CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 453

C’erano una volta i matti

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)
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1. La folle storia della follia
Per le comunità arcaiche, la follia possedeva una forte connotazione mistica, infatti l’opinione comune voleva che tale stato mentale fosse causato dall’influsso di qualche divinità, ed era quindi compito dei sacerdoti trovarne una cura attraverso riti e preghiere.  Nel Medioevo, invece, la follia era considerata una forma di possessione demoniaca, e la gestione della malattia passò così dai sacerdoti/stregoni alla Chiesa, più precisamente fu affidata all’arbitrio di esorcisti e inquisitori. Si credeva allora che un’entità malvagia si insinuasse negli umori del malcapitato, intaccandone il corpo, e l’unica guarigione possibile, per una mentalità che guardava prevalentemente all’Aldilà, era la purificazione dell’anima attraverso la distruzione della carne, per mezzo di roghi o impalamenti.  Solo nel XVII secolo la psichiatria venne riconosciuta come una scienza medica, anche se la malattia mentale continuò ad essere ritenuta inguaribile, progressiva e incomprensibile. Durante l’Illuminismo le cause della follia vennero ritrovate nella perversione della volontà che sfuggiva al controllo della ragione, di conseguenza la cura si doveva rinvenire in rigidi metodi di insegnamento di “regole di convivenza”, di “socialità” e “tolleranza reciproca”, attraverso semi-annegamenti in apposite vasche, minacce con ferri roventi ed esplosioni improvvise di polvere da sparo. Con il trascorrere del tempo e l’evolversi delle conoscenze, e con altrettanta lentezza, anche l’atteggiamento nei confronti della malattia mentale mutò. La luce in fondo al claustrofobico tunnel della storia della follia fu il medico francese Philippe Pinel, che, nel 1793, propose l’abolizione delle catene, che tenevano gli alienati doppiamente imprigionati alla loro condizione, e la separazione di questi dai criminali. I matti non sono più terribili sbagli della natura da nascondere con disprezzo e vergogna, ma semplici malati da studiare e curare. I manicomi nascono, dunque, da un gesto umano, oltre che scientifico, ma spesso la storia ci insegna che la volontà e i buoni propositi hanno ben poco a che fare con la cruda realtà dei fatti. Anche a Torino c’erano i “pazzerelli”, e ce n’erano tanti, poiché con questo termine non si indicavano solamente gli alienati o le persone affette da qualche disturbo psichico, ma anche i vagabondi, i mendicanti, i nullatenenti, gli sfaccendati, i maghi, i bestemmiatori, le donne di facili costumi, i libertini, i figli ribelli, i sifilitici, gli alcolisti, gli individui politicamente sospetti, gli eretici, e tutti quei personaggi stravaganti che potevano in un qualche modo essere fonte di instabilità sociale, pericolo per la cittadinanza o fonte di scandalo per le famiglie più abbienti.   Per crudele ironia della sorte, fu proprio il re Vittorio Amedeo II, morto pazzo nel 1732, a finanziare la costruzione del primo “Spedale de’ Pazzerelli” a Torino. La struttura sorgeva tra via San Domenico, via Piave, via Bligny e via Santa Chiara, era gestita dalla Confraternita del SS. Sudario e Beata Vergine, che, in cambio, ottenne di non pagare l’acquisto dei materiali necessari per il funzionamento dell’attività, e già nel 1629, un anno dopo la sua costruzione, lo stabile era in grado di accogliere i primi degenti. All’interno della struttura i folli erano divisi dai vagabondi e dai criminali, inoltre i violenti, o coloro di più difficile gestione, erano sistemati in stanze più interne, mentre a potersi affacciare alle finestre che davano sulla normale vita cittadina, erano quelli ritenuti miti e innocui. Il buon cuore e la carità insiti nell’animo umano non tardarono a farsi sentire: all’esterno della struttura, gli abitanti delle case adiacenti al manicomio iniziarono a lamentarsi dei comportamenti scandalosi dei malati aldilà delle finestre; all’interno, invece, le condizioni di detenzione dei degenti stavano via via ulteriormente peggiorando, tanto che un esponente dei Savoia esordì con un “io qui dentro non ci metterei nemmeno i cavalli!” Il 13 maggio 1834, alla presenza di re Carlo Alberto, venne inaugurato il nuovo manicomio di Torino, che sostituì quello vecchio e sovraffollato; la nuova struttura venne indicata come l’“albergo dei due pini”, ingannevole perifrasi con cui veniva soprannominato l’orrido e temuto luogo di detenzione. Il complesso sorgeva non troppo lontano dal primo, tra via della Consolata, corso Valdocco, corso Regina Margherita e via Giulio, dove era situato l’ingresso. L’edifico era costituito da due lunghe maniche parallele interrotte al centro dal settore dei servizi, che separava il reparto femminile da quello maschile. Sulla carta, le corsie e le celle erano distribuite a seconda delle patologie e del grado di difficoltà che presentava il trattamento, vi era, inoltre, una sezione apposita per i maniaci provenienti dalle carceri. La grande innovazione di questo stabile stava nel fatto che veniva consentito ai degenti di passeggiare all’aria aperta, infatti, ad abbracciare l’edificio c’era uno spazioso giardino, a sua volta perimetrato da alte mura, divisione obbligatoria, materica ed ideologica tra il mondo dei normali e quello degli anormali. Anche un’altra innovazione coincise con l’edificazione del manicomio di via Giulio: il passaggio dei poteri dalla Confraternita ai sanitari, il periodo assistenziale gestito dai religiosi era finito, si apriva ora la fase clinica in cui il medico era il funzionario del nuovo ordinamento. Ad assumere l’incarico di primo medico interno in servizio fu Benedetto Trompeo, un dinamico trentunenne di larghe vedute, a cui si deve l’introduzione del concetto di cartella clinica e dell’ergoterapia. Grazie al suo metodo curativo, che si basava su una terapia sedativa, (salassi e bagni bollenti o congelati) e su una terapia “morale” che consisteva nel passeggiare per l’ombroso giardino, giocare alle bocce e leggere dei libri adatti, riuscì a dimettere cento pazienti come “risanati”. Gli successe Stefano Bonacosa, grande viaggiatore e studioso; egli si soffermò sull’influenza delle condizioni organiche e dell’ambiente sulla genesi della malattia mentale. Divenne primario del Regio Manicomio e il primo ad ottenere in Italia, nel 1850, la cattedra per l’insegnamento della psichiatria.
L’8 settembre del 1852 nasce il fin troppo celebre manicomio di Collegno, giorno in cui ottanta “maniaci maschi”, provenienti da via Giulio, furono trasferiti in una parte della vecchia Certosa Reale di Collegno. I nuovi ospiti risultarono un po’ troppo chiassosi per l’antico ordine monastico che viveva lì, volontariamente silenzioso e lontano dal mondo esterno, e così la convivenza finì nel 1855, anno in cui ufficialmente la Certosa di Collegno, con tutti i terreni annessi, entrò a far parte del patrimonio del Regio Manicomio. Le candide mura tennero al sicuro gli scrupoli di coscienza della gente comune fino al 4 giugno del 1998, quando l’ultimo ospite della struttura fu costretto ad andarsene. Dal punto di vista giuridico, la prima legge organica che regolamentò la materia fu la Legge 36, “Disposizione sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati”, relatore Giovanni Giolitti, approvata dal Parlamento italiano nel 1904. In questo modo la società si proteggeva dal “matto” e consentiva a chiunque di individuare un individuo “pericoloso a sé o agli altri” e chiederne l’internamento in manicomio dietro l’invio al Pretore di un certificato medico e di un atto di notorietà “nell’interesse degli infermi e della società”. Il numero dei ricoverati nei manicomi triplicò.  La triste vicenda dello studio e della cura della follia continua, si complica e diventa più affollata. Con l’aumentare dei ricoverati nacquero altre strutture, nel 1913 il Ricovero di Savonera, nel 1931 l’Istituto interprovinciale Vittorio Emanuele III per infermi di mente, a Grugliasco, (dove lavorò Luisa Levi, prima donna italiana a laurearsi in Medicina e Psichiatria), tra il 1931 e il 1934 sorsero otto ville Regina Margherita per i pazienti più abbienti e, infine, nel 1966, Villa Rosa, residenza dedicata alle pazienti anziane tranquille. Tuttavia ciò che è lontano dagli occhi rimane anche lontano dal cuore, gli alienati erano comunque spettri di un altro mondo, nulla avevano da spartire con la quotidiana vita della brava gente non-matta, fino a quando la televisione non costrinse tutti a guardare: il 3 gennaio 1961 andò in onda “ I Giardini di Abele”, un servizio sul manicomio di Gorizia, a cura di Sergio Zavoli, su TV7, subito dopo il Carosello. Ora non c’erano più scuse per non vergognarsi.  I protagonisti dell’inizio della fine degli ospedali psichiatrici, (chiamati così dal 1929), furono gli studenti torinesi di Architettura e di Lettere, sotto la coraggiosa guida di Franco Basaglia, brillante psichiatra veneziano, che proprio nel piccolo manicomio di Gorizia iniziò la sua rivoluzione. Il 13 maggio 1978 il Parlamento approvò la Legge 180, nota come Legge Basaglia, che impose la chiusura degli ospedali psichiatrici in cui erano state rinchiuse migliaia di persone in condizioni disumane. Successe quattro giorni dopo il ritrovamento del corpo del Presidente Aldo Moro, assassinato dalle Brigate Rosse e forse proprio per questo tale provvedimento, così rivoluzionario, passò inosservato. O forse perché ci sono delle cose che si fatica ad accettare, ci sono colpe difficili da farsi perdonare, alcuni sguardi che è impossibile sostenere. Caetano Veloso cantava “ da vicino nessuno è normale”, ma solo un matto potrebbe lasciarsi avvicinare così tanto da farsi scoprire per come è veramente.
Alessia Cagnotto

La Pandemia non è solo emergenza sanitaria

La Pandemia è una creatura mitica “una costruzione collettiva in cui diversi saperi e svariate ignoranze hanno lavorato nell’apparente condivisione di un unico scopo’’ realtà molto più complessa di una emergenza sanitaria 

 

Una sorta di cospirazione umana all’inettitudine sapiente. Così l’incipit dell’ultimo saggio di Alessandro Baricco ( ‘’ Quel che stavamo cercando ’’ Feltrinelli 2021 , pagg. 33, euro 4 già in pdf  2020).  Pamphlet a metà strada tra il j’accuse e la cronologia critica degli eventi, amara riflessione sulla condizione del cittadino resiliente postpandemico. L’opera dello scrittore torinese tenta una difficile ibridazione tra la narrazione e il saggio sociologico in stile neofrancofortese. Si cercano le cause e gli effetti del covid19 nella morale, nella tecnè decaduta a innovazione sterile, di una scienza epistemologicamente incapace di fronte al Moloch della macrotragedia collettiva, che il Pianeta sta vivendo e forse rivivrà. Punizione divina, abbassamento della soglia minima della morale ( Theodor Adorno ), disattenzione medica o semplice ‘eterno ritorno’ . L’autore non sa darne una risposta univoca perché in oggettività non esiste. Turbocapitalismo ( Diego Fusaro). Tribecapitalismo cibernetico-commerciale. Povertà degli animi e delle masse sempre più impoverite, che alla fine ci presenteranno il conto, questo si. Anche come cauzione. Per riscattare il consumismo materialista, di cui esse sono le prime vittime, corporali ed etiche. Accelerazione degli stili di vita, dell’obsolescenza digitale del software e dell’hardware etico. ‘’Civiltà’’ del tweet e del motteggio beota del Mega Gioco telematico.  Uomini e donne sottratti dai lockdown policromatici alla visibilità interattiva, trasmigrano da ectoplasmi civili in zombie sociali, messaggi in bottiglia, sottratti al normale fluire dello spazio-tempo psichico e dello spazio tempo-fisico, affidati al mare in tempesta dell’autocoscienza di precarietà. Che non è più salariale o reddituale o almeno non solo, ma l’incedere del tutto per l’incerto. Incerto ermeneutico del senso, angoscia kierkegaardiana e regressione psicologica nell’ edonismo difensivo e infantile, rifugio nell’effimero, antiideologia di cui le 33 pagine del testo rimandano agli anni del Cristo salvifico ( sola risposta suggerita sotto traccia?! ) o dell’Anticristo di un Soloviev. Ma non nella fine del mondo secondo Baricco del tutto ridicola e agitata ad hoc a seconda che ci vadano male o bene le cose.  Non nell’Armageddon della lotta finale tra istanze etiche e amorali o malefiche, ma il trucco sta nel chiedersi se in una società moderna e tecnologicamente avanzata, la morale abbia ancora un significato o no. Di rinuncia, di buon senso, di fare un passo indietro necessariamente debole e non Lebole. ‘’Oggi a me e domani a te e la lotta per il panino’’, lasciamoli per una volta per un x di tempo, anche infinitesimale fuori dalle nostre menti, dai nostri cuori-pratici. E un amore qualsiasi agapico per un lettore credente o pagano relazionale o entrambi sono la ‘’soluzione’’. Per i più volitivi o per più Fortunati. Saranno la sola domanda. Risposte non ce ne sono, neanche ‘’deboli ’’.

Aldo Colonna

Questa piazza è la più piccola del mondo e si trova a Torino

La piazza più piccola del mondo è qui a Torino. E’ quella che vedete nell’ombra, dietro la bicicletta.

Si tratta della piazzetta Beata vergine degli angeli, all’angolo con via Carlo Alberto.

D’accordo, sostengono in molti che  la targa apposta è in realtà un doppione di quella relativa alla “vera” piazza, la più grande, di fonte all’omonima chiesa. Ma allora perché collocare una targa specifica proprio nello spazio più piccolo e non così bene in vista? Come riportano numerose riviste d’arte, la piazza più grande antistante è indicata sulla targa con la dicitura PIAZZA MADONNA DEGLI ANGELI, mentre la scritta della “minipiazza” recita: PIAZZETTA BEATA VERGINE. Le scuole di pensiero tra i torinesi sono due da sempre. Queste sono le immagini, poi ognuno la pensi come preferisce!

 

“La voce dei libri” A Chieri un progetto per gli ospiti delle RSA

La lettura, un volto e una voce narrante per alleviare la solitudine di quanti, più di altri, hanno provato e provano l’enorme macigno del “sentirsi soli” in questi terribili mesi di pandemia.

E’ rivolto a loro, agli ospiti delle RSA di Chieri, il progetto “La voce dei libri”, attivato dalla locale “Biblioteca Civica”, in collaborazione con le Case di Riposo “Orfanelle” e “Giovanni XXIII”.

L’iniziativa consiste nel trasmettere ai due istituti di cura per anziani , due volte alla settimana, video e audio, della durata di circa 15-20 minuti, nei quali un bibliotecario, per far compagnia agli ospiti, legge brevi racconti e, prossimamente, anche classici della letteratura, esposti in modo sintetico. “In considerazione del protrarsi del periodo di emergenza sanitaria e del conseguente isolamento a cui gli anziani ospiti sono costretti per preservare la propria salute – spiega Silvia Basso, direttrice della Biblioteca Civica- abbiamo pensato di far sentire la vicinanza della Biblioteca e della Città, proponendo una modalità di interazione sicura e, nello stesso tempo, utile a far sentire meno soli gli ospiti delle nostre strutture. Siamo felici che i rispettivi direttori dei due istituti, la dottoressa Paola De Nale e il dottor Federico Fenu, abbiano accolto con entusiasmo questo progetto”.
Videoletture ed audioletture potranno così essere proposte agli ospiti nei momenti più adeguati; sia durante i tempi di svago collettivo negli spazi comuni, sia per accompagnare le ore di solitudine dei soggetti costretti alla quarantena dopo il rientro da un ricovero. “ Si tratta di un progetto- commenta l’assessore alla Cultura e alla Biblioteca Antonella Giordano- che conferma l’attenzione dell’amministrazione nei confronti dei soggetti più fragili, come sono i nostri anziani. Le Rsa hanno pagato un prezzo drammatico alla pandemia, e tuttora, nonostante tutti gli ospiti e il personale siano vaccinati, permane l’isolamento rispetto all’esterno e la solitudine. Nelle scorse settimane abbiamo messo a disposizione delle due Rsa chieresi le ‘stanze degli abbracci’, ora, grazie ai nostri bibliotecari, portiamo la voce dei libri, sperando così di regalare loro serenità e speranza”. E di certo preziose “vitamine” per la mente. Che la lettura offre con ampia generosità. Diceva Rita Levi Montalcini, Premio Nobel per la Medicina 1986: “Ho perso un po’ la vista, molto l’udito. Alle conferenze non vedo le proiezioni e non sento bene. Ma penso più adesso che quando avevo vent’anni. Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente”.

g. m.

I libri più letti e commentati a Marzo

Le proposte più interessanti del nostro gruppo questo mese riguardano un romanzo grafico, premiato e già considerato un classico, come Asterios Polyp di David Mazzucchelli (Coconino Press); il romanzo storico Quando le anime si sollevano (Alet Edizioni), dello scrittore americano Madison Smart Bell, che racconta l’epopea del Napoleone nero Toussaint Loverture; ultima segnalazione per la splendida raccolta di Ann Sepolveda Favole moderne per crescere bambini intelligenti (Edicart), una lettura semplice ma stimolante e affascinante, in grado di piacere a piccoli e grandi.

La nostra guida alla scoperta delle case editrici indipendenti questo mese ci porta a conoscere LEF, acronimo di Libreria Editrice Fiorentina, fondata nel 1902 e da sempre punto di riferimento per la promozione di una cultura ecologista profonda, condivisa da cattolici e laici, identificata dal pensiero profetico di autori come Don Milani, La Pira, Fukuoka, Wendell Berry, Ivan Illich, Vandana Shiva; oggi più che mai LEF è all’avanguardia nella dinamica convergenza fra fede, spiritualità, ecologia, umanesimo e sacralità della natura sotto la guida di Giannozzo Pucci (QUI potete leggere l’intervista che ci ha rilasciato) che ha mantenuto l’impegno cattolico, sociale e fortemente ecologista senza tralasciare l’interesse per le tradizioni popolari:  dal 2004  LEF pubblica  “L’ecologist italiano“, redazione italiana di “The ecologist“, la prima rivista ecologista fondata da Edward Goldsmith nel 1970. La Lef ha mantenuto vivo lo spirito delle collane del suo passato che ne hanno fatto la storia e il prestigio rendendole attuali con un messaggio mai scontato o banale.

Tra i grandi nomi e i titoli fondamentali dell’editore si segnalano soprattutto le pubblicazioni di Giorgio La Pira e Don Milani, la collana di agricoltura naturale “Quaderni di Ontignano” diretta da Giannozzo Pucci (Masanobu Fukuoka, “La rivoluzione del filo di paglia” e altri), la collana teologica “Ricerca del Graal” che ha raccolto documenti di spiritualità universale.

 

Incontri con gli autori

Questo mese, in collaborazione con il sito  Novità in libreria.it, il nostro staff ha intervistato Giuseppe Scarimbolo che racconta ai lettori come è nata l’idea del suo romanzo  Tiflis – Un giorno di pioggiaCarlo Moiraghi, per parlare con lui di Giallo Indiano (Noi Edizioni), Teresa La Scala, autrice di Spruìgno e Paola Poli, che racconta la genesi di Le ventuno lune di Guna (Noi Edizioni).

redazione@unlibrotiralaltroovveroilpassaparoladeilibri.it

Per questo mese è tutto,  vi invitiamo a venirci a trovare sul nostro

Sito ufficiale per rimanere sempre aggiornati sul mondo dei libri e della lettura! unlibrotiralaltroovveroilpassaparoladeilibri.it

Concerto di Pasqua online al Teatro Regio

Musica sacra, musica mirabile
Andrea Secchi dirige il Coro del Teatro Regio
Giulio Laguzzi al pianoforte

Il Regio online 2021
Streaming gratuito sul sito del Regio, da giovedì 1 aprile 2021 ore 20

 

Giovedì 1 aprile alle ore 20 sul sito www.teatroregio.torino.it, l’appuntamento in streaming è con il Concerto di Pasqua: Andrea Secchi dirige il Coro Teatro Regio Torino, accompagnato al pianoforte da Giulio Laguzzi. «Il concerto è gratuito e vuol essere augurio di rinascita per tutti da parte del Regio – sottolinea Andrea Secchi – l’arricchimento che può dare la musica è sempre fondamentale qualunque sia il momento difficile che si sta attraversando, ancor più in questo delicato periodo». In programma, un percorso nei secoli tra le pagine più ispirate e commoventi del repertorio corale religioso. Per l’occasione, il Coro si presenta con un organico di 63 artisti e si vedrà un’insolita disposizione: il pianoforte sarà posizionato dando le spalle al palco, mentre gli artisti saranno in platea occupando varie file per rispettare le regole del distanziamento.

Apre il concerto: Crucifixus, del veneziano Antonio Lotti, per coro a otto voci a cappella: composto intorno al 1717, il brano fa parte di un Credo e ha sempre incontrato grandissimo apprezzamento per la sintesi ammirevole di drammaticità e cantabilità: le otto voci entrano partendo dalla più grave e risalgono via via verso l’alto, imitandosi, cozzando, sprigionando frammenti di commosso lirismo.

«Wir setzen uns mit Tränen nieder» è una pagina di alta spiritualità che conclude la Passione secondo Matteo di Johann Sebastian Bach: potente cattedrale sonora in cui due cori, ora echeggiandosi, ora sovrapponendosi, innalzano il loro compianto sulla tomba di Cristo. Nel tema principale, che torna più volte, gli accenti drammatici sono mitigati con una dolcezza da ninna nanna che si ribadisce nel frequente ripetersi dell’esortazione «ruhe», riposa. L’impatto emotivo di questa pagina ha suggerito a diversi registi di cinema di farne uso, e sempre con una finalità catartica, di pianto sulle sciagure umane: basti pensare a Pasolini in Accattone oppure a Martin Scorsese in Casinò.

Liberamente ricavata da un passo della lettera di San Paolo ai Filippesi, la preghiera del Christus factus est rientra nella liturgia specifica del triduo pasquale, precisamente nelle “tenebrae”, così dette perché a mano a mano che si svolgono vengono spente una dopo l’altra le quindici candele, finché la chiesa resta al buio. Questo mottetto per coro a quattro voci a cappella di Anton Bruckner si contraddistingue per l’attacco sommesso (Moderato misterioso) dal sapore delle polifonie rinascimentali. Poi, in un graduale crescendo, le voci arrivano fino a un fortissimo in corrispondenza delle parole chiave «super omne nomen», su cui la scrittura torna a rarefarsi.

La supplica sale al cielo con O salutaris hostia di Gioachino Rossini, inno composto nel 1857 per coro a cappella a quattro parti. Il brano ha una paternità letteraria illustre: secondo la tradizione lo scrisse Tommaso d’Aquino per la festa del Corpus Domini ed entrò poi nell’uso come benedizione eucaristica, come il «Tantum ergo».

Il concerto prosegue con le Laudi alla Vergine Maria da Quattro pezzi sacri di Giuseppe Verdi. Eccezion fatta per il Requiem composto per la morte di Alessandro Manzoni fra il 1873 e il 1874, Giuseppe Verdi non era mai più tornato sul genere sacro, che pure aveva costituito una parte determinante del suo apprendistato giovanile a Busseto. In età avanzata ne fu invece di nuovo attratto in alcune, pur rare, occasioni – mai di circostanza, sempre scaturite da un impulso personale. Così compose le Laudi alla Vergine Maria, sopra i versi della preghiera «Vergine, madre, figlia del tuo Figlio» su cui si apre l’ultimo canto del Paradiso di Dante. Le Laudi, terminate nel 1889 nel periodo compreso fra Otello e Falstaff, alla prima esecuzione (a Parigi per la stagione dei Concert Spirituel, poi a Torino in prima italiana) furono accolte con tale entusiasmo che si dovette farne il bis.

Infine, quattro brani di Gabriel Fauré: En Prière, Cantique de Jean Racine e, dal Requiem, Agnus Dei e In Paradisum. En Prière, con la sua ricorsività semplice e dimessa, dà voce a un insolito Gesù Bambino in preghiera; il Cantique de Jean Racine, scritto da un Fauré appena ventenne, comincia al pianoforte col sapore di una romanza senza parole, su cui il coro spicca per la compattezza venata di cantabilità. Tratto dal suo capolavoro sacro, ossia il Requiem che accompagnò le esequie dello stesso Fauré, l’Agnus Dei è fra i momenti più drammatici di una composizione che si scosta per molti aspetti dal Requiem tradizionale, specialmente nella scelta di non musicare il Dies irae se non per i due versi conclusivi del Pie Jesu intonati da una voce bianca. Compare invece, come conclusione catartica del lavoro, la preghiera In Paradisum, col suo messaggio di speranza e l’immagine degli angeli che portano l’anima in cielo sopra l’affettuosa sollecitudine dell’accompagnamento.

Andrea Secchi si è diplomato a pieni voti in Pianoforte presso il Conservatorio “L. Cherubini” di Firenze con Giorgio Sacchetti. Si è perfezionato con Paul Badura-Skoda, Joaquín Achúcarro e Maurizio Pollini; ed è stato allievo di Andrea Lucchesini all’Accademia Internazionale di Musica di Pinerolo e, per la Direzione d’orchestra, di Piero Bellugi. Si è esibito in Italia e all’estero riscuotendo ovunque unanimi e calorosi consensi per la sua personalità e passione interpretativa. Ha vinto oltre venti concorsi nazionali e internazionali ottenendo premi speciali per la migliore interpretazione di musiche di Bach, Mozart, Schubert, Schönberg e Beethoven. Nel 2003 si è distinto come miglior italiano nella prestigiosa Leeds International Piano Competition, raggiungendo la semifinale, ottenendo un notevole apprezzamento da parte di pubblico e critica e debuttando dunque alla Salle Cortot di Parigi. Vasta è la sua esperienza anche nel repertorio operistico. Dal 2006 al 2013 è stato Altro maestro del coro del Maggio Musicale Fiorentino; dal 2013 è stato Maestro sostituto e Altro maestro del Coro alla Den Norske Opera & Ballett di Oslo. Come maestro collaboratore è stato invitato alla Staatsoper di Vienna e al Teatro Regio dove, dopo una prima collaborazione nel 2012-2013, ha assunto dal 2018 il ruolo di Direttore del Coro.

Giulio Laguzzi si diploma in Pianoforte con il massimo dei voti e la lode al Conservatorio di Cuneo, e successivamente in Composizione al Conservatorio di Alessandria. Dal 1990 ha collaborato con il Teatro Carlo Felice di Genova, il Teatro San Carlo di Napoli, l’Arena di Verona: con l’orchestra dell’Arena ha eseguito, in veste di solista al pianoforte, Rhapsody in blue di Gershwin. Dal 1997 lavora al Teatro Regio, dove ricopre il ruolo di Direttore musicale del palcoscenico, e dove ha diretto l’orchestra in alcuni concerti e in opere per ragazzi. In qualità di pianista accompagnatore si è esibito in numerosi concerti in Italia e all’estero. Con il Primo violino ed il Primo violoncello del Teatro Regio costituisce il Trio Highlights, che ha tenuto numerosi concerti in Italia ed in Giappone.

Link per lo streaming gratuito del Concerto di Pasqua:
www.teatroregio.torino.it/regio-online-2021-2021/concerto-di-pasqua

Per informazioni: www.teatroregio.torino.it

Francesca Lavazza è la nuova Presidente del Castello di Rivoli

Il Cda ha votato all’unanimità l’imprenditrice torinese al vertice dell’Ente

 

Francesca Lavazza è la nuova Presidente del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea: lo ha stabilito l’Assemblea dei Soci dell’Ente, riunitasi questa mattina in videoconferenza assieme con l’assessorato regionale alla Cultura.

«Esprimo grande soddisfazione per la scelta di Francesca Lavazza – ha sottolineato l’assessore alla Cultura, Vittoria Poggio – un profilo di grande competenza e di spessore, propedeutico per lo svolgimento delle attività di questo Ente a cui la Regione conferma fiducia e sostegno per allargare il ventaglio dell’offerta culturale verso un pubblico sempre più internazionale».

Francesca Lavazza succede a Fiorenzo Alfieri recentemente scomparso e rimasto in carica dal 2019 al 2020.

«Sono felice di accettare l’incarico di Presidente del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea – ha detto Francesca Lavazza – e, nel farlo, permettetemi di ringraziare tutti coloro che hanno calorosamente sostenuto la mia candidatura. Ricoprire il ruolo che è stato di Fiorenzo Alfieri e proseguire il lavoro svolto fino ad ora tenendo salda la rotta da lui segnata in ambito culturale, così importante per visione e portata, è per me un enorme privilegioUna cultura di rete, una propensione internazionale, un’arte narrata e condivisa che ritrovo nel percorso intrapreso con Lavazza in questi anni, fondato proprio sul concetto di attrattività e stimolo per un pubblico eterogeneo nel quale le generazioni più giovani giocano un ruolo fondamentale e ispiratore. Insieme al Direttore Carolyn Christov-Bakargiev e a tutto il gruppo di lavoro del Castello di Rivoli, lavoreremo per confermare questo nostro orizzonte: costruire cultura con impegno e visione, nella speranza che si possa tornare presto a riaprire gli spazi del Museo».

Oltre il Muro. Un libro per capire il mondo trent’anni dopo il 1989

Oltre il Muro 1989-2019  è il secondo libro pubblicato  nella collana Attraversare il tempo edita da Falsopiano e promossa dall’Isral, l’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea di Alessandria.  La pubblicazione, curata da Luciana Ziruolo – direttrice dell’Istituto e storica – raccoglie le suggestioni e i temi sviluppati durante la giornata di studi svoltasi  il 6 novembre 2019 nella Sala Convegni della Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona.

Con la caduta del Muro nel 1989 e la dissoluzione dell’Urss nel 1991 si sovvertì il quadro geopolitico mondiale. Finiva della Guerra fredda e tramontava l’arduo equilibrio del bipolarismo, l’intero ordine mondiale si dissolveva dopo una lunga e logorante guerra di nervi e diplomazie, segnata dalla folle ricorsa tesa a rafforzare arsenali bellici sempre più distruttivi e sofisticati che non potevano essere usati pena lo sterminio nucleare. A trent’anni di distanza ci si trova di fronte ad una complessa  disarticolazione dell’ordine internazionale che rende sempre meno convincenti e possibili le premesse di un mondo pacificato. Sulle pagine de Il Corriere della Sera, lunedì 1 luglio 2019, lo scrittore triestino Claudio Magris che ha affrontato il tema delle frontiere in molte sue opere di narrativa e saggistica, riflettendo sui nuovi muri che si stavano erigendo nel mondo, scriveva “quando ero ragazzino la frontiera, vicinissima, non era una frontiera qualsiasi, bensì una frontiera che divideva in due il mondo , la Cortina di ferro. Io vedevo quella frontiera sul Carso, quando andavo a passeggiare e a giocare. Dietro quella frontiera c’era un mondo sconosciuto, immenso, minaccioso, il mondo dell’Est”. Un mondo che, come in un grande gioco del domino, cadrà pezzo su pezzo dopo il crollo del muro che divideva Berlino Est da Berlino Ovest. Una transizione di portata vastissima, quasi sempre incruenta a parte ciò che avvenne in Romania, unico paese del Patto di Varsavia nel quale la fine del regime di Ceausescu avvenne in modo violento.

L’intento del  libro è di  provare a decifrare e a interpretare il 1989 e il suo portato, una questione che non riguarda solo l’Europa centro-orientale dell’ex blocco sotto il dominio sovietico  ma che attraversa l’intero spazio europeo e mondiale. Un lavoro importante che si avvale dei contributi di storici e ricercatori come Antonio Brusa, Luigi Bonanate, Alberto De Bernardi, Antonella Ferraris, Carla Marcellini, Dario Siess e la stessa Luciana Ziruolo.

Corredato da interessanti rimandi bibliografici e sitografici e un apparato di mappe e immagini che aiutano i lettore a capire meglio ciò che accadde a partire da quell’anno che cambiò la storia fino ai giorni nostri, dal momento che vennero  ridisegnate le carte geografiche e i confini mentali, si riunì l’Europa ( iniziando dalla Germania) fino alla sfide democratiche dell’oggi, all’idea di unione europea e di democrazia con le quali facciamo i conti tutti i giorni, non senza difficoltà. Di grande interesse anche la parte delle proposte dedicate al mondo della scuola, con i lavori impostati sulle immagini, i film ( dal Cielo sopra Berlino di Wenders a Good Bye,Lenin fino a Il ponte delle spie di Spielberg), la playlist musicale con Lou Reed e il suo concept album Berlin, i Pink Floyd del celeberrimo Another brick in the Wall, l’indimenticabile David Bowie di Heroes e i nostri Battiato di Alexanderplatz e i CCCP di Ferretti e Zamboni con il live in Pancow.

Marco Travaglini

La Banda Cavallero, ricordi di una brutta storia in Barriera

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COSA SUCCEDEVA IN CITTÀ

Il 28 settembre del 1967 ci svegliammo  in Barriera di Milano con la consapevolezza che dei mostri abitavano nelle nostre vie

A 10 anni e vedendo il telegiornale conobbi l’esistenza di Pietro Cavallero. Si autodefiniva comunista.
Guardai mio padre che non ebbe dubbi nel rispondermi: un poco di buono,  ed abbiamo fatto bene buttarlo fuori dal Partito. Molto conosciuto in Barriera.  Soprattutto tra piazza Crispi e le case Snia a ridosso della ferrovia. Per tutto corso Vercelli. Via Desana , in particolare. Solo anni dopo ho capito fino in fondo. C’era chi diceva che era solo un semplice iscritto,  chi segretario della sezione 32 o 9,  e chi addirittura funzionario di Partito. Nessuno ne parlava volentieri. Tanta era la vergogna perché qualcuno sapeva o perlomeno sospettava. La banda Cavallero operò per almeno 5 o 6 anni. Romoletto ex partigiano,  tanto fegato e cervello da gallina.
Alla sua prima rapina fu preso il minorenne Lopez. Sante Notarnicola che per tutta la vita cerco’ di darsi un alibi di rivoluzionario. Diventantando in qualche modo un’icona del terrorismo rosso. Dimostrazione che la stupidità umana non ha colore politico. Considerato un povero disgraziato raccontava di quanto rubo’ un camion di scarpe solo sinistre. Un’allegoria per significare la sua nullità. Capo indiscusso Pietro Cavallero. Cinico,  indubbiamente intelligente,  sicuramente un esaltato.
17 rapine con tanti, troppi morti,  sono tante, sono troppe. Cosa faceva la polizia?  Non capiva da dove arrivassero le armi. Già,  proprio cosi , da dove arrivavano le armi per fare le rapine?
Raccontata oggi può sembrare l’uovo di Colombo, ma non lo era 60 anni fa. Pietro Cavallero raccoglieva soldi tra i compagni di Barriera. Compero’ armi per i patrioti algerini contro l’occupazione Francese. Effettivamente consegno’ le armi , tenendosene una minima parte per se’. Dunque? Qualcuno sapeva e tacendo ne è  diventato in qualche modo complice. Sapeva tutto? Forse no, anzi quasi sicuramente no,  ma era ed è altrettanto chiaro che qualcosa non tornava.
Orbene,  non credo di aver letto o sentito tutto ciò che è stato raccontato sulla banda Cavallero. Nessuno,  che io sappia ha raccontato,  ad esempio,  questo episodio sulle armi. Poi nessuno,  sempre che io sappia,  di Barriera,  nato e/o vissuto in Barriera ha scritto della Banda. Niente da dire se non che , si tende a raccontare ciò che è bello. La Storia della Banda Cavallero non ha nulla di bello  e Barriera solo la vergogna di aver dato i natali a queste persone. Ma anche questa è Storia. Ed anche ricordarcelo fa parte delle nostre Vite. Della nostra memoria,  del nostro voler sapere per potere capire fino in fondo. Il più delle volte il male è limitrofo al bene. Saperlo non è cosa da poco per essere,  ancora,  dei genitori,  che hanno ancora qualcosa da raccontare ai propri figli.
Anche le cose brutte,  anche il male,  per poter essere  sempre  dalla parte del giusto.

Patrizio Tosetto 

Film Fund, la Regione sostiene cinema e tv

La Regione ha confermato anche per quest’anno il sostegno al programma «Piemonte Film Tv Fund» dedicato alle imprese di produzione audiovisiva, cinematografica e televisiva con una dotazione di 1,5 milioni di euro. La delibera, approvata questa mattina dalla Giunta, porta la firma degli assessori alle Pmi, Andrea Tronzano e alla Cultura, Vittoria Poggio: entro metà aprile sarà pubblicato sul sito della Regione l’avviso con i criteri e i requisiti per partecipare alla selezione.

L’ASSESSORE ALLA CULTURA, VITTORIA POGGIO: «SEGMENTO IN ESPANSIONE CHE HA PRODOTTO RICADUTE DI 21 MILIONI NEGLI ANNI PRECEDENTI»

«In questi anni il consumo di prodotti televisivi e cinematografici da parte delle famiglie è aumentato moltissimo – ha sottolineato l’assessore Poggio – In questo periodo sono presenti in Piemonte numerose troupe impegnate nella realizzazione di riprese per il cinema e per la tv. Si tratta, quindi, di un segmento in grande espansione da sostenere come industria a cui dare valore per aiutare le aziende e allo stesso tempo per mantenere viva la cultura audiovisiva e cinematografica nata proprio a Torino assieme con la Rai».

«Un comparto quello delle attività audiovisive – aggiunge l’Assessore Tronzano – che esprime, come ho potuto verificare di persona nel corso delle visite alle aziende, professionalità eccellenti nel nostro territorio, con un numero multiforme di micro piccole e medie imprese che operano con grande qualità. Piemonte Film Tv Fund si conferma uno strumento valido per favorire lo sviluppo economico e professionale del settore della produzione cinematografica e televisiva.

Il provvedimento rientra nel pacchetto di misure a sostegno del comparto della Cultura. Il progetto «Piemonte Film Tv Fund» già avviato negli anni precedenti ha dato origine a ricadute economiche di 21 milioni di euro a fronte dei 4 assegnati dalla Regione a titolo di contributo.

«L’esperienza di “Piemonte Film Tv Fund” – ha aggiunto l’assessore Poggio – nel triennio 2018-2020 è stata molto positiva: a fronte di 27 opere finanziate e di 4 milioni di euro di contributi a fondo perduto concessi alle imprese, vi è stata una ricaduta in termini complessivi sul Piemonte tra personale, beni e servizi e strutture ricettive superiore ai 21 milioni di euro».

Questo settore, soltanto per quanto riguarda la filiera cinematografica tra produttori, distributori, industrie tecniche, esercenti, produttori di apparecchi cinematografici genera un giro d’affari di circa 4 miliardi di euro in Italia e vede attive oltre 2.000 aziende, in prevalenza di piccole dimensioni il 97% delle quali è sotto i 10 milioni di fatturato.