CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 467

Andrea Mantegna, legato all’antichità, costruiva con la sua arte il presente

Sino al 20 luglio, a palazzo Madama, la mostra del grande artista del Quattrocento italiano

 

Straordinaria, se si vuole di preziosa nicchia, signorilmente ricca d’influenze o di discendenze artistiche e di prestiti, rafforzata dalle proiezioni multimediali della Corte Medievale, davvero fonte d’entusiasmi in una parola questa mostra sino al 20 luglio prossimo sotto gli occhi dei torinesi e del folto, appassionato o incuriosito o avvezzo a simili frequentazioni, pubblico che continuerà a visitarla, come ha fatto finora, tra gli spazi grigi e blu ideati da Loredana Iacopino sotto la volta del grande salone al piano nobile di Palazzo Madama, una mostra che spinge a riavvicinare la città ad una grande stagione culturale che sembrava in un recente passato pressoché infelicemente accantonata.

“Andrea Mantegna” dunque, che si espande in quel “Rivivere l’antico, costruire il moderno” a sottolineare quanto, nelle mani del grande artista, la rilettura dell’uno abbia profondamente posto le basi per l’esistenza e la concretezza dell’altro, quanto il grande artista, con i suoi viaggi, con lo studio appassionato dei ritrovamenti archeologici, accresciuto durante il soggiorno romano e non soltanto (di alcuni divenne proprietario, profondamente amareggiato quando se ne dovette distaccare per questioni economiche), con i contatti con i filosofi e i letterati e gli intellettuali della sua epoca, abbia saputo farsi portavoce di una nuova epoca. Una mostra affidata alla cura di Sandrina Bandera e Howard Burns, con Vincenzo Farinella quale consultant curator per l’antico unito ad un illuminante quanto prestigioso gruppo di studiosi, tutti pronti a riunire un corpus di oltre 130 opere, scelte tra alcuni dei maggiori musei italiani con altresì un’aria di internazionalità, se si pensa ai prestiti offerti dai londinesi National Gallery e Victoria and Albert Museum come dal Cincinnati Art Museum, dalle collezioni del Principe di Liechtenstein e dall’Albertina di Vienna, dal Metropolitan di New York e dal Bode Museum berlinese, dalla National Gallery di Washington e dalla Galleria Nazionale di Praga e da molti altri ancora (e poco male se dovremo “obbligarci” ad un viaggio a Mantova per appassionarci alla Camera degli Sposi o a Milano per il Cristo morto di Brera; anche per I Trionfi ad Hampton Court, in terra inglese? Anche!). Sei sezioni che illuminano gli esordi giovanili, gli incontri con varie corti del Quattrocento italiano, soprattutto il suo ruolo di artista ufficiale in quella dei Gonzaga a Mantova, il prosperare del proprio linguaggio e la conoscenza delle opere padovane di Donatello, la familiarità con Jacopo e soprattutto con Gentile e Giovanni Bellini (di cui nel 1454 sposò la sorella Nicolosia) e con le loro tele, l’influsso dei maestri fiamminghi, la vicinanza alla scultura, e poi incisioni, disegni e 17 lettere che ci lasciano gustare anche gli aspetti più quotidiani del pittore: il lato economico il più doloroso, sempre, e di qui le richieste per poter produrre altri loro ritratti o, tra lo spicciolo e il divertente, quella di quaglie e fagiani per ospitare come si deve il cardinale in visita, ma pure la denuncia della promessa di quattrini non mantenuta, o, per l’uomo che si avvia verso la conclusione della propria vita, il dover far fronte all’impegno di terminare la cappella funeraria in Sant’Andrea a Mantova e di dover continuamente fare i conti con i debiti lasciati.

Ormai vecchio, considerato da molti forse il più grande artista della sua epoca, ben consapevole lui della propria grandezza, “Pari, se non superiore, ad Apelle” lasciò scritto (in latino) Andrea Mantegna all’interno della cappella che ne conserva le spoglie dal settembre del 1506, il punto d’arrivo di un lungo percorso che trova le proprie radici a Isola di Carturo, nel 1431, lui figlio di un falegname, “d’umilissima stirpe”, giovanissimo nelle vesti di guardiano di bestiame nelle campagne attorno al piccolo paese. Poi, soltanto decenne, nella bottega dello Squarcione (un solido apprendistato – durato sei anni e terminato con una causa contro di lui a reclamare un risarcimento per certe opere prodotte in quel periodo – ma pure, attraverso l’adozione (“fiiuolo”) una manodopera continua e a basso costo: in mostra del maestro un San Bernardino da Siena datato 1450 circa, oggi al Poldi Pezzoli di Milano) e, a seguito di quel distacco, la necessità di avere con sé il fratello maggiore Tommaso per porre la firma, Andrea ancora minorenne, al contratto che lo legava alla decorazione della cappella della famiglia Ovetari nella chiesa degli Eremitani, personaggi e grandiose costruzioni architettoniche, vero biglietto d’ingresso alla carriera dell’artista; seguito (1452), per restare ancora in area patavina, dalla lunetta che ci regala Sant’Antonio da Padova e San Bernardino da Siena presentano il monogramma di Cristo – visibile in mostra, già nella perfezione della prospettiva, nello splendore del disco solare, in tutta la devozione dei due santi -, lunetta un tempo sopra la porta centrale della basilica del santo e oggi al Museo Antoniano.

Vi si riconosce già la strada intrapresa da Mantegna, la maturità nel percorso avviato, il profondo studio di quell’introspezione che s’impadronisce della ritrattistica e che scava sempre più per fare proprio il carattere, lo sguardo, il pensiero, le intenzioni di questo o quel personaggio, capolavoro del genere, già intorno al 1459, quel Ritratto del cardinale Ludovico Trevisan che è una delle più coinvolgenti opere in mostra, commissionato al pittore all’indomani del Concilio di Mantova, piuttosto un condottiero di tradizione romana che un religioso, virile, austero, risoluto nella sua fisica e al tempo stesso spirituale fortitudo. È una vetrina di ritratti, esatti di bellezza e di descrizione, che accomunano i contemporanei del Nostro, dai Bellini ad Antonello da Messina (Ritratto d’uomo, fiore all’occhiello del Civico torinese) ad Ercole de’ Roberti con il suo Ritratto di Annibale Bentivoglio, di collezione privata milanese. Una maturità che certo non impedì a Ludovico III Gonzaga – signore di un luogo raffinato e circondato di cultura, amante delle arti e del mondo antico, cresciuto in giovinezza sotto la guida di Vittorino da Feltre e intimo di artisti quali Leon Battista Alberti – di chiamare Mantegna, con tutta la famiglia, alla sua corte come pittore ufficiale, nel 1460 (esiste già un primo invito in una lettera di quattro anni prima), ma pure come consigliere artistico e curatore delle mostre d’arte, con uno stipendio che, come abbiamo visto, avrebbe avuto per gran parte della vita dimenticanze, sospensioni, ritardi e ovviamente necessarie lettere di sollecito.

Monumentalità, impianti scenografici che finiscono con l’essere l’anima di un opera, o certo il segno su cui spesso s’accentra l’occhio di chi guarda, una carrellata inconsueta di bellezze è la mostra, che oltre alle preziosità che s’è detto, allinea ancora la Madonna con il Bambino e santi Gerolamo e Ludovico da Tolosa (intorno al 1454, dal parigino Musée Jacquemart-André), la Madonna con il Bambino, san Giovannino e santi (1485 circa, custodito alla Sabauda di Torino), la Pala Trivulzio (1497) dalla raccolta del Castello Sforzesco milanese (due quinte di alberi e agrumi, una mandorla di visi d’angelo a racchiudere la Vergine e il Bambino con i quattro Santi in una superba prospettiva scorciata), l’Ecce Homo del 1500/1502, ancora da Parigi. Ma non soltanto tele, anche le incisioni meritano uno sguardo attento, dell’artista come dei suoi contemporanei, soprattutto la Battaglia dei dieci uomini nudi di Antonio del Pollaiolo, il bulino che scolpisce la Zuffa degli dei marini o Baccanale con Sileno di Mantegna oppure La morte di Orfeo di un anonimo incisore forse ferrarese o ancora certi Studi dello stesso Mantegna a rappresentarci un Compianto per il Cristo e il Seppellimento di Cristo a penna e inchiostro bruno su carta. Verso la parte finale della mostra ci si soffermi davanti alla Madonna con Bambino detta dell’umiltà (1490 circa), un bulino e puntasecca di 177 x 231 mm proveniente da Capodimonte e lo si confronti con la Madonna con il Bambino, il gatto e il serpente, un’acquaforte (mm  102 x 152, in collezione privata) dovuta a Rembrandt: s’accorgerà il visitatore quanto quel “moderno” abbia preso a porre le basi e quanto il fiammingo (con il suo collega Rubens) debba ad Andrea Mantegna (da noi gli sono debitori Raffaello e Bramante e Correggio), quanto il carattere nordico guardi all’atmosfera intimista.

 

Elio Rabbione

 

 

Nelle immagini:

 

Andrea Mantegna, “Sant’Antonio di Padova e san Bernardino da Siena presentano il monogramma di Cristo”, 1452, affresco staccato, cm 163 x 321, Padova, Museo Antoniano.

 

Giovanni Bellini, “Ritratto di giovane”, 1472-1473, tempera e olio su tavola, cm 34 x 27,5, Bergamo, Accademia Carrara.

 

Andrea Mantegna, “Madonna con il Bambino e i santi Giovanni Battista, Gregorio Magno, Benedetto e Gerolamo” (Pala Trivulzio), 1497, tempera su tela, cm 287 x 214, Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco.

 

Andrea Mantegna, “Ecce Homo”, 1500-1502, tempera a colla su tela di lino montata su legno, cm 54,7 x 43,5, Parigi, Institut de France, Musée Jacquemart-André.

Luglio al Centro Congressi Unione industriale

Settimana culturale Centro Congressi Unione industriale Torino. Dal 13 al 17 luglio 2020 Mezz’ora con…

martedì 14 luglio alle ore 14.00, l’incontro  sarà dedicato al Codè Crai e il protagonista sarà il Direttore Generale, il dott. Tullio Quaranta.
Crai nasce nel 1973 per iniziativa di un gruppo di commercianti al dettaglio di generi alimentari con
l’obiettivo di costruire un forte gruppo di natura associativa in grado di entrare in concorrenza diretta con la
grande distribuzione. Da allora Crai ha costantemente potenziato la propria struttura e la propria rete di
negozi sviluppando sempre più una politica di insegna su base nazionale con caratteristiche di prossimità e
con un’impostazione di conoscenza e fiducia tra il dettagliante e il consumatore.
L’assetto organizzativo è ispirato al modello federale secondo il quale la Centrale, che ha sede a Milano,
coordina e dirige le strategie rese poi operative attraverso 17 poli distributivi che coprono tutto il territorio
italiano con estensioni fino in Svizzera, Malta e Albania.
Uno spettacolo d’estate l’appuntamento, mercoledì 15 luglio 2020, ore 18.00 ,  ospita l’autore Luca Bianchini che, in un clima di spettacolo e insieme al regista Marco Ponti , presenterà “ Baci da Polignano” , il nuovo e attesissimo sequel di “ Io che amo solo te” con i personaggi tanto amati come Ninella e don Mimì.
Ora li ritroviamo alcuni anni dopo e anche se il tempo passa per don Mimì Ninella
resta sempre la donna della sua vita, nonostante il destino li abbia separati più volte. La situazione
però cambia all’improvviso quando Matilde, la moglie di don Mimì, perde la testa per Pasqualino, il
tuttofare di famiglia. Per don Mimì questa è l’occasione per andare a vivere da solo e ritrovare Ninella,
che però da qualche tempo ha accettato la corte di un architetto milanese. Riprendono così le
schermaglie amorose tra i due e intorno a loro ci sono sempre gli altri irresistibili personaggi: Chiara e
Damiano e la loro figlia che li comanda a bacchetta; Orlando e la sua “finta” fidanzata Daniela; Nancy e
il sogno di diventare la prima influencer di Polignano; la zia Dora, corre dal “suo” Veneto per riscattare
l’eredità contesa di un trullo. Tra dubbi, fughe al supermercato, tuffi all’alba e malintesi prosegue la
storia di tutti loro, e soprattutto quella di Ninella e don Mimì, sotto il cielo di Polignano con la sua
magica luce.
Per rispettare il fil rouge che unisce e accomuna tutti gli eventi di “Uno spettacolo d’estate”, il pubblico
in sala sarà sorpreso e allietato da uno spettacolo che accompagnerà la presentazione.

Cogliere il mondo in prospettiva

#5YearsInPerspective. In mostra i più significativi scatti fotografici di viaggio di Alberto Trivero, giovane ingegnere informatico torinese

Cogliere il mondo in prospettiva è oggi quanto mai prezioso, soprattutto in questo tempo ed in una società da poco uscita dall’emergenza. Ed è assolutamente affascinante farlo attraverso le fotografie di viaggio, come quelle raccolte da Alberto Trivero, giovane ingegnere informatico torinese, e raccolte nella mostra intitolata “Cinque anni in prospettiva”, ospitata presso l’associazione torinese ARTE.

In fondo aveva ragione il famoso poeta e scrittore portoghese Fernando Pessoa ad affermare che la vita consiste in ciò  che facciamo di essa e che “i viaggi sono i viaggiatori stessi e che ciò che vediamo è ciò che siamo”.

“La mostra – spiega lo stesso Alberto Trivero – raccoglie gli scatti fotografici, circa una cinquantina, tra cui alcuni inediti, che ho ritenuto più significativi tra quelli realizzati negli ultimi cinque anni, durante i viaggi compiuti attraverso Europa, India, America ed Africa. Si tratta di fotografie scattate in India ( nel Ladakh, nel Rajastan e nella catena dell’Himalaya nella parte settentrionale del Paese), in Marocco, nei Parchi Naturali dell’Ovest degli States, a Creta e in Spagna. Il progetto di un’esposizione  è nato a partire dal mio primo fotolibro, realizzato all’inizio della pandemia, e che reca lo stesso titolo di questa mia mostra fotografica”.

Essa è ospitata presso ARTE, Associazione Culturale Artisti, in corso Francia 169, e rimarrà aperta fino al 17 luglio prossimo, dalle 19 alle 20 tutti i giorni e su appuntamento telefonico.

ARTE  Associazione Culturale Artisti. Corso Francia 169. Torino

Mara Martellotta

www.associazionearte.com

L’isola del libro

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Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Willa  Cather   “Il canto dell’allodola”  -Fazi-  euro  18,50

E’ inedito in Italia questo romanzo scritto dall’americana Willa Cather (1873- 1947) nata in Virginia, poi trasferitasi con la famiglia nel Nebraska, dove visse a stretto contatto con gli immigrati cechi e scandinavi. Fu anche insegnante e giornalista: nel 1906 si trasferì a New York lavorando per il “McClure’s Magazine”e soggiornò a lungo in Francia, ad Avignone. Scrittrice prolifica pubblicò vari romanzi e vinse il Premio Pulitzer nel 1923 con “Uno dei nostri”. In America conobbe grande fama perché seppe dare voce alla gente di frontiera, raccontando il grande Ovest che conosceva bene, perché ci era nata e aveva insegnato a Pittsburg.

“Il canto dell’allodola” è la storia della giovane Thea Kronberg, nata nell’entroterra americano a inizi 900, a Moonstone nel Colorado: piccola cittadina al confine col deserto, popolata da emigrati europei in cerca di nuove opportunità.

La famiglia di Thea è di origini svedesi, figlia di un pastore metodista, quarta di sette fratelli, e la seguiamo a partire dai suoi 11 anni, mentre accudisce il fratellino ultimo nato, ma soprattutto prende lezioni di pianoforte da un maestro tedesco che l’ha particolarmente a cuore.

Thea è intelligente, sensibile e piena di entusiasmo, sa far breccia negli animi di uomini saggi come l’affascinante dottor Archie (incastrato in un matrimonio infelice) o far platonicamente innamorare di sé lo sfortunato macchinista Ray. E’ grazie a loro che spicca il volo verso Chicago, dove alloggerà in vari pensionati, farà lavoretti per mantenersi e prenderà lezioni di musica. Nella grande città ventosa e frenetica scoprirà che il suo vero talento non è per i tasti del pianoforte, ma per il canto.

La sua è la storia di «…una persona fuori dal comune in un mondo molto, molto comune», come intuisce ben presto il dottor Archie che la sprona a volare più alto. La bellissima parabola di come si può nascere da gente rozza e diventare migliore.

Pare che la storia di Thea sia ispirata all’incontro della scrittrice con la cantante Olive Fremstad, soprano e mezzo soprano famoso all’epoca, che cantò anche con Enrico Caruso ( pure lei svedese e nata nel Minnesota).

Willa Cather fu a sua volta un personaggio da romanzo che, secondo i biografi, ebbe un solo grande amore, l’amica  Isabelle McClung alla quale dedicò proprio “Il canto dell’allodola”.

 

 

Sylvia Townsend Warner  “Il cuore vero”   -Adelphi-   euro  18,00

Sylvia Townsend Warner (1893-1978) è stata un’importante scrittrice, nata e sospesa tra 800 e 900: vicina al primo per stile di scrittura, ma proiettata nel secondo per i temi trattati. Fu una donna decisamente anticonformista, femminista, visse 40 anni con la poetessa Valentine Acklad, lottò per i diritti degli omosessuali e combatté in Spagna nella Guerra Civile.

“Il cuore vero” rimanda al poema di Apuleio “Amore e Psiche” e narra la storia della 16enne orfanella Sukey Bond.

Una vicenda tristissima segnata dalla perdita dei genitori a 11 anni, lei primogenita e unica femmina di una nidiata di bambini che il destino sparpaglierà in adozione. Viene separata dai fratellini e mandata in orfanotrofio per 5 anni, poi spedita a servizio in una landa desolata e umida dell’Essex nel 1873.

E’ li che conosce e si innamora –ricambiata- del giovane Eric: biondo, svagato, inoffensivo e tenerissimo. Condividono l’amore per gli animali e la natura, ma lui non è come gli altri. Da tutti è considerato “un idiota”, malato di mente senza speranze di guarigione, reietto che la madre ha allontanato vergognandosene. Quando Eric ha l’ennesima crisi convulsiva lo allontanano da Sukey e sbattono lei in mezzo alla strada.

Ma è innamorata, combattiva e per niente disposta a rinunciare a quel legame. Il romanzo narra le sue peripezie e la sua battaglia per ritrovarlo, incluso un incontro nientemeno che con la Regina Vittoria.

Sono pagine che rimandano ai grandi scrittori vittoriani, come Thomas Hardy e la sua “Tess dei  d’Ubervilles”, ma con una modernità straordinaria. Sukey dovrà lottare contro la cattiveria delle altre servette, ma anche contro persone altolocate che irradiano insensibilità e spietatezza.

Una critica arguta che la Townsend fa delle signore dell’epoca che si ammantavano del buonismo di opere di bene per sentirsi più nobili, ma poi dei bisognosi se ne infischiavano altamente.

Pagine che possiamo decodificare come manifesto femminista, con l’eroina Sukey dal “cuore vero” che non si ferma davanti a nulla pur di trovare il suo Cupido. Un altro personaggio femminile che la Townsend ci ha lasciato dopo “Lolly Willowes” (Adelphi 2016), storia di una donna che diventa strega per sfuggire ai lacci della società degli anni Venti

 

 

Alessandro Robecchi  “I cerchi nell’acqua”  -Sellerio-   euro 15,00

Il protagonista dei romanzi di Robecchi, Carlo Monterossi -autore di televisione spazzatura e col pallino da investigatore casuale-  in questa avventura cede il primo piano ai due poliziotti Tarcisio Ghezzi e Antonio Carella, sullo sfondo di una Milano sotterranea che li vede impegnati in due indagini parallele, scandite in capitoli alterni.

Tarcisio Ghezzi, 60 anni e in odor di pensione dopo 40 anni «di onorato servizio, sposato con Rosa, niente figli, zero carriera, tanti chilometri per poco reddito…» ha in corso una sua battaglia personale e un torto da raddrizzare.

Antonio Carella è il collega più giovane, lavoratore instancabile che non va mai in vacanza oppure usa le ferie(ne ha una tonnellata da smaltire, ma proprio non è capace di fermarsi e riposare) per risolvere vecchi casi. E anche lui ha un fatto privato di cui occuparsi.

Entrambi sono sulle tracce di due ex detenuti. Quello di Ghezzi è il 66enne Pietro Salina, ladro maldestro e sfortunato, fuori dal carcere da qualche anno, che in passato è stato il protagonista del primo caso risolto da Ghezzi.

Invece Carella è alle costole di tal Alessio Vinciguerra, 39enne rammollito e un po’ ingrassato, ora di nuovo libero dopo neanche 5 anni di galera.

Inutile dire che i due poliziotti sono un po’ le pecore nere della questura, due cani sciolti con caratteri ed età diversi; in comune un forte senso di giustizia e l’empatia per le sofferenze altrui. Mentre conducono le loro battaglie private, intanto c’è un caso bollente da risolvere. L’omicidio dell’artigiano e famoso restauratore Crodi, picchiato a morte nel suo magazzino-laboratorio.

Un gran bel rebus che parte senza indizi: nessun segno di scasso né di furto, zero tracce o testimoni. Poi qualcosa si ingarbuglia, una signora della Milano super- bene muove le sue pedine e denuncia che nell’atelier non c’è più il suo preziosissimo orologio di epoca napoleonica, quello che Crodi doveva sistemare per la vendita niente meno che a Sotheby’s per 170.000 euro. Alla denuncia della madama seguirà un coro di altri clienti, in una bagarre anche mediatica che complicherà le cose…..

E il resto a voi scoprirlo tra continui colpi di scena e un filo sottile che segna il confine tra poliziotti e malavitosi, che forse a volte si può travalicare…

“Morricone, sei stato un gigante. L’ultimo dei mohicani”

Enzo Ghigo, presidente del Museo Nazionale del Cinema ricorda così il maestro Ennio Morricone

“Hai messo in musica l’umanità: il buono, il brutto, il cattivo. Non ti sei mai svenduto per un pugno di dollari o per qualche dollaro in più. Hai accompagnato il Novecento senza mai piegare giù la testa. Sei stato un gigante ma non ti sei mai sentito fra gli intoccabili, piuttosto l’ultimo dei mohicani. Ora che hai portato a termine la tua mission su questa terra, raggiungi il tuo nuovo cinema Paradiso”.

Le port sacre’

La poesia di Alessia Savoini

Dans la dernière involution du rêve
qui explique les ailes à un chérubin sans visage

la blessure de la terre
dans le don de la mort
se donne de la vie.

Allah a Santa Sofia

Le proteste internazionali e la rabbia del mondo cristiano non fermano il sultano. Il Turco sconfigge i cristiani e la basilica di Santa Sofia a Istanbul torna moschea.

La Corte suprema turca ha annunciato che la decisione di trasformare Hagia Sophia in museo, adottata da Ataturk nel 1934, non è valida e quindi l’edificio religioso può riaprire al culto islamico. Il presidente turco Erdogan aveva promesso più volte che Santa Sofia, fatta costruire nel VI secolo dall’imperatore bizantino Giustiniano, sarebbe tornata moschea.

La conversione di Santa Sofia in moschea ribalta dunque la decisione con cui il governo turco aveva convertito in museo la millenaria basilica bizantina trasformata in moschea dopo la conquista ottomana di Costantinopoli nel 1453. Sarà questo un motivo per spingere i cristiani del mondo contro l’islam, come ha dichiarato il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I ? Torneranno le Crociate tra i cristiani e i musulmani? Si apre una nuova fase di scontro e di rottura tra Occidente e Oriente? “Giù le mani da Santa Sofia” avrebbe probabilmente esclamato oggi, appena appresa la notizia, il viaggiatore cronista Edmondo de Amicis che nel suo diario di viaggio “Costantinopoli” rimase abbagliato dallo splendore della basilica bizantina. Nell’estate del 1875, De Amicis, che trascorse gran parte della sua vita in Piemonte, arrivò dal mare, dopo dieci giorni di navigazione, nell’antica capitale, bizantina e ottomana. Esclamò e scrisse: “ecco Costantinopoli, sterminata, superba, sublime. Gloria alla creazione ed all’uomo! E’ una bellezza universale e sovrana, dinanzi alla quale il poeta e l’archeologo, l’ambasciatore e il negoziante, la principessa e il marinaio, tutti hanno emesso un grido di maraviglia, io non avevo sognato questa bellezza…” è folgorante il primo impatto di De Amicis con la Roma d’Oriente quando sbarca a Istanbul. Nato in Liguria, la sua famiglia si trasferì presto in Piemonte, a Cuneo, Pinerolo e a Torino nell’attuale piazza XVIII dicembre, di fronte alla vecchia stazione di Porta Susa, dove De Amicis scrisse il celebre “Cuore” e dove una targa lo ricorda ancora oggi. Ma qualcosa di più straordinario doveva ancora avvenire nel suo viaggio nella città sul Bosforo…“messo appena il piede nella navata (di Santa Sofia) rimanemmo tutti e due come inchiodati. Il primo effetto è grande e nuovo. Si abbraccia con uno sguardo un vuoto enorme, un’architettura ardita di mezze cupole che paion sospese nell’aria, di colonne colossali, di archi giganteschi, di gallerie, di tribune, di portici, su cui scende da mille grandi finestre un torrente di luce, un’ostentazione di grandezza e di forza, un’idea della basilica di San Pietro raccorciata e della basilica di San Marco ingigantita e deserta, una mescolanza mai veduta di tempio, di chiesa e di moschea”. Dopo 1500 anni non c’è pace per la Divina Sapienza. Santa Sofia è stata infatti una chiesa cristiana dedicata non a una santa, come potrebbe far credere il nome, ma alla saggezza divina, l’Haghia Sophia incarnata dai greci e qualcosa di incredibile sta di nuovo per interessare l’ex basilica. Il mondo cristiano insorge, la Grecia minaccia ferro e fuoco, eppure lui, il sultano turco, va avanti con i suoi piani di conquista, come se niente fosse. Il 29 maggio scorso, in occasione del 567 anniversario della conquista turca di Costantinopoli, ha fatto recitare da un imam, all’interno dell’edificio, una preghiera islamica, la sura della Conquista. Episodio che scatenò un diluvio di critiche tra i cristiani e soprattutto nella vicina Grecia. Secondo una fondazione religiosa, vicina a Erdogan, che si è presentata a favore della riapertura dell’edificio al culto islamico, la firma di Mustafa Kemal Ataturk sul documento che trasformava Santa Sofia in museo, sarebbe addirittura falsa. “Erdogan è un islamista e vuole che il Medio Oriente sia più islamizzato” afferma lo storico israeliano Benny Morris. “Santa Sofia è un grande simbolo della cristianità ed Erdogan lo sa bene. E come se ora con Santa Sofia volesse cancellare anche le ultime tracce della cristianità in Turchia”. Non tutto è però perduto per i cristiani e i turisti che probabilmente potranno ancora visitarla. Hagia Sophia dovrebbe infatti restare anche museo come la vicina Moschea Blu, anche se non si potrà entrare durante le preghiere.

Filippo Re

La musica torna in Duomo dopo il lockdown

Hanno ripreso a risuonare le note nel Duomo di Torino dopo la forzata sosta per l’emergenza sanitaria, con l’esecuzione del concerto affidato ai Cameristi dell’Orchestra dei Virtuosi dell’Accademia di San Giovanni,  il 4 luglio scorso

Appuntamento di vivo interesse culturale e alto livello artistico sabato 4 luglio scorso, organizzato dal Rotary Club Torino Duomo in collaborazione con l’Accademia della Cattedrale di San Giovanni, per festeggiare l’inaugurazione del nuovo anno rotariano del distretto 2031 con il neo Governatore, l’ingegner Michelangelo De Biasio, uomo di profonda cultura, amante dell’arte in ogni sua forma e lui stesso fotografo d’indubbio valore.

Arte e cultura costituiscono il binomio indissolubile che contraddistingue anche questo Club,  la cui sede morale è situata all’interno del Museo Diocesano. Difatti i  service di questo Club rotariano sono prevalentemente indirizzati a opere di ripristino inerenti al patrimonio artistico della Cattedrale e, come nel caso del recente restauro conservativo de “l’Ultima Cena” del Gagna, lo stesso Club ne segnalava la necessità all’allora governatore Giovanna Mastrotisi (titolare essa stessa d’una impresa di restauri) la quale, colto al volo il notevole impatto mediatico e filantropico del recupero che avrebbe impreziosito il suo mandato, ha provveduto al restauro del maestoso dipinto, lavorandoci anche in prima persona.

Il programma previsto per la serata, dal curioso titolo “Musica a sorpresa”, è stato suonato in maniera eccellente da “I Cameristi dell’Accademia”, ensemble sorto all’interno de “I Virtuosi dell’Accademia di San Giovanni”, orchestra in residence del Duomo, e composto dai violinisti Marcello Iaconetti ed Helga Ovale, dal violista Enzo Salzano e Dario Destefano al violoncello. Tutti i brani proposti, che spaziavano da Bach e Puccini per approdare addirittura a Gino Paoli e The Queen, sono stati introdotti da brevi e toccanti commenti di don Carlo Franco, parroco del Duomo e socio onorario da sempre del Club rotariano, che ha organizzato la piacevolissima serata, che ha anche testimoniato – e possiamo credere che non sia mai accaduto prima d’ora – la pubblica accettazione da parte del Governatore De Biasio di un nuovo socio del Torino Duomo, l’irlandese Paul Kearney, direttore del Castello di Casalborgone. Questo nuovo componente è stato proposto da una socia dello stesso Club, la dottoressa Emanuela Siani, restauratrice d’arte, pittrice e gallerista, che ha provveduto a tutti i restauri di questa splendida location, riportandola ad un nuovo splendore.

Dopo il bis, la prima assoluta di un tempo delle “Varianti H” del celebre Gian Piero Reverberi (Rondò Veneziano, tanto per intenderci…) e da lui offertaci, applausi scroscianti, con tanto di standing ovation, hanno concluso la serata lasciando nei cuori d’ognuno la speranza di un futuro senza più lockdown…

Mara Martellotta

Il dottore dei matti

C’erano una volta i matti

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”, “matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)

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9. Il dottore dei matti
A difendere l’ingiusta condizione dei pazienti degli ospedali psichiatrici fu Franco Basaglia, “il dottore dei matti”, brillante psichiatra veneziano che, alla guida di giovani medici, realizzò una radicale riforma del manicomio. La piccola fiamma della speranza era stata accesa nel più improbabile, piccolo e periferico di tutti i manicomi italiani, quello di Gorizia. Nell’ospedale si trovavano 600 pazienti, la metà dei quali non parlava nemmeno italiano; il manicomio era diviso in due, come la stessa città, dalla cortina di ferro. Proprio di lì, tuttavia, partì la battaglia contro l’establishment accademico e politico. Il manicomio di Gorizia rimase uno dei simboli della rivoluzione, insieme al manicomio di Trieste, dove Basagliacompletò la sua opera, per l’intera generazione sessantottina.  Franco Basaglia nacque a Venezia da una ricca famiglia; nel 1949 si laureò in medicina. Fece la staffetta partigiana durante la guerra e finì in carcere. Proprio questa esperienza gli servirà anni dopo, come termine di paragone per descrivere il suo primo impatto con il manicomio. Dopo aver ottenuto la libera docenza in Psichiatria, soggiornò per alcuni mesi in Inghilterra, per studiare le riforme introdotte nel sistema psichiatrico di quel paese. Al suo ritorno trovò lavoro all’interno del manicomio di Gorizia, dove non indossò mai il camice, e qui iniziò la sua lotta per ottenere un rapporto tra terapeuta e paziente basato sul dialogo e non sulla repressione. A Franco è sempre importato più del malato che della malattia. Persona buona e corretta non si è mai arricchito, non ha avuto encomi ufficiali, eppure il suo pensiero innovativo stravolse a tal punto la psichiatria che non si poté più tornare indietro. Grazie a lui molti ricoverati poterono, poco a poco, e con tanta fatica, sperimentare spiragli di libertà. Egli, inoltre, restituì ai malati un volto, adoperandosi affinché essi si riappropriassero di piccoli oggetti come specchi, pettini, spazzole, persino un comodino su cui appoggiare fotografie, qualche gioiellino, un qualsiasi ricordo della loro vita di prima. Il suo pensiero rivoluzionario venne etichettato come “privo di serietà e rispettabilità scientifica” dall’establishment psichiatrico, ma Franco non si arrese e continuò per la sua strada. Si spostò a Parma e poi a Trieste, dove portò a termine la sua opera. Lo stesso manicomio di Trieste venne chiuso proprio da Basaglia, e Trieste fu la prima città al mondo a compiere quel gesto così eroico e così estremo. Quello che successe nella città friulana dimostrò a tutti gli effetti che una psichiatria “altra” era nella realtà possibile. La rivoluzione di Gorizia arrivò anche a Torino, dove, fin dal 1958, erano stati costituiti i CENTRI DI IGIENE MENTALE (CIM), strutture extra-ospedaliere che non si ponevano in concorrenza con i manicomi ma miravano a integrarne l’attività agendo sulla prevenzione e sulla riabilitazione dei malati dimessi. A Torino l’agguerrito movimento studentesco si era fatto promotore, tra il 1967 e il ’68, di iniziative propagandistiche contro i manicomi con comizi e assemblee di sensibilizzazione e distribuzione di volantini nelle scuole, nei circoli culturali e nelle università. Tra le cosiddette “istituzioni totali” il manicomio, ancora più della scuola, della fabbrica, della famiglia, della chiesa, del carcere o della caserma rappresentava per gli studenti il luogo-simbolo della emarginazione, della repressione che calpestava i diritti delle persone, soprattutto se povere. Andava perciò combattuto. Torino si divise in due fazioni, da una parte il movimento degli studenti,  sicuri delle idee basagliane, capeggiati da Annibale Crosignani, Giorgio Luciano e Enrico Pascal, a cui si aggiungevano alcuni esponenti del Partito Comunista Italiano, qualche infermiere e gli attivisti dell’ ALMN, (. Tutti radunati attorno alla psicoterapeuta Piera Piatti, tutti uniti contro l’altra fazione composta dai baroni della psichiatria e dalle migliaia di dipendenti ancorati alla difesa del loro statusIl casus belli avvenne nei giorni 13,14,15 dicembre 1968, durante una assemblea pubblica organizzata dagli studenti di Architettura al castello del Valentino, dal titolo: “E’ un crimine progettare un nuovo ospedale psichiatrico.” A tale riunione presenziarono non solo lo stesso Franco Basaglia, ma anche altre personalità di spicco tra cui Pierpaolo Pasolini a fianco dell’ inseparabile Laura Betti. Il 14 dicembre gli studenti si spostarono prima nella clinica neuropsichiatrica dell’ospedale  delle Molinette, poi, sempre dietro la guida di Franco Basaglia, si diressero verso il manicomio di Collegno. Una volta giunti davanti alle mura, i manifestanti alzarono striscioni provocatori con scritte del tipo:”Il figlio del ricco è esaurito, il figlio del povero è matto.” Il fatto colse alla sprovvista l’allora Direttore Generale Diego De Caro, che alla fine cedette alle pressioni e, dopo un drammatico scontro faccia a faccia con lo stesso Basaglia, aprì le porte del manicomio. Tale decisone gli costerà il posto. In seguito alla manifestazione vennero poi approvate due mozioni, nella prima veniva sancita la necessità di far sospendere i lavori di costruzione del nuovo ospedale psichiatrico di Grugliasco, e veniva richiesto di avviare una serie di dibattiti pubblici negli atenei, nelle fabbriche e presso gli enti pubblici comunali e provinciali; nella seconda mozione veniva deciso che gli studenti di Medicina, Psicologia e Sociologia potessero avere libero accesso negli ospedali psichiatrici, in modo da potere apprendere dal vivo il rapporto con il malato e le tecniche di lavoro di gruppo. Eppure c’è sempre chi nega l’evidenza. La Commissione di Vigilanza, il cui intervento era stato invocato dall’Opera Pia in seguito all’uscita di alcuni articoli, dopo diverse indagini concluse che “gli atti inconsulti compiuti sui degenti si erano rivelati infondati o frutto di mere supposizioni” e che in pochissimi casi erano apparsi “ inevitabiliconseguenze”  dello stato “ di squallore, di estrema promiscuità e di sovraffollamento”. La relazione così si concludeva: “Pure le contenzioni a mezzo di fettucce erano risultate rare e soprattutto motivate da imprescindibili necessità di protezione, mentre era stata individuata una sola camicia di forza in un bambino autolesionista e coprofago”. Era la scontata reazione di una istituzione ormai giunta al punto di non ritorno. Passarono ancora diversi anni prima che la storia dei manicomi si chiudesse insieme ai pesanti cancelli di quelle strutture di oppressione e dimenticanza. Ma, infine, il 13 maggio del 1978, la Legge 180, anche conosciuta come Legge Basaglia, venne approvata dal Parlamento. Tale disposizione vietava la costruzione di nuovi manicomi e imponeva lo smantellamento di quelli esistenti. Stabiliva che le persone affette da disturbi mentali sarebbero state assistite nei servizi decentrati con un massimo di quindici letti e che il trattamento era volontario, riprendendo la legge del 1968, salvo casi eccezionali ed stremi, per i quali sarebbe scattato il TSO, (Trattamento Sanitario Obbligatorio). Sei mesi dopo, la Legge 180 venne assorbita nella “Legge di Riforma sanitaria”. La psichiatria entrava di diritto nel servizio sanitario al pari di ogni altra branca della medicina e per conseguenza il cittadino malato mentale acquisiva gli stessi diritti di ogni altro cittadino malato. C’è l’altro lato della medaglia, subito sottolineato dagli oppositori: chi si occuperà ora dei malati mentali? Come potranno le famiglie impreparate fronteggiare questa nuova situazione limite? Lo stesso Basaglia era conscio dei limiti della 180, ma animato dalla speranza che con il tempo tutto si sarebbe aggiustato; per il momento sottolineava il risultato più importante infine raggiunto: il riconoscimento dei diritti dell’uomo, sano e malato. Nel 1979, anziano ma ancora desideroso di portare aiuto, si trasferì a Roma, per assumere l’incarico di coordinatore dei servizi psichi
atrici della Regione Lazio. 
Franco Basaglia morì nel 1980 a causa di un doloroso tumore al cervello che in pochi mesi lo portò via. Il dottore dei matti” aveva combattuto con coraggio per difendere i diritti, non solo dei malati psichici, ma di tutti coloro che sono soggiogati da una società non sempre giusta, che divora i più deboli e che spesso emargina chi in realtà dovrebbe tutelare. Di lui non si parla tanto, perché fu un uomo scomodo, come scomoda è stata tutta la questione dei manicomi e della follia, e le cose scomode è meglio coprirle con una coperta che ne smussa la forma e che con il tempo ce le fa addirittura dimenticare. Eppure Franco, tra le tante cose giuste, ne ha detta una più giusta delle altre: “Non è vero che lo psichiatra ha due possibilità, una come cittadino e una come psichiatra. Ne ha una sola: come uomo”.  In qualità di uomini, non abbiamo scusanti.

 

Alessia Cagnotto

Valdimir Luxuria alla Tesoriera per l’Evergreen Fest

Venerdì 10 luglio, all’Evergreen Fest al Parco della Tesoriera (corso Francia 186-192, Torino) – dopo la presentazione del libro Caccia all’omo. Viaggio nel paese dell’omofobia di Simone Alliva (Fandango Libri) alle 20.45 – Valdimir Luxuria sarà protagonista della serata Senza peli…sulla lingua – Fra parole e musica il coraggio di essere Vladimir (ore 21.30).

Sul palco Simone Schinocca, direttore del festival, intervisterà Vladimir Luxuria, direttrice del Lovers Film Festival, il più antico festival cinematografico LGBT di Italia, attivista, scrittrice, personaggio televisivo, drammaturga ed ex deputata della XV Legislatura, diventata la prima persona transgender a essere eletta al parlamento di uno Stato Europeo. Vladimir Luxuria interpreterà inoltre alcune canzoni accompagnata dal pianoforte del maestro Emanuele Francesconi. Sul palco, per l’occasione, Luxuria, sarà anche nella veste di cantante e proporrà al pubblico un repertorio musicale.

I due appuntamenti della serata sono in collaborazione con Coordinamento Torino Pride.

 

Il Festival

Potersi godersi la cultura, in tutta sicurezza. Evergreen Fest, con questo obbiettivo, torna a Torino al Parco della Tesoriera dal 4 luglio con 241 artisti coinvolti, 45 serate, 59 spettacoli, 6 spettacoli per bambini e famiglie, 5 concerti di musica classica10 presentazioni di libri30 presentazioni di progetti delle associazioni del territorio, 108 ore di laboratori per tutte le fasce di età.

Gli organizzatori hanno studiato un percorso di riavvicinamento del pubblico che superi la diffidenza generata dal periodo pandemico e che accompagni artisti, spettatori e associazioni che si occupano di bene comune, ad incontrarsi nuovamente. Partendo da una riflessione oggi imprescindibile: la sostenibilità della società contemporanea.

Giunto alla sua quinta edizione, il festival si svolge dal 4 luglio al 16 agosto 2020 presso il Parco della Tesoriera (corso Francia 186-192, Torino), con ingresso gratuito.

La programmazione alterna sul palco personalità e artisti fra cui, Drusilla Foer (sold out il 6 luglio), Maurizio Lobina (Eiffel 65), Supershok, Tournée da bar, Orchestra Terra Madre, BandaKadabra, Andrea Cerrato, Federico Sirianni, Fran e i pensieri molesti, Stefano Giussani, Simone Alliva, Chiara Sfregola e molte e molti altri.

Il calendario è scaricabile su www.evergreenfest.it.

 

Evergreen Fest è un progetto di Tedacà, con il sostegno di Città di TorinoFondazione per la Cultura, Corto Circuito, Piemonte dal Vivo, Regione Piemonte e TAP; in collaborazione con Fertili Terreni TeatroAssociazione Coordinamento Musicale, Coordinamento Torino Pride; con il patrocinio della Quarta Circoscrizione e con la media partnership di Radio Energy.

Evergreen Fest è un progetto selezionato dal bando Corto Circuito 2020 – Piemonte dal Vivo.