“Litteris servabitur orbis”. Questa frase latina ha una grande importanza. Tradotta in italiano significa “il mondo sarà salvato dalle lettere”
Durante le leggi razziali l’acronimo di questa frase, ovvero L.S.O., veniva usato dall’editore fiorentino ebreo Leone Samuele Olschki per poter stampare i suoi libri. Un modo intelligente per esprimere una grande verità e rimarcare il proprio diritto d’autore, evitando d’incorrere nella
repressione. Nell’autunno di ormai più di ottant’anni fa le leggi razziali fasciste, ancor prima della loro codificazione in decreto, allontanavano gli studenti di fede ebraica dalle scuole pubbliche italiane. “Là dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli uomini”, scriveva nella prima metà dell’800 il poeta tedesco Heinrich Heine. Un monito tragicamente anticipatore di quei “roghi di libri” organizzati nel 1933 nella Germania nazista durante i quali vennero bruciati tutti i libri non corrispondenti all’ideologia del regime dalla croce uncinata. Quei roghi, pensati per distruggere “lo spirito non tedesco“, vennero organizzati dalla Deutsche Studentenschaft , l’associazione degli studenti tedeschi. Una follia
negazionista che venne salutata da Goebbels, il ministro della propaganda del Terzo Reich come un ottimo modo “per eliminare con le fiamme lo spirito maligno del passato“. Quale fu la logica conseguenza nemmeno il monito di Heine poteva lontanamente immaginarlo e tutto il mondo scoprì l’orrore delle persecuzioni, delle deportazioni nei lager e dell’olocausto. Eppure sono in molti ad aver dimenticato la storia o a volerla minimizzare. “Chi nega la ragion delle cose, pubblica la sua ignoranza”, scriveva Leonardo da Vinci mezzo millennio fa. In un tempo dove si legge sempre meno, dove la cultura viene presentata come un peso e l’ignoranza si accompagna quasi sempre all’arroganza, c’è poco da stare allegri. Un antidoto ci sarebbe ed è racchiuso in quella frase piena di speranza: “il mondo sarà salvato dalle lettere”. A patto che non rimanga solo una frase.
Marco Travaglini

La pittura e l’anima rappresentano due universi strettamente connessi, come dimostra l’arte del pittore torinese Carlo Patetta Rotta.
mia vita, dopo anni trascorsi all’estero, a Londra, ed il successivo ritorno a Torino, mia città nativa. Ero già appassionato di arte e pittura, in particolar modo, sin da quando ero bambino quando, a casa di mio cugino, vedevo suo nonno pittore dipingere. Così, nel 2019, ho deciso di seguire i corsi all’Accademia torinese Pictor, tenuti dal pittore Aldo Antonietti, corsi a cui ho, in seguito, affiancato quelli tenuti dall’artista Giulia Cotterli”.
Il soggetto da cui è partita inizialmente la mia ricerca pittorica è stato sicuramente il paesaggio. In genere mi piace fissarlo, attraverso la tela, in un istante preciso in cui la sua visione mi ha incuriosito e suscitato sensazioni particolari. In genere l’approccio della mia arte, per lo più pittura ad olio, non avviene attraverso una pratica en plein air, ma in studio, cogliendo il soggetto da dipingere a partire da fotografie che io stesso ho scattato”.
“L’emergenza Covid – conclude Carlo Patetta – mi ha poi portato a sviluppare numerose riflessioni personali e a tradurle ttraverso la pittura, in particolare in un mio quadro in cui ho dipinto il crocifisso di San Marcello, che è stato trasportato in Vaticano, in occasione della recente preghiera del Pontefice contro la pandemia. Crocefisso legato a due momenti miracolosi, il primo che vide il crocifisso scampare all’incendio che devasto’ l’intera chiesa nel 1519, ed il secondo momento nel 1522, quando una processione penitenziale sancì la fine della pestilenza. Questo dipinto ha per me voluto costituire anche un messaggio di speranza, in occasione della Pasqua, che reca con sé il valore metaforico di rinascita ed uscita dell’umanità dalle tenebre verso la luce, oggi più che mai attuale e sentito”.
Coronavirus, la Pasqua appena trascorsa inaugura un’altra preziosa iniziativa benefica. Al via da oggi l’iniziativa “Diffondiamo la solidarietà, non il virus: facciamola andar bene!”. Una campagna preziosa a sostegno delle realtà più periferiche di Piemonte e Valle d’Aosta che, in questo momento, necessitano di un aiuto importante per garantire anche i più basilari servizi di assistenza.
Rubrica settimanale a cura di Laura Goria
contemporanee. Con “Onori” (dopo “Resoconto” e “Transiti”) chiude la trilogia iniziata nel 2014 e definita “dell’ascolto”, perché ha destrutturato il romanzo tradizionale e buttato a mare convenzioni letterarie come trama, suspense, personaggi, inizio e fine. Lei non fa scendere in campo un narratore tipico, bensì un coro di voci che raccontano a Faye, suo alter ego, che di tutto prende nota. Ne scaturisce un affresco corale in cui si intrecciano temi come la questione femminile, quella ecologica, la famiglia come nucleo in cui i fallimenti diventano intollerabili, l’incomunicabilità, l’inganno del capitalismo,….Ritroviamo Faye a bordo di un aereo verso l’Europa dove l’attendono festival e incontri letterari. Nel sedile di fianco c’è un uomo che ha appena seppellito il suo cane e da questo dolore inizia a raccontarle sprazzi della sua vita. E’ solo l’inizio di pagine in cui appaiono e parlano tanti personaggi, per lo più legati al mondo dell’editoria. Attraverso le parole, i dialoghi, i sentimenti, le ambizioni, le delusioni e gli aneddoti di vita di giornalisti, scrittori, agenti, editor e organizzatori di festival, Faye raccoglie tanti tasselli di un’umanità confusa. In un certo senso è una saccheggiatrice di storie e vite che ruotano intorno alla letteratura e alla spettacolarizzazione di un mondo che può rivelarsi anche fasullo e irto di inganni.
Un volume corposo che comprende “Il 42° parallelo”, “Millenovecentodiciannove”, “Un mucchio di quattrini” e racconta i primi 30 anni del 900 americano. E’ stato scritto dal prolifico John Dos Passos, autore di romanzi, saggi, poesie, ma anche pittore e reporter, nato a Chicago nel 1896, morto a Baltimora nel 1970. Non fatevi impressionare dalla mole del libro perché potete gustarlo un po’ per volta, senza fretta, leggendolo come un puzzle e scegliendo le parti che più vi attraggono. Di fatto è un poderoso affresco che narra i nervi scoperti della Grande Depressione e dei conflitti sociali di un paese che ha rincorso una velocissima modernizzazione. Ritrae una trance di storia americana importante e lo fa con un linguaggio e un intreccio inediti nel panorama letterario dell’epoca. Dos Passos costruisce un capolavoro assoluto sperimentando più cifre narrative: le storie di 12 personaggi di fantasia, brevi biografie di 27 americani famosi concentrate in un paio di pagine (folgoranti quelle della dinastia dei Morgan iniziata da un albergatore e diventata scialuppa di salvataggio degli Usa tra ferrovie, banche, e tutte le ricchezze possibili; o quella del rampollo viziato e lungimirante William Randolph Hearst, l’editore più potente d’America). Poi cine-giornali con slogan pubblicitari, brani di canzoni popolari e titoli di giornale che interrompono le narrazioni e danno respiro alla lettura. Vi avventurerete anche in squarci di riprese cinematografiche e fotografiche e leggerete pagine in cui l’autore dispiega i suoi stati d’animo. Un grande intellettuale nomade che sperimentò più linguaggi artistici, viaggiò molto, conobbe personaggi della caratura di Hemingway e Fitzgerald nella Parigi degli espatriati dei ruggenti anni 20. Importante sarà anche il suo impegno politico, all’inizio come adepto del socialismo e difensore di Sacco e Vanzetti; poi la rottura con la sinistra radicale nel 1935 e la virata a destra come sostenitore del Maccartismo e detrattore del potere dei sindacati. Una decisa inversione politica che, secondo la critica, coincise con un inaridimento della vena creativa. Ma questa trilogia rimane imprescindibile per chi vuole ripercorrere alcuni elementi fondanti della grande nazione a stelle e strisce.
cambia l’ordine a parole e sillabe, le sostituisce con altre inventate che spesso sono lapsus che smascherano qualcosa di più profondo. La finestra si può aprire perché “…mica svaporiamo”, il rosbif diventa il “rospo”, il tè invece che al limone è “al salmone”, i residenti si trasformano in “rassegnanti” e la cremazione sfuma in una “crematura”.



Così Barbara Pregnolato nel suo primo romanzo ”L’altra accanto” ( edizioni Augh, collana frecce 2019, pagg.138 ) scava nel recesso dell’anima dei tre personaggi principali del suo testo, che divengono metafore dell’incomunicabilità della nostra società postmoderna, liquida ed egoista, dove il vissuto femminile del sentimento amoroso muta in disperato desiderio di verità.
Luci e ombre degli spazi e degli umori quotidiani aprono all’attesa del miracolo pacificatore e il situazionismo alla Guy Deborde sbuca da ogni angolo. Il cinema di Antonioni e il Kafka della Metamorfosi descrivono la monade dell’uomo del terzo millennio globalizzato, bulimico sentimentale e desideroso di riscatto, che solo nella magia dell’Amore espresso e vissuto pienamente nelle sue infinite forme, potrà trovare la sua più profonda, compiuta, necessaria e Umana realizzazione.