CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 624

“L’uomo che piantava gli alberi” con Assemblea Teatro a Collegno

Assemblea Teatro inaugura alle 21 di sabato 24 novembre la stagione de ‘Lo svago e il Pensiero’, la rassegna teatrale che da sette anni va in scena all’Auditorium “G. Arpino” di Collegno con “L’uomo che piantava gli alberi” di Jean Giono. La riproposizione del famoso testo dello scrittore italo francese sarà affidata alla voce recitante di Gisella Bein e ai disegni realizzati dal vivo da Monica Calvi. L’uomo che piantava gli alberi” narra la storia, semplice ma esemplare, di Elzèard Bouffier, un pastore della Provenza che nella tranquillità della sua solitudine seminò centinaia di migliaia di semi di alberi ripopolando la zona. Una efficace metafora del rapporto tra uomo e natura, un racconto di “come gli uomini potrebbero essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre la distruzione“. Qualsiasi stupido infatti è in grado di distruggere gli alberi.Troppo pochi hanno cuore e dedizione e intelligenza necessaria a salvarli custodirli e, se necessario, piantarli. La storia del pastore  Bouffier insegna a tutti che è necessario un tempo in cui agire con affetto e generosità.

M.Tr.

Il “mondo sommerso” del garage rock americano anni ‘60

Si farà riferimento (anche con esempi musicali) soprattutto alle realtà ingiustamente cadute nell’oblìo, alle venues che furono terreno fertile per la nascita di miriadi di bands

Lunedì 26 novembre alle ore 16.30 presso la Biblioteca Civica Musicale “A. Della Corte” in corso Francia 186, il musicologo Giancarlo Marchisio terrà un incontro-conferenza dal titolo Il “mondo sommerso” del garage rock americano anni ‘60.L’incontro intende focalizzare l’attenzione sulla realtà musicale americana che venne a formarsi con l’impetuosa ondata della British Invasion e sulle bands “meteora” nell’ambito del genere garage rock americano tra il 1965 ed il 1970. Si farà riferimento (anche con esempi musicali) soprattutto alle realtà ingiustamente cadute nell’oblìo, alle venues che furono terreno fertile per la nascita di miriadi di bands, in particolar modo nei generi garage/proto-punk; inoltre si farà luce sul contesto americano anni ‘60 delle “Battles of the bands”, sulla funzione dei managers musicali di quei tempi, sull’attività di intermediarii e talent scouts e sulle differenziazioni dei sottogeneri musicali in relazione alle aree geografiche (atlantic, pacific, middle-west etc.).

“Io la ricordo”, le poesie di Graziella Minotti

“Io la ricordo” è la nona silloge poetica di Graziella Minotti Beretta. Si dice spesso che la poesia è lo specchio della vita e quella di Graziella Minotti  parla un linguaggio semplice e diretto, descrive emozioni e sentimenti importanti. Anche in questa raccolta non smentisce se stessa e con le parole  spinge chi legge a soffermarsi un attimo a pensare, a non lasciarsi trascinare dall’affanno a cui ci obbliga la vita di ogni giorno. I versi della Minotti, di solito ironici, delicati e, al tempo stesso, profondi, si velano, in quest’ultima opera di malinconia, quasi di tristezza, come se una preoccupazione, un senso di precarietà la spingessero a rivelarsi, attraverso allusioni sottili, ma persistenti. Queste poesie non raccontano solo il bello, l’amore felice, i giorni gioiosi. A volte narrano sentimenti più oscuri, velati, avvolti in quella bruma che ovatta le giornate d’inverno. Anche per questo sono importanti, forse anche più delle altre. Cardarelli sosteneva che la poesia poteva essere definita come espressione della fiducia di parlare a sé stessi. E in fondo, in tutte le poesie della raccolta, Graziella parla proprio a se stessa, rammenta i suoi ricordi, le gioie e le amarezze, svela i suoi intimi pensieri, gli affetti e le paure e lo fa pubblicamente, esponendosi con coraggio. Ritroviamo gli abbandoni forzati di “Addio miei monti”, il ricordo delle “madri” (quella biologica e quella adottiva), della famiglia e degli amici, l’amore prorompente per la natura in tutte le sue espressioni, stagioni e colori e, infine, il dolore. Come racconta Roberto Vecchioni in una delle sue più belle canzoni anche Graziella ha “conosciuto il dolore”, quello che cerca di disarmagli la vita, che passa accanto “come un’ombra sottile sfiorente”. Armata dei suoi versi lo affronta e lo sfida in tutte le poesie, una dopo l’altra. Per questo le dobbiamo una doppia gratitudine: per i sentimenti che esprime e per l’amicizia che generosamente ci accorda. Roberto Benigni scrive che “la poesia ci aiuta a compiere un’esperienza irripetibile di libertà, è finzione e ritmo, ma ci aiuta a intraprendere un grande viaggio alla ricerca di uno sguardo. Quello sguardo che solo le donne posseggono e che ci introduce nel punto più segreto del mondo”. Sono convinto che chi conosce Graziella Minotti Beretta non faticherà a immaginare in lei lo stesso sguardo con il quale accompagna la forza delle sue parole.

Marco Travaglini

“Leonardo Opera Omnia” affascina a Fossano

Diciassette capolavori dell’arte riprodotti a grandezza naturale e in alta definizione mettono il visitatore di fronte alle opere originali di Leonardo da Vinci. Si possono ammirare a Fossano in tre sedi diverse, al Castello degli Acaja, al museo diocesano e nella chiesa della Santissima Trinità. In un colpo solo balzano davanti agli occhi le opere pittoriche del maestro fiorentino (1452-1519), a 500 anni dalla morte, conservate nei musei, nelle chiese e nelle collezioni private di tutto il mondo, dal Louvre all’Ermitage di San Pietroburgo, dal museo d’arte di Cracovia alla National Gallery di Londra. Dopo il successo di pubblico e di critica ottenuti lo scorso anno con la mostra dedicata a Caravaggio, Fossano ci riprova quest’anno con ottimi risultati. È folla nei weekend per contemplare le opere di Leonardo nella mostra “Leonardo Opera Omnia”, curata da Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, tra i massimi esperti d’arte a livello internazionale, e promossa dal Comune di Fossano, Diocesi di Fossano e dalla Rai. La Dama con l’Ermellino, La Gioconda, Ginevra de’ Benci, la Madonna del Garofano, San Girolamo Penitente, l’Adorazione dei Magi, la Vergine delle rocce, Ritratto di Musico e ancora San Giovanni Battista, la Scapigliata e L’ultima Cena, esposta, a grandezza naturale, nella chiesa dei Battuti Rossi, gioiello del barocco piemontese. Sono tutte riproduzioni di opere di Leonardo da Vinci presentate nelle loro dimensioni reali utilizzando modernissime tecniche digitali in modo da mettere il pubblico virtualmente di fronte all’opera originale. Acquisite con il contributo di numerosi fotografi professionisti, le riproduzioni sono conformi alle opere autentiche e in altissima risoluzione. Sono inoltre dotate di un sistema di retroilluminazione sofisticato che permette di regolare l’intensità luminosa e la temperatura di colore. La mostra è visitabile, con un unico biglietto, nelle sale del Castello degli Acaja, al Museo diocesano in via Vescovado 8 e nella chiesa della Santissima Trinità o dei Battuti Rossi, in via dell’Ospedale, fino al 13 gennaio 2019. Venerdi’ dalle ore 15.00 alle 19.00, sabato, domenica e festivi dalle 10.00 alle 19.00. Prossima mostra al Castello degli Acaja, Raffaello.

Filippo Re

Il film della delusione, ovvero un omaggio sbagliato al mondo del cinema

Sugli schermi “Notti magiche” di Paolo Virzì

 

La colonna sonora ha le voci della Nannini e di Bennato, la voce è quella di Bruno Pizzul a commentare il rigore sbagliato di Serena e il tiro micidiale di Maradona che sbaraglia l’Italia e fa volare l’Argentina. Dal lungotevere vola anche, giù nel fiume, una grossa macchina di colore scuro, tra l’indifferenza pressoché totale di chi, sotto le luci di un piccolo chiosco, sta imprecando contro la disfatta dei Mondiali 90. Inizia così Notti magiche che Paolo Virzì ha diretto e sceneggiato con Francesca Archibugi e Francesco Piccolo, una sorta di amarcord personale (come non riandare anche al giovane Sergio Rubini che con il tram raggiungeva Cinecittà nell’Intervista felliniana) e di viaggio all’indietro, di quando il regista da Livorno se ne andò nella capitale a respirare l’aria del cinema, a tentare storie, a immergersi nel mondo fatto di negri e negrieri, di quegli uffici, a mezza strada tra la casa e la protezione quotidiana, dove tutti scrivono sotto lo sguardo di Ennio (De Concini: un sornione Paolo Bonacelli) e Furio (Scarpelli: un grandioso Roberto Herlitzka)). Un’autobiografia sulla carta fatta di ricordi e di volti, di notti passate a dare forma a fatti e personaggi, un romanzo di formazione, veloce veloce, senza andar troppo per il sottile, arruffato e disordinato, tutto rivolto all’insegna del pressapochismo letterario, (forse) un omaggio ad un mondo che in quegli anni, se non andava incontro a qualcosa di simile alla sconfitta calcistica italiana, improvvisa e bruciante, certo stava a poco a poco adagiandosi, spegnendosi, immiserendosi, rinculando a suon di storielle e di persone sempre pronte a sguazzare negli affari, lasciando l’arte da qualche altro canto, tra le feste in villa con la ragazza coccodè – che magari vuole pure bene al produttore, anche quando i debiti gli vengono a vuotar casa di ogni premio e mobile – e con le braciole a cuocere, tra le grandi bellezze al tramonto, come quelle di Sorrentino nel nuovo millennio, con le terrazze illuminate e la musica e i trenini: ma un omaggio sbagliato, deragliato sui binari di quegli stessi ricordi. Perché ci vorrebbe una scrittura, e qui l’ordine di una scrittura non c’è. C’è l’abbozzo, c’è la scenetta, c’è l’imbarbarimento e il contributo scollacciato fine a se stesso (povera Muti costretta ad alzare la gonna per dimostrare che di mutandine manco a parlarne!) che non è sufficiente a descrivere un mondo. C’è la rappresentazione laica dei gruppi e dei gruppuscoli (la vestale è la Giovanna di Ludovica Modugno, bravissima), c’è la curiosità per la prima mezz’ora a fare il gioco chi fa chi, chi è questo chi è quello, a catturare Mastroianni che piange per la Deneuve che l’ha lasciato o a stupirsi di uno pseudo Antonioni (l’Arlecchino di sempre Ferruccio Soleri) che mangia tutto solo in trattoria e da anni non spiccica una parola, o dell’autore che vive come un barbone in un seminterrato per non essere entrato appieno negli ingranaggi dell’industria (ma chi sarà mai? inventato? reale?). Ritrattini che si perdono nel niente. Tutto vorrebbe essere acido o ossequioso (i due mondi in Virzì convivono benissimo) ma suona piuttosto barzelletta. O didascalico come un pugno nello stomaco mal assestato, vedi il dito puntato nel finale dal capitano Sassanelli che dall’alto impartisce la benedizione con il refrain “guardate fuori dalla finestra”, a far presente ai tre giovani sceneggiatori – che dovrebbero essere il fulcro della vicenda e che sono capitati in commissariato, dopo un primo incontro al premio Solinas, per essere ritenuti i colpevoli dell’assassinio del produttore Giancarlo Giannini – che il cinema non dev’essere fatto di soli autori ma pure di spettatori o, molto meglio, di autori che devono provare il piacere di essere spettatori. Lo ha preceduto un surreale Fellini, nel buio del suo ultimo set, La voce della luna, a sussurrare “io credo che se ci fosse un po’ di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…”, sorta di tomba a ricoprire tutto il circo dentro cui sino a quel momento ci siamo ritrovati immersi.Notti magiche è anche il film della delusione (non soltanto nostra, un colpo basso dall’autore di Tutta la vita davanti, della Pazza gioia, della Prima cosa bella), per quei tre ragazzi intrisi di speranze e sentimenti che sembrano usciti dallo Scola di C’eravamo tanto amati. Anch’essi malserviti, Irene Vetere ragazza della Roma bene, chiusa in camera a piangere e bisognosa d’affetto, personaggio irrealizzato cui i due compagni rubano spazio, Mauro Lamantia logorroico sino all’inverosimile, copia sbiadita e perennemente eguale del Nicola Palumbo di Satta Flores (ancora il film di Scola) e Giovanni Toscano, volto nuovissimo allo schermo, godereccio toscano, sciupafemmine e manomorta sempre in movimento, quello cui l’avventura romana brucia di più, con il suo ritorno sul treno per Piombino, i vecchi lavoratori della fabbrica, l’impensabile compagno comunista con la lacrima facile: quella ragazza che lo aveva raggiunto, che lui ha sempre trattato con sufficienza, lei sì che potrebbe mettere un piede nel panorama fatto di chiaroscuri del cinema italiano.

 

 

In omaggio alla produzione artistica

Lunedì 26 novembre, ore 21 Conservatorio Giuseppe Verdi, Piazza Bodoni

 

Rocco Papaleo, Caparezza, Paola Turci, Subsonica, Baustelle, Africa Unite, Giuliano Palma, Statuto, per la prima edizione del Premio Carlo U. Rossi ai migliori produttori artistici italiani

 

Il Premio Carlo U. Rossi è il primo riconoscimento in Italia alla produzione artistica. È dedicato a Carlo U. Rossi, uno dei più autorevoli produttori italiani che con il suo lavoro ha contribuito al successo e alla fama di alcuni dei più grandi protagonisti della scena musicale italiana degli ultimi 30 anni. La premiazione della prima edizione del Premio è in programma a Torino, lunedì 26 novembre, presso la sala concerti del Conservatorio: tra aneddoti, inedite performance musicali in acustico di Africa Unite, Baustelle, Caparezza, Giuliano Palma, Paola Turci, Statuto, Subsonica ed interventi di artisti e amici, con la conduzione di Rocco Papaleo, si conosceranno le varie fasi del lavoro della produzione artistica.   Sei i premi: per quattro categorie musicali – pop, rock, elettronica, hip-hop – per la migliore produzione emergente e la migliore produzione in assoluto. I vincitori saranno individuati attraverso un meccanismo di doppia votazione da 35 giurati che hanno selezionato i migliori partendo dalle 6 liste stilate da 12 commissari tra i dischi italiani usciti tra il 1 gennaio 2017 e il 30 giugno 2018. Ai vincitori delle singole categorie sarà consegnato un premio, un’opera del maestro torinese Mario Giansone (1917-1997), che ha dedicato al tema della musica molti suoi lavori. Il migliore produttore artistico emergente, inoltre, partirà per il sud della Francia dove avrà la possibilità di partecipare a “Mix with the Masters”, uno dei più importanti ed autorevoli seminari di formazione professionale nel campo della produzione musicale. Grazie alla collaborazione con Film Commission Torino Piemonte, un ulteriore premio verrà assegnato ad una personalità del mondo cinematografico legata alla musica.   

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Il Premio Carlo U. Rossi è stato istituito dall’associazione culturale musicale Carlo U. Rossi con il supporto di Compagnia di San PaoloPiemonte dal Vivo, Film Commission Torino Piemonte e TFF – Torino Film Festival. Il TFF, in particolare, è stato individuato come l’evento più adatto ad ospitare nel proprio cartellone il Premio sia per la sua visibilità ed autorevolezza a livello internazionale, sia per valorizzare l’indissolubile legame esistente tra musica e cinema. Media partner: Wired Italia

Il mondo di Petrosino. Per bimbi e non solo

Per chi ama i libri e la fantasia (molto ancorata alla realtà) due appuntamenti torinesi con Angelo Petrosino, autore, giornalista e traduttore apprezzato in particolare per i suoi romanzi per adolescenti e per la celebre serie di Valentina.

Il 22 novembre, alle ore 17, presentazione del LIBRO CUORE DI VALENTINA presso il Museo della Scuola e del Libro per l’Infanzia di Torino, in via Corte d’Appello 20. Dialogano con l’autore il prof.Angelo Nobile, docente di letteratura giovanile all’università di Parma, e Pompeo Vagliani, direttore e fondatore del  Museo.

Il 24 novembre , alle ore 17, presso BINARIA-Libreria Torre di Abele, via Sestriere 34, presentazione dei libri più  amati di Valentina.

Augusto Cantamessa. Fotografie

Fino al 9 dicembre – San Secondo di Pinerolo (Torino)

C’è una foto in mostra che s’intitola “Breve orizzonte”. Rigorosamente in bianco e nero, porta la data del 1955 ed è un autentico tributo alla più alta capacità di trasformare un rapido scatto fotografico in un racconto di emozionale suggestiva poesia

Poesia della semplicità. Del silenzio. Della luce. Di quelle poche e piccole cose che, messe insieme, hanno il potere di aprirti gli spazi infiniti del cuore. In cornice, un paesaggio rurale di astratta essenzialità (che, nel gioco di sottrazione degli elementi, può anche richiamare certa magia onirica di quel lirico cantore di paesaggi che fu Mario Giacomelli), una misurata distesa di alberi nudi e filiformi e in lontananza due ciclisti piccoli piccoli in marcia lungo strade invisibili tracciate nei campi. Un’“icona senza tempo”. Come il “Giovane fabbro” del ’58, acquisito dalla “Bibliothèque Nationale de France” a Parigi. O come il libero ondeggiare del geometrico “Bendaggio di facciata”, foto realizzata a Milano quarant’anni più tardi, nel ’95 (e il tempo ha detto molto sul piano della cifra stilistica), che nel gioco fantasioso dell’immagine fa pensare alla grande lezione, sicuramente non ignorata, di un Man Ray o di un Cartier-Bresson. Sono, queste, solo tre delle oltre 60 fotografie in bianco e nero, modern print e vintage -molte delle quali inedite – esposte nella prima e ampia retrospettiva dedicata ad Augusto Cantamessa (Torino, 1927 – Bibiana 2018), nelle prestigiose sale del Castello di Miradolo, in via Cardonata 2, a San Secondo di Pinerolo. Organizzata dalla Fondazione Cosso, con la collaborazione di Bruna Genovesio e Patrik Losano, curatori del patrimonio fotografico di Cantamessa, la mostra ripercorre settant’anni di attività di questo infaticabile Maestro della Fotografia Italiana (importante riconoscimento recentemente attribuitogli dalla FIAFFederazione delle Associazioni Fotografiche ), il quale aveva più volte espresso, per altro, il desiderio di esporre negli spazi “amici” del settecentesco Castello di Miradolo, “là – diceva – dove è stato esposto Caravaggio”. Tanto che l’attuale rassegna è stata proprio “pensata insieme – ricorda Maria Luisa Cosso, presidente della Fondazione– e se ne é parlato ancora nell’ultimo incontro, pochi giorni prima della sua scomparsa, quando già il legame con la vita era molto fragile”. Il tutto, solo pochi mesi fa. E’ il 28 luglio scorso infatti, quando Cantamessa scompare all’età di 91 anni. “Nelle sale – sottolinea ancora la presidente Cosso – un tributo al grande Maestro, all’uomo, all’amico”. Cinque le sezioni in cui si articola il percorso espositivo, attraverso un viaggio nel tempo che è anche espressione di tematiche diverse: dagli anni del boom economico con il tramonto della civiltà contadina e l’emigrazione verso la città (carica di poetica malinconia “La strada nuova per Cavour” del ’58), alla narrazione di un mondo rurale fatto di fatiche quotidiane accettate da uomini e donne come patto di vita rispettato e ripetuto nel tempo, fino ai paesaggi di metafisica silente atmosfera o al “vintage” con quel prodigio d’arte fotografica espresso in “Mia moglie” del ’50 e ai magnifici ritratti, due su tutti quello stupito e ironico del bimbo vestito da festa incantato davanti alla statua di Staffarda della “Madonna di legno” e l’altro triste e smarrito del piccolo “Venditore di limoni” realizzato a Torino nel ’70. Meraviglie di un grande, ma davvero grande fotografo. Accompagnate in mostra da un’inedita installazione sonora curata dal progetto artistico del maestro Roberto Galimberti “Avant-dernière pensée”. Presso il bookshop del Castello, è inoltre disponibile la prima monografia completa sull’opera di Augusto Cantamessa, a cura di Bruna Genovesio e Patrik Losano, edita da “L’Artistica Editrice”. Lo stesso volume, che raccoglie settant’anni di vita e di carriera del fotografo, sarà presentato sempre al Castello di Miradolo, con la presenza degli stessi autori, sabato 24 novembre, alle 15,30, in occasione di un incontro dedicato alla fotografia.

Gianni Milani

“Augusto Cantamessa. Fotografie”

Castello di Miradolo, via Cardonata 2, San Secondo di Pinerolo (Torino); tel. 0121/502761 www.fondazionecosso.com

Fino al 9 dicembre – Orari: sab. e lun. 14/18; dom. 10/18

Foto – Archivio Fotografico Augusto Cantamessa, courtesy Bruna Genovesio and Patrik Losano

– “Breve orizzonte”, 1955
– “Bendaggio di facciata”, Milano 1995
– “La strada nuova per Cavour”, 1958
– “Mia moglie”, 1950
– “Staffarda. La Madonna di legno”, 1962
– “Venditore di limoni”, Torino 1970

Appuntamenti a Palazzo Cisterna

 

Via Maria Vittoria 12 Martedì 20 novembre, ore 18

 

“Il Prato” di e con Vanessa Giuliani e Fulvia Roggero

 

L’associazione Cromie -Vivere a Colori propone lo spettacolo teatrale con le attrici del Teatro delle Dieci – Femmine Folli, dal titolo ” Il Prato” di e con Vanessa Giuliani e Fulvia Roggero.

La performance ha vinto il Bando Moncalieri Off 2016/17.

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A seguire, aperitivo conviviale

con specialità salate offerte da

La Casa del Biscotto di Collegno

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Ingresso a offerta libera

Informazioni e prenotazioni al 338/2539740

 

Due attrici di teatro morte in un cimitero. Ovvero le loro “anime” evanescenti. Un prato verde, un palcoscenico vuoto, il canto degli uccelli. Nel tempo vacuo della strana attesa dell’indefinito, emergono gustosi aneddoti della loro vita amorosa e artistica, brandelli di monologhi da repertorio, frammenti di battute di vecchi copioni, con ironico e talvolta cinico distacco. C’è solo un pipistrello insolente a disturbare la loro quiete. Il loro è un grottesco stato fuori dal tempo, di sospensione dalla vita terrena, anche se nella percezione di essa. Sono in attesa di qualcosa, ma non sanno di cosa. Tra risate e boutades comiche si snocciolano le loro rimembranze, in un processo di “metempsicosi”, ricordandoci che la vita è per sua natura impermanente. Come lo è anche il teatro stesso.

La tragedia balcanica degli anni ’90 del secolo scorso: una storia rimossa?

In questo momento storico l’Unione Europea non gode certo di particolare favore e suona vana, se non fastidiosa la voce di chi ricorda che il suo principale merito è stato quello di aver garantito (finora) settantatré anni di pace nel Vecchio Continente (e per questo è stato insignita nel 2012 del Premio Nobel per la Pace).

Anche quest’affermazione, comunque, – vera se si fa riferimento ai principali Stati nazionali, quali Francia, Germania e Inghilterra che in pace sono davvero rimasti per tutto questo tempo, fatto assolutamente unico nella storia europea di sempre – deve essere corretta: non si è trattato di una pace “assoluta”, se non si vuole scriteriatamente dimenticare la serie di conflitti nella ex Jugoslavia scoppiati negli anni Novanta del secolo scorso.Una tremenda pagina di storia, non ancora adeguatamente meditata, che ha rappresentato il primo, vero ed innegabile, fallimento dell’azione diplomatica e politica lato sensu dell’UE.

Per cercare di fare il più possibile chiarezza e riportare l’attenzione su queste guerre – soprattutto per le generazioni più giovani, per i ventenni/trentenni che di ciò raramente hanno sentito parlare, e non certo a scuola, stante l’incuria in cui versa da decenni l’insegnamento di tale disciplina, né presa in considerazione nei test Invalsi né particolarmente amata dagli ultimi Ministri e alti dirigenti del MIUR, almeno dai tempi di Luigi Berlinguer in poi – è stato organizzato nel pomeriggio di giovedì 15 novembre in Sala Scimé a Mondovì  dalla Sezione dell’ANPI di Mondovì (CN) e dalla Delegazione di Cuneo dell’AICC, in collaborazione con l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea di Cuneo, col Centro Studi Monregalesi, con Gli Spigolatori, l’Unidea, la Sezione Fidapa, il Liceo “Vasco-Beccaria-Govone” e col patrocinio della Città di Mondovì, il Convegno Nel cuore dei Balcani al tramonto del secolo breve.

Tre gli interventi:  ha introdotto il sottoscritto, con una premessa dal titolo Anche gli Stati muoiono: la fine della Jugoslavia; poi il Prof. Gigi Garelli ha trattato il tema, quanto mai attuale, dell’artata identificazione dell’ “altro” come “il nemico” con una articolata relazione dal titolo, appunto, Come ti costruisco il nemico. La regione dei Balcani dal sogno di Tito all’incubo di Srebenica; infine il giornalista Marco Travaglini ha parlato, con commozione e da profondo conoscitore della cultura slava, della situazione di Sarajevo in particolare e di tutta quella martoriata zona, riprendendo molte considerazioni dal suo recente libro Bosnia, l’Europa di mezzo. Viaggio tra guerra e pace, tra Oriente e Occidente (Ed. Infinito, 2015).Breve la vita dello Stato jugoslavo, durato nemmeno un secolo: dal 1918 quand’era Regno dei Serbi, Croati e Sloveni per passare al 1929 quando assunse il nome di Regno di Jugoslavia e per concludersi ufficialmente il 3 settembre 2003. In quel lasso di tempo, nel 1941 ci fu l’alleanza con Germania ed Italia, ma poi un colpo di Stato ruppe tale accordo e determinò l’invasione del Paese e ben dieci giorni di bombardamento ininterrotto su Belgrado, con conseguente resa dell’esercito e smembramento del Paese.  Sempre nello stesso anno, nel 1941, iniziò però anche la guerra di Resistenza e si creò il 27 giugno il comando supremo delle formazioni partigiane guidate dal capo del Partito Comunista, Josip Broz Tito: ancora molto discussa e tutta da studiare sine ira et studio la complessa vicenda dell’occupazione italiana di quei territori, che è passata dalla definizione di “occupazione allegra” – col carattere falsamente autoassolutorio della solita diagnosi di “Italiani brava gente” – a quella di Italiani “bruciacase”. Il 28 novembre 1945 nacque la Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia, diventata nel 1963 Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia: significativo lo stemma, sei fiaccole (i sei gruppi etnici) a costituire un’unica fiamma (l’unità dello Stato), circondata da spighe di grano (riferimento all’agricoltura e al popolo lavoratore) congiunte in cima da una stella rossa (il Partito Comunista). La Jugoslavia dapprima fu alleata dell’URSS, poi si defilò sempre più sino a mettersi a capo nel 1956 del movimento dei Paesi non allineati (l’allora detto “Terzo Mondo”), assieme all’Egitto di Nasser e all’India di Nehru. Fu dopo la morte del Maresciallo (4 maggio 1980) che quello che Garelli definisce “il sogno di Tito” (certamente non immune da eccessi dittatoriali e da un culto della personalità percepibile persino in una filastrocca che suonava così: Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito),  cioè quello di mantenere unito un miscuglio di popoli rispettandone e valorizzandone le diversità, ebbe vita brevissima: fallì l’idea delle presidenze collegiali, escogitata per garantire l’assoluta parità dei popoli jugoslavi (davvero impressionante il numero dei  deboli successori di Tito, elencati rapidamente in successione e rimasti in carica ciascuno per brevissimo tempo), finché nel 1986 emerse la personalità di Slobodan Milošević,  che divenne capo carismatico e restauratore del tema della “Grande Serbia”, con slogan chiarissimi quali: “Serbia è dove c’è un Serbo”, vivo o morto, non importava. Altre personalità  si distinsero progressivamente:  Franjo Tudjman, uno dei più giovani generali di Tito divenuto primo presidente della Croazia; Radovan Karadžić e Ratko Mladić, entrambi poi accusati di crimini di guerra e di genocidio… tutti personaggi che esaltarono i nazionalismi, arrivando a teorizzare la mostruosità della “pulizia etnica”. Si passò così dalla pacifica convivenza di etnie e religioni diverse (i serbo-bosniaci ortodossi; i croato-bosniaci cattolici; i bosniaco-islamici) alla sistematica e delirante “creazione del nemico”, come  evidenziato da Garelli. Dal 1991 iniziò il processo di proclamazione delle autonomie di Slovenia, Croazia, Bosnia, riconosciute l’anno dopo dall’ONU; dal 1991 al 1995 ci fu la guerra in Croazia, che si intersecò e sovrappose a quella in Bosnia (1992-5) con momenti assolutamente tragici:

  • l’assedio di Sarajevo (5 aprile 1992-29 febbraio 1996, protrattosi quindi oltre la fine stessa del conflitto, il più lungo assedio della storia del sec. XX, ben più lungo di quello di Stalingrado, durato dal 17 luglio 1942 al 2 febbraio 1943);
  • l’insensata distruzione del ponte di Mostar (9 novembre 1993: ne fu responsabile il generale Slobodan Praljak, che il 29 novembre 2017 fu condannato dal Tribunale dell’Aia a vent’anni di carcere per crimini di guerra: dopo la lettura della sentenza, Praljak ingurgitò una fialetta di cianuro e la sua morte fu ripresa in diretta dalle telecamere presenti in aula);
  • il massacro di Srebrenica (6-25 luglio 1995), quando l’esercito serbo-bosniaco agli ordini di  Ratko Mladić sterminò più di ottomila musulmani, maschi tra i 12 e i 27 anni, separati da donne e bambini e poi sepolti in fosse comuni, nonostante quella zona fosse stata dichiarata demilitarizzata e posta sotto la protezione dell’ONU.

Nel novembre 1995 l’Accordo di Dayton pose termine alla guerra e fu ratificato poi il 14 dicembre 1995 a Parigi, con la creazione di due entità distinte (la Federazione croato-musulmana e la Repubblica SRPSKA).

Oggi, quello che era un unico Stato è stato sostituito da ben sei Paesi: la Bosnia-Erzegovina con capitale Sarajevo; la Croazia con capitale Zagabria; la Macedonia con capitale Skopje; il Montenegro con capitale Podgorica; la Serbia con capitale Belgrado; la Slovenia con capitale Lubiana.

Marco Travaglini ha visitato tante volte Sarajevo e quei luoghi martoriati: la sua è una testimonianza diretta, da giornalista particolarmente sensibile agli aspetti umani. Tante le suggestioni e i momenti di commozione che ha trasmesso, foriere di riflessioni destinate a maturare in ciascuno di noi del pubblico. Egli ha giustamente parlato di “psiconazionalismo” per spiegare come un solo popolo, quello slavo, dopo un lunghissimo periodo di coesistenza rispettosa e pacifica di diversi culti e tradizioni religiose, abbia potuto massacrarsi in modo così orrendo; ha insistito sul micidiale valore simbolico rappresentato dal bombardamento del ponte di Mostar, avvenuto nello stesso giorno (9 novembre) in cui solo quattro anni prima si era abbattuto il muro di Berlino: due abbattimenti che non potrebbero essere di segno più opposto. Travaglini  ha evidenziato un’incredibile bizzarria della storia, la martellante ricorrenza di un’altra data, il 28 giugno, giorno di San Vito che è festa nazionale serba, quella che nel suo libro definisce l‘ossessione del 28 giugno e a cui dedica un intero capitolo (pp.147-151) da cui desumo:

–       28 giugno 1389: battaglia di Kosovo Polje (“il Campo dei Merli”), in cui i serbo-bosniaci al comando del principe Lazar Hrebeljanović – proclamato poi Santo dalla Chiesa ortodossa – furono vinti e sterminati dagli Ottomani, che inaugurarono così un dominio di cinque secoli su quelle terre. Esattamente sei secoli dopo, il 28 giugno 1989  Slobodan Milošević pronunciò un famoso discorso in cui risuonò un’affermazione sinistramente profetica: Sei secoli dopo, adesso, noi Serbi veniamo nuovamente impegnati in battaglie e dobbiamo affrontare battaglie. Non sono battaglie armate, benché queste non si possano ancora escludere;

–       28 giugno 1914: data famosissima, l’assassinio a Sarjevo dell’arciduca Francesco Ferdinando e di sua moglie Sofia in occasione della loro visita ufficiale proprio per la festa di San Vito ad opera del nazionalista serbo Gavrilo Princip. Fu il casus belli del primo conflitto mondiale, l’inizio di una serie impressionante di sciagure per tutto il Vecchio Continente;

–       28 giugno 1919: la firma del Trattato di Versailles pose termine alla Prima Guerra Mondiale, definita pace anfibia da Winston Churchill, perché di fatto pose anche le premesse per il secondo conflitto mondiale;

–       28 giugno 1921: fondazione da parte del re Alessandro del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni;

–       28 giugno 1948: espulsione del partito comunista jugoslavo dal Cominform e rottura insanabile tra URSS e Jugoslavia;

–       28 giugno 2001: consegna di Milošević al Tribunale Penale Internazionale dell’Aja. Verrà poi trovato morto nel carcere dell’Aja la mattina dell’11 marzo 2006: tre giorni dopo il Tribunale dichiarerà estinta l’azione penale, senza formulare alcuna sentenza. Un’altra vicenda oscura, sulla quale chissà mai se si farà chiarezza;

–       28 giugno 2006: il Montenegro è proclamato il 192esimo Stato membro dell’ONU.

Molte altre le considerazioni di Travaglini, ma credo sia importante soffermarsi sull’accorata analisi che egli ha fatto di Sarajevo, la città che ha “pesato” di più sulla storia dell’intero secolo breve, per usare la definizione di Hobsbawm, quella in cui si abbracciano Oriente e Occidente, nel cui centro stanno quattro luoghi di preghiera, uno musulmano, due cristiani e uno ebraico, a un centinaio di metri l’uno dall’altro, cosa che non esiste in nessun’altra parte del mondo: una città che ospitava un Islam laico, moderato, nella quale sino ancora ad una ventina di anni fa le donne musulmane non indossavano il velo.

Credo valga raccolto l’invito che Travaglini ci rivolge nelle ultime pagine del suo bel libro: Andate a Sarajevo, a Mostar, a Tuzla, s Srebrenica. Ma non andateci con gli occhi svagati dei turisti, ma di chi è disposto a vedere oltre l’apparenza, con la voglia di capire…[…] I Paesi della ex Jugoslavia non hanno ancora trovato stabilità ed equilibrio dopo la sanguinosa guerra degli Anni ’90. È una vicenda che ha radici ben più lontane se, più di cinquant’anni fa Winston Churchill commentava in questo modo la natura di quelle terre: “Gli spazi balcanici contengono più storia di quanta ne possano consumare”. Ci si accorge, senza troppa fatica, che lì nasce e termina, nel sangue, il secolo breve. Tutto finisce e tutto si capisce lì. Basta avere voglia di tenere gli occhi aperti e mente e cuore sgombri da pregiudizi.

Stefano Casarino