Pur essendo famoso durante la prima metà del 700 come pittore di corte dei Savoia, di Pietro Domenico Olivero non fu mai allestita una mostra monografica; l’occasione viene data ora dal Museo Civico di Moncalvo attraverso la presentazione, ad opera di Aleramo Onlus, di diversi dipinti che denotano la sua tipica vocazione al genere delle “bambocciate”.

Accanto alla grande pittura aulica della ritrattistica e all’enfasi dei temi religiosi erano in voga le scenette episodiche intinte di paesaggismo dell’Olivero che venivano richieste dai reali, dalla nobiltà delle ville della provincia e da appassionati collezionisti. Quando nel 1705 morì il pittore di corte, il viennese Seyter protetto dalla Madama Reale Giovanna Battista di Nemours, che aveva istituito nel 1678 l’Accademia di Belle Arti per la protezione degli artisti, il figlio Vittorio Amedeo II si tenne caro il pittore apprezzandone il talento e il vivace temperamento. Dapprima gli furono dati incarichi minori di decoratore di fiori, accostandosi al fiorismo locale di radici fiamminghe e francesi, in cui si specializzò in particolare Anna Caterina Gili, per la Reggia di Venaria e gli fu assegnato il compito di collaboratore di vedutisti e quadraturisti per affrescare colorite figurine nella veduta, voluta da Juvarra, per l’atrio del Castello di Rivoli, insieme al Michela. Divenne poi il maggiore esponente della pittura macchiettistica riallacciandosi al filone che si era diffuso a partire dal 1625 nella Roma papale ad opera della scuola dei Bamboccianti di via Margutta fondata dall’olandese Pieter Van Laer. Tra i molti generisti fiamminghi e olandesi si erano distinti anche gli italiani Michelangelo Cerquozzi, detto “Pittore di Battaglie”, Carlo Lanfranchi “Il flamenco” e in particolare Jean Miel che, soggiornando a Torino alla Corte di Carlo Emanuele II, aveva diffuso in ambito piemontese i suoi divertenti capricci con succose carnevalate e cacce. Sicuramente l’Olivero tenne conto di questo retroterra, accogliendo e dando una connotazione strettamente torinese alle canzonatorie e spiritose scenette popolane. La sua vena arguta, l’autoironia, per cui non disdegnava di ritrarsi con le proprie deformità, alla pari di un Toulouse Lautrec, la sagace osservazione di ciò che avveniva per strada resero la sua arte una perfetta testimonianza di usi e costumi della vita della città sabauda.
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Fiere, mercati, feste religiose e profane, risse di strada, cavadenti, giocolieri, imbonitori, osti, botteghe di ciabattini e di calderai, animano i dipinti freschi e maliziosi con la bonarietà scherzosa di chi si vuole divertire e divertirsi senza dare giudizi morali. Mai superficiale e volgare, però, poiché affiora sempre partecipazione e sensibilità umana, a volte malinconica, che addolcisce lo spirito dissacrante delle precedenti bambocciate romanesche mantenendo un’impronta di eleganza tipicamente piemontese. Significativo fu l’apporto delle incisioni di Jacques Callot esperto di bulino e acqueforti oltre che di decori, tra il raffinato e il grottesco, di tabacchiere e scatoline d’oro e di porcellana, la cui “Fiera dell’Impruneta” del 1620 è stata osservata dall’Olivero nel comporre” La fiera e la festa del santuario di San Pancrazio a Pianezza” del 1724 e “La processione al santuario della Madonna del Pilone” del 1744. Una maggiore finezza di tocco
barocchetto si trova nelle sovrapporte della Sala degli Archivi di Palazzo Reale e della Palazzina di Stupinigi in accordo con lo spirito arcadico Juvarriano. Senza dimenticare che Olivero fu anche valente disegnatore come attestano i circa180 disegni, contenuti in un volume del Museo Civico torinese, che erano stati attribuiti erroneamente, nonostante la sua firma, dal mercato antiquario inglese a Jacques Van Laer. Le opere in mostra rendono partecipi delle tradizioni popolari e della parabola della vita quotidiana con rappresentazione dettagliata, sincera e garbata dei soggetti in cui egli si identifica; si sente parte di quell’umanità semplice e vera intenerendosi al cospetto di madri che cullano o allattano infanti mentre vendono la merce nei mercati, gioisce ai giochi dei bimbi e alla vista dell’albero della cuccagna, s’inebria di vino durante la festa dei brentatori, prova lo stesso stupore dei popolani che guardano attraverso il “ mondo nuovo” del pantoscopio usato dagli ambulanti nelle fiere, è orgoglioso dell’eroismo dei soldati nell’accampamento, prega insieme ai fedeli alla festa della Madonna del Pilone. Le immagini riportano una Torino riconoscibile negli usi, costumi e vedute paesistiche ma suggeriscono aperture più vaste superando i limiti strettamente locali allargandoli ai molteplici aspetti di un’epoca di grandi cambiamenti e del sorgere di una nuova coscienza avviata alla modernità.
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La sua è una pittura che parla del popolo ma non è pittura incolta poiché, oltre all’ampia conoscenza dei bamboccianti seicenteschi, tiene a mente la cultura figurativa dei grandi maestri del passato con uno spirito assolutamente diverso. Senza arrivare all’alta profondità di pensiero della commedia della vita di Pieter Bruegel troviamo lo stesso brulichio di figurine minute che si affaccendano nelle vedute ma, se nel grande olandese predomina l’amara ironia dell’affannarsi inutile e stolto di un’umanità spaesata guardata con disincanto, nell’artista torinese si coglie un’empatia che unisce armonicamente l’uomo al paesaggio; non più una considerazione dell’assurdità e della follia dell’esistenza ma un’ accettazione tra gioia e malinconia della vita e del lavoro anche se umile. Nel ritratto che presenta il macellaio a braccia conserte fiero del proprio ruolo, in primo piano, lasciando nello sfondo l’animale scuoiato appeso allo stesso modo del
famoso dipinto di Rembrandt, sicuramente ricordato, non compare un simbolismo drammatico ma solo un’ispirazione iconografica e un virtuosismo tecnico dell’uso della luce e del colore. Più vicino sicuramente allo schietto realismo della “bottega del macellaio” di Annibale Carracci che coraggiosamente rompeva il tardo manierismo cinquecentesco, ormai l’Olivero nel 700 si sente a suo agio e libero di esprimersi secondo i propri interessi ben accettati da Vittorio Amedeo II che, pur consigliandogli una pittura più nobile, l’accoglieva benevolmente a Corte apprezzando i suoi dipinti di piccoli eventi pieni di poesia. Con lui non ci troviamo di fronte ad un semplice pittore di genere che risolve la pittura in banali e ripetitivi aneddoti, tanto disprezzati con sarcasmo da Salvator Rosa, che pure agli inizi era stato bambocciante, ma ad un vero artista che dà dignità ad un repertorio considerato minore in quanto la valutazione delle opere non deve essere vista attraverso una scala gerarchica di soggetti e temi scelti poiché tutte le poetiche sono legittime se si risolvono e concretizzano in Arte.
Giuliana Romano Bussola
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Museo Civico Città di Moncalvo 7 aprile / 1 luglio 2018 – apertura sabato e domenica dalle ore 10,00 alle ore 18,00 durante la settimana su appuntamento informazioni – 327 7841338
LE POESIE DI ALESSIA SAVOINI
Quella che è stata definita “la più grande rivoluzione culturale della storia” ha una data: 23 febbraio 1455. Pare fosse un venerdì e a Magonza, città tedesca sulle rive del Reno, oggi capoluogo della Renania-Palatinato, vedeva la luce il primo libro stampato a caratteri mobili in Occidente, la Bibbia nella traduzione latina di San Gerolamo
grazie all’innovazione dei caratteri riutilizzabili, nel giro un triennio – lo stesso tempo in cui veniva scritto un libro a mano – furono stampate 180 Bibbie in due volumi di 1282 pagine complessive, una quarantina su preziosa pergamena e le altre su carta di canapa importata dall’Italia. I libri stampati con la nuova tecnica, nel periodo compreso tra il 1453 e il 1500, vennero chiamati incunaboli e nel caso della Bibbia (con le sue
quarantadue righe di ciascuna pagina, disposte su due colonne) il carattere usato fu il gotico. I costi dell’impresa che segnò una rivoluzione nella diffusione del sapere e dell’istruzione si presentarono alquanto onerosi e Gutenberg, per finanziarla, dovette appoggiarsi all’orafo Johann Fust. Fu quest’ultimo, a fronte del successo, l’unico a trarne profitto. Infatti, prima che la produzione dei volumi fosse terminata, citò in giudizio Gutenberg con la richiesta di 2.026 fiorini, ossia il danaro da lui prestato con gli interessi. Al processo, Peter Schöffer, incisore che lavorò nell’officina di Gutenberg, testimoniò a favore di Fust contro l’inventore dei caratteri mobili. Gutenberg, non disponendo del
denaro per rimborsare il prestito, dovette cedergli i caratteri e l’attrezzatura per la stampa. Successivamente lo stesso Schöffer si mise in società con Fust e la loro stamperia pubblicò nel 1457 il Libro dei Salmi, primo esempio di stampa a colori. Solo attraverso le testimonianze dell’epoca fu possibile successivamente riconoscere i meriti del geniale tipografo tedesco, al quale non poté essere scippata anche la giusta fama. Di quella Bibbia, libro dal valore inestimabile, ne sono rimaste ora solo 48 copie custodite nelle più importanti biblioteche del mondo.
FINO AL 16 SETTEMBRE
proprietari con i quali Intesa Sanpaolo ha collaborato per questa edizione e per un imponente lavoro di recupero che ha coinvolto ben 205 professionisti del restauro, in tutt’Italia senza escludere il Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale” con cui s’è stabilita da tempo una collaborazione continuativa.
dipinto” proveniente dal Museo Nazionale degli Strumenti Musicali di Roma. A chiudere, significativamente, il percorso espositivo una sala dedicata alle opere danneggiate dagli eventi sismici. In occasione della mostra sono previsti anche un ciclo di incontri divulgativi sul “restauro” ed una serie di laboratori didattici a cura dei Servizi Educativi de La Venaria Reale e del Centro Conservazione e Restauro. Inoltre, sempre nell’ambito di “Restituzioni”, Intesa Sanpaolo sosterrà il simposio internazionale “Anche le statue muoiono. Distruzione e conservazione nei tempi antichi e moderni” che si terrà il 28 e il 29 maggio prossimi a Torino, per affrontare il tema della “fragilità” del patrimonio culturale (“la cui perdita – sottolinea Giovanni Bazoli, presidente emerito di Intesa – sarebbe un vulnus della nostra identità nazionale”) con studiosi provenienti da tutto il mondo. Il Simposio è organizzato dal Museo Egizio di Torino, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Musei Reali, in collaborazione con il Centro Ricerche Archeologiche e Scavi di Torino.
l 22 marzo scorso a Torino negli spazi di Paola Meliga Art Gallery è stata inaugurata la personale dell’artista torinese Silvia della Rocca dal titolo “Genesis“
polistirolo. Il suo intervento trasforma la materia e la rende viva attraverso le forme, i colori e i riflessi del mondo in cui è immersa. “Sento la materia che si plasma tra le mie mani” così Silvia descrive il suo modo di dipingere e lavorare le sue opere “pensieri ed emozioni prendono forma tra tavolozze di legno e colori, sperimentando che l’arte, in ogni sua forma, è la manifestazione della nostra anima, della nostra “essenza””. Tra le opere in esposizione sino al 22 aprile risaltano tre grandi Lune – una rossa, una blu ed una color oro – che, suscitando nel visitatore metafore visuali, lo proiettano in quel mondo fantastico cui l’artista dà vita, le Cosmic Eggs, evocazione del mito cosmogonico della creazione dell’universo, e gli Skulls, i teschi che nelle civiltà antiche rappresentavano la trasmutazione interiore, una morte simbolica che conduce alla rinascita spirituale.
Al piano terreno della Galleria Sabauda, ultimi giorni per visitare la mostra Piranesi. La fabbrica dell’utopia, aperta al pubblico fino a lunedì 2 aprile. Il percorso fra le sue opere più celebri vede quindi esposte le grandi Vedute di Roma, dalle amplificate prospettive architettoniche, i fantasiosi Capricci eseguiti ancora sotto l’influsso di Tiepolo, le celeberrime e suggestive visioni delle Carceri.
scavo nell’isola.



istruttori.
scrosciare delle acque si trasforma in un estenuante lamento confuso, sono ambientazioni perfette per fiabe e racconti fantastici, antri misteriosi in cui dame, cavalieri, fantasmi e strane creature possono vivere indisturbati, al confine tra la tradizione popolare e la voglia di fantasia. Questi luoghi a metà tra il reale e l’immaginario si trovano attorno a noi, appena oltre la frenesia delle nostre vite abitudinarie. Questa piccola raccolta di articoli vuole essere un pretesto per raccontare delle storie, un po’ di fantasia e un po’ reali, senza che venga chiarito il confine tra le due dimensioni; luoghi esistenti, fatti di mattoni, di sassi e di cemento, che, nel tentativo di resistere all’oblio, trasformano la propria fine in una storia che non si può sgretolare. (ac)
illumina la casa di una luce eccessivamente diretta, sulla facciata principale i segni del tempo sembrano graffi di artigli. La villa è enorme, circa 1300 m2 che si espandono su due piani, tutto intorno vi è un cortile di quasi 2000 m2. La osservo con stupore e ho l’impressione che dalle finestre vuote la villa ricambi il mio sguardo. Fingo indifferenza, studio un’inquadratura con la mia reflex, ma, nel fare ciò, mi accorgo dello sbiadire dell’erba, così verde sotto i miei piedi e quasi bruciata vicino alle mura scrostate. Noto anche altri dettagli: nessun uccello decide di riposarsi sull’ampio tetto dell’edificio, nemmeno gli insetti osano avvicinarsi, su tutto grava un silenzio corposo, che immobilizza gli alberi e rende ovattato il rumore delle auto, che sfrecciano volutamente indifferenti, a pochi metri da noi. Ora, la villa pare sogghignare. Decidiamo di avvicinarci e di camminare lungo il perimetro esterno, alcune finestre sono state murate, altre si affacciano minacciose prive di balconi e adornate di vetri rotti, c’è un unico ingresso, al piano terra, un antro buio dal quale provengono degli sbuffi di aria fredda. Vicinissimo alla casa c’è un albero morto, nodoso, sembra un artiglio di qualche mostro che tenta di uscire dal terreno. Alle spalle dell’edificio il giardino continua ma poi si trasforma in uno stretto umido sentiero, i colori della natura si fanno più cupi e la sterpaglia si annoda ad oggetti che testimoniano il passaggio di altri visitatori, decisamente non educati come noi. Non c’è molto da vedere lì dietro e finiamo il giro velocemente, ritrovandoci al punto di partenza. Sono di nuovo davanti a quell’enorme casa vuota, che un tempo aveva accolto tra le sue mura balli, sfarzi, incontri segreti, dame e re, ma non posso dimenticare anche altre voci, ripugnanti, che raccontano di riti occulti e sanguinari. Mentre penso a quest’ultimo aspetto mi rendo conto del profondo senso di inquietudine che mi pervade. Il senso di disagio supera quello della curiosità, così propongo di andare via, i miei accompagnatori, però, non mi danno ascolto e si accingono ad entrare, io con uno scatto fulmineo li seguo: non voglio rimanere sola.
agglomerato di sporcizie e rifiuti, le pareti sono del tutto scrostate ed imbrattate, i soffitti impregnati di umidità e consunti dall’abbandono. Un po’ di luce naturale riesce ad insinuarsi in quello che forse era il salone principale, ma su tutto prevale il buio cieco dell’ombra che inghiottisce le altre stanze. Arriviamo ad uno scalone che conduce al piano superiore, all’apice di esso una grande finestra, priva di balcone e a picco sul cortile, ed attraversata da impietosi raggi di sole. Una vecchia tenda bordeaux si sforza di rimanere impigliata in un angolo e mi fa pensare a un grumo di sangue rappreso. La luce taglia l’ombra di netto, si scontra con i gradini della scala e ne esalta la durezza del marmo. Alle pareti graffiti e parole di ogni genere sono l’attuale tappezzeria. Il primo piano è esattamente come quello appena visitato: spaventosamente disastrato. Di villa Capriglio ormai è rimasto solo lo scheletro. Decidiamo di ridiscendere ed è nel nostro viaggio a ritroso che storia si fa inquietante. Noto dei resti di candele in alcuni angoli, vicino a qualcosa che è stato bruciato. Mi stupisco di non essermene accorta prima. Qua e là ci sono molti resti di piccoli altari improvvisati: li seguiamo inconsciamente, come presi da un’improvvisa caccia al tesoro, fino ad arrivare ad un passaggio che prima nessuno di noi aveva notato. Capisco di trovarmi di fronte a tracce di un tetro passato che ancora perdura. All’improvviso un sordo rumore. È la casa che ci avvisa che non siamo più ospiti graditi, forse perché, come un’antica dama settecentesca, si deve preparare per il suo cadenzato viaggio nello spazio e nel tempo. Dopo tutto questa è una notte di luna piena.
30 MARZO – 30 APRILE 2018
volanti, scimmiette in livrea e maliziosi diavoletti con le ali, un coloratissimo bestiario, quasi umano, che ci proietta in un mondo magico, capace di comunicare al bambino nascosto dentro ognuno di noi. “Siamo orgogliosi di ospitare per la prima volta a Torino una mostra personale di Patrick Moya, artista molto popolare e visibile nella vicina Costa Azzurra e presente in diverse iniziative culturali di prestigio organizzate sul territorio francese” commenta Enrico Debandi, responsabile artistico degli spazi di Palazzo Saluzzo Paesana e curatore della mostra Dolly Mon Amour. “Dal vastissimo repertorio di produzione di Moya, abbiamo scelto di concentrarci sui mille travestimenti del personaggio rappresentato dalla pecora Dolly che, con il suo sguardo ammiccante e con la sua espressione curiosa e irriverente, inaugura la stagione espositiva del Teatro Paesana in concomitanza con la primavera ed il periodo Pasquale”. La mostra sarà, con la sua bizzarria lisergica, un divertente omaggio artistico ad una delle icone della Pasqua.
C’est la vie – Prendila come viene – Commedia. Regia di Eric Toledano e Olivier Nakache, con Jean-Pierre Bacri, Jean-Paul Rouve, Hélène Vincent e Suzanne Clément. Gli artefici del fenomeno “Quasi amici” promettono risate a valanga e il successone in patria dovrebbe calamitare anche il pubblico di casa nostra. I due sposini Pierre ed Hélène hanno deciso di sposarsi e quel giorno deve davvero essere il più bello della loro vita. Nella cornice di un castello del XVII secolo, poco lontano da Parigi, si sono affidati a Max e al suo team, ad un uomo che ha fatto della sua professione di wedding planner una missione, che organizza e pianifica, che sa gestire i suoi uomini, che sa mettere ordine nel caos più supremo, che per ogni problema sa trovare la giusta risoluzione… Più o meno: perché quella giornata sarà molto ma molto lunga, ricca di sorpresa e di colpi di scena. Ma soprattutto di enormi, fragorose risate! Durata 115 minuti. (Romano sala 3)
factotum che di nome fa virgilianamente Anchise, passeggiate e discussioni, corse in bicicletta, ritrovamenti di statue in fondo al lago, nuotate in piccoli spazi d’acqua, felici intimità, in una delicatezza cinematografica (la macchina da presa pronta ad allontanarsi velocemente da qualsiasi eccessivo imbarazzo) che assorbe nei temi (“Io ballo da sola”) e nei luoghi (i paesini, i casali, la calura di “Novecento”) il passato di Bertolucci o guarda al “Teorema” pasoliniano. L’ultima opera di un regista (“Io sono l’amore”, “A bigger splash”) che con la critica di casa nostra non ha mai avuto rapporti troppo cordiali, osannato all’estero. La sceneggiatura firmata da James Ivory e tratta dal romanzo di André Aciman ha conquistato meritatamente l’Oscar. Durata130 minuti. (Eliseo blu)
Contromano – Commedia. Regia di e con Antonio Albanese. Il signor Mario, milanese doc e proprietario di un negozio di maglieria, ordinatissimo come ordinata è la sua vita, vede i suoi principi e le abitudini sconvolte dall’arrivo, chiaramente davanti alla “sua” vetrina, di un giovane senegalese che si mettere a vendere calzini a prezzi stracciati alle signore di passaggio. Che fare? Aiutarli sì ma a casa loro, è la parola d’ordine. E allora ecco che il signor Mario rapisce Oba, legandolo e mettendoselo in macchina, con l’intenzione di riportarlo in Africa. Ma i bastoni in mezzo alle ruote del progetto arrivano in tempi più che brevi, uno per tutti la presenza della sorella (?) di Oba. E allora, umanità o idee di ferro? Durata 102 minuti. (Massaua, Due Giardini sala Nirvana, Lux sala 3, Reposi, The Space, Uci)
La forma dell’acqua – The shape of water – Fantasy. Regia di Guillermo del Toro, con Sally Hawkins, Doug Jones, Octavia Spencer, Michael Stulhbarg e Michael Shannon. Leone d’oro a Venezia, tredici candidature agli Oscar, arriva l’attesissima storia del mostro richiuso in una gabbia di vetro all’interno di un laboratorio governativo ad alta sicurezza (siamo negli States, in piena guerra fredda, il 1962) e del suo incontro con una giovane donna delle pulizie, Elisa, orfana e muta, dei tentativi di questa di salvarlo dalla cupidigia dei cattivi. Avrà l’aiuto degli amici (il disegnatore gay, lo scienziato russo pieno di ideali, la collega di colore), cancellando la solitudine e alimentando i sogni, in un’atmosfera che si culla sulle musiche di Alexandre Desplat, contaminate da quelle dei grandi del jazz degli anni Sessanta. Durata 123 minuti. (Ambrosio sala 3, Massaua, Eliseo Rosso, Reposi, Uci)
Hostiles – Ostili – Western. Regia di Scott Cooper, con Christian Bale, Rosamund Pike e Wes Studi. Nel 1892, due anni dopo il massacro di Wounded Knee, non ancora consolidata la pace tra indiani e visi pallidi, al capitano Joseph Blocker viene affidato l’incarico non facile di riportare nelle terre del Montana il vecchio capo Cheyenne Yellow Hawk, proprio il responsabile delle morti di molti soldati del capitano. Durante il lungo percorso molti fatti verranno a mutare i rapporti tra i due uomini, non ultimo la presenza di una donna cui gli indiani hanno distrutto l’intera famiglia. Paesaggi, personaggi che sanno d’antico, un genere che ha avuto vita gloriosa e che oggi, più che raramente, vede qualche debole accenno: gli appassionati non se lo lascino sfuggire. Durata 127 minuti. (Ideal, Lux sala 1, The Space, Uci)
pure di quanto sia pesante la mannaia delle tasse. Perché allora non seguire l’esempio delle suorine del palazzo di fronte che con l’ospitalità a poveri e bisognosi vari si sono ritagliate un bell’angolo esentasse? Leo, anche coautore della sceneggiatura, studia allora di farne un centro religioso e volendo esagerare creare una nuova religione, lo Ionismo, un egocentrismo alle stelle, una piena responsabilità slacciata da ogni cosa o Ente che sappia di celestiale: risultato, un considerevole gruppo di adepti. Potrà funzionare? Durata 100 minuti. (Massaua, Greenwich sala 3, Reposi, The Space, Uci)
Maria Maddalena – Drammatico. Regia di Garth Davis, con Rooney Mara, Joaquin Phoenix e Chiwetel Ejiofor. Una visione nuova nei confronti di una Maddalena vista come la peccatrice e la prostituta, figura alimentata per secoli. Il regista australiano (che tuttavia ha scoperto gli ambienti adatti in Sicilia) vede questa donna come un esempio di femminismo ante litteram, colei che sfugge ai compiti di moglie e madre che la società del tempo inevitabilmente le impone, colei che stabilisce di seguire il Maestro e di abbracciarne in modo completo la dottrina: quella che tra i tanti discepoli è scelta dal Maestro ad assistere alla sua Resurrezione. Guardando anche alle figure di Giuda e di Pietro, messi di fronte ad un messaggio che sconvolgerà il mondo ma incapaci di assumerne l’esatta interpretazione. Durata 120 minuti. (Ambrosio sala 3, Ideal, Reposi, Uci)
bella restauratrice, con un paio di aiutanti al seguito, che vive grazie alla pensione della nonna visto che lo Stato tarda a riconoscerle i quattrini che le deve per tutto il lavoro che ha svolto. E se la vegliarda passa a miglior vita? Spetterà alla ragazza ingegnarsi per la sopravvivenza, l’elettrodomestico del titolo fa al caso suo, le amiche un piccolo aiuto non lo negano e la pensione della nonna si potrà continuare a percepire. Durata 100 minuti. (Greenwich sala 2, Reposi, The Space, Uci)
L’ora più buia – Drammatico. Regia di Joe Wright, con Gary Oldman, Kristin Scott Thomas, Lily James e Ben Mendelsohn. L’acclamato autore di “Espiazione “ e “Anna Karenina” guarda adesso al secondo conflitto mondiale, all’ora decisiva del primo anno di guerra, alla figura del primo ministro inglese Winston Churchill. Nel maggio del ’40, dimessosi Chamberlain e da poco eletto lui alla carica, inviso al partito opposto e neppure in grado di poter contare sui suoi colleghi di partito e sul re che lo tollera, mentre le truppe tedesche hanno iniziato a invadere i territori europei, Churchill combatte in una difficile quanto decisiva scelta, se concludere un armistizio con la Germania dopo la repentina caduta della Francia oppure avventurarsi nell’intervento di un conflitto armato. Mentre si prepara l’invasione della Gran Bretagna, si deve pensare alla salvezza del paese, grazie ad una pace anche temporanea, o l’affermazione con una strenua lotta degli ideali di libertà: una delle prime mosse fu il recupero dei soldati intrappolati sulle spiagge di Dunkerque (come già ad inizio stagione ci ha insegnato lo stupendo film di Christopher Nolan). Oldman s’è visto per il ruolo assegnare un Globe, ha meritatamente conquistato poche sere fa l’Oscar, un’interpretazione che colpisce per la concretezza, per gli scatti d’ira e per quel tanto di cocciutaggine e lungimiranza britannica che in quell’occasione s’impose. Uno sguardo al trucco dell’interprete: un secondo Oscar al film, premio agli artefici e alle tante ore di perfezione ogni giorno di lavorazione cui l’attore s’è sottoposto. Durata 125 minuti. (Greenwich sala 2)
terra è un luogo di guerre e povertà, l’unica felice evasione è il mondo virtuale di Oasis, legato ai fantasiosi anni Ottanta e ricco di scenari iperrealistici in cui è facile accedere. Lo scomparso James Halliday ha deciso di lasciare a chi lo ritroverà il prezioso Easter Egg: sarà il giovane Wade, da sempre alla ricerca di notizie sulla vita e l’attività del miliardario, si metterà attraverso l’avatar Parzival alla ricerca dell’oggetto e lo ritroverà, dovendo pure fare i conti con i potenti nemici di una multinazionale, concorrenti senza alcuno scrupolo. Durata 140 minuti. (Centrale V.O., Massaua, F.lli Marx sala Harpo, Ideal, Lux sala 2, Reposi, The Space, Uci anche in 3D)
La terra buona – Commedia drammatica. Regia di Emanuele Caruso, con Fabrizio Ferracane, Giulio Brogi, Lorenzo Pedrotti e Viola Sartoretto. Tre storie che s’intrecciano per confluire insieme in un angolo di serenità. La giovane Gea, malata terminale, all’insaputa della famiglia si rifugia con un amico, forse innamorato di lei, in una valle piemontese al confine con il territorio svizzero. Là, in una borgata antica, fatta di case di pietra, dimenticata, vivono un vecchio frate eremita che ha raccolto negli anni una ricchissima biblioteca e un medico, in cerca di medicamenti alternativi, senza risposte certe, e per questo cacciato dalla civiltà che lo ha giudicato e condannato. Un’altra scommessa vincente per l’autore che tre anni fa con “E fu sera e fu mattina” divenne un caso cinematografico, ovvero budget ridotto all’osso e grande successo per i cinefili doc: anche adesso, con un amichevole passaparola, il film, accompagnato con amore dal suo autore, si sta dimostrando, anche se imperfetto, un invidiabile successo. Durata 110 minuti. (Reposi)
madre anaffettiva come quella disegnata dalla Janney, Oscar come migliore attrice non protagonista, sposata ad un uomo senza quattrini e parecchia violenza in corpo, lei gran temperamento focoso, grande carriera e grandi scandali. Come quello che la colpiì a metà degli anni Novanta, allorché la sua antagonistaNancy Kerrigan, alla vigilia dei campionati nazionali Usa, venne colpita alle gambe da un uomo, poi identificato, pronto a confessare di aver agito perché istruito e istigato dal marito della Harding. La creazione di un mito, la difficoltà a considerarla una donna e una campionessa in cui il pubblico non soltanto femminile si potesse riconoscere, il ritratto di un’America dove ognuno vuole emergere, in qualsiasi modo. Durata 121 minuti. (Ambrosio sala 1, Eliseo Grande, F.lli Marx sala Groucho, The Space, Uci)
e di “incitamento” diretti a William Willoughby, il venerato capo della polizia, onesto e vulnerabile, malato di cancro. Coinvolgendo in seguito nella sua lotta anche il vicesceriffo Dixon, uomo immaturo dal comportamento violento e aggressivo, la donna finisce con l’essere un pericolo per l’intera comunità, mal sopportata, quella che da vittima si trasforma velocemente in minaccia: ogni cosa essendo immersa nella descrizione di una provincia americana che coltiva il razzismo, grumi di violenza e corruzione. Oscar strameritati per la protagonista e per il poliziotto mammone e fuori di testa di Rockwell. Durata 132 minuti. (Greenwich sala 1)