Da De Chirico a Andy Warhol, fino alla “Gibigianna” di Gallizio e al pop-concettuale di Paolini
Diciannove spazi concepiti secondo un nuovo iter espositivo “che intende restituire la centralità all’opera d’arte”. E un look decisamente rinnovato, con ambienti ridisegnati e ridefiniti “per permettere il confronto e consentire il paragone necessario tra opera e opera”: dal 26 settembre scorso alla GAM-Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino va in scena il nuovo allestimento del Novecento storico – fra nuove acquisizioni e opere che riemergono dal caveau, le preziose “stanze del tesoro” come le chiamava il grande fotografo Mauro Fiorese – curato dallo stesso direttore del Museo di via Magenta, Riccardo Passoni.
Un allestimento che vuole, ancor meglio di prima, rimarcare il “primato dell’opera”, privilegiando “un taglio storico-artistico, ma anche dando il giusto rilievo alla storia delle collezioni civiche nel panorama artistico torinese, nazionale e internazionale”. Una composita e corposa, ma già sfiorata dalle metafisiche suggestioni dell’enigma, “Natura morta con salame” opera di Giorgio De Chirico, datata 1919, apre il percorso espostivo in una prima sala che accanto al maestro di Volo, vede riunite opere di Giorgio Morandi (le sue tarde ed essenziali “Nature Morte”) e di Filippo De Pisis; tre figure fra quelle che maggiormente hanno influito sull’arte italiana e internazionale del Novecento. Godibilissima e fascinosa premessa a quanto, sala dopo sala, ci scorre dinanzi attraverso capolavori che vanno dalle “Avanguardie storiche” – con le opere di Umberto Boccioni, Gino Severini, Giacomo Balla, Enrico Prampolini, Otto Dix, Max Ernst, Paul Klee e Francis Picabia – fino alla Torino dell’arte fra le due guerre mondiali (con le opere dei “Sei”) e alla riscoperta di Amedeo Modigliani (“La ragazza rossa” arrivata al Museo in occasione del
Centenario dell’Unità d’Italia) e alla sua forte influenza, anche attraverso gli studi di Lionello Venturi, proprio sugli artisti subalpini dell’epoca.
Seguono, in un’avventura di passi e funambolici salti della memoria e della mente, le sezioni dedicate all’“Arte astratta italiana” in cui troviamo le tracce indelebili lasciate da grandi maestri, quali Fausto Melotti, Osvaldo Licini e la “Scultura astratta” del ’34 di Lucio Fontana, accanto alle sorprendenti acquisizioni di arte internazionale nel periodo post bellico che portano le firme di Marc Chagall (con il piccolo, magico “Dans mon pays” del ’43), la drammatica grafia di Hans Hartung, fino alle magie creative di Pierre Soulages, Tal Coat, Pablo Picasso e la sinteticità plastica di Jean Arp o quella più aggressiva di Eduardo Chillida. Dall’astratto all’“Informale” degli anni Cinquanta: di sala in sala si ha l’impressione netta che l’Arte del Novecento non potesse che compiere queste strane e meravigliose giravolte. Con passaggi di testimone fortemente legati fra loro. Quasi inevitabili. Eredi scontati gli uni degli altri. Dall’“Informale di segno” di Carla Accardi, Giuseppe Capogrossi e Antonio Sanfilippo si scivola dunque, senza troppi sussulti, alle libere visioni paesistiche di Renato Birolli, Ennio Morlotti e Vasco Bendini fino al linguaggio più vigoroso di Emilio Vedova e all’originale coinvolgimento dei torinesi Piero Ruggeri, Sergio Saroni, Giacomo Soffiantino e Paola Levi Montalcini.
Di qui il passo breve al “facile linguaggio” del “New Dada” e della “Pop Art” italiana e straniera – con le ingegnose creazioni di Piero Manzoni, Louise Nevelson, Yves Klein e Andy Warhol, assicurato in rassegna per 80milioni – fino all’esperienza dell“Arte Povera”, teorizzata nel ’67 da Germano Celant e solo nel ’70 approdata nelle sale di
un Museo. Guarda caso, proprio alla nostra GAM. Dove troviamo la totale anarchia estetica e l’uso libero di materiali, i più eterodossi, di Pier Paolo Calzolari, Mario Merz, Giuseppe Penone via via fino a Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Jannis Kounellis, Michelangelo Pistoletto e Gilberto Zorio. Sale personali sono infine e doverosamente dedicate, per il ruolo da loro svolto nell’indicare strade nuove e magistrali nell’evoluzione del percorso artistico nazionale e internazionale, a Felice Casorati, ad Arturo Martini, ad Alberto Burri e a Lucio Fontana. Autentiche chicche, poste in lodevole evidenza dal nuovo allestimento espositivo, il ciclo narrativo “favolistico” della “Gibigianna” dell’albese Pinot Gallizio e l’apparente fragilità del “Requiem” di Giulio Paolini, artista che ha saputo saggiamente indicarci “l’esigenza di mantenere sempre un rapporto necessitante con la storia dell’arte, i suoi segni e richiami, e il loro valore per una vivificazione concettuale della forma”.
Gianni Milani
“Il primato dell’opera”
GAM-Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, via Magenta 31, Torino; tel. 011/4429518 o www.gamtorino.it
Orari: giov. e ven. 12/19, sab. e dom. 10/19
Nelle foto

L’anno seguente Alighiero Boetti (Torino, 1940 – Roma, 1994), fra i grandi nomi dell’Arte Povera e in seguito di quella Concettuale, si era concentrato sulla “reiterazione del gesto”, fra ossessione e meditazione Zen, sulle orme di quella curiosità per l’esotismo in generale, ereditata dall’avo Giovan Battista Boetti (1743 – 94), missionario demenicano di Mossul, convertitosi all’esoterismo persiano e al sufismo. Ne era nata l’opera “Cimento dell’armonia e dell’invenzione”, paziente ricalco a matita di numerosi fogli di carta quadrettata, una sorta di rituale eseguito registrando i suoni prodotti. Esperienze basilari e di svolta per l’eclettica produzione artistica di Boetti, esaltate dall’invito di Schum, che l’artista accettò trovando ancor più nella produzione video la strada idonea per accentuare quel “tema del doppio”, la ricerca dell’identità e della scissione di sé, che diventerà tema centrale del suo essere artista, del suo essere a un tempo operatore e oggetto del fare arte. Situazione che s’appalesa nitidamente nei video realizzati da Boetti e in visione, fino al 21 febbraio del prossimo anno, alla GAM di Torino, come terzo appuntamento del ciclo espositivo, a cura di Elena Volpato, nato dalla collaborazione fra l’“Archivio Storico della Biennale di Venezia” e la “VideotecaGAM”. “Ogni oggetto del mondo – affermava Boetti – ha almeno due vite”, cui riferirsi e confrontarsi sul piano artistico. Ma anche esistenziale e filosofico. Concetto tanto forte da indurlo a sdoppiare il proprio nome in “Alighiero e Boetti”, mettendo in crisi l’identità dell’artista stesso. “Alighiero – spiegava ancora l’artista – è la parte più infantile, più estrema, che domina le cose famigliari. Boetti, per il solo fatto di essere un cognome, è già un’astrazione, è già un concetto”. Doppia identità, intreccio di vite inscindibili l’una dall’altra. Messaggio chiave del primo video presentato in mostra, “Senza titolo” del 1970, parte della raccolta “Identifications” di Gerry Schum. Boetti volge le spalle alla telecamera e il suo corpo è trasformato in un “segno nero verticale” sul muro bianco posto al centro dell’inquadratura. Le sue mani iniziano a scrivere contemporaneamente, verso destra e verso sinistra, la sequenza dei giorni della settimana, a partire dal giovedì fin dove la lunghezza delle braccia aperte gli consente di arrivare. “In un’unica azione Boetti intreccia il tempo e il doppio, i due aspetti fondamentali del linguaggio video e al contempo del suo lavoro”. Negli stessi mesi aveva realizzato un’immagine fotografica di sé scattata dall’alto, “Due mani e una matita”, in cui stringe una matita posata sul bianco del foglio, “come
apice di un triangolo da cui lasciar scaturire il mondo”. E immagine che, in doppia riproduzione, avrebbe caratterizzato molte sue opere successive; posta, in forma rovesciata, in alto e in basso “come a chiudere e ad aprire lo spazio immaginativo del foglio o della tela”. L’ossessione del “doppio”. Che Boetti vuole trasmettere anche in uno dei suoi più noti ritratti fotografici: “Strumento musicale” del 1970, scattato da Paolo Mussat Sartor e presente in mostra. L’artista vi appare con le mani posate sui due manici simmetrici di un curioso banjo ambidestro che con la sua cassa circolare e il doppio ponticello circoscrive al centro della visione un ideale ombelico sonoro da cui si immagina possano scaturire due diverse musiche speculari, “due flussi di suoni che si dipartono dall’abisso del tempo”. In chiusura, la rassegna presenta il video “Ciò che sempre parla in silenzio è il corpo”, realizzato da Boetti nel 1974 e parte delle raccolte dall’“Archivio Storico della Biennale” di Venezia. L’opera offre, a quattro anni di distanza, una riflessione speculare del primo video, mutandone esclusivamente la frase scritta dall’artista. Che affermava: “È incontrovertibile che una cellula si divida in due, poi in quattro e così via; che noi abbiamo due gambe, due braccia e due occhi e così via; che lo specchio raddoppi le immagini; che l’uomo abbia fondato tutta la sua esistenza su una serie di modelli binari, compresi i computer; che il linguaggio proceda per coppie di termini contrapposti. […] È evidente che questo concetto della coppia è uno degli elementi archetipi fondamentali della nostra cultura”.

Ha talento e originalità creativa da vendere, 

Qui abbiamo un normalissimo nudo femminile esposto ai benefici effetti del sole e un paio di gambe
Mercoledì 21 ottobre il Cinema Massaua di Torino ha ospitato l’anteprima nazionale del film “ Sul più bello “ di Alice Filippi , prodotto dalla Eagle Pictures.
Donatello 2018, è stata anche ospitata nell’ambito della recente Festa di Roma.
Conficcato in una nicchia di un grande masso compare il volto di un personaggio dell’antichità. Si parla di Maometto, il profeta dell’Islam, o di un Giove romano o forse di qualcun altro. In bassa Val di Susa, a una quarantina di chilometri da Torino, i colori dell’autunno e le prime nebbie d’ottobre rendono quel luogo ancora più incantato e anche un po’ fiabesco. Ma intorno a quella figura maschile persiste la disputa, ormai vecchia di decenni, tra borgonesi e storici. I valsusini non hanno dubbi: quel volto scolpito nella roccia è quello di Maometto ma gli studiosi la pensano molto diversamente. Maometto non c’entra nulla, sostengono i ricercatori, si tratta piuttosto di una divinità romana. Eppure quel gigantesco masso caduto in valle a ridosso di una stradina accanto al bosco è rotolato per centinaia di metri dall’alto di una montagna dove i saraceni musulmani passavano, stazionavano e poi scendevano in valle per uccidere e distruggere paesi e borgate. Chissà che non siano stati proprio loro a incidere su quella roccia il volto del fondatore della religione islamica? Vale comunque la pena passare da queste parti quando si va in alta valle a sciare o a visitare Susa e la Novalesa o a mangiare la polenta in qualche rifugio. Si lascia l’auto dove è possibile e dopo una brevissima camminata eccolo lì, è talmente piccolo nell’enorme masso che quasi non si vede ma poi, avvicinandosi, emerge una piccola nicchia a forma di tempietto a quattro-cinque metri dal suolo. I borgonesi lo chiamano “il Maometto di Borgone”. Indossa una tunica e un mantello, ha le braccia sollevate verso l’alto e ai piedi si scorge un animale mentre sul frontone compare un’iscrizione, quasi
cancellata dal tempo, con lettere latine. Per la tradizione popolare della zona quella figura rapresenta Maometto e molte leggende antiche si fanno risalire alle invasioni dei Mori che oltre mille anni fa devastarono la Valle di Susa lasciando terribili ricordi nella gente, poi tramandati per generazioni. Ma allora chi è rappresentato in quel bassorilievo? Le ipotesi avanzate sono diverse ma il Profeta avrebbe poco a che vedere con quel ritratto. Si tratterebbe invece, secondo gli storici, del volto di Giove Dolicheno, una divinità anatolica venerata dai soldati romani nel II-III secolo. Gli arabi arrivarono in Val di Susa alcuni secoli dopo la morte di Maometto. Valicate le Alpi marittime i predoni musulmani giunsero in Liguria e in Piemonte e nell’anno 906 furono avvistati per la prima volta nelle grotte dell’alta Val di Susa che furono usate come basi per assaltare e depredare i borghi valsusini, saccheggiando e uccidendo gli abitanti del luogo. La stessa celebre Abbazia di Novalesa, all’epoca uno dei più importanti centri culturali e religiosi del Piemonte, fu incendiata nel 912 dai saraceni e i monaci furono costretti a fuggire a Torino mettendo in salvo codici e manoscritti della biblioteca. Ma il mistero in bassa valle resta e la domanda se la pongono in molti: quel volto misterioso è di Maometto o di un Giove? Gli studiosi, come detto, non hanno più dubbi, si tratta di una divinità romana, ma per i borgonesi l’uomo misterioso resta Maometto. Lasciamo quindi a Borgone il suo “Maometto” in bella mostra su quella rupe che attira turisti e gitanti diretti in alta valle. Una capatina da Maometto è sempre gradita ai borgonesi.