alle 20 all’auditorium Toscanini, l’Orchestra Rai diretta da Daniele Gatti, eseguirà musiche di Mozart e Sostakovic. Sabato 18 alle 20 al teatro Vittoria per l’Unione Musicale, il Quartetto Gerhard e con Stefano Musso al pianoforte, eseguirà musiche di Granados e Schumann. Mercoledì 22 alle 20.30 al conservatorio l’Ensemble Il Tempo Ritrovato eseguirà musiche di Dvorak, Britten, Cajkovskij. Lunedì 30 alle 20.30 per Lingottomusica all’auditorium Agnelli la Bayerisches Staatsorchester diretta da Valdimir Jurowski e con Alexander Melnikov al pianoforte, eseguirà musiche di Beethoven Schumann e Weber. Venerdì 31 alle 20 e venerdì primo giugno alle 20.30 all’auditorium Toscanini, l’Orchestra Rai diretta da Daniel Harding e con Frank Peter Zimmermann al violino, eseguirà musiche di Respighi e Mahler.

Pier Luigi Fuggetta

Giorgio Stella. Scatti fotografici come … “geografie dell’anima”

Al “Collegio San Giuseppe” di Torino la prima retrospettiva dedicata al fotografo torinese mancato alcuni mesi fa

Fino a sabato 4 maggio

L’occhio del fotografo – come quello del pittore – si sa, è sempre un po’ “speciale”. Anche quando non ha fra le mani i “ferri del mestiere”. L’inquadratura, le luci, i particolari. Ogni cosa di un qualunque paesaggio, o di una scheggia di architettura urbana, gli appare secondo un suo particolare schema che, un giorno (chissà?) potrà cristallizzarsi come d’incanto in scatti unici e singolari. Se poi, a quell’occhio un po’ “speciale” s’aggiunge – in fase lavorativa – anche la capacità (non frequente) di fissare e trattenere le cose con la “lente dell’anima”, allora il “gesto” si fa “meraviglia” e poesia. Ed il “gioco” è fatto. “Gioco d’arte”. Arte vera. Arte pura. Quella capace di regalarti immagini che ti tengono lì, immobile, a fissare anche solo un particolare dell’intero soggetto e a portartelo dentro e addosso per sempre.  Sensazione estraniante e benefica! Mi è capitata qualche giorno fa all’inaugurazione della mostra – omaggio dedicata dal “Collegio San Giuseppe” di Torino al bravo davvero bravo fotografo torinese Giorgio Stella, mancato nel luglio scorso, lasciando un vuoto non da poco nel migliore panorama dell’arte torinese. E non solo.

Curata dalla pittrice Luisa Porporato, con la presentazione di Fratel Alfredo Centra (direttore dell’“Istituto” di via San Francesco da Paola), del critico Angelo Mistrangelo e di Alberto Novo (presidente dell’“Associazione Fotografica NAMIAS” di Parma), la rassegna, in programma fino a sabato 4 maggio, comprende una quarantina di scatti in bianco e nero dedicati ai suoi “Viaggi”, compiuti nei luoghi più misteriosi e affascinanti del Pianeta o anche solo sotto casa, fra le bellezze (mai del tutto conosciute) della sua Torino o, andando e volando oltre le mura e i confini della città, fra scorci tutti particolari di una “stelliana” Venezia o della grandiosa, a tratti “improbabile” New York City. Scatti dunque come … “geografie dell’anima”. Mi è piaciuto – e spero non aver toccato la suscettibilità di alcuno – titolare così la personale di Stella. In parete, paesaggi esotici. Che di più non si può. Indimenticabili.

Per l’esasperazione di una tecnica tanto attenta da perderci gli occhi e il controllo di quella resa “veristica” mai disgiunta dall’interpretazione dei “sensi” che affiora in ogni sua immagine. In quest’ottica, scorrono realtà che vanno dalle “lagune glaciali” e dagli “icberg blu” d’Islanda (“Terra del fuoco e del ghiaccio”, su cui nel 2005 Stella pubblica anche un libro edito da “Elena Morea”), fino al magico mistero che scorre lungo le acque dell’Irrawaddy in Myanmar o alla “complessa” sacralità dei templi di “Ta Prohm” o di “Angkor Wat”, capolavoro di tutta l’arte “Khmer” (una delle meraviglie del mondo) in Cambogia, per chiudersi ai più vicini “notturni torinesi” e alla grandiosità di una New York, colta “in momenti di silenzio – scrive bene Alfredo Centra – che accentuano la bellezza di angoli richiamanti pensieri di eternità nel contesto di imponenti architetture moderne”. Meraviglie! E pensare che fino al 2000 la fotografia è stata per Stella un semplice hobby. Importante ma solo hobby. Solo dal 2000/2003 l’arte fotografica diventa invece per lui “mestiere” a tempo pieno. Attratto inizialmente dalla stampa in bianco e nero e affezionato al negativo all’argento, dal 2005 – in cerca sempre più di una fotografia nitida, esatta e corretta – si dedica alla “stampa al Platino/Palladio” (tecnica considerata “il punto di arrivo qualitativo nella stampa fotografica in bianco e nero”), aderendo al “Gruppo Rodolfo Namias” con sede a Parma e che riunisce fotografi impegnati per l’appunto nel recupero delle più antiche tecniche di stampa.

“Non per un recupero nostalgico – scriveva Stella – di vecchie tecniche, ma per un nuovo utilizzo di uno strumento in più a disposizione del fotografo. Io vedo la stampa finale un po’ come l’esecuzione di un brano musicale dallo spartito, che contiene delle indicazioni per eseguire una musica … Però poi c’è sempre spazio per l’interpretazione degli esecutori, così per noi fotografi le ‘Antiche Tecniche’ sono uno strumento in più per suonare la nostra musica”. E che musica, ragazzi! Per ricordarla, insieme al suo grande esecutore, Luisa Porporato ha voluto annotare, in catalogo, alcuni versi di Sant’Agostino“Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dov’erano, ma sono dovunque siamo noi”. A dimostrarlo i molti colleghi, amici, compagni di vita dell’artista presenti, nei giorni scorsi, al vernissage. E chissà? E’ bello crederci. Lì, forse, c’era anche Giorgio. Fra tutti noi e le sue magiche, poetiche … “geografie dell’anima”.

Gianni Milani

 

Giorgio Stella

“Collegio San Giuseppe”, via San Francesco da Paola 23, Torino; tel. 011/8123250 o www.collegiosangiuseppe.it

Fino al 4 maggio

Orari: dal lun. al ven. 11/12,30 e 16,30/18,30; sab. 11/12,30

Nelle foto: Giorgio Stella, “Islanda”, “Myanmar”, “Torino – La Mole”, New York

“Istantanea”… tanta voglia di Circo, lirica e teatro

A Cavallermaggiore, nel cuneese, un lungo weekend, in compagnia del Festival di Circo Contemporaneo

Da venerdì 3 a domenica 5 maggio

Cavallermaggiore (Cuneo)

Musica, clownerie, acrobazie e … bella novità di quest’anno, il teatro ed il canto lirico, vere “chicche” che vanno ad arricchire e ad innalzare la proposta artistica di questa quarta edizione. L’appuntamento è da venerdì 3 a domenica 5 maggio. Tre giorni pieni di “invasione circense” a Cavallermaggiore, con la  nuova edizione del Festival di Circo Contemporaneo “Istantanea”, che trasformerà la cittadina cuneese in un grande “palcoscenico all’aperto e al chiuso per artisti emergenti e affermati, un luogo di scoperta, gioco e divertimento nel segno del ‘nouveau cirque’”. Il tutto si terrà in piazza Baden Powell, nelle due consuete “arene di spettacolo”: “Arena Parade78” ed “Antilia”.

“Parade78” è l’arena aperta del Festival: oltre agli spettacoli pomeridiani, ospita “Play_Giochi di una volta”, un’area dedicata ai più piccoli con grandi giochi in legno rivisitati decine di anni dopo la loro creazione attraverso il fil rouge della luce, così da rendere ogni gioco un’installazione luminosa, un “luna park” dove grandi e piccini si divertono insieme (venerdì alle 20, sabato alle 19, domenica alle 15). Il secondo spazio è invece “Antilia”,l’arena chiusa, a basso consumo energetico, in cui saranno ospitati gli “spettacoli da sala”.

Il “Festival” è organizzato dall’Associazione torinese “Cordata FOR” – che racchiude diverse realtà di circo contemporaneo per creare un network che punta al riconoscimento del valore dell’arte circense in Italia e all’estero – in collaborazione con “Piemonte dal Vivo” nell’ambito del bando “Corto Circuito”, con il sostegno di “Ministero della Cultura”, “Regione Piemonte”, “Fondazione CRT” e “CRS”, con la collaborazione del “Comune di Cavallermaggiore” e “Talea Circo”.

“‘Istantanea’ cresce – commenta Giuseppina Francia di ‘Cordata FOR’ – e quest’anno punta su un programma variegato che mixa teatro di strada e musica lirica, porta in piazza un suggestivo trapezio ‘ballant’, la tecnica circense e quella teatrale. Inoltre ci si divertirà, ma gli spettacoli che saranno ospitati in questa edizione del Festival in alcuni casi permetteranno anche di riflettere, affrontando tematiche attuali e urgenti, come la solitudine e la condizione degli animali nei macelli”.

Si comincia venerdì 3 maggio (ore 21) all’“Arena Parade78”, con lo spettacolo “Ti lascio perché ho finito l’Ossitocina” di e con Giulia Pont, attrice torinese, fra i suoi maestri Eugenio Allegri, vincitrice nel 2013, con lo stesso testo (replicato più volte in tutt’Italia) del Concorso monologhi “UNO” di Firenze; per terminare domenica 5 maggio (ore 17,30) all’“Arena Antilia” con lo spettacolo (mix di teatro e canto lirico) “Concrete 00” di Paolo Tonezzer, con lo stesso Tonezzer, Lorenzo Mauro Rossi e Paola Caruso. Lo spettacolo vede tre magazzinieri tanto strampalati quanto audaci che decidono di mettere in atto un piano di fuga per evadere dal misterioso magazzino in cui sono costretti a lavorare senza sosta. In un vortice di acrobazie, equilibri precari e altezze vertiginose si troveranno ad affrontare il loro mostruoso carceriere e un magico cassonetto che trasforma tutto ciò che inghiotte. Tra musica dal vivo e continui colpi di scena, come finirà la loro avventura?

Per info e programma: tel. 351/5488100 o https://cordatafor.com/istantanea

g. m.

Nelle foto: immagini di repertorio

Gli smaglianti colori della montagna di Alberto Di Fabio

Al Museo della Montagna, sino al 20 ottobre

Attraverserà l’estate, e anche oltre (si chiuderà il 20 ottobre), la mostra “Orogenesi”, a cura di Andrea Lerda, ospitata al piano terra del Museo della Montagna – piazzale Monte dei Cappuccini, 7 – e dedicata alle opere di Alberto Di Fabio. La realizzazione della mostra è dovuta anche ai contributi del CAI e della Città di Torino, nonché al sostegno della Regione e della Camera di Commercio. In esposizione “Dipinti e disegni degli anni Novanta”, soggetti montani ritratti dall’artista nel corso di un decennio e risultato di una ricerca derivata dalle influenze del Dadaismo, del Surrealismo e della Metafisica. L’ampio campo di quella ricerca guarda al cosmo e al mondo della natura, indagando “reazioni chimiche, fusioni minerarie, atomi e il sistema neuronale in relazione con il mondo dell’astrofisica, evocando paesaggi primordiali in costante divenire”.

Di Fabio, classe 1966, vive e lavora tra Roma e New York, con indirizzo principale quello di approfondire il cosmo e lo sguardo verso la montagna, sempre più approfondito, portato verso forme astratte e organiche che caratterizzano i disegni, le tele e i walldrawing che l’artista realizza. Nel corso del tempo, Di Fabio ha acuito altresì il discorso cromatico, volgendo quelle asprezze che vengono a sorgere, quasi improvvisamente, inaspettate, dal terreno verso una tavolozza e un folgorante panorama di colori finale di grande armonia. Inaspettati e improvvisi, ci si trova dinanzi a blu accesi, a calanchi rossastri e a fragmentazioni rocciose di un verde gradevolissimo al nostro occhio, in una concezione che supera la Natura e s’appresta a reinquadrarla, dinanzi a “Montagne in arancio” (del 1997) mai rintracciate, agli “Incontri tra montagne” (del 1993) che somigliano allo scoppio di mondi di un epoca ormai troppo lontana.

Nell’occasione, il Museo della Montagna ha editato un volume con i contributi di autrici e autori che nel corso degli anni hanno interpretato significativamente questa fase artistica e lo stesso soggetto montano: Mario Codognato, Ester Coen, Cristiana Perrella e Luca Beatrice. Un mondo che non conosciamo, altezze che nelle loro forme pressoché geometriche nascondono ricordanze medievali, di antichi pittori. Ci pare che l’artista volga un occhio non soltanto al futuro, nella bellezza delle sue cromie, ma anche al passato, nella identificazione lineare di quelle forme.

Orari: dal martedì al venerdì dalle 10,30 alle 18; sabato e domenica, dalle 10 alle 18.

e.rb.

Tra le opere di Alberto Di Fabio in esposizione al Museo della Montagna: “”Montagne in arancio”, 1997, acrilico su carta intelata, 76 x 52 cm; “Montagne rosse”, 1994, acrilico su carta intelata, 129 x 93 cm.

Storie di matrimoni e ritratti d’immigrazione in Barriera

Flashback Habitat, a Torino

 

“Verrà presentata domani la mostra “Storie di matrimoni e ritratti d’immigrazione in Barriera di Milano a Torino” a Flashback Habitat, in corso Giovanni Lanza 75, che sarà visitabile dal primo maggio al 29 settembre prossimi.

“Storie di matrimoni”, come cita il titolo, è la rappresentazione di un preciso momento della vita famigliare narrato attraverso fotografie. La cura dei dettagli, a partire dagli abiti da cerimonia, rappresenta un’espressione di potente bellezza voluta dai fotografi con la loro sapienza di utilizzo della macchina fotografica, chiamati per conservare per sempre la memoria di quel momento, di un grande evento famigliare.

 

Mara Martellotta

La Sacra di San Michele: la chiesa più alta che c’è

Avete presente quando Po, morbido protagonista del film d’animazione “Kung fu Panda”, guarda in alto e dice: “Il mio antico nemico, le scale!” Ecco, questa è stata la mia reazione non appena giunta ai piedi della Sacra di San Michele.

 

E dire che un po’ ho barato, poiché non sono partita a piedi da Sant’Ambrogio, come si dovrebbe fare, ma sono salita con la macchina ancora un pochino, fino ad uno spiazzo a circa quaranta minuti di distanza. Non c’è che dire, più in alto non potevano costruirla: l’Abbazia è proprio arroccata sulla vetta del monte Pirchiriano, a ben novecentosessanta metri di altitudine.

Il complesso architettonico si trova all’imbocco della Val Susa, poco sopra la borgata San Pietro, il suo aspetto è maestoso e poetico, imponente e romantico. Apprezzo molto il fascino di questo luogo, soprattutto in alcune giornate autunnali, quando la nebbia avanza e la Sacra sembra sporgersi da tutto quel bianco fumoso, come fosse il soggetto di un quadro di Caspar David Friedrich.

L’atmosfera è senza dubbio coinvolgente,  non per niente il grande Umberto Eco, per il suo celebre romanzo “Il nome della rosa”, si era deliberatamente ispirato alla misteriosa bellezza di questo sito architettonico.
Ho scelto comunque un giorno di sole  settembrino per la mia passeggiata in salita.
Scesa dalla macchia ho imboccato il sentiero che serpeggia nel bosco e porta dritto in cima al monte: una leggera brezza mi ha addolcito la fatica, il verde delle foglie è ancora intenso e l’odore del legno dei tronchi ha sempre qualcosa di magico.

Il vero nome della Sacra è Abbazia di San Michele della Chiusa, essa si erge su un imponente basamento di ventisei metri, appartiene alla diocesi di Susa ed è la prima tappa italiana che si incontra lungo la via Franchigena.
Come ogni complesso architettonico che si rispetti, anche la Sacra ha i suoi misteri.
Leggenda vuole che l’ex arcivescovo, Giovanni Vincenzo (955-100), ritiratosi a vita da eremita proprio tra le nostre montagne, fosse stato incaricato  dall’arcangelo Michele  “in persona” di costruire il santuario. Non solo, ma degli angeli avrebbero poi provveduto a consacrare la cappella, che, infatti, la stessa notte della cerimonia, fu vista dagli abitanti come “avvolta da un grande fuoco”.

Secondo tale versione l’edificio risalirebbe al X-XI secolo, data probabile ma non certa, vi sono tuttavia molti documenti che trattano dell’edificazione della Sacra e che fanno risalire i lavori in quello stesso periodo.
Dove oggi sorge l’Abbazia c’era un tempo un castrum, utilizzato dai Longobardi come presidio militare; proprio tale popolazione iniziò a diffondere il culto micaelico, che si propagò ampiamente nell’Alto Medioevo, come dimostrano i numerosi edifici dedicati a San Michele che sorsero dopo l’anno Mille in Europa.
L’antico insediamento longobardo si trovava dunque alla base del progetto architettonico iniziato da Giovanni Vincenzo, il quale, con o senza l’aiuto dell’arcangelo, diede inizio all’edificazione di un’architettura maestosa e complessa: accanto al sacello più antico ne fece realizzare un secondo che oggi è l’ambiente centrale della cripta della Chiesa. Le nicchie e le colonnine richiamano motivi bizantini, all’epoca largamente diffusi a Ravenna.
Sul finire del X secolo, il conte Hugon di Montboissier, per riscattarsi dai suoi peccati, finanziò ulteriori lavori di ampliamento e fece aggiungere anche un piccolo cenobio per pochi monaci e qualche pellegrino.

In seguito fu l’abate Adverto di Lezat ad amministrare lo stabile. Egli chiamò l’architetto Guglielmo da Volpiano, a cui si deve il progetto della “chiesa nuova”, che sarebbe sorta sulle fondamenta della primitiva chiesetta.
A metà dell’XII secolo la Sacra venne affidata ai Benedettini, che costruirono l’edificio della foresteria, staccato dal monastero, per accogliere i numerosi pellegrini che, percorrendo la via Franchigena, passavano per il Moncenisio. Risale a quest’epoca la parte denominata “Nuovo monastero”, che comprendeva alcune celle, una biblioteca, delle cucine, un refettorio e diverse officine.
La lunga e articolata vicenda sembra concretizzarsi nel percorso impervio che il visitatore percorre, avanzando guardingo per la Sacra.

Io stessa ho passato la visita un po’ con la testa in su, incuriosita e ammaliata dagli archi rampanti e dalla grandiosità dell’insieme, e un po’ a guardarmi indietro, come fossi un Pollicino a corto di briciole.
La spettacolare chiesa odierna è dunque il formidabile risultato di più di un secolo di interventi.
Nella zona più antica, quella eretta sul castrum, priva di finestre e sormontata da volte a crociera, è evidente lo stile romanico di stampo normanno.

Influenze del linearismo della scuola scultorea di Tolosa emergono dal così detto scalone dei Morti, anticamente fiancheggiato da tombe e si evidenziano nella splendida porta dello Zodiaco. La porta ha destato più che mai la mia attenzione, e mi sono soffermata a guardarla nei minimi dettagli: le creature zodiacali risaltano pur consunte dalla pietra bianca, sembrano intrecciarsi le une alle altre, accatastate in una complessa composizione caratterizzata da un evidente  “horror vacui. Cerco l’Ariete, il mio segno zodiacale, l’animale si distingue per le possenti corna e il corpo muscoloso, ovviamente mi sembra che tale rilievo sia più bello degli altri. C’è un’altra motivazione per cui il portale mi colpisce, ed è il significato allegorico dello scorrere del tempo, tale significazione tramuta una semplice porta intarsiata in un poetico memento mori.

Risalgono al XII secolo gli interventi che riprendono lo stile del “romanico di transizione”. Tali lavorazioni sono riscontrabili dalla presenza di bifore, di pilastri cilindrici e polistili e dalle arcate con pilastri a fascio e archi acuti.
Nel XVI secolo la volta della navata centrale crollò e venne sostituita con una pesante volta a botte, che però esercitava una forza eccessiva sulle pareti laterali;  per ovviare alla pericolosità architettonica, nell’Ottocento si decise di intervenire sostituendo tale volta a botte con una triplice volta a crociera, ultimata nel 1937.
Vi sono poi elementi in stile “gotico francese” risalenti al XIII secolo.

Il visitatore, me compresa, si perde ad osservare i molteplici stili artistici che convivono armoniosamente. Molto suggestivi sono anche le terrazze, visitabili lungo il percorso: dall’ambiente poco illuminato tipico dei luoghi di culto, mi sono ritrovata ad osservare la vallata verdeggiante ai piedi delle montagne, illuminata dall’ancora caldo sole di settembre.
Eppure, distratta dalle minuzie interne alla Chiesa e dalla vista mozzafiato, stavo per non fare caso a quella che è una straordinaria peculiarità della costruzione: la facciata.
Essa si trova nel piano posto sotto il pavimento che costituisce la volta dello scalone dei Morti, è sotto l’altare maggiore ed è sovrastata dalle absidi con la loggia dei Viretti.
Potremmo dire che, se si pensa ad un’altra qualsiasi chiesa o abbazia, la facciata della Sacra è in posizione opposta rispetto a quella che la tradizione architettonica religiosa richiederebbe.


In tempi recenti, i lavori ancora non terminano. Tra il XIX e il XX secolo ci furono degli interventi voluti da Alfredo d’Andrade e durante gli anni Ottanta e Novanta si resero necessarie ulteriori modifiche.
Ciò che non cambia, nonostante il trascorrere dei secoli, è il fascino del luogo, reso ancora più prorompente dai misteri che accompagnano queste mura antiche. Si pensi alla vicenda della “Bell’Adda”. Adda era una giovane fanciulla che per sfuggire ai soldati nemici si buttò giù nel precipizio, gli angeli misericordiosi ebbero pietà di lei e la salvarono; Adda raccontò l’accaduto ai compaesani, i quali ovviamente non le credettero, così lei compì nuovamente l’insano gesto. Alcuni la definirebbero “hybris”, altri semplicemente “vanità”, resta il fatto che questa volta Adda non tornò a farsi vedere. Ma neppure il suo corpo venne mai più rinvenuto.

Non sappiamo cosa accadde ad Adda, ma sappiamo che ancora oggi numerosissimi visitatori si inerpicano per la collina per visitare la Sacra e tutti rimangono folgorati dalla bellezza di quel che vedono finita la faticosa salita.
Nel 2017, l’Abbazia è stata candidata a far parte del patrimonio dell’umanità dell’Unesco, nel quadro del sito seriale “Il paesaggio culturale degli insediamenti benedettini dell’Italia medievale”.
Sulla meraviglia del sito non si discute, ma possibile che in tutti questi secoli di interventi architettonici, nessuno abbia ancora pensato all’inserimento di un semplice ascensore?

Alessia Cagnotto

 

Rock Jazz e dintorni a Torino: Paolo Fresu e i Nomadi

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA 

Lunedì. Al Colosseo in memoria di Carlo Rossi si esibiscono Negrita, Caparezza, Nina Zilli e altri.  Per il Torino Jazz Festival al Folk Club suona il quartetto di Pasquale Iannarella mentre all’Hiroshima Mon Amour è di scena il quintetto The End.

Martedì. Al Magazzino sul Po sono di scena i Kanerva. Chiusura del Torino Jazz Festival con il concerto del quintetto di Paolo Fresu con la Torino Jazz Orchestra al Lingotto. Sempre per il TJF alla Casa Teatro Ragazzi tributo a Gil Scott-Heron con una formazione guidata da Eric Mingus e Silvia Bolognesi. Al Blah Blah si esibiscono i LabGraal. Allo Spazio 211 è di scena LNDFK mentre all’Off Topic suona il trio Turin Unlimited Noise.

Mercoledì. Al Capolinea di Ciriè raduno “metallaro” con gli Elvenpath e Airborn.

Giovedì. Al Circolo della Musica di Rivoli va’ in scena lo spettacolo “Canzoni d’amore e di contributi” con Max Collini e Lastanzadigreta. Al Blah Blah è di scena Johnny DalBasso mentre al Magazzino sul Po suonano gli Indianizer.

Venerdì. Al Blah Blah si esibiscono i Lem. Al Kontiki suonano i Vespri+Tuan. All’Hiroshima è di scena il rapper Claver Gold. Al Magazzino sul Po suonano i Lhi Balòs. Al Folk Club  si esibisce il chitarrista Clive Carroll. Al Cap 10100 sono di scena i Milanonord. Al Cafè Muller suonano i jHAsHA!. Allo Spazio 211si esibiscono i Furor Gallico.

Sabato. A Pinerolo festival musicale in una chiesa sconsacrata con : Kypck, Skepticism , Cultus Sanguine, Shores  of Null. Al Colosseo “sold out” per i Nomadi. Alla Suoneria di Settimo suona La Paranza del Geco. Al Blah Blah sono di scena i Titor.

Domenica. A Pinerolo suonano i Dawn of Winter, Shape of Despair, Blck Oath e Ponte del Diavolo. Al Blah Blah suona Il Senato. Al Bunker party di Ivreatronic con Donato Dozzy.

Pier Luigi Fuggetta

Torre Pellice, 850 anni di storia valdese

Mentre in Terra Santa si combatteva per il possesso dei Luoghi Sacri e Francesco d’Assisi inviava i suoi frati ad annunciare il Vangelo in tutto il mondo, in terra di Francia un giovane e ricco mercante di Lione iniziò a predicare il ritorno alla povertà evangelica per vivere con i suoi seguaci una vita cristiana intensa.
Pietro Valdo (1140-1217), come farà più tardi Francesco, abbandonò ogni ricchezza, fondò il movimento valdese e ispirò lo sviluppo di quella che diventerà la Chiesa Evangelica Valdese. Si fece povero e diede il via a una lunga tormentata e travagliata storia, la storia del popolo valdese. Sulle Valli Valdesi soffia quest’anno il vento della memoria per celebrare gli 850 anni del movimento valdese fondato da Pietro Valdo, colui che predicò la povertà della Chiesa e la libera predicazione del Vangelo. Una mostra e tante altre iniziative lo ricordano a Torre Pellice, la casa madre dei Valdesi. Pietro Valdo fondò nel 1174 a Lione un gruppo laico che sostenne la necessità del rinnovamento spirituale del Cristianesimo scegliendo di obbedire solo alla Bibbia e mettendo in discussione l’autorità del vescovo.
Nonostante le persecuzioni e la violenza che si scatenò contro i suoi membri, la Chiesa Evangelica Valdese, diventata tale all’epoca della Riforma protestante nel Cinquecento, ha continuato a sostenere i principi ispiratori delle origini. Valdo di Lione fu dichiarato eretico dal Papa per “la presunzione di volere predicare in pubblico” e scomunicato dalla chiesa romana ma il suo movimento si diffuse rapidamente in Italia e nel resto dell’Europa. Per secoli i valdesi subirono durissime persecuzioni dai re cattolici e dall’Inquisizione romana in Francia, in Savoia e in Italia. Valdo venne allontanato dalla comunità cristiana ma la sua confessione religiosa conobbe una notevole espansione in Piemonte, Lombardia, Puglia e Calabria anche se gli adepti furono costretti a vivere in clandestinità per evitare di essere arrestati e condannati. La “pace di Cavour” nel 1561 salvò le comunità valdesi che dovranno vivere in valli isolate nel pinerolese, sopra i 700 metri. La tregua durò ben poco. I Savoia li cacceranno dalle loro valli e molti di loro troveranno rifugio nella Ginevra calvinista e nella Germania protestante. Il 17 febbraio 1848 la svolta: Re Carlo Alberto riconosce i diritti civili e politici dei valdesi e quel giorno storico dopo secoli di persecuzioni e massacri viene ricordato ogni anno con l’accensione dei falò in tutte le valli valdesi. Fin qui, per sommi capi, la storia dei Valdesi che si può approfondire visitando il grande Museo Valdese a Torre Pellice (aperto da giovedì a domenica, ore 15-18,30) nel cuore delle Valli Valdesi. È un viaggio attraverso otto secoli di storia, dalla conversione di Valdo nel 1174 fino all’Intesa tra lo Stato italiano e la Chiesa evangelica valdese nel 1984.
Centinaia di pannelli e di fotografie narrano la storia dei seguaci di Valdo e decine di video illustrano il contesto storico dell’Europa nei secoli della peregrinazione dei valdesi. Non crediate di visitare il museo in un’oretta o poco più, quando si entra la visita durerà alcune ore se si pretende di leggere la vastità dei documenti esposti nelle sale. Per festeggiare la ricorrenza degli 850 anni della conversione di Valdo e dell’origine dei valdesi a Torre Pellice è stata organizzata anche una mostra, aperta fino al 30 settembre con gli stessi orari del Museo, nel Centro culturale valdese in via Beckwith 3, che illustra in due sezioni le tappe di costruzione del movimento valdese nel corso di otto secoli. I valdesi in Italia sono circa 30.000, di cui 15.000 residenti in Piemonte. Da sempre, al centro dell’attenzione della chiesa valdese c’è l’impegno culturale e sociale nella società. Scuole, ospedali, case di riposo e centri di cultura sono stati fondati dai valdesi negli ultimi due secoli in tutta l’Italia insieme all’apertura di istituti culturali e assistenziali. La chiesa valdese è diretta dal Sinodo che si svolge ogni anno a Torre Pellice, quest’anno dal 25 al 30 agosto. Ai ministeri della chiesa (pastori e diaconi) possono accedere uomini e donne, celibi o sposati. Tra cattolici e valdesi ci sono intese e dialogo ma restano punti discordanti in materia teologica.              
   Filippo Re