CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 471

I giardini più belli del mondo? Sono in Piemonte, incoronati dal web

Si trovano  sul Lago Maggiore, i giardini di Villa Taranto che il sito web Buzzfeed nel 2014 nominò come  i giardini più belli del mondo

Ai  famosi  giardini terrazzati, 16 ettari in tutto, si accede dall’imbarcadero (scalo Villa Taranto) o dalla strada che collega Pallanza ad Intra. Attorno  ad un autoparcheggio gratuito, sono disposti la biglietteria, il bookshop, il chiosco per la vendita di piante coltivate nei giardini ed il Bar-Ristorante.

Nello splendido edificio di gusto eclettico dell’ex portineria dei Giardini Botanici, sono esposti preziosi e delicati “quadri naturali”. L’Erbarium Britannicum del Capitano Neil Mc Eacharn comprende 43 teche nelle quali è possibile ammirare specie di flora spontanea del regno unito raccolte, classificate e nomenclate nel lontano 1929 in Inghilterra da Henry Cocker, il primo giardiniere di Villa Taranto. Visitabile gratuitamente durante la stagione tutti i giorni dalle 10.00 alle 17.00.

Dall’estate all’autunno il Labirinto delle Dahlie affascina ed incanta i visitatori con lo spettacolo di oltre 1700 piante in fioritura. Tra le 350 varietà spiccano le decorative a fiore grande, le pompons, i cui capolini sferici a nido d’ape non raggiungono i 5 mm di diametro e l’appariscente Emery Paul dall’intenso colore rosso granata.

La Fontana dei putti è così chiamata per le sculture che l’adornano. In primavera la fontana è contornata da fioriture multicolore tra le quali si ammirano le Viole Cornuta e le Primule Obconica. D’estate la stessa fontana è “avvolta” dalle gigantesche foglie della Colocasia antiquorum chiamata con definizione pittoresca “orecchia d’elefante”.

Artificialmente scavata nel 1935 e sovrastata da un ponticello, lungo 35 metri, con arcata unica è la “valletta”. L’arredo vegetale oltre a ginestre arboree, cascate di Cotoneaster horizontalis e molto altro, comprende anche la Davidia involucrata, pittorescamente detta “l’Albero dei fazzoletti”.

Fu  Neil Boyd Watson McEacharn, un capitano  scozzese, amante della botanica e dell’Italia, nel 1931, a comprare la proprietà  per trasformarla in un giardino all’inglese.

“Un bel giardino non ha bisogno di essere grande, ma deve essere la realizzazione del vostro sogno anche se è largo un paio di metri quadrati e si trova su un balcone”.

Così spiegava il Capitano Mc Eacharn.

https://www.villataranto.it/

ORARIO DI VISITA
Tutti i giorni, festività incluse con orario continuato:
18 Maggio – 31 Maggio:                 9:00 – 17:00 (ultimo ingresso)
1° Giugno – 30 Settembre:             9:00 – 17:30 (ultimo ingresso) SALVO NUOVE DIRETTIVE
1 ° Ottobre – 1 ° Novembre:           9:30 – 16:30 (ultimo ingresso) SALVO NUOVE DIRETTIVE

DURATA MINIMA DELLA VISITA
Da un’ora a 2 ore circa.

Quando il sound inganna

Caleidoscopio rock USA anni ’60 / Il movimento psichedelico costituì uno spartiacque di indiscutibile importanza nella storia della musica rock degli anni Sessanta negli Stati Uniti. Il suono nuovo, gli effetti di riverbero, l’uso delle distorsioni divennero segni distintivi di una rinnovata ondata che giunse a contaminare positivamente tutto ciò che in precedenza era riconducibile a rock&roll, rockabilly vintage, garage tradizionale e simili.

La contaminazione suddetta era (ed è tuttora) avvertibile pressoché da tutti, finanche dagli orecchi meno allenati e dagli ascoltatori più distratti; lo è in tal misura da essere importantissima per poter datare con una certa sicurezza un gran numero di 45 giri che (dati la settorialità delle etichette, il piccolo cabotaggio delle bands o lo scarso impatto dei brani nelle programmazioni radiofoniche) non avrebbero potuto dare appigli o indizi utili per un inquadramento temporale delle incisioni.

Ma naturalmente ci sono casi davvero complicati e infidi, specialmente quando le etichette sono piccole, magari “meteore” nate e morte con una band specifica, refrattarie alle nuove influenze musicali in arrivo o in ascesa; gli stessi studiosi della storia della musica rock statunitense si trovano in grande difficoltà in questi frangenti, quasi al punto di dover datare un 45 giri con una lancio di moneta (coin flip). Purtroppo queste situazioni di profondo dubbio non sono così rare ed isolate, proprio a causa del proliferare continuo di microetichette in tutti gli USA nella seconda metà degli anni Sessanta. Uno di questi casi è l’unico 45 giri inciso dalla band Cole and The Embers di Kirkwood (area metropolitana di St. Louis, Missouri): “Hey Girl” [Martines – Lepore] (1220; side B: “Love Won’t Hurt You”), con etichetta Star Trek records. La datazione corretta è maggio 1968 (possibile solo con l’attenta analisi dei numeri di matrice del disco), ma sfido chiunque ad affermare che il sound del disco abbia sentori del 1968… Questa infatti è proprio la fattispecie di un’etichetta microscopica a se stante rispetto ai tempi ormai mutati e al suono ormai rinnovato dalla psychedelia. La band Cole and The Embers sorse nel 1965 e dopo vari cambi di componenti si stabilizzò in Robert Lepore (V, chit), Scott Lay (V, b), Steve Starr (org), Charlie Cablish (batt). La maggior parte delle esibizioni aveva luogo in occasione di feste liceali, frat parties e soprattutto in teen clubs dell’area di St. Louis, in seguito in estensione fino a Rolla, Farmington, Lebanon e nel sud est del Missouri oltre la Mark Twain National Forest. Il raggio di azione non fu particolarmente vasto e solo in rari casi si spingeva fino a Illinois ed Indiana, per frat parties “strategici” o per incassi che almeno compensassero le spese di viaggio. La gestione manageriale era “home made” e il budget impiegato per l’incisione dell’unico 45 giri era basso, limitando il tutto ad un’unica sessione e in condizioni “estreme” (un sabato mattina alle 9, con voci precarie a seguito di un venerdì notte di gig fino a tarda ora). La band comunque non si spinse mai oltre il limite della “tenuta psicologica”, ben consapevole degli impegni negli studi e della classica “spada di Damocle” del periodo post- “high school”. D’altronde, così come regolarmente succedeva, anche Cole and The Embers si sciolsero nella fase critica del passaggio al college o all’università, vale a dire nell’estate del 1968.

Gian Marchisio

Le finaliste del “Premio biennale Mario Lattes per la Traduzione”

Annunciate le cinque selezionate per la prima edizione. Sabato 18 luglio, la cerimonia di premiazione al Castello di Perno nelle Langhe

Monforte d’Alba (Cuneo) – Tutte donne. Un gruppo “in rosa” di cinque super-traduttrici. Due sono docenti di “Lingua e Letteratura araba” all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale; una terza all’Università del Salento; la quarta insegna alla Scuola Superiore per Mediatori Linguistici CIELS di Milano e la quinta collabora con diverse case editrici italiane come consulente editoriale e traduttrice letteraria freelance. Nell’ordine, questi i loro nomi: Maria Avino, Monica Ruocco, Samuela Pagani, Nadia Rocchetti e Barbara Teresi. Sono loro le cinque finaliste selezionate nei giorni scorsi dalla Giuria Stabile del “Premio biennale Mario Lattes per la Traduzione”, promosso dalla Fondazione Bottari Lattes e dedicato per la sua prima edizione alla Letteratura in lingua araba tradotta in italiano. A Maria Avino, il riconoscimento è andato per la traduzione di “Morire è un mestiere difficile” del siriano Khaled Khalifa (Bompiani, 2019); a Monica Ruocco per “Il suonatore di nuvole” dell’iracheno Ali Bader (Argo, 2017), mentre Samuela Pagani, Nadia Rocchetti e Barbara Teresi si sono guadagnate la finale rispettivamente per la traduzione del “Corriere di notte” (La Nave di Teseo, 2019) del libanese Hoda Barakat, di “Viaggio contro il tempo” (Jouvence, 2018) della libanese Emily Nasrallah e di “Una piccola morte” (E/o, 2019) del saudita Mohamed Hasan Alwan.

La cerimonia premiazione – condotta dalla giornalista e saggista Paola Caridi – si terrà sabato 18 luglio, alle ore 18, nel giardino del Castello di Perno (Cuneo) nel cuore delle Langhe, Patrimonio Mondiale dell’Umanità Unesco. Nell’occasione l’orientalista Fabrizio Pennacchietti terrà una lectio magistralis su “L’arabo letterario moderno può dirsi una lingua ‘europea’?”. A ingresso libero con prenotazione obbligatoria fino a esaurimento posti, la cerimonia si svolgerà nel pieno rispetto delle normative di sicurezza per l’emergenza Covid-19 (inviare mail con nome e cognome a: book@fondazionebottarilattes.com). Potrà anche essere seguita in diretta streaming sulla pagina Facebook della Fondazione. In caso di pioggia, la premiazione si svolgerà all’Auditorium della stessa Fondazione, in via Marconi 16 a Monforte d’Alba.

“Con il Premio Mario Lattes per la Traduzione – sottolineano gli organizzatori – la Fondazione Bottari Lattes pone l’attenzione sul fondamentale ruolo dei traduttori nella diffusione della letteratura e sull’impareggiabile contributo della traduzione nell’avvicinare popoli e culture differenti, abbattendo muri ideologici, creando ponti culturali e favorendo il dialogo. Con questa iniziativa la Fondazione intende altresì promuovere la conoscenza di culture e autori meno noti al pubblico italiano e incoraggiare la traduzione in italiano delle loro opere letterarie più significative per qualità letteraria e profondità di contenuti, riflessioni, testimonianza”.

Promosso dalla Fondazione Bottari Lattes, il Premio è realizzato in collaborazione con l’Associazione Castello di Perno e il Comune di Monforte d’Alba, con il contributo di Fondazione CRC e Banca d’Alba, con il patrocinio dell’Unione di Comuni “Colline Di Langa e Del Barolo” e di “S. Lattes & C. Editori”.
Per info: tel. 011/19771755 – 0173/7892412 o book@fondazionebottarilattes.it, eventi@fondazionebottarilattes.it
WEB fondazionebottarilattes.it | FB Fondazione Bottari Lattes | TW @BottariLattes | YT FondazioneBottariLattes
g. m.

Una galleria storica di liberali doc

Di Mauro Anselmo / E’ il confronto fra due realtà culturali, due stili, due modi di interpretare la dignità della persona e della politica, la chiave di lettura del nuovo saggio Mario Pannunzio. La civiltà liberale (Golem Edizioni) a cura di Pier Franco Quaglieni. La lezione del Mondo fra ieri e oggi. La riflessione su un’esperienza editoriale di passione civile che, pur avendo lasciato il segno in un passato non remoto, si rivela ancora capace di dare una lezione al presente.

Quaglieni ripropone l’eredità intellettuale e morale del settimanale fondato da Pannunzio nel febbraio 1949 che cessò le pubblicazioni nel marzo 1966. E, soprattutto, offre al lettore una galleria di testimonianze preziose, in molte parti inedite (da Montanelli a Spadolini, da Soldati a Ronchey, Bettiza, Castronovo, Gorresio, La Malfa, Valiani, Elena Croce, Scalfari, Battista, il cardinale Ravasi e molti altri) in grado di far rivivere, grazie al sapiente dosaggio di Quaglieni, i momenti cruciali di quell’avventura con i protagonisti, i caratteri, le passioni, i conflitti delle idee, ma anche gli scontri decisivi che divisero l’Italia del dopoguerra.

Il Mondo era il giornale che il grande pubblico non leggeva, ma che non mancava sulle scrivanie di sostenitori e avversari e, in particolare, negli uffici dei palazzi che formavano l’establishment di allora. “Perché uomini come Moravia e Montanelli – si interrogava Domenico Bartoli su Epoca, nel 1968 – dovevano tenere il parere di Pannunzio in maggior conto di quello dei critici più conosciuti? E perché grandi personaggi come Croce, Salvemini e Einaudi, tanto più vecchi e famosi di lui, assai diversi l’uno dall’altro, gli avevano concesso interamente la loro stima e fiducia?”.

La risposta l’aveva data Montanelli: “Pannunzio era uno di quegli uomini che, subito dopo essere stato slattato, salì sul podio di direttore d’orchestra, perché era nato direttore d’orchestra e tutti gli riconoscevano questa sua capacità di dirigere”. Giornalista geniale, liberale antifascista in politica e fiero avversario dei comunisti, “un animatore di uomini” come lo definì Arrigo Benedetti, fu al timone di un giornale perbene, libero, nemico di ogni clericalismo, capace di fare argine all’assalto dei potentati economici.
“Non ho mai visto Pannunzio fare la coda in un ministero. Spirito indipendente come pochi, detestava ogni ossequio al potere politico” (Giovanni Spadolini). “In tempi di corruzione egli fece del suo giornale un impareggiabile strumento di libero esame, d’intransigente battaglia del vero contro il falso” (Leo Valiani). “Il laicismo del Mondo non era astioso. Il pregio del giornale era vedere gli avversari, di destra o di sinistra, per quel che fossero, di non costruirsene il manichino di comodo, troppo facile da colpire” (Arturo Carlo Jemolo).

E’ nel leggere queste pagine che viene spontaneo il confronto con lo spettacolo offerto quotidianamente dalla politica e dall’informazione mediatica di oggi. Incompetenza professionale dilagante nei partiti, il flagello delle fake news nel giornalismo, eclissi del senso dello Stato e dell’impegno civile, il razzismo come strumento di consenso elettorale. E si potrebbe continuare. Un abisso, rispetto ai valori e alle aspettative dell’Italia democratica nel dopoguerra alla quale si rivolgeva il Mondo.
Nella galleria dei ritratti che negli ultimi tempi Quaglieni ha dedicato ad esponenti della cultura e del pensiero liberale (Figure dell’Italia civile, Grand’Italia, Mario Soldati. La gioia di vivere, editi da Golem) Pannunzio è il personaggio la cui eredità continua ad interrogare in modo scomodo la nostra epoca. “Circola per l’aria – scriveva Montanelli agli inizi degli anni Novanta – una specie di guerra di successione per l’eredità di Pannunzio che fa gola a molta gente e farebbe gola moltissimo anche a me. Però vi rassicuro subito: non sono in corsa, non perché non mi piacerebbe, ma perché so di non averne i titoli. Non so se qualcuno possa averli. Non sono di quelli che la sera andavano in via Veneto, a Roma, anche perché, abitando a Milano, casomai andavo in via Montenapoleone”.

L’allusione di Montanelli era rivolta ad Eugenio Scalfari e al gruppo di Repubblica, ma la frecciata, più che pungente, era ironica e signorile. Quaglieni, che è fra i fondatori del Centro Mario Pannunzio di Torino, ricorda nel suo saggio questo episodio insieme a molti altri, ricostruendo, di Pannunzio, un ritratto politico, professionale e, soprattutto, intensamente umano. “Il Mondo ha lasciato un vuoto incolmabile nella nostra cultura ed è entrato a pieno titolo nella nostra storia intellettuale e letteraria (anche se non è stato sempre riconosciuto) impartendo – scrive Quaglieni nel saggio conclusivo – una grande lezione che ha contribuito in modo decisivo a far nascere in Italia una cultura laica e liberaldemocratica”.

Mauro Anselmo

In uscita il 2 luglio, Golem Edizioni

Fondazione Cosso: “Concerto d’estate da Steve Reich”

Al Castello di Miradolo, aspettando l’alba. Domenica 21 giugno, ore 4,30. San Secondo di Pinerolo (Torino)

Alle prime luci dell’alba, l’estate arriva rincorrendo la magia di “rimbalzanti” note musicali al Castello di Miradolo, sede della Fondazione Cosso.

L’appuntamento (udite, udite!) in via Cardonata 2 a San Secondo di Pinerolo è nientemeno che alle 4,30 della prossima domenica 21 giugno, allorché su invito della Fondazione pinerolese si celebrerà la festa del solstizio (primo giorno) d’estate, con il consueto Concerto en plein air di inaugurazione della programmazione estiva e, idealmente, della nuova stagione. Dopo i ripetuti sold out delle precedenti edizioni, saranno ancora le note (ma quest’anno eseguite in una veste totalmente nuova) di “Music for 18 musicians”, composta dal musicista americano Steve Reich – fra i padri della corrente minimalista – a invadere il grande spazio aperto del prato centrale del Parco storico. La performance, come sempre, verrà affidata ai musicisti di “Avant-dernière pensèe”, singolare format musicale nato nel 2009 da un’idea di Roberto Galimberti, che vede il pubblico al centro della scena grazie a un inedito e innovativo sistema di ripresa e diffusione del suono, tale da permettere ai musicisti di esibirsi senza vedersi, fra di loro lontani nello spazio.

La fruizione dell’esecuzione avverrà grazie alle cuffie silent system luminose, che diverranno delle autentiche “stanze d’ascolto” in cui il pubblico potrà, in solitudine e raccoglimento, cogliere le relazioni tra lo sviluppo della partitura e i mutamenti che la natura offre all’arrivo dell’alba. “Il ruolo della tecnologia e le possibilità legate al suo utilizzo come mezzo espressivo – sottolineano gli organizzatori – possono rappresentare, in questo tempo e in continuità con la sperimentazione e la ricerca sviluppata in oltre dieci anni di attività, un importante spunto di riflessione sulle prospettive di fruizione dei linguaggi performativi offerte al pubblico”.

Al termine del Concerto sarà possibile fare colazione con le dolcezze dell’Antica Pasticceria Castino, su prenotazione. A seguire, avrà luogo una guida all’ascolto curata dallo stesso Roberto Galimberti, che dialogherà con il pubblico.

Gli esecutori: Roberto Galimberti, violino e direzione; Francesca Lanza, voce; Laura Vattano, pianoforte; Marco Pennacchio, violoncello; Alberto Occhiena, marimba.
I tecnici: Marco Ventriglia, audio e supervisione tecnica ed Edoardo Pezzuto alle luci.
Non sono disponibili sedie e il pubblico è invitato a portare un plaid da casa.
Prenotazione obbligatoria allo 0121/ 502761 o prenotazioni@fondazionecosso.it

San Giovanni “al cubo”: una festa diversa con Genova e Firenze

Il prossimo 24 giugno i festeggiamenti di San Giovanni, a causa delle misure di contenimento dell’emergenza sanitaria Covid-19, non saranno organizzati in modo tradizionale, come nelle passate edizioni, bensì come un vero e proprio palinsesto TV e digitale su scala nazionale.

Le celebrazioni dedicate al patrono, infatti, si triplicano coinvolgendo tre tra le più belle città d’Italia: Torino, Genova e Firenze.

Nel rispetto del distanziamento sociale e del divieto di assembramento, gli spettacoli saranno fruibili attraverso TV e web e grazie a una piattaforma dedicata per coprire capillarmente tutte le iniziative delle città.

San Giovanni al cubo potrà contare anche sulla media partnership con la RAI.

L’evento vedrà per la prima volta insieme, in un’unica piazza virtuale, le tre città unite dallo stesso santo protettore e rappresentate dai loro personaggi culturali, musicali e istituzionali.

I cardini di San Giovanni ‘al cubo’ saranno festa, cultura e innovazione. La regia è affidata una firma eccellente a livello nazionale, Duccio Forzano, già autore di programmi e spettacoli di assoluto valore. A lui spetterà rendere armonico il ricco programma che toccherà alcuni tra i luoghi più iconici delle tre città. A Torino la Mole Antonelliana – sede del Museo Nazionale del Cinema e luogo di riferimento della manifestazione ‘Torino Città del Cinema 2020’ – e il Lingotto; a Genova i Palazzi dei Rolli – già patrimonio UNESCO – e il teatro Carlo Felice e a Firenze il Palazzo Vecchio – Salone dei Cinquecento – e l’Abbazia di San Miniato.

 

“Nonostante gli ostacoli legati alle particolari contingenze, abbiamo voluto condividere gli sforzi per disegnare un modo nuovo di celebrare il Santo Patrono – dichiarano la Sindaca di Torino, Chiara Appendino e l’Assessore all’Innovazione, Marco Pironti –. Abbiamo voluto trasformare i limiti indotti da questa emergenza in opportunità per valorizzare il patrimonio culturale e artistico torinese, facendo leva sulla vocazione innovativa che caratterizza da anni la nostra città. Siamo convinti che andare oltre la fisicità dei luoghi simbolo, cambiando prospettive e modalità di partecipazione, amplierà l’identità culturale e il senso di appartenenza dei cittadini.”

 

“Genova negli ultimi anni si è ritrovata spesso in piazza a festeggiare eventi di diversa origine e natura – affermano Marco Bucci, Sindaco e Barbara Grosso, Assessore alla Cultura –A San Giovanni non potremo celebrare le nostre ricorrenze in maniera tradizionale ma unirsi a Torino e Firenze con in progetto multimediale darà un nuovo valore ad una giornata importante. Sarà un modo di mostrarci pubblicamente al Paese intero grazie anche alla collaborazione con la Rai. Un momento di grande livello che ci auguriamo possa essere ripetuto già il prossimo anno con il coinvolgimento delle persone nelle piazze. Un ringraziamento sincero ai sindaci e assessori di Torino e Firenze per aver collaborato con noi a questo progetto innovativo!”

Una bella occasione per festeggiare San Giovanni unendo le nostre tre città nel segno della ripartenza e della rinascita – dicono il Sindaco di Firenze Dario Nardella e gli assessori alla Cultura Tommaso Sacchi e al Turismo Cecilia Del Re -. Un modo per rinnovare la tradizione attraverso l’innovazione, superando gli ostacoli legati alla pandemia e le sue limitazioni sociali, ma anche per vivere eventi live di assoluto valore attraverso i nuovi canali digitali. Un viaggio tra i simboli di Firenze e le sue evoluzioni per rilanciare una stagione duramente colpita, ma che può e deve riportare tradizioni e cultura al centro della vita cittadina”.

La festa sarà un grande spettacolo che si trasformerà in un abbraccio virtuale ‘al cubo’, mettendo insieme i contenuti artistici delle tre città che si potranno seguire attraverso un unico collegamento via streaming nel rispetto delle misure di sicurezza anti Covid-19.

Il programma completo sarà presentato nei prossimi giorni in una conferenza stampa dedicata.

La battaglia di Ceresole d’Alba

Sul territorio piemontese giganteggia la lotta tra Francesco I, re di Francia, e l’imperatore Carlo V, reduci dalla grande battaglia di Pavia. Sono le “guerre d’Italia” tra i due grandi sovrani europei che si sfidano per imporsi nella penisola. A Ceresole d’Alba, il 14 aprile 1544, va in scena un altro atto del lungo e straordinario duello tra i giganti d’Europa

Almeno 10.000 caduti tra gli imperiali, circa 2000 francesi tra morti e feriti, un territorio percorso e devastato da 30.000 soldati che causarono lutti e sofferenze nella popolazione locale. In quel giorno di primavera Ceresole d’Alba diventò un immenso campo di battaglia. Nel paese di poco più di 2000 abitanti, a una decina di chilometri da Carmagnola, il Museo della Battaglia, aperto lo scorso autunno, racconta il sanguinoso scontro tra le truppe francesi di Francesco I e l’esercito imperiale di Carlo V che lasciò sul terreno migliaia di morti, feriti e mutilati.

Nato dalla collaborazione tra i Comuni di Ceresole d’Alba e di Saint Paul de Vence, il “Mubatt” illustra le fasi salienti di una delle più importanti battaglie combattute da eserciti stranieri in Italia. Mentre a Pavia i due monarchi presero parte allo scontro, il 14 aprile del 1544, alle porte di Torino, non c’erano né Carlo V né Francesco I, i due sovrani che hanno segnato gran parte delle vicende europee nella prima metà del Cinquecento, ma i loro condottieri, Francesco di Borbone, conte di Enghien, per i francesi e Alfonso d’Avalos per gli spagnoli-imperiali. Vinsero i francesi, vinse il giovane conte di Enghien che il re trattava quasi come un figlio. Fu grande l’eco della vittoria oltre le Alpi. Le mura che circondano Saint Paul de Vence, il celebre borgo degli artisti, furono fatte costruire da Francesco I proprio per commemorare la vittoria di Ceresole. Il cannone posto davanti alle mura della cittadina provenzale è stato soprannominato Lacan, dal nome dell’artigliere di Saint Paul che lo avrebbe portato come trofeo dopo la vittoria dei francesi in quel 14 aprile 1544. La pace firmata a Crépy sarà solo una tregua di breve durata. Dopo Ceresole d’Alba i francesi dilagarono in Piemonte. Anche Alba, Chieri, Casale, Ivrea e gran parte del Monferrato caddero nelle mani dell’armata transalpina. A metà del Cinquecento un’ampia fetta del Piemonte era stata annessa al regno di Francia ma dopo pochi anni la situazione internazionale mutò drasticamente. Nel 1557 la disastrosa sconfitta dei francesi a San Quintino (Saint-Quentin), nel nord della Francia, annientati dalle truppe imperiali condotte da Emanuele Filiberto, duca di Savoia (battaglia celebrata dal Caval’d brons in piazza San Carlo a Torino) condusse poco alla volta alla pace di Cateau-Cambrésis nel 1559 che pose fine alle guerre d’Italia. Enrico II di Francia abbandonò i territori occupati in Savoia e in Piemonte anche se estese il suo dominio al Marchesato di Saluzzo e mantenne presidi militari nelle cittadelle di Torino, Chieri, Pinerolo e Chivasso. La prematura morte del conte d’Enghien, all’età di ventisette anni, fu causata da un banale incidente durante un gioco in un castello. Quando il Museo di Ceresole verrà riaperto, una volta superata l’emergenza sanitaria, il visitatore potrà seguire le tattiche e i movimenti degli eserciti sul territorio attraverso dei video raccontati da storici ed esperti militari ammirando reperti e cimeli storici.

Filippo Re

Carla Bruni: la diva torinese che incantò il mondo

Bella «come una Diana cacciatrice con gli artigli di velluto», come la definì sagacemente non molti anni or sono Jacques Séguéla, leggendario pubblicitario e collaboratore di quella vecchia volpe di Nicolas Sarkozy, «noiosa», come la ricorda l’arcinota (e ben più trasgressiva) compagna di sfilate Kate Moss.

Carla Bruni, la conturbante Carlà internazionale dalle gambe chilometriche, è ancor oggi una delle top model italiane più amate e conosciute di sempre (seconda solo alla femme fatale per eccellenza, Monica Bellucci, anche lei emigrata in Francia per consolidare la sua fama di vamp ammaliatrice).

Supermodella, cantante, ex Première Dame di Francia, nonché appartenente a una delle famiglie più agiate e potenti della raffinata Torino (proprietaria, tra le altre cose, del castello di Castagneto Po), la giovane Carlà impiega poco a farsi conoscere. A 19 anni abbandona gli studi alla Sorbona di Parigi, città in cui si trasferì alla tenera età di 7 anni, per intraprendere a tempo pieno la remunerativa carriera di modella, sfilando per le più prestigiose case di moda tra cui Christian Dior, Karl Lagerfeld, Yves Saint-Laurent e Chanel, arrivando a sfiorare gli 8 milioni di guadagno all’anno. Nel 1998 calca la sua ultima passerella, preferendo alle estenuanti (senza dubbio) sessioni fotografiche una più tranquilla carriera musicale. Il talento c’è ma non si vede. Intanto a una festa conosce il futuro Presidente francese, Sarkozy, che coglie al volo l’occasione di sponsorizzarsi a livello mondiale chiedendole dopo pochi mesi di frequentazione, tra uno champagne e l’altro, di sposarlo. Carlà sembra accettarlo così com’è, gambe corte incluse. L’unica cosa a cui dovrà dire addio sono i tacchi alti. La ricca ragazzina viziata dell’alta società torinese ha scalato la vetta più alta ed è diventata Première Dame. In barba a tutte noi. A ogni modo, alla fine della fiera, non sono certo stati i suoi anni all’Eliseo a passare alla storia. Che dire di quella femminilità graffiante che esibiva senza remore sulle passerelle più importanti del mondo negli spensierati anni 90? Per rinfrescarvi la memoria, eccovi una carrellata dei suoi momenti migliori nello sfavillante e deliziosamente ipocrita mondo della moda. Un plaisir pour les yeux!

Ilaria Losapio

immortal-beauties.com

Carla Bruni: the diva from Turin who enchanted the world.

Beautiful like «Diana the huntress with velvet claws», as cleverly claimed few years ago Jacques Séguéla, legendary advertiser and collaborator of that wily old fox Nicolas Sarkozy, «boring», as described by the well known (and far more transgressive) colleague Kate Moss. Carla Bruni, the seductive model with neverending legs, is still nowadays one of the most famous and most beloved Italian top models (along with the femme fatale par excellence, Monica Bellucci, who moved to France to strengthen her fame of charmer vamp). Supermodel, singer, former First Lady of France, also belonging to one of the richest and most powerful families of the refined Turin, in Northern Italy (owner of Castagneto Po’s castle), the young Carla reached fame quite quickly. At 19 she abandoned the studies at the Sorbonne of Paris to start a very profitable modeling career, working for some of the most prestigious couturiers like Christian Dior, Karl Lagerfeld, Yves Saint-Laurent and Chanel, earning millions of dollars per year. In 1998 she walked her last runway, preferring a career in music to the chaotic fashion industry. There’s talent but you can’t see it. Meanwhile, at a party, she meets the future President of France, Sarkozy, who immediately seizes the opportunity to gain global visibility by asking her to marry him. Carla seems to accept him as he is, short legs included. She’s only asked to stop wearing high heels. The rich, spoiled girl from Turin’s high society has finally reached the top of the mountain becoming First Lady. A lesson to us all. Anyway, eventually, she didn’t pass into history for her years at the Élysée Palace. What about that scathing femininity she showed off without hesitation on the most important runways during the carefree 90s? To refresh your memory, we have collected for you some of her best moments in the sparkling and delightfully hypocritical world of fashion.
Un plaisir pour les yeaux!

 

Nelle foto:

Carla by Steven Meisel, 1993

Karen mulder, Linda Evangelista e Carla Bruni con Gianni Versace, primavera-estate 1992. Bertrand Rindoff Petroff/Getty Images

foto di Helmut Newton, agosto 1992 

Condé Nast archive

I vent’anni del museo del cinema di Torino

Il Museo Nazionale del Cinema alla Mole Antonelliana compie vent’anni. Inaugurato il 19 luglio 2000 e realizzato su progetto di François Confino, è diventato uno dei musei più visitati di Torino e di tutto il Paese. Una vera e propria istituzione culturale che ha ottenuto importanti consensi a livello internazionale.

Quella del Museo in realtà è una seconda vita poiché l’idea parte da lontano grazie alla passione di Maria Adriana Prolo, la storica nata a Romagnano Sesia che legò il suo nome alla stagione pionieristica del cinema italiano, immaginando e fondando il museo.

Una storia importante che nasce da una piccola annotazione contenuta in un agenda di questa donna dalla straordinaria intelligenza e dalla vasta cultura cinematografica: “Otto giugno 1941: pensato il Museo”. Per tradurre in realtà quel pensiero di vollero un po’ di tempo e tanto lavoro . Nel settembre del ‘58  il museo venne inaugurato  a Torino in un ala di palazzo Chiablese e la Prolo ne fu nominata direttrice a vita. L’avventura terminò venticinque anni dopo, nel 1983, con le sale costrette a chiudere i battenti per carenza di risorse e l’impossibilità di adeguare la struttura alle nuove disposizioni di sicurezza. Quasi un decennio dopo la scomparsa della Prolo, avvenuta nel 1991, il Museo del Cinema risorse dalle sue ceneri come una moderna araba fenice nella nuova e attuale sede all’interno della Mole Antonelliana, monumento simbolo di Torino e “sogno verticale” del grande architetto che quando venne portato a compimento, con i suoi 167 metri e mezzo di altezza, era  l’edificio in muratura più alto d’Europa. Gli allestimenti del museo si sviluppano  a spirale verso l’alto e su più livelli espositivi, dando vita a una presentazione spettacolare delle collezioni  che ripercorrono la storia del cinema dalle origini ai giorni nostri. In una cornice di scenografie, proiezioni e giochi di luce, arricchita dall’esposizione di fotografie, bozzetti, oggetti e  percorsi di visita interattivi si possono scoprire  i segreti della storia del cinema , dal teatro d’ombre e le prime affascinanti lanterne magiche che hanno costituito la preistoria della “settima arte”, ai più spettacolari effetti speciali dei nostri giorni. Il Museo Nazionale del Cinema è stato visitato in questi anni da più di dieci milioni di persone ed è gestito da una Fondazione – presieduta da Enzo Ghigo, ex Presidente della Giunta regionale del Piemonte, che durante il suo governo (con l’assessore alla cultura Giampiero Leo) fece appunto realizzare la nuova sede del Museo alla Mole –  con lo scopo di promuovere attività di studio, ricerca e documentazione in materia di cinema, fotografia e immagine. Una realtà importante, vanto della città e dell’intera nazione, che annovera tra i soci fondatori la Città di Torino, la Regione Piemonte, la Compagnia di San Paolo e la Fondazione CRT, l’ Associazione Museo Nazionale del Cinema e la GTT.

Marco Travaglini

In mostra al MAO di Torino spaccati di vita e di tradizioni maghrebine

“Storie dal Marocco. Oggetti testimoni di identità e memoria”. Fino al 30 agosto

“Corredi e bellezza” è il filo conduttore della rassegna. Esposti troviamo oggetti che sono Storia. Memoria e tradizione. Mai rinnegate, né dimenticate. Ma in ogni istante esibite e vissute in tutte le loro particolarità. In luoghi che sono “altro”. Non patria. Ma nuova terra.

Neppur sempre amica ed accogliente. In cui fermare vite sospese fra un presente e un passato, più o meno remoto, trascritto – attraverso gli oggetti della quotidianità, per l’appunto – in quelle “Storie dal Marocco” che è mostra-progetto nata dalla collaborazione di una ventina di famiglie marocchine dell’associazione torinese “Bab Sahara” (fondata nel 2002 a Carignano e oggi attiva nella Casa del Quartiere di San Salvario a Torino) con le responsabili dei Servizi Educativi del MAO, insieme ad alcune curatrici del Museo Egizio, ed ospitata negli spazi del Museo d’Arte Orientale, fino al prossimo 30 agosto. Obiettivo del progetto, risultato finale di un percorso iniziato nell’autunno dell’anno scorso: portare avanti una riflessione sull’idea di “memoria” e “patrimonio culturale”. Come i reperti archeologici e le opere esposte nei musei sono testimoni di un’identità ben precisa e di una specifica cultura, “allo stesso modo – sostengono i responsabili della rassegna– alcuni oggetti, scelti in mezzo a tanti da chi lascia la propria casa per stabilirsi in un altro Paese, assumono un valore differente e si trasformano in veicoli di trasmissione di una memoria viva, diventando un patrimonio imperdibile di cultura materiale”. E tali sono gli abiti tipici esposti (prezioso, quello da sposa della tradizione berbera), i corredi, le raffinate teiere, il necessario per il rituale dell’hammam o le tajine (piatti di terracotta spesso smaltata o decorata in cui cucinare pietanze di carne e pesce in umido) così come i prodotti e i piccoli oggetti adibiti al makeup. Oggetti partecipi di una sorta di “museo ideale”, selezionati dalle famiglie e in particolare dalle donne marocchine per farne memoria viva del loro Paese, curando- con il personale del Museo di via San Domenico- ogni dettaglio della piccola ma suggestiva mostra, dalla scelta dei materiali all’esposizione in vetrina fino alla scrittura delle didascalie. “Nel passaggio dall’oggetto al suo racconto – dicono ancora gli organizzatori – il patrimonio materiale si è così arricchito di un prezioso aspetto immateriale di ‘memoria’ e ‘testimonianza’: la cultura oggettiva e i ricordi personali delle partecipanti hanno in tal modo preso forma in tante narrazioni legate a oggetti iconici”. In cui raccontarsi, in un “mettersi in mostra” che è voglia e desiderio palese di confronto e dialogo. Mano tesa e voce amica. Per davvero bella da ascoltare.

Gianni Milani

 

“Storie dal Marocco. Oggetti testimoni di identità e memoria”
MAO-Museo d’Arte Orientale, via San Domenico 11, Torino; tel. 011/4436932 o www.maotorino.it
Fino al 30 agosto
Orari: sab. e dom. 10/19 – lun. e mart. 13/20