CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 433

“Il procuratore e la Casa del Pavone”, il nuovo romanzo di Giorgio Vitari

Il punto di vista / Le interviste di Maria La Barbera

L’autore ci parla del suo ultimo romanzo con una nota di nostalgia.

Dopo i primi due romanzi, “Il vestito nuovo del procuratore” e “Il procuratore e la bella dormiente” ambientati rispettivamente a Torino e ad Ivrea, accolti dal pubblico con grande entusiasmo, è uscito il terzo libro della serie, “Il procuratore e la Casa del pavone” , edito da Morrone, che vede il procuratore Francesco Rotari impegnato in intricati casi giudiziari dal sapore dolce amaro nello splendido scenario piemontese tra Asti, Monforte e Bra.
Giorgio Vitari, già Procuratore della Repubblica, dedica questo nuovo libro a sua moglie, alias Luisa nella narrazione, e fa un’ operazione nostalgia ricordando le persone che hanno lavorato a lungo con lui, un gesto di gentile riconoscenza per la loro dedizione professionale.

Diversamente dai primi due, che raccontano storie effettivamente accadute seppur con uno stile romanzato, quest’ultimo libro è una commistione di realtà e fantasia. Sono esistenti i luoghi dove è ambientata la storia, come il Palazzo di Giustizia di Asti, ed alcuni tra i protagonisti, come l’assistente, la segretaria e la tirocinante, ma di fantasia i casi che il procuratore segue.
Francesco Rotari, ora in età matura, è comunque lo stesso uomo che abbiamo conosciuto nei romanzi precedenti, acuto, a tratti severo e caustico al punto giusto, ma soprattutto cortese e garbato, un uomo d’altri tempi dedicato al lavoro e alla famiglia con qualche veniale e licenzioso pensiero.

Cosa c’è di nuovo in questo terzo romanzo, Il procuratore e la Casa del pavone?

In questo terzo libro oltre ai protagonisti, veri ed inventati, che hanno dato corpo alle diverse storie e vicende, ho voluto raccontare la vita ed il lavoro in un ufficio giudiziario, i problemi quotidiani, forse banali ma pur sempre da risolvere, il meccanismo delle indagini e poi i rapporti interpersonali non sempre semplici. Confesso comunque di essermi sentito fortunato per aver trovato molta armonia nel gruppo di lavoro e credo che questo sia intuibile nelle pagine del libro.

La trama è molto coinvolgente e i ritmi molto dinamici.

E’ un romanzo vivace e in continuo movimento che gode dello scenario dei paesaggi bellissimi delle Langhe e racconta la storia di un pregiatissimo vino d’annata . Si apre con un semplice caso di interdizione che poi si scoprirà legato ad un omicidio, c’è la malavita che si inserisce “aiutando” con risorse finanziarie facili, ma anche storie di ordinari tradimenti coniugali ed intercettazioni che mettono in allarme un’intera categoria di professionisti. E poi c’è lei, Gretel, il personaggio a cui mi sono affezionato di più e a cui ho dato un volto prima che un ruolo nella storia.
Infine ci sono i viaggi che Rotari giornalmente fa in treno tra Torino ed Asti dove si animano incontri, conversazioni, ipotesi ed aspettative; quando arriva a casa lo aspetta sua moglie Luisa con le sue intelligenti osservazioni, le conversazioni per decidere cosa mangiare, il film da vedere in tv e a fine serata le brevi , ma attese, telefonate da con la figlia Virginia.

E’ vero che ha pensato ad un posto speciale per il lettore?

Sì è vero, ho voluto scrivere un romanzo con un “dietro le quinte”. Chi legge, in questo caso, me lo immagino anche come un osservatore, un testimone silenzioso seduto in poltrona nello studio del procuratore che assiste agli eventi e ne comprende il senso giuridico. Inoltre ho voluto spiegare, attraverso le mie conversazioni con la tirocinante Cristel, una cosa molto importante sul processo penale in sé e cioè che il suo obiettivo non è esclusivamente quello di raggiungere la verità e che dal punto di vista dello Stato non è determinante solo avere la condanna o l’assoluzione. Il processo raggiunge il suo fine anche se l’imputato viene assolto perché lo Stato, tramite esso e la sua teatralità, vuole affermare che quella specifica condotta il cittadino non la deve tenere. Il processo ha, dunque, una implicita funzione pedagogica.

 

 

Un libro piovuto dal cielo Il sorprendente saggio romanzato su Papa Francesco

“Il Papa alla sbarra – Processo a Papa Francesco”

Poco si conosce sul suo autore, un avvocato torinese deceduto dalla spiccata personalità. Sorprende, però, che abbia scritto questo libro dopo essere morto, direttamente dalla città celeste di Lisianthus. Nome, Lisianthus, condiviso con la casa editrice Lisianthus Editore. Come dice un noto personaggio televisivo, “coincidenze? Io non credo”. Un libro effettivamente piovuto dal cielo, un mistero che affascina il mondo editoriale.

Nella città celeste di Lisianthus l’avvocato deceduto e autore del romanzo Giangiacomo Nichols riceve una richiesta inaspettata. È il Vescovo di Roma, Papa Francesco, che lo ha scelto come difensore nell’imminente processo che lo vedrà protagonista. Bergoglio è accusato, anche nell’Aldilà, di eresia e deve rendere conto delle affermazioni, azioni e omissioni compiute in Terra. Con l’aiuto del suo mentore e suocero Eli Rosenberg, Giangiacomo imbastirà la difesa chiamando a testimoniare Santi, Beati e ex Pontefici in quello che verrà ricordato come il processo celeste più importante dell’eternità. Non è un romanzo canonico, ma all’interno della trama e dei personaggi (pieni di umorismo e vivacità) vengono riportati discorsi e parole reali, fatti realmente accaduti. Bevendo mate al Bar dei Miracoli e mangiando carne allo spiedo al Ristorante delle Anime Dannate, Nichols imparerà a comprendere l’essenza del Papa argentino e verrà a patti con sestesso.

Si tratta di un libro divertente, profondo, ironico e sociale, capace di affrontare alcune critiche realmente mosse al Papa e contemporaneamente di aprire grandi spunti di riflessione per comprendere il lato nascosto dell’uomo divenuto Vescovo di Roma.

La casa editrice non ha voluto svelare le origini di questo sorprendente saggio. “È letteralmente piovuto dal cielo” ha ribadito, “è pervaso di emozioni e non è rivolto solo a coloro che si pensano religiosi, è un libro che affascinerà tutti i lettori, a prescindere da ciò in cui credono”.

Il protagonista, Nichols, è ateo. Suo suocero e mentore è ebreo. L’accusato è il Pontefice della Chiesa Cattolica. Possiamo sapere chi interpreta il ruolo del Pubblico Ministero? “Una donna forte, che crede fermamente in Bergoglio e che dovrà affrontare un compito temuto, scavare nel passato del Papa. Anche i personaggi di contorno sono pieni di verve, ne citiamo solo alcuni, Joseph Ratzinger, Karol Wojtyla, Bernardette Soubirous, Domenico Savio, Maria Valtorta e Piergiorgio Frassati”.

Un romanzo corale, dunque?

“Sì, ma anche no. Così come è un romanzo, ma anche un saggio, divertente ma anche profondo. Un libro che unirà il mondo, aspetto tanto più  fondamentale in un’epoca di frammentazione e individualismo come quella che stiamo vivendo”.

Mara Martellotta 

Al Salone del Libro si celebra Marcel Proust

A partire dal 19 maggio tornerà il consueto, attesissimo appuntamento con il Salone del Libro, giunto quest’anno alla sua XXXIV edizione. Questo 2022 vuole essere l’anno della vera rinascita, dopo l’annullamento del 2020 e l’edizione autunnale del 2021. Tante le ricorrenze importanti, su tutte il centenario della morte di Marcel Proust. E proprio al grande autore francese è dedicata la nuova mongolfiera dell’artista torinese Antonella Staltari, che sarà esposta presso lo stand della Libreria Internazionale Luxemburg ( padiglione 1, stand B43).
Appuntamento allora per tutti gli appassionati al Salone del Libro, dal 19 al 23 maggio 2022, con l’auspicio che un bel volo in mongolfiera ci aiuti a riscoprire pienamente la magia dei libri e della cultura, per un evento che da oltre trent’anni porta la nostra Torino sotto i riflettori del mondo intero.

Leonardo Lidi riscrive Alceste e lo immerge nella solitudine di oggi

“Il misantropo” di Molière sino al 22 maggio al Carignano

 

Leonardo Lidi (classe 1988, anche attore che piace, dopo i successi di “L’incredibile storia dell’Isola delle Rose” e del televisivo “Noi”) non è uno di quei tranquilli registi che s’affiancano buoni buoni alle indicazioni di un autore, alle strade percorse, mansueti, pazienti, educati, obbedienti: lui fa lo scavezzacollo, lui ribolle, lui ha necessità di afferrare quel testo e di pararglisi davanti, di affrontarlo, di lottare, di usare il bisturi come pochi, di tagliare e di mescolare, di scandagliarlo a fondo, pur anche di sovvertirlo (“o non vale la pena di metterci mano”). Con risultati a tratti discutibili (all’indomani della prima, avevo coltivato una profonda aria di sospetto con “La casa di Bernarda Alba”, ovvero l’originalità ad ogni costo, disordinata, sfacciata), o con una rilettura come si usa inevitabilmente oggi che – all’insegna dell’est modus in rebus – convince, che ti spinge ad abbracciare i salti mortali che Lidi ti mette davanti agli occhi. E dico rilettura, non (forzata) attualizzazione, tanto è il soppesato scavare con cui Lidi compie il proprio lavoro. Nel 400mo dalla nascita di Molière si mette a inventariare il corpus del Grande Francese, pensa e ripensa e scarta, per scegliere “Il misantropo” (per la stagione dello Stabile torinese che lo produce in solitaria, 80’ minuti tesi e avvincenti, grandi applausi finali, sino a domenica 22 maggio sul palcoscenico del Carignano), ne sbandiera tutta la vita pulsante e la modernità e butta in scena il protagonista, quell’Alceste che, con dolori e spirito autobiografici, don Chisciotte senza se e senza ma, intransigente sino allo spasimo, infaticabile raisonneur, rifugge dalle convenienze e dai falsi abbracci, dai fabbricanti di smancerie e dai collezionisti di parole inutili per innalzare inascoltato monumenti alla verità e alla rettitudine, all’amicizia senza tornaconto, alla franchezza e alla stima e alla sincerità. Un gioco di maschere che portate dinanzi alla corte di Versailles dovevano far inorridire più di un notabile. Accanto a lui, l’amico Filinte, la parte accomodante di ogni individuo, la “sua” più che ipotetica parte accomodante, colui che conosce il mondo e le sue leggi; accanto a lui Celimène, amata e di lui innamorata, ma ventenne allegra, con la civetteria nel sangue e certo non pronta a rifuggire dai tanti corteggiatori che le ronzano intorno, specchio di quella Armande Béjart che faceva sanguinare il cuore del povero Poquelin.

Queste le colonne portanti, o quasi. Diciamolo subito, con il piacevolissimo dubbio da parte di chi scrive queste note che il lavoro migliore di Lidi stia proprio nelle rinvenzioni, nella riscrittura, nei sovvertimenti, nei tratti e nei caratteri approfonditi, nel gioco calibrato di allontanamento che spreme i frutti migliori. Denunciando la parte più “fedele” del lavoro una certa sembianza sfocata, non tracciata a fondo, che finisce col coinvolgere anche il protagonista interpretato da Christian La Rosa, troppo perennemente itinerante, o l’oggetto dei suoi ardori, che è Giuliana Vigogna. Niente più sale sfarzose e candelabri e boiserie, luci cupe e una faticosa distesa di pietrisco a riempire il palcoscenico, un’alta e scura parete sullo sfondo, semicircolare, una stretta e bassa porticina da cui si accede nel mondo di Alceste (la scena è di Nicolas Bovey, allucinata prigione non solo fisica ma della mente), una distesa lunare attraverso cui s’arrabatta e fugge e fatica il protagonista, e soffre, come Lidi sottolinea, non soltanto con le parole che portano alla moderna depressione e alla solitudine, ma pure avanzando con l’aiuto di un bastone e con la gamba sinistra chiusa in un tutore ortopedico. In un tale mare (e male) oscuro, Lidi ci offre il suo “atrabiliare innamorato”. Proponendo a Orietta Notari, attrice come sempre appassionata ed emozionante, il ruolo di Filinte, ecco che il personaggio (al) femminile deve imboccare strade nuove e esplorare una omosessualità che in Molière nessuno caverebbe mai fuori: ma l’invenzione non è che ci trovi seduti in poltrona con il pollice verso, l’invenzione lavora appieno sull’intero terreno della commedia che ha contorni di dramma (l’eterna questione: Alceste è comico o drammatico? è un cammino lungo e graduale quello che il regista compie: “vero che Alceste cade in un baratro sempre più profondo di autocommiserazione: se nelle prime scene si sforza di combattere le mode malate del momento, battuta dopo battuta, si tappa sempre più le orecchie desiderando soltanto un eremo dove dettare le regole della propria società.”) e le profferte amorose tra “la” femminile Filinte e la dolcissima Eliante conducono senza fatica lo spettatore alla quotidianità che stiamo vivendo.

Nella riscrittura di Lidi il personaggio più bello e completo, spinto in certi momenti a ritagliarsi una singolarità e una eccellenza che credo abbia mai avuto, è quello di Arsinoè. Tratteggiata quasi con affetto dal regista. Non più l’amica pettegola di Celimène, attenta alla sua reputazione e pronta a riferire tutto quanto si dice nei salotti del suo disinvolto vivere: è innamorata di Alceste, è la donna che ama un uomo più giovane di lei, è la donna frustata, che il successo letterario non lo ha mai afferrato, dove ormai coabitano la nostalgia e il viale del tramonto e la bellezza che ogni giorno vede venire meno (“Dite che sono vecchia? Non dite quella parola, vi prego. Non vecchia, vi prego. Grande”). Ne dà un ritratto doloroso, tutto raccolto nelle più raccolte intimità, una eccellente Francesca Mazza. E poi ancora, l’invenzione di “Lui” (Riccardo Micheletti), l’alter ego, un volto magrittiano senza sembianze, ricoperto da una grigia calzamaglia, un altro se stesso in cui guardare, un confessore a cui affidarsi. E Oronte (Alfonso De Vreese), da poeta a stornellatore con doverosa chitarra, con l’ossessivo e straniante “Guarda che luna”. Li vedremo tutti allineati in proscenio, immobili a ripresentarsi al termine dello spettacolo al pubblico preso a testimone, inondati da una pioggia che è sinonimo di pulizia, di cancellazione di quelle maschere che sinora hanno indossato e che lasceranno il posto all’autenticità dei sentimenti. Al di fuori di ogni retorica, motore al centro di ogni cosa e di ogni soluzione, la ricerca dell’amore, quello che, taumaturgicamente, potrà mettere in salvo l’uomo, l’amore “che deve tornare al centro del nostro pensiero intellettuale”.

 

Elio Rabbione

 

Le immagini dello spettacolo sono di Luigi De Palma

“Le donne nell’arte” alla Galleria Malinpensa by La Telaccia

Informazione promozionale

La Mostra d’arte collettiva intitolata ” LE DONNE NELL’ARTE”  di tre artiste, si terrà dal 10 al 21 Maggio 2022 presso la nostra Galleria d’Arte Malinpensa by La Telaccia in Corso Inghilterra n.51 a Torino.

Mostra e presentazione a cura di Monia Malinpensa

Giorno di apertura 10 Maggio 

Orari mostra: dal Martedì al Sabato dalle 10.30-12.30 / 16.00 19.00

 Instagram: malinpensagalleriadarte

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Robert Kolker “Hidden Valley Road” -Feltrinelli- euro 22,00
Kolker è un grande giornalista investigativo e scrittore americano, nato a Columbia nel 1969, vincitore di numerosi premi; abile nel maneggiare con cura argomenti piuttosto complessi.
Nel romanzo “Hidden Valley Road” racconta la storia vera di una famiglia americana particolarissima, alle prese con la schizofrenia che la sprofonda in un inarrestabile baratro, sullo sfondo delle teorie e delle cure mediche del secolo scorso. Protagonisti sono i Galvin, e Kolker ha intervistato tutti i superstiti del clan, mettendo ordine in una materia difficile come quella della malattia mentale.
Don e Mimi Galvin inseguono il sogno americano e sono i genitori di una tribù di ben 12 figli, che Mimi ha sfornato a ritmo incalzante nell’arco di 20 anni, a partire dal 1945. Lei li chiama per numero nel tentativo di semplificare la vita difficile che l’aspetta. Il primogenito Donald nasce 15 giorni prima della bomba atomica sganciata su Hiroshima, mentre il padre sta combattendo da quelle parti. Seguono gli altri, in tutto 10 maschi, e per finire le due ultime femmine che non avranno vita facile.
E’ durante l’adolescenza che Donald inizia a manifestare sintomi preoccupanti: ha improvvisi e immotivati scatti di violenza, tortura e uccide un gatto, si butta nel fuoco e sembra diventare di colpo un’altra persona, irriconoscibile.
E’ solo l’anticamera dell’inferno familiare devastato dalla follia che ghermisce altri 5 figli.
Perché ben 6 figli, tutti maschi, di questa famiglia che all’esterno pare perfetta, si ammalano di schizofrenia?
Kolker organizza il romanzo in tanti capitoli dedicati ai vari componenti, intervallando le loro follie con una grandiosa ricostruzione dello studio della schizofrenia, dagli anni 50 ad oggi. Racconta le varie teorie, diagnosi, i tentativi di cura, i ricoveri, gli elettroshock, i farmaci e i loro effetti spesso devastanti.

L’autore indaga le conoscenze scientifiche e gli studi fatti dai ricercatori che negli anni hanno tentato di spiegare la natura di una malattia che resta in parte oscura tutt’oggi. Le spiegazioni si rincorrono: per alcuni la causa erano le madri e i loro comportamenti, le definivano madri “schizofrenogene”; per altri invece le cause risiedono nella genetica. Le spiegazioni si evolvono con gli studi e i Galvin -con l’alto tasso di schizofrenia di buona parte dei suoi membri- sono materia di studio importante. Le teorie si evolveranno, ma Mimi si sentirà sempre esposta e sotto accusa, anche se farà di tutto per nascondere al mondo le derive psichiatriche dei suoi ragazzi.

Mentre la scienza annaspa tra natura e cultura, abuso o rifiuto di farmaci, ricoveri ripetuti, psichiatria o psicoterapia, i Galvin vivono l’inferno tra le mura domestiche e le violenze dei figli.
Il primo a morire è il quarto figlio, Brian, che in preda a una crisi psicotica spara alla moglie e poi si uccide. E non sarà l’unico…..

Sebbene siano sane, le ultime nate, Margaret e Mary (che per smarcarsi dalla famiglia nell’adolescenza si farà chiamare Lindsay), finiranno vittime dei fratelli in un modo che le segnerà nel profondo e le spingerà a ritenere in parte responsabili i genitori, colpevoli di essersi dedicati ai figli malati più che a quelli sani.
Non resta che addentrarsi nelle pagine scritte con immensa empatia da Kolker, che alla bravura di romanziere unisce quella di giornalista investigativo. E sa farlo con successo: nel 2013 ha ricostruito il caso di 5 prostitute uccise a Long Island nel libro “Lost Girl”, che ha ispirato il film con Amy Ryan e Gabriel Byrne in onda su Netflix; mentre da un’altra sua inchiesta è stato tratto il film “Bad education”.

 

Thomas Savage “Il potere del cane” -Neri Pozza- euro 17,00
Savage è stato un importante scrittore americano (morto a 88 anni nel 2003) noto per i suoi romanzi ambientati nel Montana. “Il potere del cane” risale al 1967 ed è in parte autobiografico; basato sul periodo in cui Savage era adolescente in un ranch del Montana.
Al libro si è ispirata la sceneggiatrice e regista Jane Campion, l’ha adattato per il film che le è valso l’Oscar 2022 per la regia, (28 anni dopo quello per la sceneggiatura di “Lezioni di piano”).
A dare volto ai personaggi sono gli attori della caratura di Benedict Cumberbatch e Jesse Plemons nei panni dei fratelli Burbank, Kirsten Dunst è la locandiera Rosa e suo figlio Peter è interpretato da Kodi Smit-McPhee.

La trama è semplice e allo stesso tempo densa di significato; ruota intorno a solitudine, amore, dolore, ed è ambientata nel 1925 sullo sfondo di un maestoso Montana, che la Campion ha magnificamente immortalato nel film, con immagini maestose ed emblematiche della vita in quello Stato e in quegli anni.
Al centro di tutto ci sono i due fratelli Burbank, ricchi proprietari di un ranch. Pur essendo molto legati e dormano ancora nella stessa stanza a due letti in cui sono cresciuti, Phil e George sono diversi come il giorno e la notte.

Phil è magro, scattante, nervoso, irascibile, ha una mente brillante, è freddo e crudele. Vive nel ricordo e nell’innamoramento per il suo mentore Bronco Harry, (anche se all’epoca del romanzo Savage non era ancora apertamente gay).
Ben più umano è il robusto George, insicuro, riservato e silenzioso, educato e sensibile; e si accontenta di vivere nel cono d’ombra del fratello, che dei due è il dominatore.
Le cose cambiano quando George si innamora della vedova Rose Gordon che gestisce una locanda spersa nel nulla insieme al figlio adolescente Peter; effemminato e apparentemente fragile, segnato dal suicidio del padre che proprio lui ha trovato impiccato.
Rose afferra l’occasione, vende la locanda, sposa George e con lui va a vivere nel ranch dei Burbank. Da allora le cose non saranno più le stesse: i rapporti tra fratelli mutano, la donna subisce le angherie del cognato, ed altro ancora accadrà fino al tragico epilogo.
Occorre fare una postilla: la regista neozelandese ha scavato a fondo nei materiali di archivio, studiato foto dell’epoca e delle persone che avrebbero ispirato la trama, consultato parenti in vita di Savage, visitato il ranch in cui l’autore è cresciuto. Un lavoro certosino di approfondimento che l’ha convinta che Savage avesse realmente avuto uno zio che lo aveva bistrattato, e morto per avvelenamento da antrace, frutto non di una vendetta, ma di un incidente dettato dal caso.

Meg Mason “L’opposto di me stessa” – HarperCollins- euro 18,50
Meg Mason è nata in Nuova Zelanda, ma vive a Sidney, in Australia, da quando era adolescente. E’ una giornalista freelance e collabora con varie prestigiose testate; questo è il primo dei 3 romanzi che ha pubblicato.
Protagonista è la 40enne Martha Friel, che il giorno del suo compleanno si ritrova appassita, triste, sola e senza amici, con il secondo marito Patrick che sta per lasciarla. Per capire il suo profondo disagio esistenziale occorre fare qualche passo indietro nella sua storia.

Tanto per cominciare è nata a Londra in una famiglia disfunzionale. I genitori sono 2 artisti alquanto bizzarri: il padre Fergus Russel è un poeta autore di una sola poesia; la madre Celia Barry è una scultrice dedita all’alcol; poi c’è la sorella Ingrid, irrefrenabile e sulla quale non si può fare affidamento.
Vivono a Belgravia in una casa decadente, la vita familiare sgangherata sembra resistere almeno per un certo tempo e i genitori amano moltissimo le figlie nate a poca distanza l’una dall’altra.

E’ intorno ai 17 anni che la protagonista inizia a manifestare qualche stranezza; come rintanarsi sotto una scrivania che diventa il tetto sulla sua testa mentre studia, mangia, vive e dorme. Una sorta di protezione dal resto del mondo, che vari psicologi cercano di interpretare e curare con psicofarmaci. Tra le fantasiose diagnosi ci sarebbe anche quella che riguarda la negazione della maternità.

Martha cresce e finisce a lavorare per Vogue; poi nella sua vita irrompe un broker rampante, specializzato nella vendita di opere d’arte, a tema campestre, agli oligarchi. Si chiama Jonathan, è particolarmente sensuale, fa breccia nel cuore di Martha, la seduce e la sposa in fretta. Però dopo l’innamoramento iniziale, il marito si rivela un cocainomane narcisista; l’unione naufraga, lasciando Martha esposta al fallimento e preda di ricorrenti depressioni.

Ed ecco arrivare il momento in cui l’amico Patrick -che aveva conosciuto a 13 anni e che era sempre stato innamorato di lei- balza in primo piano: Martha finalmente mette a fuoco anche la sua attrazione per il giovane diventato medico.
Finiscono per sposarsi, ma il malessere di Martha è sempre in agguato e a poco serve la pazienza di Patrick che la conosce da sempre. C’è un punto di rottura e anche questa coppia va in pezzi; e Martha continuerà a cercare di capire da dove arriva il suo mal di vivere…..diagnosi dopo diagnosi.

 

Costanza DiQuattro “Giuditta e il monsù” -Baldini+Castoldi- euro 16,00

Di questa talentuosa giovane scrittrice siciliana (che, dopo un lungo restauro, si occupa anche del teatro di famiglia Donnafugata) abbiamo già amato “La mia casa di Montalbano” nel 2019 e l’anno seguente “Donnafugata”. Ora la sua bravura ci guida nei segreti e nelle stanze di un’antica dimora siciliana blasonata.
La storia è ambientata a partire dal 1884, a Ibla, a Palazzo Chiaromonte, dove la nobildonna Ottavia, moglie del marchese Romualdo Chiaromonte, si contorce negli spasmi delle doglie del suo quarto parto, sperando che, dopo tre figlie femmine, stia finalmente per nascere l’agognato maschio. Invece al mondo viene Giuditta.
Ma quella stessa notte in casa arriverà anche un neonato, ed entrerà dalla porta principale, dopo che qualcuno lo aveva abbandonato sulla soglia del sontuoso palazzo. Un fagotto avvolto in una coperta a brandelli, che il marchese scosta per scoprire che è «masculu»….

Il marchese Romualdo decide di chiamarlo Fortunato (nome scelto non a caso e che prelude un augurio…ma forse anche altro) e lo affida al Monsù di casa e alla moglie; don Nicola e donna Mariana, coppia in là con gli anni e senza figli, che lo cresceranno nel palazzo e come un piccolo principe.
Fortunato e Giuditta crescono insieme: compagni di giochi, complici, affiatati, complementari tanto che «…nessuno avrebbe saputo dire dove finiva uno e dove cominciava l’altro».

L’autrice ci introduce nelle stanze, nelle cucine, nelle ombre e nelle luci, nell’atmosfera d’altri tempi, nei rapporti familiari e tra la servitù di un palazzo tipico della Sicilia dell’Ottocento. E segue i Chiaromonte che ogni primo giugno lasciano l’imponente e vetusto palazzo di Ibla per trasferirsi in campagna, a Poggiogrosso dove «l’aria era fina e pulita e la notte si dormiva da paradiso».
Fortunato e Giuditta sempre a giocare insieme e a fare marachelle, difendendosi l’un l’altro.
Il romanzo racconta la vita della famiglia alle prese con le consuetudini dell’epoca, i lutti da osservare, i caratteri e le inclinazioni delle sorelle di Giuditta. La secondogenita Ada portata allo studio e alla religione, mentre Romualdo pretende il meglio per il matrimonio della primogenita Amalia (quella a cui Giuditta è maggiormente legata).

Intanto il legame tra l’ultimogenita del marchese e Fortunato si fa sempre più intenso; lei svogliata negli studi, coglie ogni occasione buona per stare nella cucina –carica di odori e sapori- regno del padre di Fortunato. E’ in quella stanza che il giovane apprende il mestiere di cuoco, ma ambisce a libri e istruzione. Così il tempo vola con Giuditta che si diverte ad impastare ed imparare ricette, mentre Fortunato si erudisce su libri e quaderni. Solo che i due stanno sbocciando e iniziano a guardarsi con occhi diversi… preludio di una passione che verrà aspramente contrastata.

Il Centro Studi Piemontesi al Salone Internazionale del Libro

Dal 19 al 23 maggio

OVAL stand V 37

Ogni giorno nello stand brevi presentazioni di libri

di recente pubblicazione con i nostri Autori ospiti

Programma completo in via di definizione

Da non perdere sabato 21 maggio in Sala Argento

21 maggio, ore 17:15-18:15

Sala ArgentoPAD 3

Presentazione del  libro di

Giulia Ajmone Marsan

Aniceta & Edoardo

Le famiglie Frisetti e Agnelli

agli esordi dell’imprenditoria torinese

 

A breve le altre iniziative

 

Info 011 537486; info@studipiemontesi.it. www.studipiemontesi.it

Chiuso l’anno accademico UNITRE a Caluso

In un’ atmosfera magica all’ insegna delle canzoni piemontesi e allietati dalla Corale di Candia, diretta dal Maestro Solutore Salto, si è chiuso l’anno accademico dell’UNITRE di Caluso. Il Pluriuso-Centro Sportivo di Barone Canavese ha ospitato la “Giornata Piemontese” in cui sono intervenuti Vittoria Minetti, ” Magistra” di lingua Piemontese, Clara Nervi, studiosa di lingua Piemontese e il dott. Silvio Bertotto, Direttore dell’ Archivio Storico Piemontese che ha presentato le caratteristiche fisiche e morali dei briganti Mottino, Orsolano e Massoglia, malviventi del Canavese Ottocentesco. ” Ho apprezzato molto – sottolinea Alessio Bertinato, Sindaco di Barone – la proposta di aver scelto questo paese come chiusura dell’anno accademico dell’ UNITRE di Caluso. Sono soddisfatto perché hanno partecipato alla manifestazione anche i Sindaci di Caluso e di Candia e questo testimonia la collaborazione e la sinergia anche in questo tipo di iniziative. In futuro Barone darà sempre la disponibilità e l’ appoggio per eventi di questo tipo”. Dopo gli interventi degli studiosi si è esibito con balli occitani, il gruppo Danza Balastorie e a seguire la Proloco locale ha organizzato la Merenda Sinòira.

Berruti, l’uomo che fondo’ il Maria Vittoria

Il primo ospedale in Italia dedicato alle donne e ai bambini

di Giuseppe Busso, Libero Ciuffreda, Alessandro Comandone, Paolo Mussano

Una vita dedicata alla cura dei bambini e delle partorienti. Una vita che si intreccia con la storia della sanità in Piemonte ed in Italia. Una vita, quella del medico chivassese Giuseppe Berruti (1841-1911), inscindibilmente legata all’Ospedale Maria Vittoria di Torino, il primo ospedale in Italia dedicato alle “malattie speciali” delle donne e dei bambini, di cui Berruti fu ideatore, fondatore e padre spirituale.

Giuseppe Berruti nasce a Chivasso il 30 novembre del 1841, in una famiglia agiata (il padre era un medico chirurgo molto apprezzato). Dopo gli studi universitari a Torino, inizia ad esercitare all’Ospedale Civico di Chivasso, dove tocca con mano la condizione disagiata e spesso drammatica di tante famiglie e di tante donne povere delle campagne chivassesi. Donne costrette a lavorare, anche durante gli ultimi mesi di gravidanza, nei campi e nelle prime industrie manifatturiere insediate nel territorio chivassese e del basso canavese, con un’altissima incidenza di mortalità infantile. Nel 1872 a fronte di 827mila morti, 410mila erano bambini entro il quinto anno di età, e la mortalità nel 65% dei casi era dovuta a malattie infettive dell’apparato gastroenterico e polmonare. L’attenzione di Berruti si concentra soprattutto verso l’assistenza alle donne partorienti e ai bambini, tra i quali erano molto diffusi il rachitismo e la scrofolosi.

Dopo cinque anni, Berruti torna a Torino con l’incarico di assistente del Professor Domenico Tibone, quindi diventa docente in ostetricia e ginecologia (in molte facoltà di medicina le due branche erano separate, mentre a Torino erano riunite in un unico insegnamento).

Berruti legò il suo nome anche a uno dei primi parti cesarei eseguiti in Italia su donne rachitiche (1876), e fu tra i primi ad applicare l’elettricità nella cura delle malattie utero-ovariche. Fu anche promotore di riviste specializzate: nel 1900 fondò il “Giornale di Ginecologia e Pediatria” poi trasformato in “Giornale dell’Ospedale Maria Vittoria (Ginecologia – Ostetricia – Pediatria)”.

Nel 1872 Berruti si fa promotore dell’Ospizio Marino Piemontese, inaugurato a Loano (Savona) e destinato alla cura dei bambini affetti da scrofolosi, malattia per la quale si raccomandava la terapia clinica al mare.

Le conoscenze acquisite con l’esperienza quotidiana, gli esempi studiati nei suoi molti viaggi all’estero e l’innata capacità organizzativa, lo convinsero della necessità di realizzare un Ospedale specializzato nelle malattie connesse al parto delle donne e nelle malattie dei bambini, scarsamente considerate dalla medicina tradizionale e dai nosocomi cittadini. Corre l’anno 1879, il progetto trova il sostegno di Casa Savoia, in particolare di Amedeo di Savoia Duca d’Aosta e di sua moglie Maria Vittoria Principessa della Cisterna, nonché di numerosi cittadini torinesi e di molti esponenti della comunità ebraica torinese. Come sede viene scelto il borgo di San Donato, una zona in cui erano sorte diverse industrie, in particolare dolciarie: qui, al fondo dell’attuale via Cibrario, all’incrocio con corso Tassoni, è sito un terreno di proprietà della famiglia Berruti. Il progetto è curato dall’ingegnere Giuseppe Bollati, il progettista di piazza Statuto, i lavori iniziano nel luglio del 1883 e il 1 agosto 1885 viene inaugurato ufficialmente il primo nucleo ospedaliero, che disponeva di tre padiglioni e di dodici letti.

Giuseppe Berruti muore il 15 aprile del 1911.

 

La riscoperta di questa importante personalità è dovuta al lavoro di catalogazione delle opere del fondo librario di Renato Bèttica Giovannini, al quale è intitolata la biblioteca della Pro Loco Chivasso “L’Agricola”. Anch’egli chivassese, antifascista e partigiano, grande appassionato di libri, fu libero docente presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Torino (uno dei rari casi di non laureati ammessi alla docenza) e nel 1958 venne assunto come segretario di redazione della rivista “Annali dell’Ospedale Maria Vittoria”, incarico che mantenne fino al 1987, trasformando la pubblicazione in un organo di studio della Storia della medicina. Il fondo “Renato ed Emilia Bèttica”, infatti, comprende un numero consistente di pubblicazioni inerenti la medicina e la storia della medicina .

Neos edizioni -104 pagine – € 15,00

 

I Maneskin nel cuore di Torino

Delusi i tantissimi fans accorsi sabato davanti all’Hotel NH Torino Santo Stefano, nel cuore del quadrilatero romano, per salutare i Maneskin, ospiti d’onore della serata finale dell’ Eurovision, che ha regalato loro  fama internazionale  e a noi l’opportunità di questa avventura. Sotto un insolito sole estivo persone di tutte le età si sono presentate davanti all’hotel già a partire dalle 9 del mattino e hanno resistito stoicamente fino alle 16.30, quando la polizia che sorvegliava l’entrata ha comunicato alla folla in delirio che i Maneskin si erano ormai già dileguati verso il Pala Alpitour per le prove, passando dal retro. Nella mattinata si sono concessi un po’ di relax e dopo aver rilasciato alcune interviste hanno pranzato intorno alle 14.30 in totale tranquillità.

Giuliana Prestipino 

(foto GP – Il Torinese)