CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 458

“Spaccapietre”, i fratelli De Serio raccontano il dramma dei braccianti

I fratelli torinesi  acclamati alla Mostra del Cinema di Venezia 

I fratelli Gianluca e Massimiliano De Serio hanno iniziato il tour nei cinema italiani della loro ultima opera Spaccapietre. Il film, accolto con calore pochi giorni fa al Festival del Cinema di Venezia in concorso alle “Giornate degli Autori”, è stato presentato in anteprima  mercoledì scorso ai Due Giardini e al Cinema Massimo.

Giuseppe , disoccupato per un incidente sul lavoro, rimane vedovo di Angela, morta schiacciata dalle fatiche di bracciante. Con il figlioletto Antò si trova costretto ad abbandonare la propria casa e chiedere lavoro in un podere e un tetto nella baraccopoli che ospita i lavoratori stagionali per la gran parte immigrati. I protagonisti precipitano in un mondo annichilente condannati a vivere in condizioni abominevoli e a farsi testimoni di una lenta ed inesorabile disintegrazione della dignità umana. Realtà, quella del caporalato, poco visitata e raccontata dall’arte, ben documentata invece dal sindacalista ivoriano naturalizzato italiano Aboubakar Soumahoro. Ma i De Serio non sono nuovi a questi tipi di scelte contro corrente, sempre protesi in tutte le forme espressive che sperimentano insieme dal 1999, dalle video installazioni ai documentari, a illuminare vite ai margini, identità sempre in continua ricerca di un posto nel mondo. Chiamarlo cinema impegnato sarebbe banalizzare il loro lavoro che si è sempre rivelato fuori dai canoni, per quel loro sguardo in grado di catturare una certa umanità o apolide o che sfugge alle categorie. Quello che ci offrono in questo film i De Serio, di questa moderna forma di schiavitù, è un distillato, ci tengono a precisare, edulcorato dal punto di vista che hanno scelto di raccontare. Durante i sopralluoghi nelle campagne pugliesi, dove il film è stato girato, non nascondono, con una certa commozione, di aver scoperto cose indicibili, di una gravità che il film non mostra ma che comunque lascia presagire.

È una storia archetipica, quella di un padre e di un figlio che scendono nelle viscere dell’inferno, insieme ad altri malcapitati, e che cercano comunque un riscatto, segnali di umanità. Questa ricerca, necessaria per mantenere la lucidità e non perdere la speranza nella salvezza, è evidente negli oggetti scelti che si sono portati dietro dalla casa che hanno dovuto abbandonare. Il loro disporli nell’ambiente degradato della baracca come simboli che rimandano ad un’altra vita possibile, con una ritualità quasi liturgica, sembra un tentativo di rimettere insieme i pezzi di un mondo danneggiato, andato in frantumi. Nel sogno di Antò di diventare archeologo in fondo c’è la caparbietà di rintracciare tesori e bellezza sotto la crosta dura della vita, nonostante tutto, e la madre che il padre, contro ogni logica, gli ha promesso. E Antò ci crede, come solo i bambini possono fare. Addirittura è convinto che l’occhio del padre, danneggiato dal lavoro e che lui cura amorevolmente ogni sera, sia il segno di qualche super potere.

Nel bambino-archeologo si intuisce la necessità dei registi di scavare nel proprio passato per ripararlo in qualche modo. La storia di finzione si intreccia con l’autobiografia. Nel 1958 la nonna paterna dei De Serio, che non hanno mai conosciuto, muore lavorando negli stessi campi. Il contrasto tra la tenerezza tra padre e figlio, che percuote tutto il film, e l’abbruttimento della realtà che li circonda è riflesso nel paesaggio, che non è più interiore come nel loro film precedente Sette opere di misericordia (2011). Si sono ispirati al quadro di Courbet “Gli spaccapietre”, sia per le scelte cromatiche sia per come viene mostrato lo scambio tra corpo e paesaggio.

Il crescendo del film è giocato sulle allusioni a brutalità e umiliazioni inflitte dai caporali alle loro vittime, trattate come bestie al macello e in questo l’iconografia è molto esplicita. Ma si sa che le allusioni scatenano l’immaginazione più di quanto riesca a fare una realtà esibita e in questo caso spingono lo spettatore a confrontarsi con crudeltà così indicibili che mostrarle, sembrano volerci suggerire i registi, equivarrebbe a regalargli una ragion d’essere che non meritano. Il realismo qui è sapientemente mescolato con un certo noir alla Tarantino, che non vuole essere una vuota citazione fine a se stessa, ma è il tocco di chi il cinema non solo lo conosce, ma lo sa fare. E lo si capisce dal fatto che si esce dal cinema con un certo malessere fisico e tante domande nella testa.

Giuliana Prestipino

12 settembre 1683, i Turchi conquistano Vienna: la storia capovolta

E se il sultano Erdogan puntasse a prendere anche Vienna dopo aver occupato parte della Siria e dell’Iraq, mezza Libia, il Mediterraneo orientale, con l’ambizione di tornare da conquistatore nei Balcani e arrivare perfino a Gerusalemme?

Nessuno riesce a fermarlo, la sua macchina geopolitica, economica e militare sta penetrando con successo ovunque, dall’Asia all’Africa. E se domani arrivasse in Europa? Non sarebbe la prima volta, i turchi-ottomani, i suoi predecessori ai quali spesso il leader turco si richiama, ci sono arrivati in tempi molto lontani, andando due volte vicino alla conquista di Vienna.

Oggi Erdogan vuole la rinascita dell’Impero Ottomano o almeno di un’ampia fetta di territorio di quello che fu lo sterminato impero dei sultani del Bosforo. Vienna non è così distante da Istanbul e neppure Roma. L’anniversario del 12 settembre 1683, la disfatta turca davanti alle porte della capitale viennese dopo due mesi di assedio, casca quest’anno proprio sull’onda delle conquiste neo-ottomane del presidente-sultano Erdogan. E allora proviamo questa volta a capovolgere la Storia. Quel giorno di oltre tre secoli fa i cristiani furono sconfitti e i turchi conquistarono Vienna. Sono le cinque del pomeriggio del 12 settembre. La battaglia è finita, l’esercito cristiano intervenuto per aiutare i viennesi è stato sbaragliato con gravi perdite. Sul campo restano migliaia di morti e tra questi c’è il sovrano polacco Jan Sobieski che comandava centinaia di cavalieri giunti in soccorso ai difensori di Vienna. I giannizzeri del gran visir Kara Mustafa entrano in città terrorizzando e massacrando gli assediati ormai ridotti alla fame. Scampato all’eccidio il frate-predicatore Marco D’Aviano assiste affranto dalle torri di Vienna all’ingresso dell’esercito ottomano in città. Per i turchi si apriva la strada verso altre capitali europee e verso la conquista del Continente ma cosa sarebbe successo se Vienna fosse davvero caduta nelle mani dei turchi? Quel 12 settembre avrebbe cambiato il corso della storia? Secondo molti storici gli ottomani non avrebbero avuto la forza necessaria per tenere a lungo la città per poi avanzare a nord o a sud verso la capitale della Cristianità. Certo, nessuno può dire se la conquista di Vienna sarebbe stata l’ultima tappa dell’offensiva turca in Europa ma l’Impero nel frattempo si era indebolito e le Corti europee non correvano più nessun pericolo. Alcuni anni dopo Vienna i turchi verranno travolti a Zenta sul Tibisco dall’esercito imperiale del principe Eugenio di Savoia e il trattato di pace di Karlowitz del 1699 segnò l’inizio del declino dell’Impero ottomano e la fine del controllo turco su gran parte dell’Europa centrale e orientale.

Filippo Re

Madonnari nel cuore

Sarà presentato sabato 12 settembre alle ore 19 nel Santuario della Beata Vergine delle Grazie il volume Madonnari nel cuore.

Ex voto 2020, a cura di Paola Artoni e Paolo Bertelli, edito nella collana «Esercizi d’Arte» da Universitas Studiorum di Mantova. Durante i mesi più duri della pandemia e nella fase più buia del lockdown gli storici dell’arte Paola Artoni e Paolo Bertelli, da anni studiosi del santuario della Beata Vergine delle Grazie presso Curtatone, hanno ideato e curato un progetto condiviso con il rettore del santuario e con la diocesi di Mantova, in primis il Vescovo monsignor Marco Busca.

Nel 1399 questo santuario venne rifondato da Francesco I Gonzaga come supplica
alla Madonna per la fine della peste e, allo stesso modo, oggi l’arte invoca la fine
della pandemia e diventa preghiera per i morti, i malati e i guariti. Il progetto,
voluto e sostenuto dall’amministrazione comunale di Curtatone, ha visto la
direzione artistica di Mariano Bottoli, Maestro madonnaro protagonista da oltre
quarant’anni dell’Incontro di Grazie. A lui il compito di ideare un polittico, alto 9 e
largo 7,50 metri, composto da 12 tele che riecheggiano la struttura dell’impalcato
ligneo che si trova alle pareti della basilica, e di selezionare gli undici colleghi, tra
i migliori artisti madonnari del panorama internazionale, che si sono occupati di
altrettanti scomparti del polittico. Sono: Victor Boni, Vera Bugatti, Mariangela
Cappa, Liliana Confortini, Fabio Maria Fedele, Gabriele Ferrari, Ketty
Grossi, Simona Lanfredi Sofia, Tiberio Mazzocchi, Anna Salvaterra,
Valentina Sforzini. Ne è nata un’opera che, per certi versi, evoca il modus
operandi del “Giudizio Universale” realizzato a più mani dai madonnari nel 1991
per accogliere papa San Giovanni Paolo II a Grazie, durante la sua visita in terra
mantovana. Il programma iconografico è un continuo rimando alla storia del
santuario: al vertice si trova l’Assunta, poi vi sono la basilica, l’icona della Beata
Vergine qui venerata e la posa della prima pietra della chiesa; quindi i santi della
peste San Rocco e San Sebastiano e i santi legati a Grazie: San Bernardino che
qui predicò esattamente sei secoli fa, San Pio X che amò questo luogo al tempo
del suo vescovato a Mantova e lo stesso papa San Giovanni Paolo II. A
rappresentanza dei madonnari è stato scelto Toto de Angelis in arte Straccetto,
indimenticabile e carismatico artista scomparso qualche anno fa.

Il volume, pubblicato in italiano e in inglese, documenta con il reportage
fotografico di Marina Tomasi l’elaborazione delle singole tele alla loro distesa sul
pavimento nella navata deserta del Santuario, dalla benedizione delle opere e
degli autori da parte del rettore all’allestimento del grande polittico nella
Sagrestia del Santuario. Dopo i saluti istituzionali di Comune, Diocesi, Rettorato e
dello sponsor Rotary Andes Virgilio Curtatone, seguono i testi critici, oltre che dei
curatori Paola Artoni e Paolo Bertelli, di mons. Marco Busca, vescovo di Mantova;
dell’arch. Don Stefano Savoia, direttore del settore Beni Culturali della Diocesi;
di Peter Assmann, già direttore del Complesso museale Palazzo Ducale di
Mantova e attualmente direttore dei Musei del Tirolo di Innsbruck.

L’11 settembre 1697

Il primo fatidico “11 settembre” si combatté sulle rive del Tibisco: a Zenta, nei pressi del Danubio, in terra ungherese, fu fermata l’avanzata dell’esercito ottomano in Europa che dopo la disfatta epocale davanti alle mura di Vienna nel 1683 aveva riconquistato Belgrado nell’ottobre del 1690 e minacciava nuovamente l’Ungheria. Erano tutt’altro che annientati i turchi che ripresero vigore pensando di portare nuovamente le loro armate nel cuore dell’Europa. Quel giorno Eugenio di Savoia, al comando dell’esercito imperiale d’Asburgo, inflisse ai turchi una sconfitta disastrosa. Era l’11 settembre 1697: la battaglia di Zenta (oggi Senta, nel nord della Serbia) fu uno scontro determinante della guerra contro i turchi, iniziata con l’assedio di Vienna nel cuore dell’Europa, e si può considerare il primo vero “11 settembre” della storia del secolare scontro di civiltà tra cristiani e musulmani, tra il Cristianesimo e l’Islam incarnato a quel tempo dalla potenza ottomana. Non quindi il recente l’11 settembre 2001, di cui ricorre oggi il sedicesimo anniversario, né tanto meno il 12 settembre 1683, il mitico anno della liberazione di Vienna asburgica dall’assedio del Gran Vizir Kara Mustafà, anche se alcuni giornalisti e registi si dilettano a fissare la data della battaglia di Vienna nel giorno della vigilia, l’11 settembre, per trovare a tutti costi un’analogia storica con il giorno dell’attentato alle Torri Gemelle di New York. In realtà la battaglia alle porte di Vienna si svolse nella giornata del 12 settembre, dalle prime luci del giorno fino al tardo pomeriggio. Poco male, si dirà, tuttavia si scrivono poderosi libri su Vienna e non si parla mai della vittoria di Zenta che pose fine alla minaccia turca per l’Europa cristiana esaltando la fama di Eugenio come uno dei più abili generali e strateghi del suo tempo. Sulle sponde del Danubio gli ottomani sconfitti furono costretti ad accettare le condizioni del trattato di pace di Karlowitz del 26 gennaio 1699, il primo trattato imposto ai turchi dalle potenze cristiane. L’imperatore d’Asburgo riprese gran parte dell’Ungheria, abbattendo il vessillo della Mezzaluna dopo 150 anni di dominio, e la Transilvania mentre Venezia prendeva possesso della Morea e della Dalmazia. Nei saloni dei suoi Palazzi viennesi il Principe si aggiornava sui movimenti dei turchi nei Balcani e passava in rassegna le proprie truppe, la fanteria, i dragoni a cavallo, gli ussari d’assalto. Si preparava a un nuovo scontro con i turchi di cui non si fidava. Li conosceva bene, li aveva già combattuti e sconfitti in Austria e in Ungheria. Il sultano Mustafà II era partito da Belgrado al comando di 100.000 uomini, un esercito immenso composto da giannizzeri, cavalleria, artiglieri, seguiti da una moltitudine di artigiani, cuochi, giocolieri, donne dell’harem ed eunuchi. Non si conosceva la direzione dell’armata turca. Soltanto il 7 settembre Eugenio venne a sapere da un pascià disertore che il sultano aveva raggiunto il fiume Tibisco vicino al villaggio di Zenta allestendo in gran fretta un ponte di sessanta barche per farvi transitare il suo esercito diretto verso Temesvàr (Timisoara) e la Transilvania. Eugenio di Savoia era diventato solo un mese prima, nell’agosto 1697, comandante dell’esercito imperiale austriaco. Nel pomeriggio dell’11 settembre una parte della cavalleria turca aveva già guadato il fiume ma il grosso dell’esercito era rimasto sull’altra sponda formando un semicerchio intorno al ponte con trincee, depositi di armi e viveri e fortificazioni che però non ebbe il tempo di completare. Il principe Eugenio era ancora lontano dal fiume ma i suoi messaggeri lo aggiornarono in breve tempo sui piani dei turchi. L’occasione per attaccarli era troppo favorevole. Non perse tempo e ordinò ai suoi uomini di avanzare e dopo una lunga estenuante marcia arrivò nei pressi del fiume. Il Principe era raggiante: i turchi erano davanti a lui, sulla sponda occidentale del Tibisco, circondati dalla sua cavalleria. Lanciò i dragoni imperiali all’assalto gettando nello scompiglio il campo turco, al di qua del Tibisco, dove si trovava il grosso delle truppe nemiche. Gli ottomani furono travolti e sbaragliati dalla furia degli austriaci. I giannizzeri, il corpo d’elite dell’esercito della Mezzaluna, attaccati da ogni parte si difesero fino all’ultimo con armi da fuoco e scimitarre per poi darsi alla fuga che si trasformò presto in un massacro. Molti soldati turchi furono uccisi sul ponte e tanti altri morirono annegati nel fiume rosso di sangue. Galleggiavano così tanti corpi che, scrisse Eugenio nel suo diario di battaglia, “i suoi soldati potevano stare in piedi sui cadaveri dei turchi come su un’isola”. L’esercito sultaniale cadde sotto il fuoco dei cannoni imperiali e fu distrutto. Quindicimila uomini morirono combattendo e altri 10.000 annegarono nel Tibisco. Poche centinaia si misero in salvo sulla riva orientale del fiume tra cui il sultano che evitò di essere catturato e fuggì con un manipolo di fedelissimi verso Temesvàr. Il gran visir e alcuni governatori della Bosnia e dell’Anatolia insieme a numerosi ufficiali furono uccisi. In campo austriaco si contarono appena 400 morti e un migliaio di feriti. Anche il bottino catturato era favoloso e comprendeva migliaia di carri, almeno 20.000 cammelli e 800 cavalli, 400 bandiere, denaro e armi in gran quantità. Tra i trofei finiti nelle mani dei vincitori c’era anche il sigillo del sultano (il Tughra, in turco-ottomano) che il gran visir portava al collo come segno della sua autorità. Eugenio lo raccolse nella polvere insanguinata della battaglia, tra destrieri caduti sul terreno, soldati morti o feriti e armi abbandonate, e oggi si trova nel Museo viennese di storia militare. I combattimenti cessarono nella tarda serata, “come se, scrisse il feldmaresciallo all’imperatore, il sole non avesse voluto tramontare prima di aver assistito al completo trionfo delle gloriose armi di Vostra Maestà Imperiale”. L’apoteosi delle gesta del principe Eugenio emerge in tutto il suo fulgore nei palazzi e nei giardini viennesi, come il Belvedere, decorati con allegorie che celebrano le sue grandiose battaglie contro i turchi. Dopo l’11 settembre di Zenta la potenza della Mezzaluna decadde in Europa anche se i sultani del Bosforo rimasero una minaccia costante sia a est che a Occidente e l’esercito ottomano era ancora, per le sue dimensioni, la più grande armata d’Europa, un nemico eccezionale. Un dubbio tuttavia resta nei pensieri e nelle analisi degli storici a oltre tre secoli di distanza: la fama di Zenta e delle altre vittorie contro il feroce Turco erano davvero merito esclusivo di Eugenio e delle sue truppe imperiali o sono da imputare anche agli errori tattici dei turchi sul campo di battaglia e al logoramento della loro forza militare. Forse la verità sta nel mezzo ma ciò non toglie, come ha scritto Joseph von Hammer, il principale studioso dell’Impero ottomano, che “la battaglia di Zenta diede all’impero asburgico la vittoria definitiva e determinò irrevocabilmente il declino di quello ottomano”. Ma la guerra del Prinz sabaudo e dell’imperatore Leopoldo I contro i turchi continuò, restava da riconquistare Belgrado, ancora in mano al sultano. L’11 settembre di tre secoli fa era stata vinta a Zenta una battaglia molto importante ma non definitiva perchè una parte dell’esercito turco era riuscito a mettersi in salvo. Il grande “scontro di civiltà” era destinato a non tramontare.

Filippo Re

 

Assedio 1706, apre il museo Pietro Micca

314° anniversario della Liberazione di Torino dall’assedio del 1706 e riapertura del museo Pietro Micca e dei siti sotterranei collegati

314 anni fa, con una esemplare coralità di volontà, capacità e impegno, governanti, amministratori,
religiosi, militari, lavoratori e cittadini tutti di Torino coronavano 117 giorni di determinata resistenza
all’assedio e di immani sacrifici personali e collettivi con la vittoriosa battaglia del 7 settembre
1706, favorita dall’arrivo dei determinanti soccorsi alleati e dalla intelligente scelta del settore di
attacco, tra Dora e Stura, sui prati ora occupati da Borgo Vittoria, significativa per la storia di
Torino, del Piemonte e della futura Italia.
Torino, cosciente del valore esemplare dell’esperienza del passato per vivere con consapevolezza
il presente e programmare con intelligenza il futuro, commemora ogni anno gli eventi fondanti del
1706, nella memoria della sua storia, nella riconoscenza per chi ne è stato protagonista e
nell’impegno costante a valorizzare il suo patrimonio valoriale, artistico, storico e infrastrutturale di
cui essere orgogliosi e attenti custodi.
Quest’anno le commemorazioni hanno un significato particolare per vari motivi.
Il primo , che coincidono con la riapertura dei siti del museo dopo 5 mesi di chiusura per
l’emergenza sanitaria, un periodo più lungo dell’assedio stesso.
Il museo Pietro Micca dell’assedio di Torino del 1706 , che nell’attesa ha rinnovato le sue
esposizioni con nuovi cimeli, uniformi e dipinti, ha riaperto dal 5 settembre la sua sede in via
Guicciardini 7 tutti i giorni della settimana, a meno del lunedì, con orario 10,30 -17 (ultima entrata)
con ingressi contingentati per la maggior sicurezza dei visitatori e a prenotazione al tel. 011 01167580 e all’e-mail
info@museopietromicca.it per favorire l’accesso senza attese.
Il secondo motivo è che riaprono anche, a ingresso gratuito e secondo l’ordine di arrivo (senza prenotazione), i siti collegati del Rivellino degli Invalidi
di corso Galileo Ferraris 14, tutte le domeniche nell’orario 15 – 19, e del Pastiss di via Papacino 1, l’ultima domenica del mese sempre nell’orario 15 – 19.
Il terzo motivo è che la commemorazione avrà luogo sabato 12 luglio e, nel rispetto delle norme in vigore, non prevede la tradizionale sfilata del Gruppo Storico Pietro Micca della Città di Torino ma limiterà le rappresentanze partecipanti e le attività esterne ai quattro monumenti simbolici: Lapide ai combattenti del 1706 (ore 16 al museo Pietro Micca), monumento a Pietro Micca (ore 16,30 al Maschio della Cittadella), monumento al principe Eugenio (ore 17 presso il Palazzo di Città) e concluderà la commemorazione alle ore 18 nella Chiesa di Nostra Signora della Salute in Via
Michele Antonio Vibò, 26, con la celebrazione religiosa, i discorsi ufficiali e gli onori nella Cripta- Sacrario dei Caduti del 1706.
Chi desidera partecipare dovrà raggiungere autonomamente i vari luoghi di cerimonia agli orari indicati. Per partecipare alla celebrazione religiosa e commemorazione finale è necessario indossare la mascherina.
Per informazioni:
tel. 011 0116 7580 – e-mail
info@museopietromicca.it
– sito www.pietromicca.it

Al via la nuova stagione del Circolo dei lettori. Chi legge, trova

È stata presentata nelle sontuose sale di Palazzo Graneri la nuova stagione del Circolo dei lettori. Una parte del pubblico in presenza e un’altra seguiva in streaming nella sala accanto per rispettare le misure di sicurezza.

Giulio Biino, presidente della Fondazione del Circolo dei lettori, apre la conferenza stampa con un liberatorio “Ce l’abbiamo fatta”, consapevole delle sfide che attendono il nuovo anno e senza dimenticare la sofferenza che ha attraversato il Circolo. Anche Elena Loewenthal, che dopo un mese dal suo insediamento come direttrice ha visto chiudere il Circolo, non nasconde l’emozione:

“Ritrovarsi qui non è un inizio qualunque, è un dono insperato. E’ cambiata la nostra percezione del tempo e dello spazio. Settembre è l’inizio di una nuova stagione, per ricominciare, insieme e con curiosità, partendo dalla cultura, Letteratura, creatività, musica, arte e filosofia saranno le coordinate per orientarsi nel presente e costruire il futuro, ma soprattutto per guardare da una giusta distanza quel passato che abbiamo appena attraversato, e che fra le tante cose ci ha costretto anche a ripensare le misure della nostra vita, dello spazio che ci circonda e di quello che ci avvolge.”

E così anche il Circolo si reinventa sempre mettendo al centro la cultura “Chi legge, trova”, più che il motto della nuova stagione, è un augurio, quello di trovare nella cultura la stella polare da seguire per avere risposte, far nascere dubbi, dialogare, sognare, reinventare il futuro insieme. Riprendono gli incontri con gli autori, attesi a Torino Corrado Augias con il nuovo Breviario per un confuso presente (Einaudi), Paolo Nori con Che dispiacere (Salani), commedia dagli equivoci noir, Giovanni Allevi con Rivoluzione (Solferino), racconto filosofico sulla paura di cambiare, Elena Varvello con Solo un ragazzo (Einaudi), romanzo sull’adolescenza, età innocente e malvagia, Enrico Pandiani con il giallo parigino Il gourmet cena sempre due volte (EDT), solo per citarne alcuni. E a proposito di spazi ripensati il Circolo dei lettori sbarca nel Cortile di Combo, non solo in occasione di Torino Spiritualità, ma anche con due speciali appuntamenti in programma a settembre: Mimmo Lucano e Niccolò Zancan si confronto a partire dai rispettivi libri, Il fuorilegge e Dove finisce l’Italia, mentre Gianrico Carofiglio presenta Della gentilezza e del coraggio nel Cortile di Combo, manuale d’uso della parola.

Ricominciano gli incontri firmati Limes e YouTrend del ciclo La mappa del mondo. Dal 9 settembre nella sede storica di via Bogino prendono il via anche i gruppi di lettura, diciassette appuntamenti settimanali fissi per sollecitare la riflessione e condivisione di idee. Gruppi di lettura anche per alunni e alunne delle scuole primarie e secondarie di primo grado pensati apposta per loro, intorno a temi come cittadinanza, inclusione, sostenibilità, ambiente.

Sono stati presentati anche i festival autunnali che a breve prenderanno il via: Scarabocchi sarà il primo, dal 18 al 20 settembre a Novara, rassegna dedicata ai bambini e alle famiglie, arrivata alla sua terza edizione. Torino Spiritualità, dal 24 al 27 settembre, con quattro giorni di riflessioni in chiave filosofica e spirituale intorno al respiro. Eventi dal vivo, letture, dialoghi, concerti e spettacoli in città, itinerari urbani e nella natura, laboratori, meditazioni e mostre con oltre 80 ospiti e più di 70 incontri. Quest’anno, per la prima volta, sarà allestita, nel cuore della città, una grande tenda in piazza Carlo Alberto. Sarà il Padiglione del festival che accoglierà, tra gli ospiti, Vito Mancuso, Massimo Recalcati, Francesca Rigotti, Salvatore Veca, Silvano Petrosino e Giacomo Poretti, Beatrice Venezi con Sebastian Schwarz e molti altri, dal vivo e online.

Dell’ambivalenza della natura umana si occupa invece il Festival del Classico che quest’anno torna dal 29 novembre al 4 dicembre con una settimana intera di lezioni, dialoghi, letture e dibattiti di retorica tra squadre di studenti per rendere vivi e vitali i classici. Presieduto da Luciano Canfora e curato da Ugo Cardinale, il festival coinvolgerà, quest’anno in particolare, gli allievi e le allieve delle scuole superiori e dell’Università di Torino.

E riapre con una nuova stagione di live anche il Circolo della musica di Rivoli. Si ricomincia con Any Other in solo, con Low Standards, High Fives; Davide Toffolo (Tre Allegri Ragazzi Morti) in Andrà tutto benino; Andrea “Pojana” Pennacchi in Pojana e i suoi fratelli; Peppe Servillo (Avion Travel) & Luis Mangalavite in Il resto della settimana; Gian Maria Accusani (Sick Tamburo, Prozac+) in Da grande faccio il musicista; Alessandro Baronciani & Corrado Nuccini in Quando tutto diventò blu; Teho Teardo in Ellipses dans l’harmonie.

Per maggiori informazioni consultare il sito www.circololettori.it

Giuliana Prestipino

“Conosci l’estate?”

IL PRIMO ROMANZO DI SIMONA TANZINI AMBIENTATO A PALERMO  Prima di partire per le vacanze cercavo un libro ambientato a Palermo, la mia città. Non ci vado più molto e ne ho nostalgia. Mi manca il suo  mare, mi mancano i miei cugini, l’arte, l’architettura, il cibo, le emozioni “forti” a cui non sono più abituata. Alla ricerca dunque di una lettura che mi riportasse, almeno con la fantasia, nel mio amato luogo, a fine luglio entro in una libreria di Torino e un commesso entusiasta, e decisamente innamorato del suo lavoro, mi consiglia “Conosci l’estate?” di Simona Tanzini, edito da Sellerio. Lo acquisto fidandomi incondizionatamente del suo giudizio. 

Dalle prime pagine capisco subito che era quello che cercavo, una descrizione della “città-ossimoro”, dei suoi quartieri, delle abitudini e delle esternazioni colorite dei suoi abitanti, dei segni che lascia lo scirocco, della straordinaria bellezza e delle contraddizioni di questa città-continente.

La storia, il linguaggio lucido e ironico della scrittrice mi hanno conquistato. Ho compreso empaticamente i disagi del disturbo percettivo della protagonista, la sinestesia, mi sono immedesimata e specchiata nel suo percorso formativo, è sociologa e giornalista come me. La differenza nel vissuto è che lei è una romana trapiantata a Palermo, mentre io, prima di abitare a Torino, tra l’altro una delle città predilette di Viola, ero una palermitana trapiantata a Roma.

E’ un “giallo mediterraneo” che racconta di un volto del giornalismo televisivo, Viola appunto, che possiede “una particolarità”, un disturbo della percezione, che le fa accostare luoghi e persone a colori e musica. La protagonista purtroppo ha anche i “neuroni bucati”, come lei dice, che la condizionano nei movimenti e nell’approccio alla realtà.

Nel pieno di una ondata di scirocco viene uccisa Romina e il maggiore indiziato per questo omicidio è Zefir, un cantante molto conosciuto. Viola vaga per tutti i luoghi coinvolti dal crimine, conducendo la sua vita movimentata, curiosando nelle case e nelle giornate di ogni tipo di gente. Santo, l’ex caporedattore, trincerato dietro tenaci silenzi la mette in contatto con un suo amico, un poliziotto che lei chiama Zelig perché “cambia spesso colore”, il quale sembra sfruttare le sue intuizioni, le sue visioni, l’abilità di capire le persone attraverso le cromie. L’inchiesta diventa una storia, un girovagare nella eloquente Palermo, un susseguirsi di eventi e coincidenze lontani, mischiati a pensieri contemporanei su se stessa, sulla città, su fatti e persone, con spirito, ironia, a volte cinismo e amore, sentimenti tutti orientati all’obiettivo di rubare la verità ad una realtà complessa e articolata. Dietro la “vicenda gialla” traspare il vero cuore del romanzo: il ritratto commovente, quasi un diario, di una donna che avverte che in lei “si sta allargando il buio”, che è lei “quella diversa” e perciò attraversa la vita in modo totale con tristezza e divertimento, malinconia ed entusiasmo, dolore e godimento.

Un libro nuovo, senza luoghi comuni su un luogo, Palermo, che troppo spesso li riceve e li patisce, una scoperta piacevole.

In attesa di una prossima avventura palermitana di Viola, un invito appassionato a leggere “Conosci l’estate?”.

Maria La Barbera

Tra classicità e astrattismo, sei scultori a confronto

Fino all’11 ottobre, nel cortile della Fondazione Accorsi in via Po

 

Anche il raccolto cortile di uno storico palazzo torinese può trasformarsi in una galleria d’arte. In un tempo di pandemia e di tragedia, di mascherine e di distanziamenti, di cancellazione di gran parte dei rapporti umani, in cui molti segni di bellezza sono stati azzerati, in cui i messaggi artistici faticano a colloquiare con il folto pubblico e artisti e gallerie vedono i calendari espositivi del tutto sospesi o cancellati e le proprie risorse allontanate nel tempo, ecco che a tratti, con coraggio e con determinazione, qualcosa si muove.

Si accantona quanto era in preparazione all’interno delle sale abitualmente occupate dalle abituali mostre per “invadere” altri spazi, in maniera inusuale, per riappropriarsi di quella “ricerca consolatoria della bellezza che l’uomo, già dai tempi della preistoria, ha sempre cercato di rappresentare, riprodurre, reinventare”, per attirare sotto il cielo una diversa e non già percorsa occasione. Succede nel centro della città, nel palazzo sede della Fondazione Accorsi-Ometto in via Po che occupa il Museo delle Arti Decorative, con Novecento in cortile. Omaggio ai Grandi Maestri della scultura contemporanea, mostra promossa dal direttore della Fondazione Luca Mana, con la collaborazione di Giuliana Godio, e curata da Bruto Pomodoro (fino all’11 ottobre prossimo). La visita in totale sicurezza, ammesso un massimo di 23 persone, ogni mezz’ora.

Sei artisti di levatura internazionale e undici grandi opere, bronzi, acciai e terrecotte, un panorama che abbraccia il duplice aspetto dell’arte scultorea del Novecento, dove trova splendidamente spazio il realismo che affonda le proprie radici nella purezza della classicità e gli sviluppi dinamici che corrono verso la più sottile astrazione. In un efficace allestimento, l’uno di fianco o di fronte all’altro, alternando forme e volumi, si fronteggiano gli “antichi” Igor Mitoraj, Ivan Theimer e Paolo Borghi e i “moderni” Giò Pomodoro, Riccardo Cordero e Arman. Di quest’ultimo – Pierre Fernandez Armand, nato a Nizza nel 1928 e morto a New York nell’ottobre del 2005, uno fra i massimi esponenti del nouveau réalisme, celebre per le “frammentazioni” e per le “accumulazioni” – campeggiano le sezioni del monumentale Mercurio degli anni Ottanta; Cordero porta Asteroide (2017), una costruzione in acciaio di linee e di curve espressa in tutto il proprio astrattismo e posta in perfetto dialogo con lo spazio che la circonda, mentre di Pomodoro, scomparso nel dicembre 2002, si ammirano Tensione verticale (1963-64) e Sole deposto (1982), “due bronzi patinati – spiega il figlio Bruto nel piccolo catalogo di introduzione alla mostra – di due diversi cicli produttivi del Maestro marchigiano, quello delle “Tensioni”, opere che cercano di definire il concetto di vuoto, inspodestabile, e dei “Soli”, archetipi geometrici di uno dei simboli più rappresentativi dell’umanità, fabbrica d’energia senza proprietari, come amava definirlo egli stesso”.

Cavalcata interrotta (1990) di Paolo Borghi occupa lo spazio del portico che immette alle sale superiori, una suggestiva terracotta che rivisita con devozione il mondo antico; dalla riscoperta di qualche civiltà (l’omaggio agli obelischi egizi), dalla suggestione di riti antichi in ogni loro più decifrabile simbologia (la tartaruga posta a base di Tobiolo o della “montagna dei tanti personaggi con cui l’artista ha costruito la sua opera qui esposta), come dal manierismo di stampo toscano paiono nascere le quattro sculture del ceco Ivan Theimer esposte (si noti ancora il realismo dello scudo con la Medusa caravaggesca del 2005); mentre l’intera mostra viene sovrastata dall’Ikaro alato (2000) di Igor Mitoraj – nato a Oederan nel 1944, piccolo centro della Sassonia, trascorre la giovinezza nei pressi di Cracovia -, un’altezza di 3,60 metri, un capolavoro che guarda agli eroi del passato a rappresentare una classicità spezzata, un archeologia che guarda alla manomissione dell’umanità presente, deposta dolente come l’altro bronzo del 2014, Luci di Nara pietrificata.

 

Elio Rabbione

 

Igor Mitoraj, “Ikaro alato”, 2000, bronzo cm 360 x cm 152 x cm 120, Atelier Mitoraj, Pietrasanta

Paolo Borghi, “Cavalcata interrotta”, 1990, terracotta, cm 132 x cm 173 x cm 83, Proprietà dell’Autore

Riccardo Cordero, “Asteroide” 2017, acciaio inox satinato, cm 230 x cm 230 x cm 195, Proprietà dell’Autore

Con Anpi e Progetto Cantoregi per celebrare l’8 settembre 1943

“Camminando a Racconigi”. La nascita della Resistenza in Piemonte

Giovedì 10 settembre, dalle 21 alle 22,30

Racconigi (Cuneo)

Un percorso non a caso in piazze e vie della città. E parole per tenere viva la memoria e riproporre valori, oggi fortemente messi in gioco, attraverso letture e musiche a tema. Sarà una serata itinerante scandita in cinque tappe, quella organizzata da Anpi Racconigi e dalla locale compagnia teatrale “Progetto Cantoregi”, per celebrare la nascita della Resistenza in Piemonte l’8 settembre 1943. L’appuntamento è per giovedì prossimo 10 settembre a partire dalle 21 per concludersi intorno alle 22,30 con letture e canzoni alla Soms di via Carlo Costa (casa sociale appartenuta fino a un anno fa alla Società Operaia di Mutuo Soccorso e  oggi sede di “Progetto Cantoregi”), seguendo un ben preciso itinerario lungo il quale far rivivere un periodo cruciale della nostra storia, che con il sacrificio, il coraggio ed il valore di molti – giovani e meno giovani, uomini e  donne – ha contribuito a forgiare le basi della nostra Repubblica.

Questo l’itinerario:

Si parte alle 21 da piazza Carlo Alberto, dal monumento dedicato ai partigiani cittadini, per poi raggiungere piazza Vittorio Emanuele II (Piazza degli Uomini) e quindi piazza San Giovanni dove, nella sede della Parrocchia, prese vita il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale). La quarta tappa sarà piazza Santa Maria dove si ricorderà il funerale del partigiano Tormenta. Il cammino prosegue quindi in via Priotti, fino alla lapide del partigiano Mimì Appendino, ucciso a 20 anni, per poi terminare alla Soms e dare il via alle letture.

Qui, i momenti storici saranno rievocati da Pierfranco Occelli, presidente della sezione Anpi di Racconigi, partendo dal proclama di armistizio annunciato dal maresciallo Badoglio l’8 settembre 1943.

Le letture di romanzi, saggi e poesie saranno a cura di Irene Avataneo, Cristina Fenoglio, Valentina Perlo, Pierbartolo Piacenza, Andrea Piovano, Federico e Mariagrazia Soldati che daranno voce alle parole di scrittori, poeti o protagonisti e protagoniste della Resistenza, fra cui: Salvatore Quasimodo, Cesare Pavese, Giorgio Bocca, Irma Marchiani, Liana Catri, Giuseppe Marinetti, Giaime Pintor. Da non dimenticare la fondamentale partecipazione di Michele Banchio con la sua chitarra.

L’iniziativa è realizzata con il contributo della Fondazione CRS e con il patrocinio e la collaborazione del Comune di Racconigi.

Info: 335.8482321 – www.progettocantoregi.it – info@progettocantoregi.it Fb Progetto Cantoregi – Tw @cantoregi – IG Progetto Cantoregi. Ufficio stampa Progetto Cantoregi: Paola Galletto – pao.galletto@gmail.com

g. m.

Ci vediamo al Gigi Bar

La storia del Gigi Bar, locale-simbolo di Stresa che ha visto innumerevoli personalità sostare ai suoi tavolini gustando originalissimi cocktail e le delicatissime “margheritine”, è diventata un libro

Una vicenda leggendaria che Andrea Dallapina, giornalista e scrittore, ha voluto omaggiare con un romanzo dal titolo “Ci vediamo al Gigi bar – Una storia della Stresa da bere” (Alberti Libraio editore), mettendo in rilievo la passione e l’estro dei gestori.È un piccolo romanzo tributo alla lunga attività di Bruno Strola e della moglie Anna –afferma l’autore – per oltre quarant’anni e sino all’anno scorso hanno condotto il locale. È anche il racconto di una società quasi del tutto scomparsa, nella quale ai tavolini del caffè passavano il turista, l’intellettuale, l’imprenditore, il politico mescolati ai tanti clienti di Stresa”. L’aria bohémienne, lo spirito dei tempi,la bella e suggestiva passeggiata del lungolago stresiano, le facciate dei grandi alberghi e i dehors dei locali che guardano verso le isole dell’arcipelago Borromeo fanno da cornice a queste vicende, dove il protagonista del romanzo è proprio quel luogo frequentato dal bel mondo che, con un velo di malinconica tristezza, ha chiuso definitivamente i battenti nel gennaio scorso, dopo sessant’anni di onorata carriera. Le tante foto che accompagnano e arricchiscono il testo raccontano per immagini questa storia, soffermandosi sull’arte pasticciera di Bruno Strola, affinatasi in gioventù tra Milano, la Roma della “dolce vita” e il Lido di Venezia. Andrea Dallapina ha dato vita ad un narratore, lo scrittore americano Nick Wright (detto anche “mister Negroni” per la preferenza generosamente accordata al cocktail nato a Firenze cent’anni fa) che, ritornato dopo tre decenni in visita alla “perla del lago Maggiore”, ricostruisce la storia del Gigi Bar, teatro di incontri importanti e di deliziose colazioni e aperitivi.Donne e uomini di spettacolo, grandi musicisti ospiti a Stresa per le “settimane musicali”, campioni dello sport, imprenditori di successo, personalità della cultura e della politica come Mario Soldati, Ugo La Malfa, Oscar Luigi Scalfaro: una carrellata lunghissima di ospiti illustri, di passaggio o habitué, riempie le pagine con aneddoti e curiosità. Un percorso a ritroso nel tempo nel quale il narratore riavvolge come una pellicola l’intera storia del locale, accompagnato da Bruno e dal poeta stresiano Franco Esposito, moderno “Virgilio” e memoria storica di incontri e chiacchierate a quel tavolino del “Gigi” che per tantissimo tempo è stato il suo ufficio, seguendo le stesse abitudini di un altro famoso “scrittore di lago”, Piero Chiara.

Tra le tante notizie che si apprendono scorrendo le pagine del libro è particolarmente interessante l’atto di nascita, tra i tavolini del “Gigi bar”, del premio letterario che porta il nome della cittadina lacuale, fondato da un gruppo di intellettuali, tra i quali Franco Esposito, Mario Bonfantini, Mario Soldati, Gianfranco Lazzaro e Piero Chiara. Esposito, spronato dal grande Leonida Repaci, si lanciò nell’impresa già nel 1975, coinvolgendo l’amico Lazzaro. Ma le difficoltà a reperire le risorse necessarie resero impraticabile l’impresa. Determinati a raggiungere il risultato decisero di scrivere una lettera al pittore Mario Tozzi ,cresciuto a Suna, dall’altra parte del golfo Borromeo. Gli chiesero in dono una sua opera da mettere in palio quale premio per il concorso letterario. Il maestro rispose con sollecitudine inviando una sua litografia e così, nel 1976, iniziò anche quest’avventura che, già dai primi anni, vide protagonisti della giuria personaggi del calibro di Carlo Bo, Giovanni Spadolini, Giorgio Barberi Squarotti, Primo Levi. Quella del Gigi Bar è una storia di passione familiare per il lavoro che è terminata per ragioni anagrafiche, quando la coppia ha chiuso la propria attività e spento l’inconfondibile insegna rossa al neon che invitava i clienti nelle notti dell’epoca d’oro dei ruggenti anni ’60 e ’70. Un’intera comunità e tanti “vip” sono rimasti orfani delle celebri brioche e margheritine create nel 1857 dal pasticcere Pietro Antonio Bolongaro in onore della principessa futura regina Margherita. Resta il libro e un po’ di amarcord, con tutti i significati che questa parola porta con se, dalla profondità all’ironia, fino alla nostalgia dei ricordi.

 

Marco Travaglini