CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 431

70 anni di Festival di Sanremo (parte prima)

DAL 1951 AL 1989  / La storia d’Italia è cambiata nel febbraio 1951, quando a Sanremo fu presentato il primo festival della canzone italiana. Quanti vincitori da allora! Vogliamo ricordare i più noti? Ho fatto lunghe e precise ricerche e sono in grado di rinfrescarvi la memoria.

Dunque, nel 1951 vince una giovane Nilla Pazzi con “Grazie dei fuori”, un ritornello composto da Nereo Tocco, grande allenatore di calcio che insegnava ai suoi calciatori a buttar fuori la palla appena vincevano, per guadagnare tempo.

L’anno dopo rivince Nilla Pazzi, con la deliziosa “Viola colomba”, la storia surreale di un uccello dal colore insolito.
Nel 1953 è la volta di Carla Bona (un nome da escort, ma a quel tempo non esistevano…) con la tristissima “Fiale d’autunno”, canzone che parla di vecchietti ricoverati in un ospizio che aspettano Ottobre per iniziare a farsi iniezioni di ricostituenti.
Finalmente vince un uomo, anzi due, la coppia Giorgio Tontolini e Gino Lapilla che nel 1954 cantano l’inno di tutti i figli “Tette le mamme”, una canzone che a quel tempo fece scalpore per l’allusione un po’ osé all’attrattiva del sesso femminile…
Il 1957 porta alla ribalta Nunzio Ballo e Claudio Lilla, con la straziante “Morde della mia chitarra”, la storia di un suonatore di chitarra rimasto disoccupato perché il suo fox terrier gli ha divorato lo strumento con il quale si esibiva nei tabarin (oggi si direbbe discoteca).

Ed ecco il biennio d’oro, con la prepotente apparizione di Domenico Mordugno, in abbinamento con Johnny Durelli (una specie di Rocco Siffredi anni ’60?). Nel 1958 trionfano con “Colare”, divenuto il jingle di una nota casa di bevande gassate americane, la Coca Cola; nel 1959, invece, vincono con “Piave”, liberamente ispirata alla Grande Guerra.
Il decennio si chiude con la vittoria della coppia Pony Dallara e Renato Mascel e la loro “Roma antica”, dedicata ai monumenti più noti della città eterna.
Nel 1963 trionfa Tony Trenis, un vecchio capostazione di Villarbasse, con la sua bellissima (ed eccitantissima…) “Uno per tette”, un’anticipazione di storie verificatesi quasi 50 anni dopo ad Arcore.
Il 1964 è memorabile, compare Gigliola Cinguetti con la sua “Non ho l’età”, canzone di una minorenne coinvolta in un traffico di prostitute-bambine, una forte denuncia sociale contro un fenomeno sempre attuale.
E’ la volta, nel 1965, del grande Bobby Molo, ex marinaio di Camogli che, dopo aver aperto un negozio di barbiere, ha scoperto la bellezza di fare barba e capelli, componendo il tema vincitore, “Se piangi, se radi…”
Nel 1966 vince una coppia di grandi cantanti, Gigliola Cinguetti e Domenico Mordugno con la loro “Pio, come ti amo”, liberamente tratta dalla poesia del Carducci, “T’amo pio bove”, che canta l’innamoramento di una cecoslo vacca per il suo adorato che, purtroppo, ha perso gli attributi saltando malamente una staccionata.
Ancora una coppia l’anno dopo, con Claudio Lilla (toh, chi si rivede…) ed Iva Nanicchi (la cantante più bassa del Festival, una prozia del Ministro Brunetta) che duettano con “Non pesare a me”, testo elaborato nei centri Weight watchers da un gruppo di bulemici preoccupati dei controlli sulla bilancia.

Nel 1968 ecco sul palco Sergio Intrigo (ex dirigente del SISDE) che canta “Canzone per the”, colonna sonora del film “Un the nel deserto”.
Tornano vincitori due colossi della canzone italiana, Bobby Molo in coppia con Iva Nanicchi con la canzone “Bingara”, ambientata nel mondo dei pensionati che passano le domeniche pomeriggio a giocare a Bingo, mangiandosi la magra pensione nell’illusione di azzeccare almeno una cinquina…
Il decennio si chiude nel 1970 con il meritato successo della coppia Adriano C’è l’ontano (proprietario di boschi vicini e l’ontani) e Claudia Pori, un’estetista specializzata nella cura della pelle. Il ritornello è cantato ancora adesso “Chi non lavora non fa le more” che ricorda a tutti che se non si lavora non si possono raccogliere le gustose bacche dei rovi.
Il 1971 è storico, vince Nicola di Bali, un immigrato clandestino proveniente dalla lontana isola dell’Indonesia. Il giovane Nicola canta in coppia con una giovane cantante di nome Nuda (ancora un riferimento a fatti odierni!) e la canzone s’intitola “Il cuore è uno zigaro”. L’apparente errore (zigaro anziché sigaro) è dovuto al fatto che a Bali la esse non esiste, ma c’è solo la zeta, quindi…
Il buon Nicola di Bali rivince l’anno dopo con la canzone che richiama la sua precedente esperienza come cacciatore di balene sulle navi giapponesi. Il titolo è infatti “I giorni dell’arco balena”.
Nel 1973 è la volta di Peppino di Capra, un pastore di lontane origini sarde, con la romantica canzone “Un glande amore e niente più”, che celebra le eroiche gesta erotiche di un giovane imprenditore milanese.

Ritorna sul podio l’inossidabile Iva Nanicchi nel 1974 con “Ciao bara, come stai?”, una marcetta diventata di moda nei funerali delle sette sataniche.
Appare per la prima (ed ultima) volta una certa Gilda con un titolo scomparso subito dalle classifiche “La ragazza del CUD”, storia di un’impiegata addetta alla dichiarazione dei redditi dei pensionati.
Ritorna sul palco Peppino di Capra nel 1976 con la sua “Non lo caccio più”, motivetto ispirato ad un professore di latino che, dopo aver espulso dall’aula infinite volte un alunno indisponente cambia atteggiamento e gli dà dei bei 10 quando il padre, facoltoso professionista, gli stacca un assegno da 50 milioni.
Gli Homo sapiens vincono nel 1977 con “Balla da morire”, colonna sonora del film “Balla coi cupi”, torbida storia di omosessuali piemontesi.
Ecco il 1978 con la canzone “…E dirsi miao” cantata dai Mattia Lazar, una bella storia di amore tra mici, tratta dal film “Gli Aristogatti”.
Lo sconosciutissimo Mino Vermaghi arriva primo con “Arare” e scompare nel nulla…
E finalmente nel 1980 trionfa Totò Cotogna, un coltivatore di mele destinate alla produzione di cotognata. La canzone, famosissima, s’intitola “Polo noi”, l’epopea degli esploratori Amundsen e Scott impegnati alla ricerca del Polo Nord e del Polo Sud.

Gli anni 80 iniziano con Anìce che si esibisce con una canzone di forte denuncia sociale, “Pere Lisa”, in cui si fa chiaramente riferimento ad una giovane in preda alla droga.
Nel 1982 vince Riccardo Foglia (un botanico prestato alla canzone) che si esibisce con “Storie di tutti i forni”, liberamente ispirato al romanzo di Giulio Verne “Il giro del mondo in 80 forni”.
La sconosciuta Tiziana Risale vince con “Farà quel che farà” e scompare nel nulla.
E finalmente, dopo anni di tentativi andati a vuoto, vince Al Nano (un lontano parente di Brunetta) che, in coppia con la moglie Romina, canta “Ci farà”; ma tutti ricordano il vero vincitore, quello della sezione giovani, Eros Racazzotti (un ex pugile dilettante) che entusiasma giovani e vecchi con la sua “Una tetta promessa”, altra anticipazione di storie attuali…
Nel 1985 al primo posto si piazzano i Ricci e Poveri, pescatori squattrinati di ostriche, cantando “Se minna moro”, di cui nessuno ha mai capito il significato…
Il bravo Eros Racazzotti trionfa nella sezione principale nel 1986: il titolo del suo brano è “Adesso Su”, dedicato ai protagonisti della serie televisiva Dallas, in cui domina la figura di Su Ellen.
Si mettono in tre, nel 1987, per vincere, e sono tre grandi: Gianni Forandi (gommista di Roncobilaccio), Enrico Buggeri (baro a poker) e Franco Gozzi (un malato con vistose carenze di iodio). Il titolo è rimasto nella storia: “Si può mare di più”, una spensierata canzone che celebra la bellezza delle vacanze ad Alassio.
E’ la volta, nel 1988, di Massimo Panieri, un esperto nella fabbricazione di cesti di vimini, che dopo tanti anni vince l’alloro con “Perdere le more”, la storia di una giovane raccoglitrice di bacche dei rovi che inciampa nel bosco e perde tutto il raccolto.

1989: una coppia supera tutti i concorrenti. Sono Anna Ossa e Fausto Le Ali (un pilota dell’Alitalia in congedo; tanto a quei tempi lo stipendio si prendeva lo stesso…) con la loro “Ti fascerò”, tenera storia di una mamma che accudisce il suo bébé con sistemi tradizionali, rinunciando ai pannolini preconfezionati.

Gianluigi De Marchi

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Il paesaggio di Ugo Dusio

Mombello 1926 – Casale 2001 / Il paesaggio, tema prediletto della pittura piemontese del secondo ottocento attraverso diverse interpretazioni, da quella ancora classicistica ed istoriata di Massimo d’Azeglio, la sommessa intonazione intimistica di Antonio Fontanesi oltre al verismo schietto di Lorenzo Delleani e della Scuola di Rivara, ha sollecitato diversi artisti del novecento nel proseguire il percorso figurativo senza lasciarsi sedurre dall’arte aniconica che si stava imponendo prepotentemente.

I grandi pionieri delle avanguardie, geniali e provocatori,troppo spesso sono stati emulati e banalizzati da una miriade di pseudo-artisti che si sono limitati a ripetere ciò che non deve essere ripetibile, ma solo un invito a nuove possibilità creative, avviando una specie di ”Accademia delle Avanguardie” .

Nel nostro Monferrato abbiamo avuto, nel secolo scorso, alcuni artisti che hanno continuato costantemente e coraggiosamente il genere figurativo memori di quanto disse Felice Casorati “Impoverendo la forma si impoverisce la conoscenza del mondo avviando ad un nichilismo senza valori”.

Tra gli artisti che hanno privilegiato il paesaggio mi pare doveroso ricordare il casalese Ugo Dusio che ha esplorato la natura in ogni suo elemento, collina, boschi, sottibosco, vigneti, soprattutto i singoli alberi con una descrizione riconoscibile in ogni tipologia pur facendogli assumere un aspetto purificato al di sopra del reale.
Amante della bellezza, sobrio, raffinato e meditativo,

attraverso l’unione di forma e contenuto, capacità tecnica e idea, ha saputo conciliare il visibile con l’invisibile confermando la convinzione che le opere d’arte sono una ampia confessione autobiografica, traduzione della propria vita spirituale poiché possiedono una finalità interna corrispondente alla personalità umana.

La passione per il paesaggismo ha stimolato Dusio, sebbene autodidatta e di professione bancario, a dedicarsi costantemente all’arte, favorito dalla visione della bellezza del Monferrato e dal nutrito bagaglio culturale appreso con lo studio accurato di artisti del passato, a lui congeniali, senza che potessero minarne lo stile personale, avviandolo a nuove creazioni.


Non gli sono estranee le morbide e ovattate pennellate di Poussin mentre la concessione all’Impressionismo si risolve unicamente nel gusto del plein air, piuttosto c’è affinità elettiva con gli artisti della Scuola di Barbizon nella foresta di Fontainebleau, in particolare Theodor Rousseau, che non colgono l’attimo fuggente bensì il sentimento duraturo nel tempo.

Ne nasce un’autentica dichiarazione di appartenenza alle proprie radici dove ogni forma di vita diventa archetipo, sedimento inalterato della terra in cui è nato e vissuto.
Di preferenza i silenti dipinti escludono la figura umana come se questa potesse disturbarne la silente bellezza; basta però l’accenno ad una casa emergente inaspettata dalla vegetazione per sprigionare un afflato di calda umanità che solo un vero artista sa evocare in modo così sincero.

Giuliana Romano Bussola

Le città (tutt’altro che) invisibili

Da remoto impero di Kubilai Khan, popolato da città – invero già nel Medioevo ben più popolose di quelle europee – favolose tanto nel Milione quanto nella reinterpretazione novecentesca di Calvino, a gigante demografico e potenza geopolitica, competitore degli USA più serrato dell’URSS durante la Guerra Fredda.

Il Museo di Arte Orientale allestisce un affresco urbanistico in collaborazione con il Politecnico di Torino, i cui studenti di ingegneria ed architettura hanno documentato la nascita di nuovi distretti abitativi e governativi cinesi previsti dai Master Plan di riorganizzazione delle grandi città costiere e creazione di poli nelle province più interne e meno sviluppate.
Dalla loro esperienza nasce un’esposizione, principalmente fotografica, aperta da fine ottobre, interrotta dalla seconda ondata pandemica, e di recente riaperta e prolungata.
La vocazione del MAO, non limitata alla raccolta archeologica, ma punto di riferimento per approfondire e comprendere le grandi civiltà orientali, le quali, dall’islamica all’indiana, dalla cinese alla giapponese, sono ben vive e contigue al proprio passato, non riconducibili ad “oggetti da museo” come per altre parabole storiche ormai concluse, è confermata tanto dal ricco calendario di eventi e seminari quanto dalla creazione di una mostra fondata su materiali contemporanei – plastici, contributi multimediali, planimetrie, disegni tecnici e appunti di architetti – , fino agli immancabili dati, animati, raccolti in grafici comparativi, resi vivi e parlanti, ormai parte di ogni storytelling.
La vorticosa espansione urbana cinese si traduce nell’impressionante velocità di crescita dei principali indicatori sociali, dal PIL pro capite all’accesso a beni di consumo, pienamente disponibili nelle città e in rapidissimo aumento (impressionante la crescita nell’ultimo ventennio) nelle campagne.
I visitatori si muovono tra innumerevoli cantieri, visioni quasi fantascientifiche di strade a tre corsie, ferrovie, spazi enormi e silenziosi, dominati da grattacieli, in cui le persone spariscono, pur presenti nelle luci accese delle notti, dal traffico, dal formicolare dei muratori, nel fatto che dietro l’espansione della città non c’è nessuna forza autonoma, ma l’azione di quel mammifero sociale che è il Sapiens.
Pur nelle somiglianze esteriori, la città cinese si mostra lontana dalla tradizione urbana occidentale nata dal Medioevo e sulla quale la nostra cultura si fonda, il cui centro storico si fa punto d’attrazione turistica, luogo di storia e di bellezza; è una città funzionale, concepita per gestire l’esuberante demografia – ancorché destinata a venir superata dall’India e con molti dei problemi di senescenza di Europa e Stati Uniti – in quello che dovrebbe essere il secolo dell’affermazione e forse dell’inizio di un nuovo corso della storia, smaltendo l’amministrazione, offrendo il benessere cui le nuove generazioni, dopo il travagliato secolo scorso, ambiscono, raccogliendo il frutto dello sviluppo dell’ultimo quarantennio.
La fotografia delle biciclette affastellate a perdita d’occhio nelle rastrelliere del bike sharing in un piazzale, così diverso dalla manciata di stalli nelle nostre vie, pone inevitabilmente l’interrogativo sul significato di una vita in periferie sterminate, ancorché residenziali, immerse in megalopoli dove il nucleo originario dista ore di metropolitana, in cui appare la possibilità di trascorrere l’intera propria esistenza nel proprio sterminato quartiere, un po’ come si poteva condurre la propria vita all’interno della propria piccola patria, o la propria città, nella quale è pur possibile ritrovare il mondo intero.
Ideale distopico e propagandistico, parte di quella società del controllo, di internet nazionale a circuito chiuso e social network autarchici, o necessità del progresso che qualunque collettività di quelle dimensioni dovrebbe affrontare per consentire a tutti una vita dignitosa?
Le città fotografate ingoiano l’uomo, inesorabili come inesorabili fagocitano le campagne verso le quali si protendono, sottraendo loro la residua “misura umana”, ma al cui rimanente ritardo, soprattutto in termini di reddito, si propongono di porre rimedio; città dunque con problemi diversi da quelli delle “nostre”, gentrificate, dissociate tra periferia e centro, centro a sua volta diventato turistico e in crisi di identità: ci si può solo interrogare su quali dinamiche, e di quale scala, si potranno generare in futuro nelle enormi metropoli d’Oriente.
La Cina, che proprio grazie alla progressiva acquisizione di una dominante dimensione urbana, potrebbe apparirci più vicina dell’India, si mostra in realtà sfuggente nella difficoltà ad inquadrare davvero le proporzioni in gioco, per non parlare dei numeri assoluti.
Le questioni interne, di repressione etnica e politica, e estera, la crescente frizione economico-commerciale e l’interrogativo sul futuro esercizio dell’opzione militare, restano sullo sfondo, come probabilmente sono secondarie alla quotidianità dei cinesi, uomini come noi, che quelle torri di cemento abitano, con i loro lavori, pensieri, sogni ed impegni quotidiani, connaturati alla nostra condizione; quanto non si mostra direttamente, non può però che riaffiorare in una riflessione finale, riandando a ciò che più di tutto spicca dai contributi multimediali della mostra: la numericamente vertiginosa leva umana che la Repubblica Popolare può cooptare ed organizzare.

Andrea Rubiola

Sbagliare si può, anzi si deve

Commettere errori è legittimo, la perfezione non esiste.

Le persone perfette non combattono, non mentono, non commettono errori e non esistono” diceva Cicerone.

Sbagliare è una cosa del tutto normale, la vita, di frequente, ci coinvolge in difficili ed inedite situazioni a cui non siamo preparati, il percorso che percorriamo è cosparso di ostacoli chespesso siamo costretti a superare passando per la strada del fallimento. A nessuno piace l’idea di aver commesso degli errori e la consapevolezza di averlo fatto provoca frustrazioni, sensi colpa e insoddisfazione.  Sfortunatamente non ci sono persone immuni, tutti noi prima o poi  siamo vittime di uno scacco, ma il risvolto positivo è proprio che da questi incidenti di percorso possiamoimparare e crescere.

La perfezione quindi a cui utopicamente ci ispiriamo, l’impeccabilità che rincorriamo nei vari ambiti della nostra vita,dall’aspetto fisico alle relazioni sentimentali e sociali, dallo studio alla carriera non  esiste; siamo esseri imperfetti con qualità e fragilità, umani legittimamente difettosi ma straordinariamente pronti a risollevarsi più forti di prima.

Di questa capacità di miglioramento, legata ad un profondoprocesso di evoluzione, ce ne parla Enrico Galiano nel libro “L’arte di sbagliare alla grande; l’autore ci spiega, in sostanza,che è  più importante insegnare a rialzarsi piuttosto che puntare a non fallire e che è fondamentale percorrere la strada dell’autenticità invece di quella della perfezione.

Come afferma Galiano, nel libro edito dalla Garzanti, “l’errore è una potente arma di apprendimento” mentre nella quotidianità, nella scuola e nella cultura in genere la tendenza è di demonizzarlo, di considerarlo esclusivamente un tabù. In questo modo, sbagliare si  riduce unicamente ad una colpa, ad unafrustrante azione da evitare per non doversene vergognare, purtroppo qualche volta per la vita intera. Nessuno potrebbe mai affermare che fallire, commettere un errore, fare un passo falso o peccare è piacevole, ma a volte è necessario per imparare, per crescere, per imboccare la strada giusta per noi e ricominciare. Ovviamente l’errore bisogna cercare di non ripeterlo e fare tesoro dell’esperienza negativa ma ancora più importante è non accanirsi su se stessi piegandosi ai sensi di colpa, pesanti macigni che minano la nostra serenità e a volte la nostra salute.

In 157 pagine, l’autore ci racconta anche i suoi sbagli e le sue scelte avventate, ci confida i suoi errori veniali ma anche quelli più seri; il libro è uno scritto pedagogico che, grazie alla sensibilità di Galiano, può rivelarsi molto utile per comprendere che la vita, una meravigliosa e complessa avventura, deve essere vissuta profondamente accettando  anche gli sgambetti e le difficoltà a cui quest’ultima ci mette di fronte.

Ogni situazione, compresi quelle di cui ci pentiamo e che consideriamo sbagliate, sono una grande fonte di trasformazioneed evoluzione.

Concediamoci di sbagliare, perdoniamoci, impariamo dall’errore e cerchiamo di vivere più serenamente e a pieno la nostra vita.

Maria La Barbera 

The Global City, lo sguardo sul mondo degli Instabili Vaganti

The Global City è il diario di un viaggio nello spazio e nel tempo effettuato dalla compagnia teatrale Instabili Vaganti che hanno inteso ricostruire un’avventura teatrale e una intensa, emozionante esperienza artistica e di vita. Il libro è edito da CUE PRESS, la stessa casa editrice per la quale avevano già pubblicato un altro volume che racconta il loro percorso di ricerca poetica, Stracci della memoria.  

Il testo si articola tra narrazione, cronaca degli incontri, studi antropologici e analisi teatrali  grazie al contributo delle note di regia di Anna Dora Dorno, della presentazione del filosofo Enrico Piergiacomi, del testo dello spettacolo firmato da Nicola Pianzola e di una ricca sezione iconografica che consente a  The Global City  di restituire al lettore il senso profondo ed emotivo di questa avventura tra paesi, continenti e culture. Questa mole impressionante di suggestioni e lavoro viene raccontata dalla giornalista e documentarista Simona Maria Frigerio, attenta critica teatrale e viaggiatrice, insieme agli Instabili Vaganti, duo artistico costituitosi nel 2004 a Bologna con la regista , attrice e performer Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola, novarese di nascita, anch’esso performer e pedagogo teatrale, noto al pubblico mondiale per il pluripremiato spettacolo Made in Ilva, nominato ai Total Theatre Awards al Festival di Edimburgo nel 2014. Un’opera importante incentrata sull’acciaieria più grande d’Europa che condiziona la vita dell’intera città di Taranto e dei suoi lavoratori intrappolati tra il desiderio di evadere e fuggire dalla gabbia d’acciaio incandescente e la necessità di continuare a lavorare per la sopravvivenza quotidiana in quell’inferno di morti sul lavoro e danni ambientali.  Il lavoro degli Instabili Vaganti si caratterizza per l’attenta ricerca e l’innovativa sperimentazione nel teatro fisico e le arti performative contemporanee. Tra l’altro Anna Dora Dorno ha insegnato come pedagoga teatrale nelle più importanti accademie e Facoltà di teatro al mondo, tra cui la National School of Drama in India, la Shanghai Theatre Academy in Cina, il Grotowski Institute in Polonia. Artisti contemporanei, capaci di portare in scena tematiche sociali molto forti e impegnate che li hanno visti con le loro produzioni e progetti in scena in oltre venti paesi, traducendo le proprie opere in tre lingue e collezionando prestigiosi premi nazionali e internazionali. La compagnia, dopo aver lavorato per molto tempo sul progetto internazionale dall’evocativo titolo Megalopolis,  raggiungendo teatri, proponendo formazione e spettacoli in Europa, America del Sud, Asia ha prodotto lo spettacolo The global city messo in scena con successo nel 2019 al Teatro Archivolto (Teatro Nazionale di Genova). Sette anni di lavoro teatrale, di viaggi e performance ai quattro angoli del mondo racchiusi e sintetizzati in un originalissimo inno alle diversità e alle culture, alle mescolanze e contaminazioni di un mondo sempre più globale, interconnesso, unico e al tempo stesso diversissimo. Un libro da leggere, guardare, interpretare e tenere in mano quasi fosse una bussola che consente di orientarsi tra l’umanità di questo mondo ricchissimo di storie, possibilità e speranze e, al tempo stesso, devastato dalle diseguaglianze e dalla violenza del potere.

Marco Travaglini

Le sculture che “vegliano” su Torino

Rappresentazioni allegoriche, simboli, oggetti, animali: 18 sculture che decorano Torino e dintorni, spettatrici immobili della vita cittadina, sono le protagoniste dei racconti di questa antologia in cui prendono vita, interagendo con la realtà o inventandone una tutta loro, facendoci conoscere il loro punto di vista e sollecitandoci a cercarle e scoprirle negli spazi della città.

 

Dalla Fontana dei Dodici Mesi del Parco del Valentino al Mulo con Alpino immortalati nell’Arco monumentale dello stesso Parco, dalle statue tardo ottocentesche a quelle Liberty, fino a Merz, Penone, Cragg, Armando Testa.

Una materna Dora e il Movimento di Liberazione delle Statue, l’invettiva muta e potente dell’Eco e la sacra voce del dio Api, il Moloch incatenato, la bicicletta verde che permette ogni viaggio e l’enigmatico monumento al Traforo del Fréjus. E poi il mulo della Grande Guerra, il cane di pietra che vuole guarire gli umani, l’elefante Fritz e la miniaturista, il Fante e la vecchia signora, l’Igloo, gli attorcigliati ma confortanti Punti di vista e altri personaggi più o meno surreali.

Le sculture del libro

La Fontana dei Dodici mesi Fontana La Dora Monumento al Traforo del Frejus Eco Bicicletta verde Sul campo del dolore e Sul campo di battaglia Il T’oro Tomba della pittrice Sofia Giordano Clerk Cane da caccia Dio Moloch Giustizia, Liberalità, Pietà e Vittoria Il Fante d’Italia Fontana Angelica In limine Sintesi 59 Fontana Igloo Punti di vista Arco monumentale all’Arma dell’Artiglieria

A cura di Franca Rizzi Martini

Scrittrice, appassionata di viaggi, storia, arte e teatro, Franca RIZZI MARTINI

vive e lavora a Moncalieri, ed è autrice di romanzi e racconti,

nonché curatrice della collana antologica “Di arte in arte”.

Racconti di:

Simonetta Bernasconi, Bruna Bertolo, Luca Bollero, Haider Bucar, Alessandro Gea, Renato Graziano, Paolo Magrini Montabone, Michela Marocco, Marco Minelli, Maria Montano, Eva Monti, Bruna Parodi, Aida Pironti, Giovanna Radaelli, Franca Rizzi Martini, Caterina Schiavon, Maria Vallinotto, Valentina Veratrini

I diritti d’autore saranno devoluti all’associazione International Help onlus

184 pagine – € 16,00

“In punta di pennello, in punta di lama”, meraviglie dal Giappone

Al MAO di Torino, rotazione di paraventi e spade giapponesi. Fino al 20 aprile

I depositi del MAO- Museo d’Arte Orientale di via San Domenico a Torino sono autentiche miniere di preziose e delicate “meraviglie”  artistiche tramandate nei secoli dai Paesi dell’Estremo Oriente, custodite con grande rigore e periodicamente esposte alternandosi fra loro, così da garantire sempre e a tutte periodi di riposo atti alla loro più scrupolosa conservazione e alla precisa volontà dei responsabili del Museo di presentarleal pubblico in una veste sempre nuova. In questa logica di rotazione espositiva si inserisce anche l’attuale mostra dedicata a due coppie di antichi paraventi giapponesi a sei ante appartenenti alle “dinastie Edo” (Tokugawa) e a spade giapponesi datate fra il 1300 ed il 1600. Ecco il perché dell’illuminante titolo della rassegna “In punta di pennello, in punta di lama”, visitabile fino al prossimo 20 aprile. La prima coppia di paraventi attribuiti a Okamoto Toyohiko (1773 – 1845), realizzati, a inizio ‘800, ad inchiostro dai colori tenui e foglia d’oro su carta, con bordo in seta damascata blu e motivi decorati, narra attraverso oniriche e rarefatte visioni la leggenda della “Sorgente dei Fiori di Pesco”, secondo cui un barcaiolo passando attraverso una fenditura della roccia all’altezza di una sorgente immersa nei fiori di pesco, viene a trovarsi, benevolmente accolto, in un villaggio rurale che si rivelerà essere un “paese utopico” sconosciuto al resto del mondo, al quale il pescatore, una volta ripartito, non riuscirà mai più a fare ritorno. Realtà e utopia. Mondo reale e mondo magico presentati, attraverso sapienti sfumature cromatiche, con la leggerezza di un garbo pittorico fatto di velature, riverberi e spruzzi d’acqua in cui prendono corpo atmosfere eteree, sospese e sognanti. Nella seconda vetrina sono accostati due paraventi a sei ante singoli, uniti dal tema dell’acqua. Il primo risale al XVII secolo e presenta scene paesaggistiche di ispirazione cinese dipinte a inchiostro, probabilmente un’opera giovanile dell’artista Kano Yasunobu (1613-1685). Il secondo si intitola “Attraversando il ponte sul ruscello”e racconta, a inchiostro su carta, un episodio ispirato all’aneddoto cinese noto come “I tre che ridono al Ruscello della Tigre”. Dove, i tre sono il monaco buddhista Huiyuan, il saggio taoista Lu Xiujing e il poeta Tao Yuanming, colti nel momento della risata quando il monaco, assorto nella conversazione, finisce per rompere il veto autoimposto di non oltrepassare il ruscello e comprendono così che la purezza spirituale non può essere misurata attraverso i limiti fisici. Sullo sfondo, vette montuose sempre più rarefatte emergono dallo sfumato e dagli spruzzi della foglia di rame, mentre lo stile caricaturale con cui sono resi i personaggi è particolarmente evidente nelle espressioni dei volti e delle mani.

Accanto ai paraventi, si trovano in esposizione, in un’apposita teca al secondo piano, anche le spade giapponesi, fra cui alcune katana (una sorta di sciabolacon impugnatura a due mani) e alcune wakizashi (la “guardiana dell’onore” dei samurai) con le rispettive montature. La più antica è una katana attribuita allascuola Naoe Shizu, attiva nella provincia di Mino fin dalla metà del Trecento, probabilmente realizzata nel primo periodo Muromachi (1333-1573). Tra i pezzi più pregiati, un’imponente katana koto”, lunga 81centimetri, databile 1530 circa, firmata Iyetsugu (della scuola Soden Bizen operante nel periodo Muromachi ) ed accompagnata da un fodero in lacca rossa, ornato di finiture floreali in lega rame-argentopatinato caratterizzata da una gamma di grigi sottili e sfumature tenui di blu, ottenute attraverso luso del processo “colore cotto”, con l’elsa (tsuba) in ferrolaminata in oro. Altrettanto pregevole una wakizashi Shinto firmata Omi Daijo Fujiwara Tadahiro, della scuola Hizen Tadayoshi (1645), noto per essere un artigiano particolarmente abile, apprezzato per la suacapacità di forgiare lame di ottima fattura e di realizzare decorazioni estremamente nitide.

Gianni Milani

“In punta di pennello, in punta  di  lama”

MAO-Museo d’Arte Orientale, via San Domenico 11, Torino; tel. 011/4436927 o www.maotorino.it

Fino al 20 aprile

Orari: merc. e giov. 11/19; ven. 11/20

***

Nelle foto
– Okamoto Toyohiko: “La Sorgente dei Fiori di Pesco”, inizi ‘800
– Kano Yasunobu: “Paesaggi di ispirazione cinese”, XVII sec.
– n. i. “Attraversando il ponte sul ruscello”, fine XVIII sec.
– Yietsugu: “Katana Koto”, circa 1530

 

Una nuova tappa della ricerca storica sulla antica casata dei Gozzano

Armano Luigi Gozzano instancabilmente continua la ricerca dei documenti storici sulla genealogia della nobile casata Gozzano in Piemonte.

Luzzogno per alcuni secoli rappresentò l’unità civile e religiosa e la prima comunità ad erigersi in parrocchia e rendersi autonoma da Omegna nel 1455.La nobile casata dei Gozzano, scomparsa ormai da quasi quattro secoli da Luzzogno,lasciò evidenti segni del loro passaggio.Un ricco signore della famiglia eresse per ex- voto il Santuario della Madonna delle Grazie,detto della Colletta,dove si trova la Natività della Beata Vergine Maria.
Foto 1 (idem alla foto di testata).
L’edificio risale al 1400 ed il motivo della costruzione é illustrato nell’affresco posto sopra alla porta di ingresso.Si racconta in una antica tradizione che un Gozzano ed un suo compagno di lavoro, entrambi artigiani,durante una rapina ad una muta di muli carichi di monete d’oro,furono arrestati per errore e scambiati per i veri ladri. L’affresco rappresenta il povero Gozzano che invoca la Madonna della Colletta,poi liberato per intervento divino ingrandí l’antico oratorio ed eresse a sue spese l’attuale Santuario.
Annualmente si celebra la festa della natività
della Vergine,ed ogni tre anni si svolge la processione notturna che parte dalla Colletta e il suo svolgimento é rimasto immutato dal 1882.Il Comitato apposito allestisce la bella e bianca galleria formata da 180 pezze di canapa antica appartenente ad ogni famiglia,con pali e corde che formano lo “stradone” lungo 80 metri, abbellito in stile veneziano con luci e bandiere per accogliere l’ ingresso trionfale della loro Regina nella parrocchiale di San Giacomo.
La cura per la luminosità della festa riunisce in una unica volontà tutti gli abitanti e nei vestiti delle donne rivive il cuore della gente per rendere onore alla Madonna.Due i costumi della Valle Strona,originali e pittoreschi e anche aristocratici :il Walser nella parte alta con Forno e Campello Monti con i nastri sul petto come ornamento,e nella parte centrale con Massiola,Sambughetto, Luzzogno e Fornero dove il bustino é l’ornamento più bello.Alla Colletta sono conservati pregevoli affreschi del pittore torinese Vittorio Cavalleri,socio onorario della Accademia di Brera e della Albertina di Torino,ospite nelle estatiche vacanze a Luzzogno.La antica casa padronale dei Conti Gozzano risale al 1400,e nel 1709 Francesco Bernardino Gozzano la cede al comune per la somma di 372 lire,a patto che resti utilizzata come canonica.Figlio del nobile Antonio notaio e regolatore dei libri del Maestrato Ducale di Casale,abitò a Cereseto e a Serralunga di Crea,feudi del ricchissimo cugino Marchese Giacomo Bartolomeo Gozzani di Treville,vice presidente del Senato monferrino.La sua discendenza ebbe sviluppo a carattere militare,come descritto nel suo diario di famiglia:
Antonio, tenente colonnello di fanteria di Casale e di Susa,espugnò al nemico le città di Cuneo, Alessandria e Castelfidardo.
Nominato Cavaliere e investito di beni feudali da Vittorio Amedeo di Savoia con menzione.
Felice Raimondo, componente dei Dragoni di Sardegna.
Giovanni Carlo, Cavaliere e Maggiore Generale di fortezza a Casale e governatore del forte di Verrua Savoia.
Giovanni Battista, nominato Cavaliere da Vittorio Emanuele, capitano nella grande battaglia del 2-12-1805 di Austerlitz,che segnò la dissoluzione del S.R.I. a
fianco di Napoleone Bonaparte contro l’armata austriaca e russa,guidate dai loro imperatori.Nel suo diario di guerra descrisse la quasi disfatta delle due armate ,e dopo la battaglia Napoleone lo ospitò nel suo castello conquistato.Si trovò anche accerchiato ed imprigionato dagli austriaci ad Udine e portato a Lubiana in Carniola,città di sviluppo dei cugini Marchesi Gozzani emigrati da Casale Monferrato che diedero origine alla loro linea austriaca nel 1781.
Fu poi liberato su parola d’onore dagli austriaci per tornare in patria.Fu anche Maggiore di Brigata del reggimento di Saluzzo, Mondovì e Cuneo.Dopo Austerlitz fu nominato Maggiore Generale dei battaglioni di Alessandria, Vercelli e Casale Monferrato.
Carlo, Maggiore Generale della prima Brigata di Cavalleria di Torino,ebbe l’onore di portare un trofeo in bronzo,offerto da tutti gli ufficiali,sulla tomba del Principe Amedeo di Savoia,Duca di Aosta, a Superga.
Questa famiglia rappresenta la terza linea più importante emigrata da Luzzogno a Casale Monferrato, unitamente alle altre due linee principali,i Marchesi Gozzani di San Giorgio e di Treville.Utilizzarono lo scudo araldico dei cugini di San Giorgio.
La casa Gozzano, dei coniugi Zanoni,é stata ristrutturata completamente,compresa l’edicola adiacente, raffigurante San Filippo Neri e la Madonna del Rosario con il  Bambino.
Sul loggiato é conservato un affresco di autore sconosciuto che riproduce i vizi capitali e le virtù,rappresentate da una doppia serie di figure allegoriche e scritte a fianco della palma dove siede la Madonna con il Bambino, risalente al 1500.
Fu restaurato la prima volta da Don Luigi Arioli,padre Rosminiano, professore di storia a Stresa.
Nella valle esistono ancora famiglie collegate dai matrimoni con i Gozzano del 1500 :
Piana : Agnese sposa inizio 1600 Giovanni Battista Gozzano.Oggi residenti a Luzzogno, Fornero, Campello Monti e Strona.A Casale Monferrato i nobili Piana nel 1652 con Pietro e nel 1654 con Giovanni Battista furono testimoni di atti notarili dei cognati Gozzano.
Savoia : Antonio nel 1573 cugino di Antonio Gozzano.Oggi residenti a Luzzogno e Strona.
De Giorgis : nel 1550 una famiglia Gozzano venne assorbita dai De Giorgis,si pensa per opportunismo,prima come Gozzano/De Giorgi,poi in via definitiva come Giorgi.Oggi residenti a Fornero.Si narra in valle che i Gozzano come i Giorgi emigrarono a Luzzogno dalla Val Vigezzo.
Alessi : Giovanni sposa nel 1633 Caterina Gozzano,oggi  proprietari della nota azienda di casalinghi a Crusinallo di Omegna,nipoti dei Bialetti.
Bialetti : Giorgio di Casale Corte Cerro sposa nel 1654 Domenica Gozzano,oggi produttori delle famose caffetterie a Crusinallo di Omegna.
Nel 1995 l’epilogo della ricerca sulle proprie origini del Marchese Titus Gozani,ultimo discendente della linea austriaca di San Giorgio,si concluse a Luzzogno, iniziata molti anni prima con il padre Marchese Leo Ferdinando nel 1963 a Casale Monferrato.
Giuliana Romano Bussola

“Ritratti d’oro e d’argento” Reliquiari medievali in mostra

A Torino in Palazzo Madama. Fino al 12 luglio

In lamina d’argento sbalzata  e  cesellata, posta nella vetrina centrale della “Sala Atelier” di Palazzo Madama e proveniente dal “Museo Archeologico Regionale di Aosta” è la prima chicca – da cui partire –nell’itinerario espositivo proposto dalla suggestivarassegna curata da Simonetta Castronovo e dedicata ai “reliquiari” dal Trecento al primo Cinquecento provenienti da tutte le diocesi del Piemonte, ma anche dalla Svizzera e dall’Alta Savoia. Sitratta del “busto in argento di Giove” (II – III sec. d. C.), ritrovato in uno scavo archeologico al Piccolo San Bernardo e uno fra i tanti realizzati in metallo in età romana (raffiguranti divinità o imperatori), cui guardarono come primi “modelli” propri gli orafi medievali per eseguire i loro ritratti dei Santi. Quei “busti reliquiari” che oggi, e fino al 12 luglio, troviamo per l’appunto esposti in buon numero a Palazzo Madama. Busti preziosi, dalla doppia valenza: autentiche e indiscutibili opere d’arte e manufatti adibiti alla protezione e all’esposizione dei “resti sacri” (in particolare crani) dei Santi, legati alle devozioni del territorio e alle titolazioni di determinate chiese locali. Documentati già dall’XI secolo e presenti in gran numero, dal 1100 al 1500, proprio in Piemonte e nell’area alpina, essi rappresentano attraverso una complessità stilistica in cui convivono esemplarmente gusto classico e narrazione specificamente medievale –dei veri e propri “ritratti in oreficeria”, solitamente in rame o in argento dorato, spesso arricchiti da pietre preziose, vetri colorati e smalti.

Cronologico l’ordine seguito dalla mostra: si va dal busto più antico, la “Santa Felicola” dell’abbazia di Sainte-Marie d’Aulps (Haute-Savoie) – una santa gotica e sorridente, che guarda alla scultura delle cattedrali, tra Parigi e la Francia settentrionale, negli anni di regno di Filippo il Bello- fino alla “Santa Margherita” del Musée d’art et d’histoire di Ginevra, un busto ligneo del 1500 circa,proveniente dalla Bottega di Peter e Mattelin Vuarser eimprontato al nuovo realismo di radice fiamminga. In mezzo, possiamo ammirare una ricca galleria di volti che mostrano le più svariate sfaccettature interpretative, passando dal gotico al tardogotico, fino al pieno naturalismo della seconda metà del Quattrocento. E sotto i riflettori, come personaggi di una storia devozionale immutata d’intensità nei secoli, i Santi nati e vissuti in Piemonte, patroni di alcune delle principali cattedrali della regione, come San Teobaldo d’Alba, San Giovenale di Fossano, Sant’Evasio di Casale, San Secondo d’Asti e San Venanzio di Sarezzano, accanto a santi più “internazionali”, come San Giorgio e San Maurizio, peraltro centrali nella devozione della dinastia sabauda, o Sant’Orsola, con un busto ligneo intagliato e dipinto, realizzato a Colonia e arrivato inPiemonte come dono di Manfredi di Montafia, uno dei tanti mercanti “lombardi” attivi nel nord Europa nel Medioevo. Organizzata in partnership con il “Museo della Cattedrale” di Aosta e con laSoprintendenza per i beni e le attività culturali della Valle d’Aosta, in collaborazione con la Consulta Regionale per i Beni Culturali Ecclesiastici Piemonte e Valle d’Aosta,l’esposizione nasce da un’iniziativa condivisa con imusei facenti parte della rete internazionale Art Médiéval dans les Alpes” e si lega a una serie di esposizioni che apriranno nello stesso periodo sui due versanti delle Alpi: tutte ruotano attorno al tema delle arti preziose nel ducato di Savoia nel Medioevo sotto iltitolo comprensivo di Artistes et artisans dans les États de Savoie au Moyen Âge. De l’or au bout des doigts.

Nello specifico, Palazzo Madama di Torino e il Museo del Tesoro della Cattedrale di Aosta (dal 27 marzo al 2giugno) approfondiranno nelle rispettive esposizioni il tema dell’oreficeria medievale, mentre in concomitanza ( dal 5 febbraio al 5 aprile) il Museo Diocesano d’ArteSacra di Susa espone, con il titolo La Cassa di Sant’Eldrado: nuove scoperte, gli oggetti rinvenuti all’interno della preziosa Cassa, capolavoro dell’arte romanica custodito nella Parrocchiale della Novalesa, con una ricostruzione dell’urna.

Gianni Milani

“Ritratti d’oro e d’argento”

“Palazzo Madama – Sala Atelier”, piazza Castello, Torino; tel. 011/5211788 o www.palazzomadamatorino.it

Fino al 12 luglio

Orari: merc. e giov. 11/19; ven. 11/20

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Nelle foto
-Arte romana: “Busto di Giove Delicheno”, lamina d’argento sbalzata e cesellata, fine II inizio III sec. d. C.
– Particolare dell’allestimento; Ph. Perottino
– Orafo franco-settentrionale: “Busto di Santa Felicola”, rame sbalzato e dorato con pietre e vetri “encabouchon”, 1300-1330 ca.
– Ginevra, Bottega di Peter e Mattelin Vuarser: Busto reliquiario di Santa Margherita”, legno di noce intagliato con alcune tracce di policromia e doratura, 1500 ca.; Ph. Jean Marc Yersin

“World Press Photo of the Year 2020”: ancora una proroga

A Palazzo Madama resterà aperta fino a venerdì 5 marzo la mostra dedicata al concorso di fotogiornalismo più importante al mondo
E lunedì 22 febbraio incontro “Facebook” con il fotografo siciliano Alessio Mamo, fra i vincitori italiani del concorso

Una bella notizia per i tanti appassionati torinesi di fotografia. In particolare di fotogiornalismo. Materia più ostica, rispetto alla prima, e spesso più “avventurosa”, più a rischio ed imprevedibile anche per i fotografi di occhio svelto e di lunga gavetta. La bella notizia è questa: “World Press Photo of the Year 2020” sarà ulteriormente prorogata. La mostra, dedicata al Premio di fotogiornalismo più importante al mondo, organizzato dalla Fondazione “World Press Photo” di Amsterdam, era ritornata con le foto finaliste a Torino nell’ottobre scorso e per il quarto anno consecutivo, nella Sala Senato di Palazzo Madama. Fu poi chiusa per le restrizioni dettate dalla pandemia e riaperta il 3 febbraio scorso, spostando la chiusura a venerdì 19 febbraio.

E ora- magnifico colpo di scena – da Palazzo Madama se ne annuncia un’ulteriore proroga fino a venerdì 5 marzo, dato il crescente afflusso di pubblico torinese, che può visitarla dal lunedì al venerdì e che non ha mancato di far sentire in questi giorni il suo interesse e la sua presenza. Organizzata dall’Associazione pugliese CIME, fra i maggiori partner europei della “World Press Photo”, e dalla Fondazione Torino Musei, la rassegna porta in mostra tutto il meglio dei lavori realizzati, ovunque o quasi sul Pianeta, nel 2019 dai 4.282 fotografi iscritti, provenienti da 125 Paesi, per un totale di 73.996 immagini. 44 i fotoreporter (collaboratori delle maggiori testate internazionali, dal “National Geographic” alla “BBC”, dalla “CNN” a “Le Monde” e ad “El Pais”) provenienti da 24 Paesi, arrivati in finale nelle otto diverse categorie del concorso. Una rassegna, dunque, di altissimo livello. 157 immagini, in cui si può vivere tutto il 2019, nei suoi eventi in assoluto più tragici o di magica positività, attraverso gli scatti dei più grandi fotoreporter internazionali. Estremamente positiva anche l’idea, da parte dei responsabili di “Palazzo Madama”, di abbinare all’esposizione appuntamenti di approfondimento con alcuni dei fotografi italiani vincitori nelle otto diverse categorie del concorso. Così, dopo  la conferenza con il cuneese Nicolò Filippo Rosso, giunto terzo (con il suo reportage sulla crisi politica e socio-economica del Venezuela) nella sezione “Storie” della categoria “Contemporary Issues”, lunedì 22 febbraio alle 18,30 è prevista una conferenza con il fotografo siciliano Alessio Mamo, collaboratore di “The Guardian” e de “L’Espresso”, sulla pagina “Facebook World Press Photo Torino”. Già premiato nel 2018, nella categoria “People”, Mamo ha vinto il “World Press Photo 2020”, secondo premio singolo, per la categoria “Notizie generali” con un’immagine che immortala una donna russa con in grembo il figlio, mentre fa la fila in un ospedale da campo a “The Annex”, il campo profughi di Al-Hol, nel nord della Siria.
Alessio Mamo dialogherà online con la giornalista e ricercatrice Marta Bellingreri, con Lorenzo Tondo ( giornalista e corrispondente del “The Guardian”) e con Vito Cramarossa ( presidente di “Cime” ) che leggerà anche le domande che i torinesi potranno inviare, fino a lunedì, a Mamo e ai relatori tramite i canali social “World Press Photo Torino”.

Gianni Milani

“World Press Photo of the Year 2020”
Palazzo Madama – Sala Senato, piazza Castello, Torino; tel. 011/4433501 o www.palazzomadamatorino.it
Fino al 5 marzo
Orari: merc. e giov. 11/19 e ven. 11/20

Foto di:
– Alessio Mamo
– Nicolò Filippo Rosso