CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 676

“I Longoni” in mostra a Vignone

Prosegue alla Casa degli archi “Martino Poletti” di Bureglio di Vignone (Vb) la mostra di pittura “I Longoni” , con le opere di Alberto Longoni e Lidia Josepyszyn. La mostra sarà visitabile fino al 20 agosto, tutti i giorni nel pomeriggio, dalle 16 alle 19,  e nei giorni festivi anche al mattino, dalle 10 alle 12. L’evento artistico è patrocinato dal comune di Vignone e dall’associazione “la Degagna”. Quella dei Longoni è una famiglia di artisti, con il capostipite Alberto, la moglie Lidia e la figlia Elisa. Nato a Milano nel 1921 e morto a Miazzina, sulle colline del Verbano, nel 1991, Alberto Longoni è stato un artista completo. Scrittore e illustratore di libri (tra i quali “Il gioco delle perle di vetro” di Hermann Hesse,  una delle opere che contribuirono ad attribuire all’autore di “Siddharta” il Nobel per la letteratura ) eseguì incisioni, graffiti, dipinti, illustrò riviste italiane e straniere, copertine di dischi, ceramiche, sculture e collaborò all’architettura di giardini. Durante la guerra, militare a Creta, fu fatto prigioniero dei tedeschi e internato in Germania nel campo di concentramento di Buchenwald, a pochi chilometri da Weimar, la città di Goethe e Friedrich Schiller. L’orrore e la violenza nazista a due passi dal centro spirituale, intellettuale e artistico della Germania e d’Europa. Lì, nel lager sulla collina dell’Ettersberg, incontrò una ragazza polacca, Lidia Josepyszyn, che diventò poi sua moglie. Una esperienza durissima, tremenda quella del lager in Turingia – dove morì Mafalda di Savoia – che si può leggere  proprio nella prima sala del Museo al Deportato di Carpi, dove  si trova un  suo graffito grande come tutta la parete che raffigura centinaia di deportati così come essi diventavano nel campo: magri, ridotti a pelle e ossa,  con gli occhi vuoti e privi di espressione, senza bocca. Nel 2006 è stata pubblicata,a cura del comune di Verbania, in occasione di una mostra sulle opere di Alberto Longoni a Villa Giulia, la favola “Il cavaliere che non sapeva di essere cavaliere”, scritta dalla figlia Elisa e impreziosita dalle illustrazioni in bianco e nero del padre Alberto.
Marco Travaglini 

 

La rivista Buduàr riscopre Enzo Tortora scrittore

La rivista di umorismo e satira “Buduàr”, mensile online che si sfoglia come un giornale, riscopre e ripropone Enzo Tortora nella sua veste di scrittore pubblicando a puntate il suo libro “Le forche caudine”, premiato con la Palma D’Oro per la Letteratura Umoristica al XX Salone Internazionale dell’Umorismo di Bordighera del 1967. Quello di Tortora è un libro ormai reperibile soltanto su qualche bancarella, ma che viene ripresentato, cinquant’anni dopo la sua uscita, in tutta la sua freschezza e inaspettata attualità dai curatori della rivista, che hanno ottenuto la gentile ed entusiastica autorizzazione della figlia Silvia Tortora.

Pochi ricordano che Enzo Tortora, oltre ad essere giornalista, autore, conduttore televisivo e radiofonico di programmi di successo, è stato anche un fine scrittore umorista. Il suo libro “Le forche caudine”, edito da Bietti, è infatti una raccolta di racconti e appunti sul mondo dello spettacolo di quegli anni, racconti realistici, ironici, spietati, cinici: una panoramica di situazioni e personaggi, visti attraverso l’occhio critico del giornalista e dell’umorista, che conosceva bene quell’ambiente sul palcoscenico e dietro le quinte.

La rivista “Buduàr, almanacco dell’arte leggera” (www.buduar.it) è una rivista online che pubblica vignette, strisce, racconti, articoli d’informazione e storici sull’umorismo, giunta al suo sesto anno di vita e al n.45 e premiata nel 2014 a Forte dei Marmi con il “Premio Zac” come migliore rivista umoristica dell’anno.

Anche nell’ambito del noto premio letterario “Racconti nella Rete” della rassegna “LuccAutori”, viene assegnato un Premio Buduàr per il miglior racconto umoristico.

Il mensile online “Buduàr” dal fascino vintage e le cui 120 pagine si sfogliano come un normale giornale, è curato da Dino Aloi, Alessandro Prevosto e Marco De Angelis e vanta la collaborazione di molte delle migliori firme italiane e straniere, tra cui i disegnatori Giuliano, Staino, Bozzetto, Contemori, Silver, Lunari, Carnevali, Magnasciutti, Natali, Nardi, Trojano, Squillante, Ballouhey, Khiari, e gli scrittori Lico, Belluardo, Rinaldi, Mellana, Suarez.

Il nome di Enzo Tortora, autore di “Le forche caudine”, si identifica con programmi come Il festival di Sanremo, la Domenica Sportiva, Bada come parli, Il Gambero, Portobello e innumerevoli altri legati alla sua poliedrica attività, prima di attore e poi di giornalista e conduttore di successo. Ma purtroppo il suo ricordo è soprattutto segnato dal clamoroso caso di malagiustizia di cui fu vittima, con un errore giudiziario che ne segnò profondamente la vita, gli fece subire sette mesi di reclusione, una dolorosa e contraddittoria campagna mediatica e a una dura condanna seguita dalla sua completa e definitiva assoluzione nel 1987, dopo complesse indagini che ne confermarono l’assoluta innocenza. In questi anni Tortora s’impegnò nella difesa dei diritti umani e civili come eurodeputato e poi presidente del Partito Radicale e riuscì anche a tornare allo spettacolo, conducendo ancora Portobello e Giallo, fino al 1988, anno della sua scomparsa.

Questo libro ce lo fa riscoprire nella sua veste più autentica, quella di un obiettivo professionista dell’informazione, che guardava e giudicava con divertita ironia e critica pungente i personaggi e le situazioni del mondo dello spettacolo degli sfavillanti anni ’60.

 

Film Commission, campagna social sulle produzioni made in Torino

Da oggi Film Commission Torino Piemonte lancia #FCTPClassic, una campagna social dedicata alle produzioni realizzate a Torino e in Piemonte,  dando lavoro a gente del posto e visibilità, in Italia e all’estero, a palazzi storici, luoghi e paesaggi. Così ogni mese, sulla pagina Facebook della Fondazione, sarà  raccontato un film, una serie tv, un cortometraggio, un cartone animato, grazie a  video, fotografie, interviste realizzati per l’occasione o ripescati dagli archivi di Fctp. Il progetto dura  un anno e nasce per raccontare il lavoro di Fctp attraverso le produzioni sostenute e per coinvolgere cineasti e grande pubblico in un percorso di narrazione collettiva di cinema.

#PARCO DORA LIVE che successo la prima edizione!

Due mesi di grande cabaret e musica di qualità e altrettanti sold-out per gli artisti in calendario

 

Gran finale col botto – in termini di successo di critica e grande, costante affluenza di pubblico – per la prima edizione 2017 della rassegna nazionale di spettacolo ‘#Parco Dora Live’ a Torino.

Promossa dal Centro Commerciale ‘Parco Dora’ nell’omonima piazzetta antistante, la kermesse ha visto sfilare per due mesi – giugno luglio – ogni venerdì e domenica sera nomi di primo piano del cabaret e della musica quali, tra gli altri, Enzo Iacchetti, Gabriele Cirilli, Marco & Mauro, Marco Berry, Paolo Migone, i Panpers, Max Cavallari dei Fichi D’India, Marco ‘Baz’ Bazzoni e cantanti di primo piano quali Mario Venuti, Francesco Baccini, Silvia Mezzanotte, Alexia, Alan Sorrenti, Marco Ferradini, Donatella Rettore e Paolo Vallesi. Il tutto con la conduzione di Gianpiero Perone, noto attore comico torinese, e della coppia Carlotta Iossetti (celebre volto della ‘Melevisione’ di Raitre) e Gino Latino, dj e speaker di Radio ‘GRP’, prima radio del Piemonte, media partner dell’intero evento.

Vivamente soddisfatto Emanuele Manca, Manager di ‘Parco Dora’: “La rassegna ‘#Parco Dora Live’ è stata un’occasione per la Città di Torino e per i nostri clienti di poter vivere un ricco calendario di spettacoli gratuiti di musica italiana di alto livello: per offrire un’occasione culturale importante anche a chi, vista la crisi in atto, non può permettersi di assistere a un concerto a pagamento. Un risultato importante, conseguito con l’ottimo gioco di squadra del Comune di Torino e delle Forze dell’Ordine – Polizia di Stato, Carabinieri e Polizia Municipale -, che ringrazio per il prezioso supporto e l’altrettanto importante servizio di presidio di sicurezza svolto con cura, garbo e professionalità costanti”.  E aggiunge: “Abbiamo puntato, a livello artistico, su nomi di primo piano degli anni ’80, ’90 e 2000, inaugurando una tendenza nuova nel capoluogo piemontese, solitamente avvezzo a ospitare invece per lo più Festival d’avanguardia e di musica alternativa. Fare numeri su nomi attuali è abbastanza scontato: la nostra scommessa, felicemente vinta grazie alla notevole partecipazione della cittadinanza, è di aver puntato su una tipologia di cast di voci che hanno fatto e scritto pagine memorabili e altrettanto storiche della nostra canzone”. Per poi concludere: “Il fatto che teatro di questo evento sia stato il ‘Parco Dora’, area di riconversione industriale e abitativa perfettamente riuscita a Torino, è un altro punto a favore della piena rinascita del quartiere storico e popolare che ci ospita e a cui, come Centro Commerciale, siamo fieri di appartenere da quindici anni a questa parte. Appuntamento, dunque, al 2018 con tante altre novità”, rilancia Emanuele Manca.

 

Torna il grande jazz all’Imbarco Perosino

Luigi Tessarollo Chitarra, Mario Tavella Contrabbasso, Riccardo Ruggieri Batteria

 

 

 

 

 

 

Ritorna il grande jazz al Ristorante Imbarco Perosino con una serata di gran classe in compagnia dei tre artisti che diletteranno il pubblico e gli ospiti della cena del pregiato Ristorante in riva al Po con il loro accattivante e coinvolgente repertorio di brani scelti con cura tra i più noti compositori della letteratura jazzistica

 

Il signor Brusa e il Duomo di Milano

A monte della frazione di Candoglia, nel comune di Mergozzo, sulla sinistra del fiume Toce, proprio all’imbocco della Val d’Ossola, si trovano le cave dalle quali proviene il marmo del Duomo di Milano. L’idea di usare quella pietra bianca, screziata di rosa, al posto del mattone per la costruzione della cattedrale fu di Gian Galeazzo Visconti che, per rifornirsi della materia prima, fondò la “Veneranda Fabbrica del Duomo”. Il Signore di Milano, affascinato dalla bellezza cristallina del marmo, cedette in uso alla Fabbrica le cave di Candoglia, concedendo altresì il trasporto gratuito dei marmi fino al capoluogo lombardo,  attraverso le strade d’acqua. Era il 24 ottobre 1387. E, da allora, per secoli, da quelle cave si è estratto il marmo che è servito a costruire il monumento simbolo del capoluogo lombardo, dedicato a Santa Maria Nascente, sormontato dalla madonnina che venne innalzata sulla guglia maggiore del Duomo negli ultimi giorni di dicembre del 1774. Si trattava di un lavoro faticoso, ritmato da picconi, mazze, punte, cunei e palanchini. Così, partendo dall’impressionante caverna della cava Madre, la montagna è stata risalita, scavandola nel ventre, tagliando i blocchi di pietra con il filo in metallo. Il trasporto via acqua del materiale avveniva dal Toce al Lago Maggiore, lungo il Ticino e il Naviglio Grande per finire nel cuore della  città fino alla darsena di S. Eustorgio, a Porta Ticinese. Così, grazie ad un ingegnoso sistema di chiuse, realizzato dalla “Veneranda Fabbrica”, il prezioso carico arrivava fino a poche centinaia di metri dal cantiere della Cattedrale. I barcaioli, per entrare in città senza pagare il dazio, utilizzavano una parola d’ordine – “Auf” – che in realtà era l’abbreviazione di Ad usum fabricae, cioè ad uso della Fabbrica, con la quale potevano passare senza versare il tributo imposto. In Lombardia, e non solo, è rimasta traccia di quell’usanza nell’espressione “A ufo” , intesa come “gratuitamente”. Chissà, poi, perché, a differenza del “gratis”, si è sempre più connotata con un profilo negativo, ma questa è un’altra storia… Il Cavalier Agenore Brusa, grossista di legname, proveniva da una delle famiglie che avevano, per intere generazioni, fornito il materiale alla Veneranda, un fatto che lo rendeva oltremodo orgoglioso. “Bei tempi quelli, caro Giovanni. Mio nonno, prima, e mio padre poi hanno lavorato per la Fabbrica di Candoglia tutta la vita. E ora, dopo che anch’io ho fatto la mia parte, tocca al mio Giulio tenere alto il buon nome dei Brusa” era solito ripetere all’amico Ambrogini. Il ragionier Giovanni Ambrogini era il braccio destro del signor Brusa. Da oltre trent’anni, senza mancare un giorno dall’ufficio, teneva con scrupolo la contabilità della “Brusa & Figli”. Era diventato, per Agenore, quasi un fratello. E come tale lo trattava, chiedendo consigli e ascoltandone i punti di vista che, immancabilmente, teneva in gran considerazione. Per il resto, grazie all’impegno di tutti, la “Brusa & Figli” era un’azienda più che solida e al fidatissimo contabile l’anziano titolare garantiva un adeguato stipendio, commisurato ai suoi servigi. Da troppo tempo, per mille ragioni, il signor Agenore non si recava a Milano, in visita al Duomo. L’ultima volta, con uno sforzo di memoria, immaginò fosse stata quand’era nato il piccolo Giulio. Ma da allora, di anni n’erano passati ben trentadue. “Occorre andarci, a Milano”, comunicò al ragioniere. “E ci andremo insieme, caro Giovanni. Così vedrai anche tu come sono conosciuto in quella città. Devi sapere che è proprio grazie alla mia attività al servizio della Fabbrica del Duomo che mi hanno insignito del titolo di Cavaliere del Lavoro”. Agenore teneva moltissimo a quel titolo e amava, come lui stesso affermava, “vestirsi con l’abito giusto”, quello “da Cavaliere”, una divisa che, per l’imprenditore, equivaleva a pantaloni e giacca di fustagno scuro, camicia bianca e corto cravattino nero, scarpe comode e, in testa, un vecchio “Panizza” di feltro al quale teneva molto, regalatogli dal padre Igino. I due partirono dalla stazione di Verbania-Fondotoce con il treno delle 6,29. Era un sabato e non faticarono a trovare posto a sedere sul treno mezzo vuoto, dato che gran parte dei pendolari che si recavano ogni giorno a Milano per lavoro avevano terminato la loro settimana. A Porta Garibaldi presero la linea verde della metropolitana fino a Cadorna e da lì, con la linea rossa, giunsero a destinazione alla fermata “Duomo”. Uscendo dalla metropolitana, in cime alle scale, si trovarono davanti l’imponente e gotica sagoma del Duomo. “Ah, che meraviglia”, esclamò estasiato il Cavalier Brusa, agitando la mano destra dove, tra indice e medio, teneva l’immancabile sigaro toscano. Il ragionier Ambrogini, estrasse dalla tasca un piccolo bloc-notes , leggendo i suoi appunti. “La quarta chiesa in Europa per superficie, dopo San Pietro in Vaticano, l’anglicana Saint Paul di Londra e la cattedrale di Siviglia ;la più importante dell’arcidiocesi milanese, sede della parrocchia di Santa Tecla..”. Il buon Giovanni, preciso come un ferroviere svizzero, si era documentato ben bene. Al Cavaliere quell’accuratezza, diligente e meticolosa, piaceva molto. In molti consideravano l’Ambrogini un pignolo, persino un po’ pedante, ma ciò che i più consideravano un difetto, per Agenore Brusa rappresentava una qualità. E che qualità: cura, scrupolo e rigore! Il massimo che potesse desiderare dal suo più stretto e fidato collaboratore. Lo ascoltava, ammaliato, senza dimenticarsi di ricambiare – con un cenno di capo – al saluto che gli avevano rivolto alcuni passanti. “Ci sono voluti cinque secoli per costruirlo, durante i quali  si sono avvicendati nella Fabbrica del Duomo architetti, scultori, artisti e maestranze, provenienti da tutta Europa. Il risultato è un’architettura unica, una felice fusione tra lo stile gotico d’oltralpe e la tradizione lombarda. Con una decorazione impressionante di guglie, pinnacoli, cornici  e un patrimonio immenso di oltre tremila statue. E sulla più alta delle 145 guglie, la celeberrima Madonnina che non è d’oro, ma ricoperta di fogli d’oro”. Il ragioniere era, come sempre, sintetico ed esauriente. A quel punto il Cavalier Brusa lo esortò a varcare il doppio portale in bronzo.“Forza, Giovanni. Andiamo a vedere anche all’interno com’è stato magistralmente lavorato il nostro marmo! A proposito, hai visto che persone ben educate? Salutano, cortesemente. Si vede che anche qui conoscono i Brusa, con tutto quello che abbiamo fatto per Milano, eh?”. Spento il toscano sotto la suola della scarpa e riposto in tasca il resto del sigaro (Brusa era un parsimonioso e il suo motto era “non si butta via niente”), entrarono in Duomo, rimanendo a bocca aperta davanti alle cinque navate. Quella centrale, poi, era davvero ampia e alta e ai lati si potevano ammirare magnifiche vetrate istoriate che raffiguravano scene religiose. Una di esse, superba, rappresentava il Giudizio Universale. Il Cavalier Brusa, informato dal fedele Giovanni, di ciò che conteneva la teca sopra il coro, voleva a tutti i costi ammirare quel chiodo che si riteneva provenisse della croce di Gesù e si avviò in quella direzione con ampie falcate. Mentre camminava, s’accorse di essere oggetto di insistenti sguardi da parte delle persone che incontrava. Alcuni sgranavano gli occhi, altri si davano di gomito. Mentre avanzava impettito, gli venne incontro un sacerdote in chiaro stato d’ansia, visibilmente affannato. Il prelato , rivolto al Cavaliere, ripeteva concitato la stessa breve frase, in milanese: “  Sciur, al Brüsa”, “Sciur, al Brüsa”, “Sciur, al Brüsa”, … Agenore Brusa, voltandosi verso il ragionier Ambrogini, disse soddisfatto: “Vedi, Giovanni. Qui mi conoscono tutti”. E solo in quel momento il povero ragioniere s’accorse che la marsina del suo principale stava andando in fiamme. Evidentemente il toscano non era stato spento bene e si era ravvivato nella tasca. Il prete, sicuramente lombardo e certamente alterato, aveva lanciato l’allarme rivolgendosi al Cavaliere in dialetto meneghino e quel “Sciur, al Brüsa”, più che ad una individuazione dell’identità del signor Agenore equivaleva all’allarmante fumo che proveniva dal vestito del medesimo, ignaro, visitatore del Duomo. Così, spento l’incendio, i due lasciarono la cattedrale e Milano, frastornato e ammutolito, Giovanni Ambrogini, contrariato e scuro in volto, il Cavaliere che, una volta tanto e suo malgrado, era stato costretto a venir meno al suo principio del “non buttar via niente”, lasciando in un bidone della spazzatura la giacca bruciacchiata e quel resto di sigaro che aveva tenuto per il viaggio di ritorno.

Marco Travaglini

“Figure dell’Italia civile” con Castellani a Finale Ligure

Giovedì 3 agosto alle ore 21, in piazzale Buraggi, sul Lungomare di Finale Ligure, il prof. Valentino Castellani, docente universitario e già Sindaco di Torino ed il giornalista Sandro Chiaramonti presenteranno il libro di Pier Franco Quaglieni “Figure dell’Italia civile”, Golem Edizioni
La presentazione di Finale aprirà le presentazioni estive del libro che si terranno il 7 agosto ad Alassio, il 22 ad Andora per proseguire in Versilia, a Selinunte, a Valdieri e a Pollone. Organizza l’incontro la Libreria “Centofiori” per il ciclo “Un libro per l’estate”.  Il nuovo libro di Quaglieni raccoglie trenta ritratti di personalità italiane delle storia recente da Einaudi ad Amendola, da Calamandrei a Chabod, da Jemolo a Bobbio,da Montanelli, da Luraghi a Ciampi, da Spadolini a Romeo, da Olivetti a Pininfarina, da Tortora a Pannella. Ne viene fuori un ritratto dell’Italia civile che l’autore ritiene vada riscoperta e valorizzata come patrimonio irrinunciabile anche per il futuro delle nuove generazioni. La storia ligure Bianca Montale ha visto nel libro di Quaglieni un ” grande equilibrio storico” che gli evita di cadere nell’agiografia o nella critica di parte. Dino Cofrancesco, recensendo il libro, ha detto che Quaglieni “non fa sconti neppure agli amici”. Il libro segue un percorso storico, mai scontato in cui l’autore narra dei suoi incontri e delle sue amicizie con tanti dei protagonisti di cui scrive. Il libro ha avuto il riconoscimento speciale del Premio Pontremoli e recentemente del Premio “Cesare Pavese “che verrà consegnato all’autore il 27 agosto a Santo Stefano Belbo.

Addio a Enzo Bettiza l’italiano austro-ungarico

di Pier Franco Quaglieni

Con la scomparsa a novant’anni di Enzo Bettiza, il giornalismo italiano perde una delle sue firme più autorevoli e “La Stampa” il suo ultimo editorialista importante che nell’ultimo decennio e’ comparso pochissimo sulle pagine del quotidiano di via Lugaro. Bettiza era un uomo autorevole e l’autorevolezza non gli venne con l’età ma era in lui qualcosa di innato. Autorevole e quindi indipendente e non disposto a scrivere a comando. Ebbe il coraggio di scontrarsi con il direttore – tiranno, suocero di Scalfari,Giulio De Benedetti che cerco’ inutilmente di umiliarlo. Io conobbi un De Benedetti vecchio e “buono” che si beveva una bottiglia di whisky in un pomeriggio , rimanendo quasi lucido nel suo buen ritiro di Rosta. Conobbi un ex direttore de “La Stampa” che portava ad un giovane appena laureato un suo articoletto nel primo covo del centro “Pannunzio ” di piazza Castello ,chiedendo con squisita ironia di leggerlo e di dirgli se andava bene. Ma tutti gli amici giornalisti che ho conosciuto ,salvo forse Ferruccio Borio e Carlo Casalegno ,mi parlavano con rabbia di “gdb “, com’era soprannominato e come amava firmare i suoi fondi che sembra fossero scritti da altri,alcuni dicono da Casalegno. L‘unico che seppe tenergli testa fu Bettiza che se ne andò dalla “Stampa” e passo ‘ al “Corriere della Sera “. Ma anche al quotidiano di via Solferino ,quando il direttore Piero Ottone volle ,in ossequio alle bizzarrie della proprietaria – zarina sovietica del giornale ,fare del quotidiano che aveva incarnato la borghesia italiana ,l’organo del cedimento al compromesso storico ,Enzo seppe andarsene dal “Corriere” che veniva cogestito dal comitato di redazione(con diritto di veto) e dal direttore allineato al nuovo corso.  Con Montanelli fondò “Il Giornale”, ispirandosi al “Mondo” di Pannunzio ,come mi disse una volta . E scrisse che gli era parso di aver condotto una battaglia di retroguardia e di testimonianza contro il clima creato dalle “masse facinorose e urlanti ” ,dai “terroristi che sparavano a Montanelli e sprangavano i nostri lettori” e dalla ” stampa conformista che ci calunniava “. In effetti non fu così, aggiunse, “perché nel 1989, con il crollo del Muro, capimmo di aver condotto una battaglia di avanguardia perigliosa perché solitaria ed elitaria : una battaglia cioè tipicamente , lucidamente, liberalissimamente pannunziana “. Bettiza che per brevissimo periodo fu comunista prima dei vent’anni, esule da Spalato conquistata dai titini, e’ stato un testimone dell’anticomunismo liberale che seppe opporsi a tutti gli autoritarismi e i totalitarismi del Novecento che egli considerò non un secolo breve, ma un secolo semmai troppo lungo a causa del comunismo che tenne banco dal 1917 in poi. Rispetto a quelli che Giovanni Giovannini chiamava con disprezzo direttorini e giornalistini ,egli seppe tenere la schiena diritta sempre. Una grande lezione anche deontologica ai tanti che nei giornali chinano non solo la schiena, ma anche la testa. Pure con l’amico Montanelli, quando ritenne di dissentire, lo fece liberamente, andandosene dal giornale di cui era condirettore. Soprattutto per tanti di noi, in primis per chi scrive, nel 1976 fu di esempio perché invece di “turarsi il naso” e votare Dc o firmare manifesti per annunciare il voto al Pci come fece la maggioranza dei giornalisti e degli intellettuali italiani, fu tra i promotori, con Alberto Ronchey e Cesare Zappulli, di un’iniziativa di minoranza che non fu premiata dagli elettori e invece ebbe grande importanza morale perché significò per noi il non arrendersi all’ondata clerico-marxista che rischiava di travolgere la democrazia italiana : la lista liberale, repubblicana, socialista democratica proposta in alcune regioni italiane . Bettiza e Zappulli vennero eletti ,Ronchey no. Ma va ricordato che quella lista riaffermava il senso storico-politico di un’alleanza dopo che nel PLI era prevalso Zanone ,nel PRI circolavano i vaneggiamenti senili di La Malfa a favore del compromesso storico e i socialdemocratici ,dopo le amministrative del 1975, erano passati, armi e bagagli, a sostenere le giunte rosse, tradendo il voto degli elettori. E’ naturale quindi che Bettiza abbia visto con favore Bettino Craxi e il suo tentativo di affrancare il socialismo italiano che fu di Rosselli e di Matteotti ,ma anche di Saragat e di Nenni,dall’abbraccio mortale del Pci e del compromesso storico con una Dc di sinistra che aveva rinnegato del tutto lo spirito degasperiano. Ci siamo sentiti spesso e abbiamo collaborato sovente. E ‘stato naturale che gli fosse conferito il Premio “Pannunzio”.Un premio azzeccato come quello a Spadolini,a Montanelli,a Ronchey che ha avuto anche premiati immeritevoli soprattutto per quello che fecero dopo il conferimento come Furio Colombo ,Vittorio Feltri e l’incredibile Barbara ,figlia di Altiero Spinelli, che, dopo aver parlato del comunismo come di “un’utopia assassina”, si riposizionò nell’estremismo nostalgico del comunismo ed occupò un posto al Parlamento europeo, malgrado avesse dichiarato che, se eletta, avrebbe rinunciato al seggio. Una volta Bettiza, quando nel 2003 venne nominato da Ciampi cavaliere di Gran Croce mi telefono ‘ e mi disse ,scherzando, che finalmente anche lui era stato nominato ,sia pure quattro anni dopo di me. Era rimasto colpito dalla rosetta che mi vide all’occhiello. Inutile dire che Bettiza, che fu senatore e deputato, non amava titoli e nastrini di nessun tipo. Il suo essere stato esule non fu per lui, come per tanti italiani che dovettero lasciare la propria terra dopo il Trattato di pace del 1947 ,un elemento di particolare distinzione che non volle mai rivendicare. Bettiza ,come racconto ‘ nel suo straordinario romanzo “Esilio” cercò subito di mettersi al lavoro, inserendosi attivamente in Italia, cosa che non era così facile per i circa 350 mila istriano-giuliano- dalmati dell’esodo-di cui Enzo non si sentì parte-accolti malamente in patria e considerati dei fascisti. All’inizio accettò qualsiasi lavoro e solo in tempi successivi incominciò a fare il giornalista nel 1953 ad “Epoca”, per poi passare alla “Stampa” nel 1957. La sua è  una storia totalmente diversa ,ad esempio, da quella di Ottavio Missoni ,nato a Ragusa da padre di origine giuliana ,che invece fu con orgoglio sindaco della “Libera città di  Zara” in esilio e fu insieme al patriota Lucio Toth, uno dei difensori delle ragioni di chi patì l’esodo ed ebbe lutti famigliari a causa degli infoibamenti. Infatti nel “Giorno del ricordo delle foibe e dell ‘esodo” che venne celebrato il 10 febbraio in tutta Italia a partire dal 2004 non fu possibile coinvolgerlo. Io cercai di farlo, ma fu irremovibile. Gli offrii l’opportunità di parlare a palazzo Carignano di Torino, ma mi disse che dovevo farlo io come storico e non lui come esule. Fu irremovibile. Enzo si sentiva certo italiano, ma non solo italiano era anche un po’ nostalgico dell’impero austro-ungarico e del mondo in cui era nato e vissuto a Spalato in cui convivevano slavi e italiani ed in cui egli aveva appreso il bilinguismo come un qualcosa di ovvio e naturale. La Dalmazia era certamente una terra italiana, veneziana e romana per storia e cultura, ma aveva anche un’identità slava che non poteva essere negata e che Enzo sentiva come sua. Qualcuno lo ha definito mitteleuropeo, anche se la Dalmazia è geograficamente nei Balcani e proprio dall’Europa orientale Bettiza ha tratto stimolo per affermare costantemente i valori della libertà come valori irrinunciabili. Penso che Bettiza sia stato soprattutto un sincero europeo che aveva visto e denunciato la tragedia dell’Europa orientale oppressa dal comunismo. Europeo ,non necessariamente europeista alla maniera di Spinelli e di Rossi. E’ stato uno dei migliori deputati al Parlamento europeo. Forse in lui era presente “l’idea d’Europa” di cui parlava Chabod. Se l’Europa avesse avuto rappresentanti come lui a Strasburgo, non sarebbe finita arenata sugli scogli e non si sarebbe confusa con gli interessi finanziari di alcuni potenti. Bettiza fu soprattutto un rarissimo esempio di giornalista libero e di scrittore raffinato. I giornalisti tentano di fare spesso anche gli scrittori, diceva Mario Soldati, e spesso gli scrittori tentano di fare anche i giornalisti. Quasi mai ci riescono pienamente. Il giornalismo è mestiere, la scrittura letteraria è arte. Solo pochissimi riescono ad essere chiari come dei giornalisti, scrivendo in modo non banale pagine che durino oltre lo spazio di un mattino. Gli articoli e i libri di Bettiza sono destinati a restare. Davvero è stato un giornalista principe.

quaglieni@gmail.com

Moncalieri, ultima sera di “Voci e volti”

Ultimo concerto prima della pausa estiva, il 30 luglio a Moncalieri, poi Voci e Volti​ ritorna da metà settembre con gli appuntamenti​ conclusivi della rassegna

La rassegna si concluderà il 24 settembre, al termine di un “viaggio” tra arte e tradizione. Un percorso che porterà artisti internazionali della musica popolare in luoghi dall’alto valore culturale del territorio piemontese. Voci e Volti visiterà con gli spettatori, tra gli altri, il Castello di Moncalieri, il Castello di Masino, il Castello della Manta, l’Abbazia di Vezzolano, l’Abbazia di Santa Maria a Cavour, Infini.To Planetario, il Filatoio di Caraglio.

Voci e Volti ospiterà artisti provenienti da Finlandia, Senegal, Tunisia, Argentina, Brasile, Canada e da diverse regioni d’Italia. Sonorità, volti, etnie, simbolo ed espressione di tradizioni musicali che variano enormemente fra di loro inviteranno il pubblico a un viaggio unico: dalle torride strade africane ai racconti dei vecchi gitani, dai ritmi del sud Italia alle ballate nord europee, dalle sfumature occitane al calore del tango argentino.

La direzione artistica di Voci e Volti è affidata ai componenti dell’Orchestra Multietnica MOM che accompagneranno gli artisti ospiti durante l’intera rassegna.

Il progetto nasce dall’esperienza pluriennale della Fondazione Dravelli in ambito interculturale.

I concerti sono tutti ad ingresso gratuito e si svolgeranno anche in caso di pioggia.

​PROSSIMI APPUNTAMENTI

Domenica 30 luglio, ore 21.00 – Duo Bottasso in concerto

Il Giardino delle Rose del Castello Reale, Piazza Baden Baden, 4 Moncalieri (TO)

Il Duo Bottasso ci porta nel mondo della musica OCCITANA, inserendolo in un coinvolgente spettacolo di WORLD MUSIC con composizioni proprie e reinterpretazioni di brani tradizionali. Il Duo è composto dai fratelli Simone (organetto) e Nicolò (violino), che interpretano repertori di musica tradizionale rendendoli vivi e attuali.

Il Duo è sempre alla ricerca di una mediazione tra la delicatezza sui propri strumenti e la dirompente energia che non manca mai ai due giovani musicisti: tutto questo unito dalla complicità propria di due fratelli legati dal desiderio di mantenere in costante evoluzione la tradizione della loro terra d’origine.

Nel 2014 esce il loro primo album Crescendo, realizzato con la collaborazione di numerosi ospiti tra cui Elena Ledda, Mauro Palmas, Gilson Silveira e Christian Thoma. Crescendo non rimanda solo alla terminologia musicale ma rispecchia anche la storia di due fratelli musicisti partiti dalla musica da ballo dell’area occitana d’Italia per inoltrarsi nei sentieri della nuova composizione e dell’improvvisazione. Il Duo partecipa attivamente in qualità di direttore e docenti al progetto orchestrale Folkestra&Folkoro.

 

Sabato 16 settembre, ore 21.00 – Oscar Doglio Sanchez in Aer Mundis

Abbazia di Santa Maria, Via Saluzzo, 72 Cavour (CN)

Le musiche di Aer Mundis sono scritte integralmente da Gian Giacomo Parigini, musicista e pittore che in occasione di questo concerto incontra il violoncellista Oscar Doglio Sanchez. La struttura della suite classica accoglie l’improvvisazione propria del jazz, rendendo questa serata interessante quanto imprevedibile.

Il Complesso Abbaziale, comprendente l’Abbazia Benedettina di Santa Maria e il Museo Archeologico di Caburrum, è situato nel Parco Naturale della Rocca di Cavour.

È prevista una visita guidata al complesso abbaziale ed al “Museo archeologico di Caburrum” a cura dell’Associazione Culturale Anno Mille. Per info e prenotazioni: 334.9774348lab@abbaziasantamaria.it

 

Il Regio alla conquista di Edimburgo

Il prestigioso Edinburgh International Festival propone il meglio del panorama musicale e teatrale non solo europeo e, per celebrare i 70 anni di attività, ha scelto il Regio quale Resident Company per questa importante edizione celebrando così il Teatro Regio quale emblema dell’eccellenza italiana. Sono ben tre le produzioni che il teatro torinese porta  in Scozia: due opere e un concerto, per un totale di otto serate, tutte dirette da Gianandrea Noseda.  Al Festival Theatre – capienza totale 1.915 posti  –  vanno in scena Macbeth di Giuseppe Verdi con la regia di Emma Dante e La bohème di Giacomo Puccini nell’allestimento firmato da Àlex Ollé, realizzato con il contributo degli Amici del Regio e con la collaborazione di Alcantara. Nella prestigiosa Usher Hall – capienza totale 2.200 posti – Gianandrea Noseda dirige il Requiem di Verdi.

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287 persone in viaggio, 107 circa gli strumenti, 9 container via nave per il trasporto di scenografia, costumi e attrezzeria, 1.500 in totale i pezzi di scenografia, 40 bauli di costumi, circa 400 paia di scarpe, circa 8.000 a oggi le mail con oggetto Edimburgo.  Si può seguire  la tournée a Edimburgo guardando le clip quotidiane di Paola Giunti sulla pagina Facebook del Teatro: reportage, immagini inedite e backstage dalle tre produzioni, e sui  social media usando l’hashtag #EdintFest

 

(foto: Giuseppe Ramella)