CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 689

Pittura Spazio Scultura alla Gam

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Nuovo allestimento per le collezioni del Contemporaneo

Il nuovo percorso, allestito nel seminterrato del Museo di via Magenta a Torino, inizia sotto il segno dell’ “essenzialità”, ben accompagnato a un’attenta riflessione, da parte degli artisti esposti in rassegna, su quanto s’è macinato e tramandato nei secoli a partire dalle origini del fare arte. Il primo impatto, allusivo quanto basta per agitare i più vivaci neuroni della mente e gli impulsi più segreti dell’emozione, è con i “grandi ferri” (“Archeologia” del ’78) di Giuseppe Spagnulo che sanno di fucina e altiforni – prodotti fianco a fianco con gli operai – il cui sviluppo pavimentale ricorda per certi versi il Minimalismo americano e che, sul piano scultoreo, sembrano la risposta alle “Macchie” (1969-’70) di Marco Gastini, cui l’artista torinese “aveva affidato la rigorosa bidimensionalità della pittura astratta”. Accanto, la tela bianca su tela grezza (“Senza titolo” del ’66) del genovese Giulio Paolini e quelle di Claudio Olivieri e Claudio Verna affidate in toto all’avventura di cromie quali elementi fondanti e primari del far pittura, alla stregua dei gesti scultorei – e dichiaratamente scultorei – alla base delle opere di Marisa Merz e di Alighiero Boetti, nate “da materiali non tradizionali piegati a volumetrie antiche”. Di origini ancor più remote ci parla poi l’“Impronta del pollice” del ’68 di Giorgio Griffa, dove il gesto ripetitivo si fa scrittura, diventa racconto affine per certi versi alla suggestione di millenarie pitture rupestri. Otto artisti, questi appena menzionati, assemblati in quella che possiamo definire la prima di sette sezioni in cui si articola il nuovo allestimento – curato da Elena Volpato – delle Collezioni del Contemporaneo della GAM, presentato il 15 febbraio scorso e prima edizione di un programma di diversi ordinamenti che si succederanno su base biennale. Ventitré sono gli artisti selezionati in quest’occasione, tutti operanti fra gli anni Sessanta ed Ottanta, tutti nati in Italia o che l’Italia scelsero quale Paese d’elezione. Una trentina le opere esposte, provenienti interamente dalle Collezioni del Museo, cui s’assomma un’interessante selezione di “Libri d’artista” arrivati grazie al contributo della Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea – CRT, cui si deve anche la recente acquisizione delle due opere esposte di Marco Bagnoli, “Vedetta notturna” del 1986 e “Iris” (racconto del cosmo proiettato verso l’infinito) dell’’87. Mentre “Animale terribile” (1981) di Mario Merz e “Gli Attaccapanni (di Napoli)”– scultura di luce e colore – di Luciano Fabro, appartengono a un ristretto gruppo di lavori provenienti dalla Collezione Margherita Stein e affidati alla comune cura della GAM e del Castello di Rivoli. Sottolinea la curatrice: “Alcuni degli artisti qui rappresentati sono legati alle vicende dell’Arte Povera, altri a quelle della Pittura Analitica. Altri ancora, dopo una stagione concettuale, hanno trovato nuove ragioni per tornare a riflettere su linguaggi tradizionali e su antichi codici espressivi”. A tenerli insieme non è solo un fatto di mera cronologia, ma la constatazione che “in tutti loro c’è più personalità e indipendenza di quanto le ragioni di un raggruppamento o le linee di tendenza del mondo dell’arte possano dire”. Indipendenza e singolarità che appaiono ben chiare, proseguendo il percorso, nelle opere di Pier Paolo Calzolari e di Giovanni Anselmo, da sempre esponenti di punta dell’Arte Povera, ma narratori concettualmente lontani e ben diversi, pur partendo da un comune rettangolo di tela bianca. Così come Paolo Icaro poeticamente attratto dalla matrice metafisica del gesso ed Eliseo Mattiacci che, con la sua “Cultura mummificata”, mette in scena libri illeggibili, resi tali dall’antica tecnica scultorea del calco. A proseguire, ci s’imbatte in “Ab Olympo” di Claudio Parmiggiani di effetto trompe l’oeil e di chiaro riferimento divin-mitologico; e ancora, di Hidetoshi Nagasawa (nato in Manciuria, ma vissuto nel Biellese) nella tenda “Era”, che “proprio come la tenda di Piero Della Francesca si apre sull’apparire del verbo incarnato, nella sua ‘Madonna del Prato’”. Sempre piacevole è, a seguito, la sorvegliata delicatezza cromatica di Salvo, mentre la scrittura visiva di Ketty La Rocca muove lungo il profilo mosso di una “Pietà” di Michelangelo, alla cui data di nascita è dedicata anche la sequenza di 99 disegni di Luigi Mainolfi. Sapere artigianale, pittura e scultura si fondano mirabilmente nelle opere di Luigi Ontani, quali caratteri rintracciabili anche nell’ultima sala che vede esposti gli “Affreschi” di Franco Guerzoni e quella suggestiva memoria di “architettura antica” che è la “Casa” del marchigiano Nanni Valentini. Quale il fil rouge che tiene insieme tutte queste opere e i loro autori? Sicuramente “il desiderio dell’arte – ancora la curatrice– un senso di appartenenza, la consapevolezza di tutto ciò che quella parola aveva significato sin lì e tutto ciò che ancora poteva rappresentare in virtù di quel passato”.

Gianni Milani

“Pittura Spazio Scultura”

GAM-Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, via Magenta 31, Torino; tel. 011/4429518 o www.gamtorino.it

Fino al 4 ottobre 2020 – Orari: dal mart. alla dom. 10/18, lun. chiuso

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Foto

– Particolare della prima sala – Photo Paolo Robino
– Alighiero Boetti: “Rotolo di cartone ondulato”, 1966
– Marco Bagnoli: “Iris”, affresco staccato, 1987
– Luciano Fabro: “Gli Attaccapanni (di Napoli)”, bronzo tela di lino acrilico filo in cotone, 1976-’77
– Mario Merz: “Animale terribile”, tubolari in ferro e tecnica mista su tela, 1981
– Claudio Parmiggiani: “Ab Olympo”, tempera su tela e legno, 1997

 

 

 

 

Un colpo di pistola al termine di amori e illusioni

È la piccola distesa del lago – nella scena firmata da Catherine Rankl per il Teatro Nazionale di Genova e in scena al Carignano nel cartellone dello Stabile di Torino – Teatro Nazionale sino a domenica 24 -, con la sua stanca immobilità, perennemente eguale, quotidiana, eterna nelle settimane e nelle stagioni (“è colpa del lago, fa gli incantesimi”, dice un personaggio), a raccogliere le vicende della casa di Irina Arkadina, a divenire il grumo più o meno vitale attorno a cui quasi intrappolare chi vi abita e chi vi soggiorna temporaneamente, ad occupare totalmente nei primi due atti di questo Gabbiano cechoviano il palcoscenico per non abbandonarlo neppure negli altri due, sotto le luci teatrali ben in vista, ancora sullo sfondo e a lato, con i sentieri e le passerelle che lo circondano, con i suoi vasti panorami centrati sul sole o sulla luna. È il luogo, nella simbologia del titolo, dove la spensierata felicità di un gabbiano viene all’improvviso, senza un perché, annientata dall’indifferenza di un cacciatore e dove Nina, una giovane ragazza con il suo sogno sempre cullato di diventare una grande attrice, s’invischia nella passione per Trigorin – il grande scrittore di successo e di quel successo innamorato, vanesio, felice se il pubblico parla bene di lui, magari già pronto alle piccole critiche (“non è Turgeniev”) e infelice a suo modo – che per un attimo la sottrae alla noia della campagna, in un inseguirsi di amore e di fatalità, la spinge sui palcoscenici e verso il successo, le dà un figlio e l’abbandona verso quella consapevole distruzione che la riporta alla noia e al sogno di sempre.

Amore e arte sulle rive di quel lago. Mentre si intrecciano dialoghi vuoti, mentre “tutti filosofeggiano”, mentre si costruiscono azioni e parole, infelicità e speranze, il giovane Konstantin vi prepara il suo spettacolo, che ha offerto all’arte di Nina che ama, uno spettacolo diverso, innovativo per gli occhi della madre Irina, per la sua idea antica e senza uscite di teatro, che lo irride e lo distrugge, nella ricerca del consenso di Trigorin, suo amante. Un girotondo d’amore, con i sospiri e le ribellioni, gli innamoramenti e le sconfitte, i turbamenti angosciosi che invadono tanti dei personaggi di Cechov e il loro mal di vivere, campioni di una vita vissuta per necessità, un’altalena di affetti e delusioni e di rimpianti che si riverserà negli anni successivi nel mondo di Zio Vavia, nell’abbattimento del Giardino, nel grido di evasione delle Tre sorelle. L’amore che appiana ogni cosa, il successo e la comprensione, la felicità trovata o ritrovata in un attimo immediatamente distrutte, la sarabanda delle illusioni che travolge tutto e tutti, sino a che un colpo di pistola finale, solitario mentre di là tutti sono impegnati tra le risate in un gioco a carte, conclude ogni cosa. Dal lago della monotonia al colpo secco di Konstantin: di qui – il primo dei capolavori che lo scrittore russo scrisse per il palcoscenico data 1895 (e il regista, nella traduzione di Danilo Macrì, ha scelto quella versione, prima che la censura zarista non s’affacciasse con i suoi interventi) – inizia tanta strada dell’Uomo del Novecento, prendono forma le grandi tragedie, da quel colpo di pistola ci si avvia verso quella lunga crisi esistenziale che tanta parte avrà nel teatro del secolo successivo, si concretizza il nulla dell’uomo e i suoi fallimenti personali e storici, i fermenti sociali (il maestro che narra dei poveri disperati e del furto del sacco di farina), le attese e le lande sconfinate beckettiane, i rapporti immaturi e rabbiosi tra le differenti generazioni (la scena a due tra Irina e Konstantin, dopo il primo tentativo di suicidio), il disagio giovanile e le sconnessioni familiari, gli amori senza amore che hanno fatto anche tanta letteratura e tanto cinema (Maša e la sua unione con il maestro), le idee indecifrabili e insormontabili tra la vita e l’arte, la generale mancanza di ideali, lo smarrimento che avvolge senza remissione ogni individuo.Getta tutti questi ponti verso la nostra epoca Marco Sciaccaluga, con il grande merito di non renderci un dramma vecchio stile ma con l’accorta signorilità di lavorare su una base di strana leggerezza, fin dove gli è possibile, scavando nei caratteri e lasciandone trasparire anche il sorriso, affrontando il tragico in punta di piedi. Non è una leggerezza che si vuole risparmiare gli angoli bui, è qualcosa di giusto e doveroso al servizio di un testo che non ci si stanca mai di vedere e ascoltare. Un testo che coinvolge una decina di ruoli e tutti i ruoli, anche il più piccolo, esige e merita perfetta immedesimazione. Ci riesce Elisabetta Pozzi, non (ri)facendo la grande diva del passato, non troppo poseuse, e sfruttando appieno, con grande autorevolezza d’attrice, i momenti materni; ci riescono i giovani, Francesco Sferrazza Papa come giovanissimo poeta in primo luogo che esprime appieno, in maniera davvero moderna, il proprio personaggio, con la sua passione e la sua intransigenza, il desiderio spasmodico della ragazza amata coniugato con un innocente candore, e Alice Arcuri che, se all’inizio bamboleggia un po’ in quell’irrefrenabile desiderio di salire in palcoscenico, trova presto gli accenti giusti nella passione per Trigorin, ben lontana da smaccate civetterie, e riempie con grande bravura l’ultimo atto con il ritorno a casa della sua Nina. In Stefano Santospago, come Trigorin, affascina la consapevolezza del fallimento ma forse rimane in gran parte inespressa la malinconia e il lasciarsi vivere di cui è vittima anche quel personaggio. Dalla Maša di Eva Cambiale, uno dei più bei personaggi “minori” di Cechov ci si sarebbe aspettato qualcosa in più, nella disperazione come nell’accettazione della propria vuoto esistenza. Con loro, per una serata di vivissimo successo, Federico Vanni, Roberto Alinglieri, Elsa Bossi, Roberto Serpi (perfetto medico Dorn) e Andrea Nicolini, anche autore delle musiche, felicemente sospese sui poveri personaggi cechoviani.

 

Elio Rabbione

 

Le foto dello spettacolo sono di Giuseppe Maritati

 

I Negramaro e il supergruppo I Hate My Village

Gli appuntamenti musicali della settimana

Lunedì. Al Milk suona il gruppo jazz l’Icefire 4 tet.

Martedì. Al Camarillo Brillo si esibisce il Max Gallo Trio.

Mercoledì. Al Jazz Club è di scena il trio dell’armonicista Big Harp. All’Osteria Rabezzana, Sergio Berardo dei Lou Dalfin suona in coppia con Simone Campa leader de La Paranza del Geco.

Giovedì. Al Circolo della Musica di Rivoli suona il supergruppo I Hate My Village, formato da membri dei Calibro 35 , Verdena e Bud Spencer Blues Explosion. Al Blah Blah si esibiscono i Larsen mentre al Folk Club è di scena il quartetto del sassofonista statunitense Rick Margitza. All’Off Topic si esibisce An Early Bird. Al Jazz Club suona l’Omnisphere Quartet.

Venerdì. Al Magazzino di Gilgamesh si esibisce il bluesman Rollo Markee. Al Concordia di Venaria è di scena Noyz Narcos. Al Blah Blah suona Lu Silver con la String Band mentre all’Hiroshima Mon Amour si esibiscono i Manitoba. Al Jazz Club è di scena il Gospel Book Revisited.

Sabato. Al Pala Alpitour arrivano i Negramaro. Al Jazz Club suona il Gumbos Jazz Trio. Al Teatro Colosseo I Musicanti tributano in chiave teatrale le canzoni di Pino Daniele. Alla Suoneria di Settimo si esibisce l’ex Modena City Ramblers Cisco. Da segnalare fuori zona ad Aosta al Teatro Splendor, la cantante del Mali Fatoumata Diawara.

Domenica. All’Hiroshima Mon Amour è di scena il rapper Ketama 126.

 

Pier Luigi Fuggetta

Il "breviario Jugoslavo" di Predrag Matvejević

I Balcani sono la polveriera d’Europa, ma restano anche il barometro di quello che è l’Europa… Resto convinto che ora che i nazionalisti hanno portato tutti i popoli alla rovina, toccherà a noi salvare il salvabile
 
 Parole nette e chiare, tratte da uno dei colloqui di Predrag Matvejević con il giornalista Tommaso Di Francesco, pubblicati in “Breviario Jugoslavo” da Manifestolibri. Scrittore e accademico, nato a Mostar da padre russo di Odessa e da madre croata, Matvejević amava definirsi jugoslavo. Intellettuale finissimo e dalla scrittura chiara e potente, ha insegnato letteratura francese all’Università di Zagabria, letterature comparate alla Sorbona di Parigi ed è stato ordinario di slavistica all’Università la Sapienza di Roma e al Collège de France. Era una delle menti più lucide e appassionate, europeo dei Balcani fino al midollo. Il destino terribile della sua Jugoslavia, dissoltasi nel sangue dei conflitti dell’ultima “decade malefica” del ‘900. era probabilmente il dolore più grande che avvertiva la sua coscienza. E non fece mai nulla per nasconderlo. In una intervista diceva, tra le altre cose “la Jugoslavia semplicemente non doveva esistere più,non contava più. E perché non contava? Per loro ( Europa e Occidente, ndr) era stato “solo” un paese non allineato, che poteva rappresentare un equilibrio che conveniva agli uni e agli altri. Troppo al di sopra delle parti. Così questo paese tampone, questo mondo-tampone è stato azzerato nella percezione dell’Europa occidentale. Eppure finché esistevano questi paesi non allineati non esisteva nei paesi arabi il fondamentalismo feroce, non esistevano nell’ex Jugoslavia i nazionalismi micidiali. Era un mondo che veniva dalla subalternità al colonialismo, compresa la ex Jugoslavia sottoposta all’Austria come una parte dell’Italia nel corso della sua storia. Erano paesi che avevano un’esperienza storica comune, aspiravano ad un socialismo diverso. Facevano insieme l’equilibrio del mondo. Finito il non allineamento la Jugoslavia non serviva più. Lasciamola ai suoi demoni, devono aver pensato in Europa e negli Usa, ai demoni del peggior nazionalismo. E’ quello che è stato fatto”. Un “J’Accuse” lucido, duro. In “Breviario Jugoslavo” i pensieri di Matvejevic sul destino e i drammi del suo Paese vengono ripercorsi attraverso il lungo rapporto che lo scrittore, autore del fondamentale Breviario mediterraneo, ha avuto con il manifesto, quotidiano del quale Tommaso Di Francesco è condirettore. Dall’incontro personale con Rossana Rossanda, ai suoi contributi diretti sul giornale, alle tante interviste in occasione della pubblicazione dei suoi preziosi testi, tra cuiTra asilo ed esilio (1998), Il Mediterraneo e l’Europa (1999), Pane nostro (2010). Fino ai molti colloqui sui difficili momenti della crisi che si è consumata nei Balcani: dalla beatificazione del cardinale Stepinac alla proclamazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo nel febbraio 2008, all’arresto di Milosevic e poi di Karadzic, all’incredibile assoluzione del criminale croato Ante Gotovina, alla piena del Danubio dell’aprile 2006. Un libro piccolo nel formato ma grande nei contenuti e nelle riflessioni che propone. Si legge d’un fiato ma poi obbliga alla rilettura, al ripensamento di tante e tali vicende che – come molta parte della storia balcanica – parlano non tanto a quei lembi di terra ma all’intera Europa di oggi. A patto che non si rimanga sordi ai moniti e ciechi di fronte alla realtà. Quando conobbi Matvejević parlammo a lungo di Mostar, dell’Erzegovina, della storia della città del ponte che unisce le due rive della Neretva. E di quanto era cambiata, delle speranze che non erano morte, delle possibilità che rimanevano per un riscatto della convivenza sul delirio delle divisioni imposte da chi disprezzava la vita badando solo al potere. Era in una certa misura ottimista, un ottimismo della volontà di un uomo che vedeva nell’Europa una madre che avrebbe ridato ai suoi figli rissosi la giusta collocazione all’interno della grande famiglia del continente. L’Europa. Come qualcuno ha scritto con acume “ non era solo il futuro, ma la costruzione politica che avrebbe risolto i problemi del passato. E lui insisteva sul fatto che il Mediterraneo ed i suoi simboli, come appunto il pane, potevano essere il punto di partenza per una nuova cultura dell’uomo veramente europeo”. E immaginava un’ Europa ben diversa da quella che erige muri, srotola fili spinati, rifiuta l’altro senza pensare, egoisticamente, che in fondo è solo l’immagine di se stessa con più disperazione, fame e paura. 

Marco Travaglini

Il “breviario Jugoslavo” di Predrag Matvejević

I Balcani sono la polveriera d’Europa, ma restano anche il barometro di quello che è l’Europa… Resto convinto che ora che i nazionalisti hanno portato tutti i popoli alla rovina, toccherà a noi salvare il salvabile

 

 Parole nette e chiare, tratte da uno dei colloqui di Predrag Matvejević con il giornalista Tommaso Di Francesco, pubblicati in “Breviario Jugoslavo” da Manifestolibri. Scrittore e accademico, nato a Mostar da padre russo di Odessa e da madre croata, Matvejević amava definirsi jugoslavo. Intellettuale finissimo e dalla scrittura chiara e potente, ha insegnato letteratura francese all’Università di Zagabria, letterature comparate alla Sorbona di Parigi ed è stato ordinario di slavistica all’Università la Sapienza di Roma e al Collège de France. Era una delle menti più lucide e appassionate, europeo dei Balcani fino al midollo. Il destino terribile della sua Jugoslavia, dissoltasi nel sangue dei conflitti dell’ultima “decade malefica” del ‘900. era probabilmente il dolore più grande che avvertiva la sua coscienza. E non fece mai nulla per nasconderlo. In una intervista diceva, tra le altre cose “la Jugoslavia semplicemente non doveva esistere più,non contava più. E perché non contava? Per loro ( Europa e Occidente, ndr) era stato “solo” un paese non allineato, che poteva rappresentare un equilibrio che conveniva agli uni e agli altri. Troppo al di sopra delle parti. Così questo paese tampone, questo mondo-tampone è stato azzerato nella percezione dell’Europa occidentale. Eppure finché esistevano questi paesi non allineati non esisteva nei paesi arabi il fondamentalismo feroce, non esistevano nell’ex Jugoslavia i nazionalismi micidiali. Era un mondo che veniva dalla subalternità al colonialismo, compresa la ex Jugoslavia sottoposta all’Austria come una parte dell’Italia nel corso della sua storia. Erano paesi che avevano un’esperienza storica comune, aspiravano ad un socialismo diverso. Facevano insieme l’equilibrio del mondo. Finito il non allineamento la Jugoslavia non serviva più. Lasciamola ai suoi demoni, devono aver pensato in Europa e negli Usa, ai demoni del peggior nazionalismo. E’ quello che è stato fatto”. Un “J’Accuse” lucido, duro. In “Breviario Jugoslavo” i pensieri di Matvejevic sul destino e i drammi del suo Paese vengono ripercorsi attraverso il lungo rapporto che lo scrittore, autore del fondamentale Breviario mediterraneo, ha avuto con il manifesto, quotidiano del quale Tommaso Di Francesco è condirettore. Dall’incontro personale con Rossana Rossanda, ai suoi contributi diretti sul giornale, alle tante interviste in occasione della pubblicazione dei suoi preziosi testi, tra cuiTra asilo ed esilio (1998), Il Mediterraneo e l’Europa (1999), Pane nostro (2010). Fino ai molti colloqui sui difficili momenti della crisi che si è consumata nei Balcani: dalla beatificazione del cardinale Stepinac alla proclamazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo nel febbraio 2008, all’arresto di Milosevic e poi di Karadzic, all’incredibile assoluzione del criminale croato Ante Gotovina, alla piena del Danubio dell’aprile 2006. Un libro piccolo nel formato ma grande nei contenuti e nelle riflessioni che propone. Si legge d’un fiato ma poi obbliga alla rilettura, al ripensamento di tante e tali vicende che – come molta parte della storia balcanica – parlano non tanto a quei lembi di terra ma all’intera Europa di oggi. A patto che non si rimanga sordi ai moniti e ciechi di fronte alla realtà. Quando conobbi Matvejević parlammo a lungo di Mostar, dell’Erzegovina, della storia della città del ponte che unisce le due rive della Neretva. E di quanto era cambiata, delle speranze che non erano morte, delle possibilità che rimanevano per un riscatto della convivenza sul delirio delle divisioni imposte da chi disprezzava la vita badando solo al potere. Era in una certa misura ottimista, un ottimismo della volontà di un uomo che vedeva nell’Europa una madre che avrebbe ridato ai suoi figli rissosi la giusta collocazione all’interno della grande famiglia del continente. L’Europa. Come qualcuno ha scritto con acume “ non era solo il futuro, ma la costruzione politica che avrebbe risolto i problemi del passato. E lui insisteva sul fatto che il Mediterraneo ed i suoi simboli, come appunto il pane, potevano essere il punto di partenza per una nuova cultura dell’uomo veramente europeo”. E immaginava un’ Europa ben diversa da quella che erige muri, srotola fili spinati, rifiuta l’altro senza pensare, egoisticamente, che in fondo è solo l’immagine di se stessa con più disperazione, fame e paura. 

Marco Travaglini

Un viaggio al termine delle note, non della notte

“Viaggio al termine delle note” vuole essere non soltanto un’opera teatrale, ma un’indagine artistica di carattere trasversale sul tema dell’espressionismo.

Nell’ambito del festival dedicato a questo tema, giunto ormai alla sua quarta edizione, la piece, con sottotitolo “Lo sguardo rosso dell’espressionismo”, si terrà domenica 24 febbraio prossimo alle 21 al teatro Vittoria di Torino. Lo spettacolo, prodotto da Inpoetica, vuole sottolineare l’eclettismo del movimento, facendo rivivere sul palco forme artistiche diverse, capaci di muoversi in parallelo per rendere omaggio ad Arnold Schonberg, compositore musicale di grande talento e figura cardine dell’espressionismo.A rappresentare sulla scena tutte le arti sarà la compresenza di una pluralità di talenti artistici che proporranno, in un lavoro corale, non solo musica, ma anche letteratura, poesia, architettura e pittura. La narrazione di questo affascinante viaggio sarà affidata alle parole di Cristiano Godano, leader dei Marlene Kuntz, e di Tiziano Scarpa, poliedrico scrittore, già vincitore del Premio Strega con il romanzo edito nel 2008 da Einaudi, dal titolo “Stabat Mater”. Le sonorizzazioni saranno affidate a Giorgio Li Calzi, compositore, musicista e direttore del Torino Jazz Festival, capace di dare forma all’idea di contaminazione, mescolando la musica jazz a quella elettronica, e giustapponendole nella “Veklarte Nacht”, il più celebre poema sinfonico di Schonberg. Ad eseguire questa composizione musicale alcuni dei più celebri interpreti d’archi, Edoardo de Angelis ed Umberto Fantini ai violini, Ula Ulijona e Mauro Rignini alle viole, Manuel Zigante e Claudia Ravetto ai violoncelli, Michele Lipani al contrabbasso. Direttore d’orchestra la brava Alessandra Morra, ideatrice e regista dello spettacolo, nonché direttrice artistica di Inpoetica, Festival Trasversale delle Arti.Veklarte Nacht è stata composta da Schonberg a soli 25 anni, ispirata ad un testo poetico di Richard Dehmel, in cui una donna, camminando al fianco del suo uomo in una notte scura, gli rivela che porta in grembo il figlio di un estraneo, conosciuto prima dell’inizio del loro idillio amoroso. L’opera veniva ultimata il primo dicembre 1899 e la prima esecuzione risale al 18 marzo 1902 a Vienna, nella Sala piccola del Musikverein, protagonisti il Quartetto Rose con l’aggiunta di Franz Jelinek e Franz Schmidt. Affermava Schonberg, nella rivista Die Musik del 1909, che “L’opera d’arte è un labirinto, in ogni punto del quale l’esperto sa trovare il filo rosso che lo guidi. Quanto più è fitto e complicato l’intrico dei viottoli, tanto più raggiunge la meta, sorvolando ogni via”.Domenica 24 febbraio ore 21. Teatro Vittoria. Ingresso libero fino ad esaurimento di posti.

 Mara Martellotta

Meglio soli che male accompagnati

Sono sempre numerosi i sostenitori dell’idea che avere un manager sia la panacea di tutti i problemi di una qualsiasi band di teenagers. Peccato che ci sia un piccolo particolare…. Se il manager è inadeguato o, peggio ancora, un “poco di buono” l’effetto boomerang è assicurato e la band farebbe bene a liberarsene quanto prima

Questo fu esattamente il caso della band di Philadelphia The Iron Gate, sorta nell’estate del 1965 sulle ceneri dei “The Five Shades”. I campioni della British Invasion erano la stella polare e il repertorio di Rolling Stones, Animals, Yardbirds accomunava i gusti di Thomas Cullen (V), Mike Campbell (chit), Lou Wolfenson (chit, b), Sal Gambino (org), Bill Moser (batt) [subentreranno in seguito Lou Mendincino (b) e George Muller (V, chit)]; era forte anche l’influsso di bands americane quali i Blues Magoos, Paul Revere & The Raiders, The Outsiders. Il 1966 (anno magico per il movimento del garage rock) fu intenso anche per The Iron Gate, che sapevano muoversi bene in tutta l’area tra Philadelphia, Jersey meridionale e Delaware settentrionale, soprattutto nel giro di teen [high school] dances e clubs (tra cui l’”Hullabaloo” di Bordentown, New Jersey). Le performances live della band erano molto apprezzate, tanto che The Iron Gate ben figurarono in due “Police Athletic League Battle of the Bands” locali ed avevano una buona sponda sulla stazione radio WIBG di Ocean City (New Yersey) col disc-jockey Frank X. Feller. La situazione paradossalmente si complicò quando la band si imbatté in un manager poco affidabile che gestì in modo scriteriato i gigs nell’area di Philadelphia; le esibizioni finivano disgraziatamente in locali piuttosto malfamati e in venues quantomeno insolite, tra cui addirittura il parcheggio di un concessionario di automobili di sabato mattina sotto il sole battente; per fortuna la parentesi fu breve, il manager venne scaricato rapidamente e Cullen e compagnia optarono per un più saggio self-management sotto l’ala del padre del chitarrista Campbell, che finanziò anche la prima (ed unica) sessione di registrazione in studio. Ebbe luogo nell’autunno 1966 presso gli Impact Studios di Tony Schmidt a Philadelphia e vide l’incisione di quattro brani, tra cui un originale e una cover dei The Who che andarono a costituire l’unico 45 giri dei The Iron Gate, uscito ad inizio 1967: “Feelin’ Bad” [Cullen – Gambino] (1001; side B: “My Generation” [Townshend]), con etichetta autoprodotta Marbell. Ne derivarono 500 copie, che dovevano essere vendute in occasione dei futuri concerti; l’incasso tuttavia fu molto inferiore rispetto agli introiti previsti. A ruota seguirono due esibizioni in TV, entrambe nell’ambito di dance shows firmati Ed Hurst: nel febbraio 1967 dall’Aquarama di Philadelphia e nel luglio successivo in collegamento con un importante show con ottimo audience trasmesso dallo “Steel Pier” di Atlantic City (New Jersey). La spinta propulsiva del secondo show, nonostante il vasto pubblico, si rivelò inferiore alle attese e lasciò una eco piuttosto limitata; fu un duro colpo, tanto che già nell’autunno 1967 l’entusiasmo della band era ai minimi termini, presagio di imminenti defezioni. Infatti entro dicembre uscirono i carismatici Cullen e Wolfenson; subentrarono Mendincino e Muller ma la situazione ristagnò fino a maggio-giugno 1968, allorquando quasi tutti i membri terminarono gli studi in high school e, ciascuno per strade diverse, portarono allo scioglimento della band. Si chiudeva così The Iron Gate… ed il cancello non si sarebbe più riaperto.

 

Gian Marchisio

Tesori nascosti del rock americano, 1965-1967

Il musicologo Giancarlo Marchisio terrà un incontro-conferenza 

L’incontro si accentrerà sulla realtà musicale americana che venne a formarsi con l’impetuosa ondata della British Invasion e sul fenomeno delle bands “meteora” nell’ambito del genere garage rock americano tra il 1965 ed il 1967. Si esporrà il contesto sociale americano di quei tempi, gli aspetti socio-psicologici dei concerti live, con riferimenti alle venues che furono terreno fertile per la nascita di miriadi di bands, in particolar modo nei generi garage/proto-punk. Si parlerà della realtà delle “Battles of the bands”, della funzione dei managers e degli intermediarii delle case discografiche di quei tempi e dei vari sottogeneri musicali rock in relazione alle aree geografiche (atlantic, pacific, middle-west etc.).

 

Il Piffetti ritrovato e altri capolavori

Fino al 19 dicembre 2019

Illustre “convitato di pietra” (presente solo in fotografia) nella mostra “Genio e Maestria”, realizzata la scorsa primavera alla Reggia della Venaria e dedicata agli ebanisti operanti alla corte sabauda fra Sette e Ottocento, oggi recita il ruolo di prim’attrice nella nuova, piccola ma particolarmente preziosa rassegna dedicata a Pietro Piffetti (Torino, 1701 – Torino, 1777), fra i più abili e prolifici “maestri del legno” del Settecento europeo, allestita sempre alla Real Venaria. Parliamo della straordinaria “Scrivania con scansia” realizzata nel 1768 dal “primo ebanista del Re”, per la residenza subalpina di Benedetto Maurizio di Savoia, duca del Chiablese e figlio ultimogenito del re di Sardegna Carlo Emanuele III. Di incredibile valore (anche sotto l’aspetto economico) e di esuberante prodigiosa magnificenza decorativa, del manufatto, dopo vari nebulosi passaggi di mano e il superamento dei patrii confini, s’erano perse le tracce da circa settant’anni, da quando nel secondo dopoguerra fu venduto dai duchi di Genova ad una collezione privata europea. Fino al ritrovamento e al recupero nel luglio scorso (come bene di proprietà demaniale, in quanto originariamente incastonato in una nicchia appositamente creata in Palazzo Chiablese) dai Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Torino. Benemerita Arma e benemerito il lavoro di recupero compiuto in quattro mesi dal Centro Conservazione e Restauro della Venaria; lavoro che ha consentito all’ex “convitato di pietra” di occupare oggi il podio più alto all’interno della mostra “Il Piffetti ritrovato e altri capolavori” ospitata, fino al 19 dicembre del 2019, nelle “Sale dei Paggi” della Reggia venariese e promossa dal Consorzio delle Residenze Reali Sabaude, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Torino, il Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale” e Intesa San Paolo. “Un ulteriore tassello conoscitivo e di indagine – dicono gli organizzatori– rispetto all’opera del grande ebanista torinese”; per il quale indubbiamente il 2018 è stata un’annata particolarmente e meritatamente generosa in quanto a “pubbliche apparizioni”, con le varie mostre organizzate prima alla Fondazione Accorsi-Ometto di via Po e, in seguito, a Palazzo Madama e in Palazzo Reale, con la riapertura il 14 dicembre scorso del “Gabinetto del Secreto Maneggio degli Affari di Stato”, passando attraverso “Genio e Maestria”, di cui s’è detto, e a quella odierna, entrambe allestite alla Reggia della Venaria. Mostra contenuta, quest’ultima, ma di grandi mirabilia, che, accanto alla star assoluta della “scrivania ritrovata”, presenta altre quattro opere del Piffetti datate fra il 1740 e il 1750. Cinque opere in tutto, provenienti da Torino (Collezione Intesa San Paolo, Musei Reali – Palazzo Reale, Chiesa di San Filippo Neri e Palazzo Chiablese) e da Venezia (Ca’ Rezzonico), tutte passate sotto le abili e premurose cure del Centro Conservazione e Restauro della Venaria. Ecco allora il “Tavolo da muro” (secondo quarto del XVIII secolo) presente nell’Ufficio di Presidenza di Intesa San Paolo in piazza San Carlo a Torino; uno stupendo sinuoso “Cofanetto” (1740-’50 ca.) facente parte delle ricche collezioni di Palazzo Reale; e poi la superba “Scrivania” del 1741 proveniente dal “Museo del Settecento” di Ca’ Rezzonico a Venezia, accanto al simbolico “Paliotto d’altare” (1749), dalle linee azzardate e dall’abbondanza di pregiati inserti madreperlacei, commissionato all’artista dal prevosto Giovanni Battista Prever per la Chiesa torinese di San Filippo Neri. Ma l’attenzione va soprattutto e ovviamente (anche per l’aura di mistero che l’avvolge e ce la rende cara per quel “ritorno a casa” di cui forse s’era cessato di sperare) alla “Scrivania” del duca di Chiablese, eseguita, quando Piffetti aveva 66 anni, a doppio corpo, con scansie e un’anta a specchio e con l’impiego di legni rari e stupefacenti decorazioni in avorio e madreperla, con applicazioni in bronzo dorato. Capolavoro assoluto. Che, forse, al termine della mostra potrebbe tornare al suo posto originario (molti, dalle parti di Palazzo Chiablese, se lo auspicano) incastonato in quella nicchia nella sala ducale del Palazzo affacciata a piazzetta Reale, ancora oggi esistente. Ma vuota. In trepida attesa del “Piffetti ritrovato”.

Gianni Milani

“Il Piffetti ritrovato e altri capolavori”

Sale dei Paggi – Reggia di Venaria, piazza della Repubblica 4, Venaria Reale (Torino); tel. 011/4992333

Fino al 19 dicembre 2019 – Orari: mart.-ven. 9/17; sab.-dom. e festivi 9/18,30; lunedì chiuso

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Nelle foto

– “Scrivania con scansia”, 1768, Soprintendenza Archeologia Belle Arti per la Città Metropolitana di Torino (Palazzo Chiablese)
– “Tavolo da muro”, secondo quarto XVIII secolo, Torino, Collezione Intesa San Paolo
– “Cofanetto”, 1740-’50, Torino, Palazzo Reale
– “Paliotto d’altare”, 1749, Torino, Chiesa di San Filippo Neri

 

L’apologo di Kafka, la scimmia/uomo e il desiderio di libertà

Non soltanto un intrigante approfondimento scenico, circola soprattutto sul minuscolo palcoscenico del Teatro Marcidofilm! un’aria grottesca, quella componente critica virata allo sberleffo che ha caratterizzato tanta parte del pensiero novecentesco. L’occasione è la ripresa di Una relazione per l’accademia (il racconto, datato 1917, comparve due anni dopo nella raccolta intitolata Un medico di campagna), giovedì 14 e venerdì 15 alle ore 20,45, dove il testo di Kafka, intrigato dagli (e negli) umori di Marco Isidori – da più di trent’anni, familiarmente, l’Isi – e incorniciato dal trucco esasperato, dal lanoso costume e dal “Sipario delle Metamorfosi” di Daniela Dal Cin, trova nella trasposizione sulla scena la sonorità del racconto e in primo luogo la fisicità animalesca che un interprete come Paolo Oricco ha saputo imprimergli.

Una autentica quanto significativa prova d’attore, fatta di spasimi e di fatica, di visibilissimo sudore, di immedesimazione tangibile, di fatica che converge passo dopo passo in un “altro” stato umano, un tour de force al singolare, monolitico, espressivamente convincente, come di rado si può assistere a teatro. Non una bravura fine a se stessa, non un’eccellenza mostrata a tutti i costi nel sogno dell’applauso finale, non un percorso all’inseguimento spasmodico dell’effetto, non soltanto questo ci verrebbe da correggere, la prova di Oricco è il lento calarsi di un attore nel gesto e nella parola, nel volto bistrato carico di mobilità, nella costruzione al ralenti di una parabola, nella sensibilità di questa Scimmia umana (o di quest’Uomo scimmiesco) cavata su dal profondo dell’animo. Perfettamente immerso in una regia che ha voluto “rappresentare la superiorità biologica delle forze istintuali che si spappola in caduta libera a contatto con le esigenze preponderanti delle leggi della galoppante civiltà”. Rivolto ad un uditorio che, al di là della pagina scritta, qui realisticamente si concretizza, il personaggio racconta della sua vita precedente in veste di scimmia, della giungla africana, della spedizione che l’ha catturato, del viaggio in Europa, di una libertà ormai negata. Racconta dell’abitudine appresa poco a poco, e forse del piacere, a studiare le abitudini umane, quell’equipaggio nelle sue differenti azioni, la sua facilità ad imitarli, la vocazione a riconquistare la libertà di un tempo, lo sbarco, una successiva scelta di sopravvivenza (esistenziale), se finire in uno zoo o se darsi alle luci del musichall. L’umanità acquisita lo porterà con sempre maggior sicurezza verso la seconda scelta. Fase animalesca e una nuova veste umana, un mutamento che la statura alta della scena rende estremamente vitale e significativo, il passaggio da una condizione all’altra (che è seducente, che è estremamente appetibile) che è la resurrezione e il dramma del “personaggio/scimmia”, il dramma è la ricerca di una condizione che il personaggio da sempre coltiva nel proprio intimo, “già possiede in toto – sintetizza Isidori – ogni carattere della nostra specificità umana, solo le manca quella suprema astuzia con la quale ci si può specchiare nella moltitudine della folla civilizzata”. E il nuovo stato, l’abbandono del mostro, la riuscita a superare, la libertà, nuova, conquistata, affascinante? Porta con sé il peso quasi insopportabile del divenire. Alla messa in scena dell’apologo kafkiano, si unisce nella serata, in stretta continuità, tappa dell’itinerario nel mondo della Fiaba classica che s’identifica come “Favoleggiando con i Marcido, La bella addormentata, obbligatoriamente “da” Perrault, condotta dalla voce narrante di Maria Luisa Abate ed in puro “stile Marcido”. Con l’attrice nelle vesti di strega Malefica e di re Uberto ancora Paolo Oricco come principe Filippo e fata Fauna, Francesca Rolli nel ruolo del titolo, Valentina Battistone (fata Serena), Vittorio Berger (fata Flora) e Gabriele Sciancalepore (re Stefano). Per informazioni: Teatro Marcidofilm!, corso Brescia 4 bis, tel 011/8193522, prenotazioni ai numeri 339 3926887 – 328 7023604; info.marcido@gmail.com; www.marcido.it

 

Elio Rabbione

 

Nelle immagini, Paolo Oricco in “Una relazione per l’accademia” di Franz Kafka