IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Debbo premettere di non aver mai avuto una particolare simpatia per Enzo Bianchi, fondatore della Comunità interreligiosa di Bose, personaggio celebratissimo anche dall’attuale Pontefice che però in tempi recenti lo ha allontanato in modo brusco da Bose. L’ho ascoltato qualche volta e ho avuto modo anche di parlargli. Non mi ha mai convinto, se non per il suo tentativo di tenere aperto un dialogo con protestanti e ortodossi apprezzato anche dal cardinale Ravasi che è la testa più colta e pensante della Chiesa d’oggi. Mi è sembrato sempre un grande affabulatore, anche se appare evidente una sua incultura di fondo rappresentata da un diploma in ragioneria e una frequenza non terminata con una regolare laurea della Facoltà di Economia e commercio. Bianchi ha vissuto intensamente la stagione del Concilio Vaticano II, rimanendo nella Chiesa senza gli estremismi allora frequenti delle comunità contestative di Firenze, di Torino, di Roma e di altre città che ebbero dal cardinale Pellegrino un qualche appoggio clandestino come quello concesso all’ex abate di San Paolo dom Franzoni. Il nettissimo orientamento a sinistra di Bianchi ne ha fatto il fiore all’occhiello dei cattolici progressisti. Articoli di giornale, conferenze, libri hanno reso noto Bianchi anche in televisione. In una recente intervista, dopo le polemiche con il Papa per il suo allontanamento da Bose, ha detto testualmente : “Io a Bose avevo provato a cambiare le preghiere. Avevo trasformato il linguaggio di molte di esse per renderlo più attuale. Più vicino ai giovani, più moderno. E non è che questa scelta mi abbia portato così tanta fortuna …”. Ed ancora : “Ai giovani la liturgia che oggi viene offerta in chiesa e ‘ molto lontana, troppo perché essi ne siano ancora attratti. Io faccio fatica ad accettare liturgia ed Eucarestia così come vengono celebrate oggi. Le preghiere si ripetono in un linguaggio che non dice più nulla. I social e non soltanto hanno cambiato il modo di comunicare e l’Eucarestia e le preghiere devono parlare anche ai giovani che sono sempre meno nelle nostre chiese “. Io non ho una sufficiente conoscenza del mondo protestante, ma mi sembra che Bianchi parli ormai come tale. Certamente non ha una cultura neppure teologica, ma parlare così delle preghiere e soprattutto dell’Eucarestia appare imbarazzante. Può sembrare strano che un laico credente come chi scrive, debba ricordare a “padre “ Bianchi che il “Padre nostro” è la preghiera insegnata da Gesù. E “l’Ave Maria “sublimata dalla poesia dantesca, e’ una preghiera che nessun Bianchi può permettersi di toccare o ritoccare. E’ la preghiera che don Bosco consigliava di recitare ogni sera prima di addormentarsi ai suoi giovani. E tanto basta. Stiamo davvero perdendo il senso della misura e delle proporzioni. Nessuno sente la necessità di una riforma da parte di Enzo Bianchi. Se lo confrontiamo ai grandi eretici come Lutero, abbiamo la vera dimensione parolaia del fondatore di Bose. Non esiste un Cristianesimo per i giovani e uno per gli anziani. I secoli della storia della Chiesa appartengono ad una tradizione che forse Bianchi non è neanche in grado di capire. Siamo nella novena di Natale e il canto del “Regem venturum dominum”appartiene ad una suggestione ineffabile che anche l’ateo Massimo Mila ammirava.

Ebbene, proprio oggi 14 dicembre, se potessi per magia invertire (ma di tanto) la ruota del tempo, mi ritroverei bambino, felicissimo, nella cucina della piccola casa di Pontenure, in fondo al lungo cortile dove abitavano anche zia Ida, zio Natale e i cugini, l’Emma e l’Enrico, a giocare con i tanto attesi doni (doni? Andiamoci piano: un dono, un gioco, povero ma per me magnifico, una fetta di panettone, un mandarino o un’arancia) portati nella notte, fra il 12 e il 13 dicembre, dalla buona Santa Lucia. Il Piacentino è, infatti, una delle non poche province italiane in cui ancora oggi – credo – si pratica il culto di Santa Lucia, risalente pare al XIV secolo, quando i nobili veneziani, nel giorno dedicato alla Santa (siracusana e martire cristiana sotto la persecuzione dell’imperatore Diocleziano) erano soliti fare doni ai bambini. I doni che precedevano quelli un po’ più importanti (ma appena un po’) della notte di Natale. Noi bambini scrivevamo una letterina alla Santa – protettrice della “vista” per il nome che richiama la “lux” o luce latina – elencando con molta parsimonia i regali che avremmo voluto ricevere, mentre le mamme erano solite lasciare del cibo (arance, biscotti, caffè, mezzo bicchiere di vino rosso) per rifocillare e ingraziarsi la Santa, che viaggiava dalla sua Sicilia fino al Trentino a cavallo di un asinello, anche lui ripagato con un po’ di fieno o farina gialla. Alla mattina del 13 dicembre, noi bambini si trovava un piatto con gli avanzi lasciati dalla Santa (furtivamente smangiucchiati dalla mamma), ma arricchito di caramelle, monete di cioccolato e qualche mini-dono, lasciato lì in anticipo rispetto a quelli che ci avrebbe portato il più generoso Babbo Natale.



Rubrica settimanale a cura di Laura Goria
I loro figli poi sono un capitolo a parte.
A narrare la perigliosa impresa emotiva è Johanna che torna in Norvegia dopo 30 anni di lontananza e il violento strappo dalla famiglia, che non le ha mai perdonato di aver scelto la sua strada indipendentemente da quella tracciata dal padre. Lui era un avvocato che aveva spinto la figlia a seguire la stessa carriera. Lei, studentessa di legge sposata da poco, aveva abbandonato l’affidabile marito ben visto in famiglia. Era scappata nello Utah con il suo professore di arte, Mark, insieme al quale aveva avuto un figlio, ed era diventata una pittrice di successo.
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