CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 70

L’eclettismo culturale di Mario Soldati

Il 19 giugno del 1999 Mario Soldati moriva a Tellaro, piccolo borgo marinaro ligure. Nato a Torino nel novembre del 1906, Soldati è stato uno dei più grandi intellettuali del Novecento italiano.

Scrittore, giornalista, regista e sceneggiatore cinematografico e televisivo, ha contribuito moltissimo alla cultura e al costume italiano. Intellettuale finissimo, regista di autentici capolavori come “Piccolo mondo antico” e “Malombra”, autore di romanzi come “America primo amore”, “Le lettere da Capri” (premio Strega nel 1954), “I racconti del maresciallo”, di reportage famosi come “Viaggio lungo la valle del Po alla ricerca dei cibi genuini”, Soldati ha lasciato un segno indelebile con la sua poliedrica attività artistica. Lo storico e saggista Pier Franco Quaglieni, l’ha ricordato con il libro “Mario Soldati. La gioia di vivere”, pubblicato nel ventennale della morte dello scrittore e regista torinese. Un testo di grande interesse aperto da un ampio saggio del direttore del Centro Pannunzio, amico personale di Soldati che fu uno dei fondatori del sodalizio culturale subalpino, presiedendolo per due decenni. Un altro grande amico di Soldati, il novarese Enrico Emanuelli, grande firma de La Stampa e del Corriere della Sera, ne tratteggiò così il profilo: “Soldati è scorbutico. Dicono che spesso lo sia per posa. E’ anche legato ad umori repentini, una cosa gli va o non gli va, un po’ a capriccio. Ma dietro a questi suoi estri, vi è una natura d’uomo indipendente, acuto, pieno di difetti appunto perché ha virtù non comuni”. Il brevissimo racconto che segue ( La camelia di Mario Soldati) è un piccolo omaggio alla sua memoria.

“Mario l’aveva portata da Tellaro a Corconio, dalla frazione più orientale del comune di Lerici, nello spezzino, dove aveva scelto di vivere i suoi ultimi anni, al luogo che, forse, più di altri, aveva lasciato un segno, una traccia indelebile nel suo animo, sulla collina che guarda il lago d’Orta. La “General Coletti” era una camelia bella,forte e rigogliosa, con i suoi grandi fiori doppi, a peonia, rosso ciliegia intenso chiazzato a macchie di un bianco candido, puro. L’aveva curata con le proprie mani, pazientemente, con l’attenzione necessaria che si presta ad una creatura apparentemente fragile e delicata. Così l’aveva portata con sè, sul lago d’Orta. Tornare in quel luogo dove aveva vissuto, con il suo più caro amico, “l’altro Mario”, un lungo momento magico, tra l’autunno del 1934 e la primavera del 1936 quando il destino li appaiò, assecondandoli nella scelta di un volontario esilio sul lago d’Orta, si era rivelata una buona idea. Anche portare in dono la camelia agli eredi delle due sorelle Rigotti, l’Angioletta e la Nitti, che all’epoca gestivano l’alberghetto dove dimorarono, era stata un’ottima e gradita intuizione. La locanda non c’era più e il suo posto era stato preso da un’abitazione privata che, però, aveva mantenuto intatta la fisionomia dello stabile. Lì, entrambi, quasi adottati da quella famiglia, misero radici e vissero intere stagioni alloggiando in “una stanza d’angolo, la più bella e più soleggiata dell’albergo, con una finestra a nord e una a ovest”. I ricordi erano come un fiume in piena. Le lunghe chiacchierate davanti al fuoco del camino, mangiando castagne arrosto o bollite, bevendo il vino nuovo nelle ciotole, si accompagnavano alle pagine che vennero scritte, ai libri che presero forma, agli articoli e ai saggi critici che consentirono a entrambi di racimolare il necessario per poter vivere “da scrittori”. L’ambiente circostante si era offerto con generosità ai “due Mario”, Soldati e Bonfantini, ricompensando i loro sguardi con l’intensa bellezza del paesaggio da una sponda del lago all’altra; da Gozzano a Orta, fino ad Omegna e da lì verso Oira, Ronco, Pella e Lagna. Dal balconcino della casa di Corconio, il panorama era rimasto intatto. Mario guardava, ammirato, la camelia dai fiori color panna e fragola. Poi, chiusi gli occhi, annusando l’aria, immaginava i colori del lago. Mario dubitava di potervi tornare. L’età non consentiva grandi progetti e nemmeno di coltivare illusioni. Lo consolava il pensiero che la più bella delle sue camelie potesse rimaner lì, a dimora. Un gesto d’amore di un uomo che in quei luoghi aveva lasciato una parte del suo cuore”.

Marco Travaglini

La rubrica della domenica di Pier Franco Quaglieni

SOMMARIO: La guerra e l’apocalisse – Il Sindaco Lo Russo sta prendendo il toro per le corna – L’Anno Santo e le ragioni della fede – Lettere

La guerra e l’apocalisse 
L’informazione televisiva ci invade inevitabilmente di immagini di guerra, di distruzione e di morte. Non è possibile rimanere indifferenti di fronte a tanta carneficina. Io non sono mai stato pacifista  e non violento a prescindere, perché chi studia la storia sa bene che la violenza e la guerra appartengono alla vita dell’uomo fin dai tempi più antichi. La violenza stessa non si combatte di per sé con la non violenza, a parte l’interpretazione rivoluzionaria di Marx che vede nella violenza il forcipe della storia. L’antiviolenza è una scelta nobilissima di vita personale , ma non vale per i popoli che a volte sono costretti a ricorrere alle armi per difendere se’ stessi. Il ripudio della guerra richiamato all’articolo 11 nella nostra Costituzione tiene conto del ricorso obbligato alla guerra in certe condizioni. Pur ammirando le anime candide, ho studiato troppo Machiavelli per non capire che il mondo non si governa con i “pater noster”.
Ma oggi i pericoli che corre l’umanità portano a schierarsi convintamente per la pace, direi disperatamente per  la pace, sia perché si è raggiunto il livello della più brutale bestialità sia perché il pericolo del ricorso al nucleare si avvicina sempre di più.
Nei fatti siamo già arrivati a praticare l’infame idea che la guerra sta all’uomo come la maternità alla donna. In una civiltà come quella romana, fondata sulla guerra di conquista, vi fu il poeta Tibullo che si domandava chi, malvagio e feroce,  inventò per primo  le orrende spade. La sua voce elegiaca fu trascurata a favore delle arti marziali e del culto della romanità. Ma ad aggravare in modo orrendo la situazione di oggi è lo sviluppo della scienza e della tecnica che ha aumentato in maniera agghiacciante i morti nelle guerre, in primis le vittime civili. Con due guerre mondiali nel secolo scorso, sembrava che avessimo capito la durissima lezione della storia che già Hegel definì un immenso “mattatoio” dell’umanità. Oggi non è possibile rimanere insensibili alle parole del Papa che incessantemente ci richiama tutti alla ragione laica, neppure a quella religiosa. Il 2025 che sta arrivando deve vedere un ripensamento collettivo che vada oltre le sterili e violente manifestazioni di piazza che si rivelano inutili. Diversamente, stiamo correndo verso una catastrofe senza ritorno. Oggi i toni apocalittici sono gli unici che  ci portano a cogliere con realismo un mondo sull’orlo del baratro. Il grande storico della guerra civile americana  Raimondo Luraghi, di fronte agli orrori ottocenteschi che anticiparono quelli della Grande  Guerra, usò il richiamo all’Apocalisse.  Basta riempire i nostri arsenali di armi come vorrebbero anche certi ministri che si esaltano ad indossare un giaccone militare a Natale.
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Il Sindaco Lo Russo sta prendendo il toro per le corna
L’opposizione alla maggioranza al Sindaco di Torino Lo Russo sembra non esserci più. A parte “Torino bellissima” e il suo fondatore  che non ha quasi mai  fatto sentire la sua voce, sembra non esistere una opposizione nel suo complesso che esprima una qualche strategia. Forse è colpa dei giornali che trascurano ed ignorano, preferendo dedicare ampi  articoli al nuovo “matrimonio” molto chic  dell’assessore Foglietta  o forse è doveroso cogliere una immagine  (che si sta consolidando) del Sindaco Lo Russo che lo rende in sintonia con la città, malgrado alcuni assessori piuttosto carenti. Balza evidente infatti  un  forte impegno del Sindaco a rilanciare una città che rischia la marginalizzazione per le note vicende di “Stellantis” e non solo.
Stefano Lo Russo, sindaco di Torino

Si coglie nel silenzio di tanti la volontà del Sindaco che non si arrende alle difficoltà. Stiamo vivendo una crisi che è peggiore di quella del 1864, provocata dal trasferimento della capitale a Firenze. Gli sciocchi che dalle Olimpiadi in poi hanno pensato ad una città turistica al posto di quella industriale sono ormai al capolinea perché si è dimostrata un’utopia velleitaria puntare tutto sulle mummie egizie. Il sindaco Lo Russo sta prendendo il toro per le corna, cercando di rimettere in moto una città in affanno come non mai. Lo Russo si sta rivelando l’uomo giusto al posto giusto anche perché privo di quell’ideologismo  intellettualistico che ha rovinato Torino. I tempi di Appendino sono davvero lontani e credo che si possa dar fiducia ad un sindaco pragmatico che è l’ultima ancora di salvezza.

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L’Anno Santo e le ragioni della fede
I giornali enfatizzano compiaciuti l’arrivo di milioni di turisti  e pellegrini a Roma per l’Anno Santo. Oltre al significato religioso dell’evento, trascurato da molti, c’è chi ne sottolinea soprattutto  la portata politica e c’è anche chi calcola la ricaduta economica non solo su Roma dove sarà difficile trovare una stanza d’albergo disponibile.
L’Anno  Santo farà aumentare i prezzi e renderà Roma invivibile. Sono tutte osservazioni fondate, ma non è facile leggere un commento sulla dimensione religiosa e spirituale dell’Anno  Santo. Lo scandalo delle indulgenze che diede l’occasione a Martin Lutero per dar vita alla Riforma protestante, sembra ancora pesare, magari inconsapevolmente. Un Papato quasi totalmente impegnato sul terreno politico porta  oggi quasi a dimenticare l’aspetto preminente. Sia pure per nobili ragioni la Chiesa è più che mai legata alle vicende mondane. Può sembrare assurdo che appaia così un pontificato che rigetta l’aspetto esteriore della magnificenza del romano pontefice, ridotto su una carrozzella come tanti anziani non più autosufficienti. Il mondo attuale non induce alla spiritualità: dove ben poche cose vengono ancora considerate peccato è difficile concentrarsi sulle indulgenze che permetterebbero di liberarsi pienamente dalle conseguenze  del peccato. Può sembrare un’osservazione peregrina, mentre essa ci porta  a capire la vita di tanti  che non ritrovano più nel Cristianesimo una ragione di fede convinta.
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LETTERE  scrivere a quaglieni@gmail.com
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Il parco del Valentino 
Voglio dirle che mi sono commossa a vedere una parte del Valentino, quella tra corso Vittorio e corso Massimo che sta  riprendendo vita. Era diventato un angolo di Torino invivibile legato alla mia infanzia. Era un angolo di Torino pieno di bambini che giocavano spensierati. Anch’io lo frequentavo con mia zia e mia cugina. Riuscirà la Città  a rendere di nuovo vivibile il Valentino? Io lo spero tanto.
Barbara Valentini
Anch’io venivo accompagnato quasi tutti i giorni  dalla primavera all’autunno al Valentino  dove c’era anche la Fontana luminosa che diede il nome ad un ristorante famoso che era anche gelateria (il celebre Varesio). Era il segno di una Torino che non c’è più. Non illudiamoci. Io avevo una bicicletta Gerbi  talmente luccicante  che sembrava d’argento. E concordo con lei quando si riferisce ai bambini: parafraserei il Pascoli, dicendo che erano prati “fioriti di occhi di bambini”.
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Bergami, il gobettiano coerente
Il Prof. Giancarlo Bergami era uno studioso di Gobetti che fu molto stimato da Bobbio. Perché nessuno ha scritto di lui nel momento della sua morte?  È stato sbianchettato dalla  solita vulgata? Dava ombra a Polito  al centro Gobetti ? Cosi si disse.   Ennio Repetto
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Io non appartengo al giro dei gobettiani e non so dirle quasi nulla. Bergami era uno studioso di discreto livello, non credo abbia fatto una carriera universitaria. Sicuramente meritava un ricordo. Forse la morte nei giorni di Natale ha impedito una adeguata attenzione.Era  stato  in verità già dimenticato da anni. Per alcuni  forse non era abbastanza “fazioso”.

Guido Taroni, Ricordi di famiglia al Forte di Bard

Nel corso della mostra Gianfranco Ferré dentro l’obiettivoallestita nelle sale delle Cantine sino al 9 marzo 2025il Forte di Bard propone una serie di eventi collaterali per approfondirne i contenuti, presentare la genesi del lavoro creativo di Gianfranco Ferré e conoscere più da vicino il mondo della moda e alcuni dei suoi protagonisti.

Il primo appuntamento è con il fotografo Guido Taroni, nell’evento Ricordi di famiglia, sabato 28 dicembre 2024, nella sala Archi Candidi, alle ore 16.00.
Guido Taroni, fotografo, nasce a Milano nel 1987 e cresce immerso in una realtà famigliare e sociale stimolante, in continuo rapporto con il mondo dell’arte e della creatività. Il padre è un eclettico collezionista, gallerista e disegnatore di tessuti, la madre storico dell’arte, esperta di musica e teatro, la nonna è sorella del grande regista Luchino Visconti e lo zio è uno dei più importanti fotografi di moda italiani: Giovanni Gastel. Guido Taroni racconterà il suo lavoro e come è nata la sua passione per la fotografia e l’arte, attraverso aneddoti legati a questi iconici personaggi.

L’incontro sarà preceduto da una visita in mostra alle ore 15.00.

Il presepio vivente di San Francesco, il primo della storia

Città e paesi accendono la magia del presepe vivente. Accanto al presepio originale che riscalda e illumina le nostre case è sempre più consolidata la tradizione del presepe vivente con decine e anche centinaia di figuranti che danno vita ad una processione lungo le vie dei borghi e a una vera rappresentazione della Natività. I paesi sono coinvolti in modo intenso, le scenografie e i costumi sono realizzati dai residenti e vengono ricostruiti i luoghi e i personaggi della Terra Santa di duemila anni fa, con i pastori, i soldati romani, il mercato e le botteghe artigiane. In modo molto più semplice di come avviene oggi ma non per questo meno suggestivo fu la preparazione del primo presepio vivente della storia, 800 anni fa, in un paesino del Lazio, a Greccio, in provincia di Rieti, pensato, voluto e preparato con le sue mani nientemeno che da Francesco d’Assisi. Era il 1223, dopo un viaggio in Terra Santa Francesco d’Assisi rimase molto impressionato dalla rappresentazione del Natale nei luoghi sacri del cristianesimo e il borgo di Greccio, a 700 metri di altezza, gli ricordava Betlemme. A quel punto sorse in lui il desiderio di rievocare la nascita di Gesù e di farlo in mezzo alla natura, con una grotta, la mangiatoia, il bue e l’asinello. Il 24 dicembre 1223, a mezzanotte in punto, si animarono i personaggi del primo presepe vivente della storia e da quel giorno Greccio divenne un paese famoso in tutto il mondo e ogni anno, a Natale, si rivive la stessa atmosfera di ottocento anni fa. Il presepe di Greccio è la tredicesima delle ventotto scene del ciclo di affreschi delle Storie di San Francesco della Basilica Superiore di Assisi, attribuiti a Giotto, dipinta alla fine del Duecento.            Filippo Re
nella foto  il Presepe vivente di Greccio, autore Giotto

Carducci e la sua ode al Piemonte dalle “dentate scintillanti vette”

Su le dentate scintillanti vette salta il camoscio, tuona la valanga da’ ghiacci immani rotolando per le selve croscianti :ma da i silenzi de l’effuso azzurro esce nel sole l’aquila, e distende in tarde ruote digradanti il nero volo solenne. Salve, Piemonte! A te con melodia mesta da lungi risonante, come gli epici canti del tuo popol bravo,scendono i fiumi…”.

Chi non l’ha imparata a memoria e recitata a scuola questa poesia? Secondo alcuni esperti di storia della letteratura, i versi dell’ode “Piemonte” vennero composti da Giosuè Carducci durante il suo soggiorno al Grand Hotel di Ceresole Reale nel luglio del 1890.

 

Nato a Valdicastello, una frazione di Pietrasanta, nella Versilia lucchese, il 27 luglio 1835, il poeta e scrittore, fortemente legato alle tematiche “dell’amor patrio, della natura e del bello”, fu il primo italiano – nel 1906 – a vincere il Premio Nobel per la Letteratura.  Questa la motivazione con la quale gli  venne assegnato, vent’anni prima di Grazia Deledda, l’ambito premio dell’Accademia di Svezia: “non solo in riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche, ma su tutto un tributo all’energia creativa, alla purezza dello stile ed alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica”. Giosuè Carducci morì un anno dopo, il 16 febbraio 1907, all’età di 72 anni, lasciando alla cultura italiana una vasta produzione di poesie, raggruppate in diverse raccolte: dagli “Juvenilia” fino ai lavori della maturità. Tra questi ultimi si distingue in particolare la raccolta  “Rime nuove”, composta da 105 poesie, tra cui sono contenuti i versi più conosciuti dell’autore, presenti in “Pianto antico” ( “L’albero a cui tendevi la pargoletta mano..”) e “San Martino” (“La nebbia a gl’irti colli piovigginando sale, e sotto il maestrale urla e biancheggia il mar;ma per le vie del borgo dal ribollir de’ tini va l’aspro odor dei vini l’anime a rallegrar..”).

Nella sua produzione non mancano anche alcuni lavori in prosa, tra cui la raccolta dei “Discorsi letterari e storici” e gli scritti autobiografici delle “Confessioni e battaglie“.  Alla notizia della sua morte – nella sua casa delle mura di porta Mazzini, a Bologna –  la Camera del Regno ( Carducci, dopo essere stato a lungo Senatore del Regno era stato eletto alla Camera nel collegio di Lugo per il gruppo Radicale, di estrema sinistra)   sospese la seduta. L’Italia intera vestì il lutto per la scomparsa del poeta  che aveva cantato il Risorgimento. Durante i funerali, che si svolsero il 18 febbraio, i cavalli che portavano il feretro alla Certosa avevano gli zoccoli fasciati. Il cuore di Bologna, piazza Maggiore, e molte case private si presentarono parate a lutto. I fanali lungo il percorso vennero accesi e “guarniti di crespo“. La salma del poeta, fu “rivestita dalle insegne della massoneria, alla quale fu affiliato, e molti massoni partecipano alle esequie”.  Pochi giorni dopo la casa e la ricca biblioteca del poeta vennero donate dalla regina Margherita al Comune di Bologna. 

Marco Travaglini

Il senso di Ferzan per le donne

“Diamanti” sugli schermi

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

George Cukor le aveva chiamate semplicemente “Donne”, Ferzan Özpetek le definisce “Diamanti”, che sullo schermo è la sua opera numero quindici, da quel “Bagno turco” del ’97, volutamente tralasciando spot e piattaforme e prove teatrali “ricavate da” e serie di questi ultimi anni. Uno sguardo tutto al femminile oggi, diciotto attrici chiamate a raccolta tra quante già hanno lavorato con lui e reclutandone altre colte tra le più convincenti, a vario titolo, nel panorama delle ultimissime stagioni. Donne/attrici con le loro felicità e le insicurezze, i drammi e la coralità necessaria ad andare avanti, a superare le asprezze di una vita che ti ha legato ad un uomo o che non ha mai fatto a tempo a legarti, gli sguardi e gli atteggiamenti aspri che nascondono verità inconfessate. Con un espediente che finirà con lo sbilanciare la linearità del racconto, intralciandolo in sovrapposizioni fin troppo chiare dentro un linguaggio cinematografico, Özpetek le raccoglie in un grande terrazzo – di casa sua? la cucina accogliente l’avevamo già conosciuta con i personaggi perfetti di “Saturno contro”, esempio di quel cinema ozpetekiano che con “Le fate ignorante” e “La finestra di fronte” abbiamo preferito e ha incontrato stagioni ben più profonde -, inizia a spiegare per brevi parole, di mano in mano passano sinossi che diverranno sceneggiature vere e proprie, i personaggi prendono forma a poco a poco. Al centro di “Diamanti”, in un passaggio del tempo che dall’oggi riporta a metà degli anni Settanta dove basta accendere una sera un vecchio televisore per rivedere “Milleluci”, stanno Alberta (Luisa Ranieri) e Gabriella (Jasmine Trinca) Canova, due sorelle che hanno dato vita a una delle sartorie della capitale più prestigiose (angelo del focolare che nella cucina a tutto sovrintende la Giuseppina di Mara Venier, un passato di ballerina), in cui prendono vita con incanto e fatica i costumi che andranno a inorgoglire questo o quel film – nel ricordo del regista la sartoria Tirelli, dove lui arrivato fresco fresco a Roma cominciò a muovere cinematograficamente i primi passi: memorie, s’intravedono l’abito della Mangano in “Morte a Venezia” o della Schneider per “Ludwig” -, l’una tirannica, dura e scostante, una sorta di Miranda Priestly che annienta con comandi e sferzanti battute (“vuoi fare la costumista e non sai chi è Piero Tosi?”, silurerà una giovanissima piombata nel suo regno con velleità del posto più alto del podio, rimandandola su due piedi a mettere ordine nelle stoffe, tra cui si passano giornate interminabili, scampoli e bottoni e nastri, dove si cerca il colore esatto di questa o quella stoffa), un amore non vissuto alle spalle e una “protezione” nei confronti della sorella, per anni a rifiutare un rapporto pieno di contrasti, velato e taciuto fatto di azioni mai buttate alle spalle. Meglio scritto il personaggio di quest’ultima, con Trinca in stato di grazia, mentre tende a fossilizzarsi nella propria durezza in più scene l’Alberta di Ranieri, dove la corsa all’indipendenza si sarebbe dovuta costruire dando minor spazio a certI dialoghi e a certi comportamenti che sanno di luoghi comuni. Quando si tratterà di preparare i costumi di un film importante (“Diamanti” è necessariamente un film di scene e costumi, di Deniz Göktürk Kobanbay e Stefano Cammitti, bellissimi per quanto sanno di vita e di lavoro), di cui il regista Stefano Accorsi non si mostrerà mai soddisfatto salvo il risultato finale che è una splendida sorpresa, ecco l’irruzione della costumista Bianca Vega – una Vanessa Scalera che se volessimo estrarre la palma della vittoria andrebbe sicuramente a lei, i giurati di David e Donatello prossimi se ne dovranno ricordare -, forte e sicura in un primo momento nel suo modo d’avvicinarsi a quelle sue costruzioni che prendono vita anche con particolari insignificanti (le carte rosse che avvolgono le caramelle), avvilita quando il regista gliele negherà e pronta a mettere in discussione una ricerca e un’intelligenza. Le sarte in un simile universo debbono avere il loro giusto spazio soprattutto, all’insegna della certezza secondo cui “ognuna di noi non è niente ma insieme siamo una forza”: c’è Milena Mancini che deve subire le violenze di un marito (Vinicio Marchioni) che pare il gemello di Mastandrea nel “C’è ancora domani” targato Cortellesi, c’è la sempre più brava Paola Minaccioni con problemi in casa per un figlio che s’è rinchiuso nella sua stanza e non vuol più uscirne, c’è Anna Ferzetti con problemi di soldi a tirar su da sola il suo ragazzino, c’è Geppi Cucciari con qualche massima messa in bocca a forza e di troppo comodo, con qualche approccio un po’ più dappresso con i giovanotti che dentro o da fuori frequentano la sartoria, ma che non riesce a ritagliarsi nella sceneggiatura (che il regista ha scritto con Elisa Casseri e Carlotta Corradi) una storia tutta sua che meriti qualche respiro in più, ci sono Carla Signoris e Kasia Smutniak che giocano a fare le attrici di teatro e di cinema, impareggiabile nella polvere del palcoscenico la prima a preparare un Cechov per la prossima stagione. Un film che sa di mélo, carezzato da un mare di musiche con le gemme di Mina e di Giorgia, d’attrici soprattutto è “Diamanti”, e di una recitazione di gran valore da gustare guardando lo schermo, tanti ritratti che Özpeteck ha inventato, sempre con innegabile sentimento e la conferma di gran reggitore di marionette, glielo dobbiamo riconoscere, a cui regala un’anima, e spazi e tempi più o meno precisi (anche Sara Bosi o Nicole Grimaudo sono “troppo comparse”), forse non sempre definendo appieno le tele ma lasciando – forse l’occasione per una prossima serie? – alcuni contorni imprecisati, sfocati, là dove vengono a mancare certe luci che aiuterebbero a comprendere e a ispessire esistenze. Forse siamo troppo severi nel rimpiangere le storie di un tempo ma la prima sensazione è quella, anche se siamo più che disposti, costretti, a riconoscere quanto lo sguardo al Femminile da parte del regista rimanga unico. Non soltanto i sentimenti, ma la forza, la decisione a combattere, lo sguardo protettivo, tutta la partecipazione. È la sua visione, il suo modo di fare il cinema, di costruirlo con l’occhio dell’altra metà del cielo: nelle parole finali di Elena Sofia Ricci stanno momenti di riflessione che abbracciano un’arte e una storia questa volta dedicate “a Mariangela Melato, a Virna Lisi e a Monica Vitti, tre donne straordinarie con cui avrei voluto lavorare”.

Quest’anno sono stati 76.234 partecipanti a Una Notte al Museo

Fine anno, tempo di bilanci per i musei del Piemonte e con loro anche di Club Silencio, Associazione culturale impegnata nel coinvolgimento dei giovani nella vita sociale e culturale del territorio che nel 2024 ha portato 76.234 persone nei musei del Piemonte in occasione dei 52 appuntamenti di Una Notte al Museo, il format che apre le porte dei musei e dei luoghi della cultura in orario serale con un programma di visite e attività collaterali.

 

In particolare 73,77% del pubblico è under 35 e, nello specifico, il 25,26% sono ragazzi tra i 18 e i 24 anni.

Inoltre secondo le indagini svolte durante l’anno, Una notte al Museo conferma la sua vocazione di engagement, raggiugendo nuovi visitatori: il 55,7% del pubblico non ha mai visitato prima il Museo che è andato a scoprire quella sera, mentre il 19,5% lo ha visitato almeno una volta negli ultimi 24 mesi.

 

“Una Notte al Museo è un progetto consolidato che permette ai Musei di coinvolgere un pubblico difficile da raggiungere attraverso i canali tradizionali – commenta Alberto Ferrari, presidente dell’Associazione culturale Club Silencio. – Il programma del 2025 vedrà un ampliamento della proposta, con nuovi Musei ma sempre con lo stesso obiettivo: rendere i giovani partecipi della vita culturale e sociale del loro territorio”.

 

www.clubsilencio.it

L’Abbazia di Novalesa entra nel Sentiero dei Franchi

La Città metropolitana di Torino ha firmato, insieme all’Ente di gestione delle aree protette delle Alpi Cozie, all’Unione montana Alta Val Susa, all’Unione montana Valle Susa e al CAI Piemonte, il rinnovo del protocollo d’intesa per la registrazione nel patrimonio escursionistico regionale e per la valorizzazione del Sentiero dei Franchi. “Tra le novità sancite da questo rinnovato accordo è presente l’inclusione nel Sentiero dei Franchi di una nuova tappa Novalesa-Susa-Meana di Susa che parte dall’Abbazia di Novalesa” spiega il vicesindaco della Città metropolitana Jacopo Suppo. “Un’integrazione molto significativa anche in vista del 2026, quando si celebreranno i 1300 anni dalla fondazione del complesso abbaziale che nel 1972 fu acquistato dalla Provincia di Torino, oggi Città metropolitana”. L’inserimento della nuova tappa ha una giustificazione storica, avendo a che fare con l’evento della Battaglia delle Chiuse, che nel 773 contrappose Carlo Magno e il principe longobardo Adelchi, figlio del re Desiderio.

Un’altra novità è rappresentata dallo stralcio dal Sentiero dei Franchi della tappa 3A, che ora è registrato separatamente nel Catasto regionale del patrimonio escursionistico come Sentiero del marrone e della pietra.
Il nuovo protocollo d’intesa, inoltre, rilancia e rafforza il partenariato che la Regione Piemonte richiede per mantenere il riconoscimento degli itinerari e la conseguente ammissibilità ai finanziamenti. L’accordo appena sottoscritto ha una validità di cinque anni, con possibilità di rinnovo tacito annuale. Oltre alla gestione degli itinerari, i firmatari definiranno congiuntamente i progetti utili ad accedere ai finanziamenti necessari alla realizzazione degli interventi concordati di manutenzione straordinaria, potenziamento e valorizzazione turistica dell’itinerario.
Il Sentiero dei Franchi è un itinerario che parte da Oulx e, attraversando l’intera Valle di Susa, raggiunge la Sacra di San Michele. Nella sua totalità il tracciato è lungo oltre 60 km e attraversa i parchi del Gran Bosco di Salbertrand e dell’Orsiera-Rocciavrè.

Un grande ritorno a teatro per Samuela Sardo

L’attrice, regina di fiction di enorme successo come “I ragazzi del muretto”, “Un posto al sole”, “Orgoglio”, “Crimini”, ”Compagni di scuola”  e “Incantesimo”, è protagonista del “Tenente Colombo” di David Conati e Marcello Cotugno, in scena al Teatro Gioiello dal 26 dicembre al 1° gennaio: Nel cast anche: GIANLUCA RAMAZZOTTI,  PIETRO BONTEMPO, SARA RICCI e la partecipazione straordinaria di NINI SALERNO, per la regia di MARCELLO COTUGNO.

 

In “Prescription Murder”, questo il titolo originale della piéce, si trovano già tutti i temi e lo stile del personaggio tv di Colombo che i due autori americani avevano creato ispirandosi al detective Porfiry Petrovitch di “Delitto e castigo” di Dostoevskij: un uomo trasandato e maldestro, che apparentemente ama compiacere gli altri e che tende a sminuire le sue doti d’investigatore e di uomo, ma che in realtà è sagace e ironico, un fine conoscitore della natura umana, capace di apparire e scomparire nei luoghi e nei momenti più impensati con infallibile tempismo.

Come in tutti i telefilm, anche qui, lo spettatore è da subito testimone dell’omicidio: il dottor Fleming è un brillante psichiatra di New York, che non riesce più a tollerare il matrimonio con la moglie, una donna possessiva che ha sposato solo perché ricca. Assieme alla sua giovane amante Susan, un’attrice di soap, architetta il piano perfetto per uccidere la moglie. Ma sulla sua strada troverà il tenente Colombo. Dalla prima scena in poi, il racconto si dipana non sulla traccia del “chi è stato” come accade in Agatha Christie, ma sul filo del “come fare a prenderlo”, con il modesto ma acuto Colombo che lavora ostinatamente per smascherare l’alibi “perfetto” dell’assassino. Un indizio apparentemente insignificante alla volta – lacci delle scarpe, caviale, aria condizionata – il duello tra Colombo e lo psichiatra si dipana fino ad arrivare ad un sorprendente epilogo. Forse pochi sanno che Il Tenente Colombo, uno dei telefilm più noti e seguiti degli anni ’70 e ’80, nasce da un testo teatrale: Prescrizione: assassinio (Prescription: Murder), scritto nel 1962 da William Link e Richard Levinson, e andato in scena per la prima volta al Curran Theatre di San Francisco nello stesso anno.

Il testo ci immerge nell’atmosfera newyorchese dell’inizio degli anni ‘60: una città sporca e malfamata, minacciata dalla criminalità e animata da nuovi immigrati che ne ridisegnano la fisionoma trasformandola nella metropoli multiculturale di oggi. Il sogno americano comincia a vacillare dopo gli anni del boom e, mentre le istanze della postmodernità mettono radici nell’arte e nella letteratura, il cinema e il teatro recepiscono il relativismo etico ed esistenziale che attraversa la società e la cultura definendo un nuovo tipo di attore/personaggio.

 

Samuela Sardo, 47 anni, romana, autentica bambina prodigio che ha iniziato a calcare i primi palcoscenici nei primi anni ‘80, giovanissima. Prima al teatro e poi subito dopo al cinema.

Ricordo che per avvicinare la gente non abituata ad andare a teatro, avevano organizzato degli spettacoli teatrali, ripresi e poi mandati in televisione – racconta –. Era tutto girato in uno studio televisivo. La scenografia era finta in sostanza. C’era, ad esempio, un giardino innevato, con la neve finta, ed io, a soli cinque anni, ricordo che nelle pause ci giocavo. Lo ricordo veramente come un gioco, anche perché, ovviamente, non avevo un granché da fare! A mia madre, che era colei che mi ci portava sul set, veniva chiesto se ci riuscivo a stare sul set per così tante ore … Invece io, ero così folgorata che non mi allontanavo mai dal set, neppure per andare al bar. Non mi schiodavo dalla poltrona per paura che arrivasse il mio momento ed io non c’ero. Si può dire che avevo già un grandissimo senso di responsabilità. Ero molto ligia”.

 

 

 

E poi, come un fulmine a ciel sereno, ecco presentarsi l’occasione che la presenta al grande pubblico: “Un posto al sole”.

Per me è stata un’esperienza professionale e personale importantissima. Sono entrata in nella soap che avevo appena compiuto diciotto anni e mi sono dovuta trasferire a Napoli, per la prima volta lontana dalla mia famiglia e dalla mia casa. Quindi è stata una prova importante per la mia vita. A livello professionale è stata una sfida sin da subito” .

MARA MARTELLOTTA